Nonviolenza. Femminile plurale. 312



 

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"

Numero 312 del primo aprile 2011

 

In questo numero:

1. Contro la guerra una proposta agli enti locali

2. Quando verranno le aquile ed altri volantini contro la guerra a cura di Benito D'Ippolito

3. Anna Puglisi: Michela Buscemi

4. Anna Puglisi: Giovanna Giaconia Terranova

5. Anna Puglisi: Antonietta Marino Renda

6. Umberto Santino: Maria Giudice

7. Umberto Santino: Francesca Serio

 

1. INIZIATIVE. CONTRO LA GUERRA UNA PROPOSTA AGLI ENTI LOCALI

[Riproponiamo il seguente appello]

 

Proponiamo a tutte le persone amiche della nonviolenza di inviare al sindaco del Comune, al presidente della Provincia ed al presidente della Regione in cui si risiede, una lettera aperta (da diffondere quindi anche a tutti i membri del consiglio comunale, provinciale, regionale, ed ai mezzi d'informazione) con cui chiedere che l'assemblea dell'ente locale approvi una deliberazione recante il testo seguente o uno analogo.

*

"Il Consiglio Comunale [Provinciale, Regionale] di ... ripudia la guerra, nemica dell'umanita'.

Il Consiglio Comunale [Provinciale, Regionale] di ... riconosce, rispetta e promuove la vita, la dignita' e i diritti di ogni essere umano.

Richiede al Governo e al Parlamento che cessi la partecipazione italiana alle guerre in corso.

Richiede al Governo e al Parlamento che si torni al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana.

Richiede al Governo e al Parlamento che l'Italia svolga una politica internazionale di pace con mezzi di pace, per il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti, per il riconoscimento e l'inveramento di tutti i diritti umani per tutti gli esseri umani.

Solo la pace salva le vite".

 

2. MATERIALI. QUANDO VERRANNO LE AQUILE ED ALTRI VOLANTINI CONTRO LA GUERRA A CURA DI BENITO D'IPPOLITO

[Ringraziamo il nostro buon amico Benito D'Ippolito per aver recuperato, scelto e messo insieme questi testi di varie firme, gia' piu' volte apparsi sul nostro notiziario nel corso degli anni]

 

Ci verra' chiesto conto

 

Ci verra' chiesto conto.

 

Del perche' non abbiamo accolto e soccorso

chi fuggiva da guerre, da fame, da morte.

Cosi' come noi chiediamo conto

a chi dei nazisti fu complice.

 

Ci verra' chiesto conto.

 

Degli accordi razzisti e assassini

di Schengen, delle leggi  che hanno riaperto

in Italia i campi di concentramento.

Ci verra' chiesto conto. A noi tutti.

 

Delle persone che abbiamo lasciato morire.

 

In quel tribunale

ove non si corrompe, non si mente, non si sfugge

ci verra' chiesto conto.

 

*

 

Per Simone

 

Ieri mattina al liceo di Tuscania

con le studentesse e gli studenti amici

della nonviolenza

ci siamo alzati in piedi ed abbiamo ricordato

con il nostro silenzio

Simone Cola, vittima

della guerra in Iraq.

 

Poi abbiamo letto, anzi abbiamo cantato

ma con voce sommessa, ferma e sommessa,

La guerra di Piero

che scrisse Fabrizio De Andre'.

 

Poi abbiamo pianto per tutte le vittime

e abbiamo continuato a studiare la nonviolenza

per fermare ogni guerra, ogni strage, ogni orrore.

 

*

 

Sulla strada dell'aeroporto

 

Sulla strada dell'aeroporto

attende sbigottito il cacciatore

nel buio attende franco il cacciatore

sulla strada dell'aeroporto.

 

E tu non sai che sei la selvaggina.

 

Sulla strada dell'aeroporto

attende nel buio la nera

signora che parla rafficando

e riga i volti di lacrime di sangue.

 

E non c'e' ombrello che fermi questa pioggia.

 

Sulla strada dell'aeroporto

la guerra terrorista ti raggiunge

la guerra, che e' sempre terrorista

il terrorismo, che nella guerra culmina.

 

Denti di drago seminava Giasone.

 

Sulla strada dell'aeroporto

dove tu sei la selvaggina

dove l'alito del male ti fa cenere.

 

Ah buon Nicola, che salvavi il mondo,

tu, buon amico della nonviolenza.

 

*

 

Il naufragio

 

Ma chi armava la mano agli scafisti? Chi

dettava le regole del gioco? Chi sbarrava

al fuggiasco la via della salvezza?

 

La rapina di chi quei paesi aveva impoverito

ridotto a fame dittatura e guerra?

Chi aveva armato dittatori e mercenari?

Chi chiedeva carne umana in scatola

schiava nei sottoscala

o nuda sui marciapiedi?

 

Chi proibiva alla vittima la fuga

dal carnefice? Chi

nelle mani della mafia l'affidava

ad un tempo straccio di viscere e gallina

dalle uova d'oro, business

quotato non meno delle armi e dell'eroina?

 

In quest'oscuro specchio in cui mi specchio

vedo qualcosa che non vorrei vedere

vedo la morte e vedo le mie mani.

 

*

 

Alcuni altri omissis da un rapporto

 

La notte era assai buia

l'auto aveva quattro ruote

i nostri ragazzi sono impetuosi

gli italiani e' difficile distinguerli

dagli arabi, dai terroristi, dai cani.

 

La notte era assai buia

sparano i mitra, servono a questo

ve lo avevamo detto mille volte

di starci dietro, dietro e non di fronte

di starvene accucciati, come tutti.

 

La notte era assai buia

per questo mancammo gli altri due.

 

*

 

Le cose da fare

 

Salvare la vita di tutte e di tutti

tutte le armi spezzare

ricominciare la storia dal tiaso

di Mitilene, restituire

al mondo i volti e le voci

delle persone tutte tutte curando

costruire relazioni di giustizia.

 

Alla parola che comanda dire no

alla parola che prega dire si'

ogni mattina sfornare il pane ancora

ogni sera predisporre il giaciglio

saper cantare saper nutrire

opporsi sempre alla legge del coltello

non dire mai la parola disonesta.

 

svelare il mistero piu' antico del mondo

dare ascolto con le proprie mani

sfamare chi ha fame accogliere chi fugge

mettere al mondo il mondo, soccorrere

chi geme. Donare: il resto

verra' da se'.

 

Dire la verita', tenere acceso il fuoco,

scongelare i cuori, illimpidire

gli occhi, far cessare

la guerra. Lavare

il cielo e le anime, vestirle

di nuova candida lucente trina.

 

Seguire i passi di questa Florence

seguire i passi di questa Clementina.

Con loro, per loro trepidare

attenderle ancora, ancora chiamarle

fortemente sentirle volerle

vive libere sorelle maestre.

 

*

 

En arche'

 

Tu parola che agisci nel mondo

che sei il fare piu' proprio dell'uomo

tu miscuglio di labbra e di vento

tu fantasma di sguardi e di sogni

 

tu parola che sgorghi dal cuore

tu tempesta di sabbia e di spade

tu che ordini morte ed amore

tu che il mondo fai esistere ancora

 

tu che uccidi, che sani, che doni

volto e luce, e di sale e di sasso

puoi tremenda negare la vita

puoi far nascere il nuovo e la quiete

 

rompi ancora una volta le sbarre

fammi uscire da questa prigione

sii benigna, sii lieve, sii amica

tendi un ponte, un sentiero ci apri.

 

*

 

I fatti di Falluja

 

Questo sapevo gia', che a Falluja

stragi sono state commesse, stragi.

Poco m'interessa che gli assassini

dicano oggi di averle commesse

nel rispetto delle leggi e dei trattati.

 

Quali leggi, quali trattati?

Da quando e' legge l'omicidio, da quando

si contratta il macello di carne umana?

 

Chi sottoscrive con una stretta

di mano che altri venga trucidato?

Chi vende, a quale titolo, a quale

giusto prezzo nel libero mercato

la morte altrui? Chi

osa ancora dire che uccidere

e' cosa buona e giusta?

 

Di cosa stiamo discutendo, se una strage

e' piu' o meno gradevole, piu' o meno

conforme alle regole del gioco?

Ma quale gioco e' questo dalla lunga

coda di sangue, quale norma presiede

a questa catena di fiamme e di gelo

e di dolore che restera' nei secoli?

 

Dicono

che e' da vedere se a Falluja il macellaio

uso' armi da duello o da tonnara.

Per quelli per cui questo cambia qualcosa

solo pena profonda proviamo.

Una strage resta una strage.

E sempre agli assassini il servo ossequio

del lurco e dell'inetto e il cavillare

rende piu' facile continuare a uccidere.

 

Di cosa, dunque, stiamo discutendo?

Non e' gia' tutto chiaro cio' che e' vero?

Tutte le armi sono di sterminio.

Tutte le guerre sono terroriste.

Tutti gli eserciti abolire occorre.

 

*

 

Puntuale come la morte

 

Puntuale come la morte

la morte arriva

finche' tu non capisci che fermarla

non possono ne' fosforo ne' schioppi

ne' daghe ne' alabarde ne' muraglie

ne' i carri da guerra dell'imperatore

ne' sparsi nel gorgo i brandelli

di carne che gia' furono persona.

 

Come la morte arriva la morte, puntuale

a questa stazione di pali obliqui e rotti

di fischi senza volti nella notte.

 

E tu non altrimenti puoi fermarla

che costruendo un ponte di parole,

che abbracciandolo il giovane assassino

prima che il vortice gli spezzi l'anima

che la disperazione lo divori.

 

Non con gli eserciti. Contro gli eserciti.

Non col fucile. Spezzando i fucili.

Non col ricatto delle sanzioni:

ma con il dono che salva le vite.

 

Non con la forza che trasforma in drago.

Non con i ceppi e col filo spinato.

 

Ma con la scelta dell'umanita'.

Ma con la forza della nonviolenza.

 

*

 

Oi autoi

 

Gli stessi che li mandano a morire

alacri inchiodano le loro bare

cantando canzonette tricolori

spremendo acide larme fasulle

ad uso dei cronisti parabelli.

 

Gli stessi che intonano peana

a tutti gli eserciti assassini

ancora degli assassinati succhiano

il sangue nero e spento,

forbendo poi la bocca alla bandiera.

 

Tutte le armi sono assassine.

Tutti gli eserciti sono assassini.

Ed assassine son tutte le guerre.

E assassini tutti i governanti

che le armi, gli eserciti, le guerre ammettono.

 

*

 

Una scelta

 

Vi e' una lingua che affila il pugnale

che e' protesa alla furia del male

impastata di fiele e di sale

che devasta ogni cosa che vale.

 

E vi e' una parola che sana

che guarisce la febbre terzana

che di pace e' splendente fontana

che la morte ed il male allontana.

 

Sappi dirla tu quella parola

che l'afflitto soccorre e consola.

 

Sappi scegliere la carita'.

Tutto il resto nessuno lo sa.

 

*

 

Quando verranno le aquile

 

Quando verranno le aquile a dirti che e' il momento

tu digli di no, che hai ancora da fare

che c'e' il caffe' sul gas, il rubinetto da aggiustare

che hai promesso a Maria che domani la portavi al cinema.

 

Quando verranno le aquile, tu digli di no.

 

*

 

Qualcuno ancora grida

 

Qualcuno ancora grida "viva le catene"? qualcuno

ancora s'agita a mazzate nel rigagnolo, Crono

ancora disquatra, divora, vomita esserini?

l'uomo s'arrovescia dunque in scimmia, in drago, in sasso?

 

"Agli uomini che conservano una certa lucidita'

e un certo senso dell'onesta', noi diciamo:

e' falso che si possa difendere la liberta' qui

imponendo la servitu' altrove".

 

Diciamo, anche: che e' falso

si possa difendere la liberta' altrove

imponendo qui la servitu'.

 

*

 

Sotto le bombe

 

Sotto le bombe intelligenti, stupidi

uomini tirano

le cuoia, vacui

guardano il cielo gli occhi dei superstiti.

 

3. PROFILI. ANNA PUGLISI: MICHELA BUSCEMI

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it

Anna Puglisi, prestigiosa studiosa e militante antimafia, e' impegnata nell'esperienza del Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di cui e' una delle fondatrici. Dal sito dell'Enciclopedia delle donne riprendiamo inoltre la seguente breve scheda "Docente universitaria in pensione, cofondatrice del Centro siciliano di documentazione, successivamente dedicato a Giuseppe Impastato, e socia fondatrice dell'Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia. Vive a Palermo". Tra le opere di Anna Puglisi: con Umberto Santino (a cura di), La mafia in casa mia, intervista a Felicia Bartolotta Impastato, La Luna, Palermo 1986; con Antonia Cascio (a cura di), Con e contro. Le donne nell'organizzazione mafiosa e nella lotta antimafia, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 1988; Sole contro la mafia, La Luna, Palermo 1990; Donne, mafia e antimafia, Centro Impastato, Palermo 1998, Di Girolamo, Trapani 2005; con Umberto Santino (a cura di), Cara Felicia. A Felicia Bartolotta Impastato, Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato, Palermo 2005; Storie di donne. Antonietta Renda, Giovanna Terranova, Camilla Giaccone raccontano la loro vita, Di Girolamo, Trapani 2007. Scritti su Anna Puglisi: cfr. la voce redatta da Simona Mafai per l'"Enciclopedia delle donne", riportata in "Nonviolenza. Femminile plurale" n. 311]

 

Michela Buscemi (Palermo 1939 - vivente).

Nel febbraio del 1986 le cronache giudiziarie sul maxi-processo, iniziato nell'aula bunker di Palermo, registrano la presenza in aula, oltre che dei parenti dei cosiddetti "servitori dello stato", di due donne, uniche parenti di vittime di mafia che provenissero dagli strati popolari della citta' e che avevano chiesto la costituzione di parte civile. Erano Vita Rugnetta, madre di Antonino ucciso dalla mafia perche' amico del collaboratore di giustizia Totuccio Contorno, e Michela Buscemi, sorella di Salvatore e Rodolfo, il primo ucciso forse perche' vendeva sigarette di contrabbando senza il permesso della mafia e il secondo perche' aveva cominciato a indagare nel suo quartiere su chi potesse avere ucciso Salvatore. Un collaboratore di giustizia aveva dichiarato che Rodolfo era stato strangolato e, poiche' non c'era abbastanza acido per sciogliere il suo corpo, era stato buttato a mare legato a una pietra. La stessa sorte l'aveva subita il cognato Matteo, sequestrato assieme a lui. Rodolfo aveva 24 anni, era sposato con un figlio. La giovane moglie, incinta quando lui era stato sequestrato, dopo aver partorito si lascio' morire per inedia.

Michela Buscemi nasce in una famiglia poverissima, prima di dieci fratelli. Del padre dice che faceva mille mestieri. Sua madre, casalinga, era continuamente incinta.

Michela ricorda che nel dopoguerra suo padre per portare a casa qualcosa da mangiare era costretto a vendere quel poco che possedevano. Cerco' lavoro all'estero, in Belgio, come minatore, e la madre, sperando in un ricongiungimento, per racimolare la somma per la partenza vendette la piccola casa dove abitavano. La famiglia, allora c'erano ancora soltanto quattro figli, dovette trasferirsi da un parente, anche lui con una famiglia numerosa, Michela ricorda che fu un'esperienza terribile.

L'avventura all'estero del padre fini' prestissimo, ma a Palermo si continuava a non trovare lavoro.

Michela riesce a frequentare la scuola elementare malgrado i genitori spesso la obblighino anche con la violenza a rimanere a casa ad aiutare nelle faccende o a badare ai fratelli piu' piccoli. Piu' grande frequentera' la media alla scuola serale.

Nel '60, dopo varie traversie, la famiglia ottiene una casa popolare. Michela trova lavoro in una sartoria dove si confezionano vestiti e cappotti per uomo. Vi era entrata come apprendista a diciott'anni dopo aver frequentato un corso professionale e avere preso un attestato come operaia, addetta a cucire a macchina. Lo stipendio e' misero, ma a suo carico ci sono i fratelli per i quali percepisce gli assegni familiari, visto che padre e madre sono disoccupati. Suo padre, contrario a che le donne lavorassero, aveva accettato che lei si impiegasse soltanto per avere gli assegni familiari.

Michela si fidanza con l'attuale marito, dopo aver rotto, a un mese dal matrimonio, un precedente fidanzamento con una persona che non le piaceva, impostale dal padre. Per vincere le resistenze del padre e della suocera accetta la proposta del fidanzato di fare la classica fuitina (fuga). Ma la suocera continuava a mettere discordia tra lei e il fidanzato, perche' riteneva che Michela le avesse rubato il figlio il piu' grande, l'unico che lavorasse in quel periodo. Michela esasperata tenta il suicidio. Nel '63 riescono a sposarsi. Avranno cinque figli, un maschio e quattro femmine. Ragazzi che hanno studiato, l'ultima e' laureata in lingue.

Verso la fine dell'83 i giornali parlano della collaborazione di giustizia di Vincenzo Sinagra, un mafioso arrestato un anno prima, poco dopo la sparizione di Rodolfo. Michela e i suoi familiari gia' avevano avuto il sospetto che fosse collegato ai mafiosi che avevano ucciso Salvatore e uno dei responsabili dell'uccisione di Rodolfo. Dalle sue dichiarazioni conoscono come e' morto Rodolfo e che il suo corpo non potra' essere recuperato. Sinagra sara' uno dei mafiosi imputati nel maxiprocesso iniziato a Palermo il 10 febbraio 1986.

Michela e la madre decidono di costituirsi parte civile, anche perche' vengono a sapere di un comitato che ha raccolto, con una sottoscrizione nazionale, fondi per aiutare le parti civili ad affrontare le spese processuali.

Ma avvengono due fatti, uno prevedibile, l'altro no e molto grave.

Avviene che la madre di Michela all'ultimo momento decide di non presentarsi, convinta dagli altri figli. In un colloquio burrascoso le dice di aver paura che li avrebbero ammazzati tutti, e poiche' Michela, per la quale il fratello Rodolfo era stato come un figlio, non torna indietro nella decisione, dichiara alla stampa: "Io non ho mai pensato di costituirmi parte civile. Soltanto mia figlia Michela si e' costituita parte civile. Ne' io, ne' gli altri ci entriamo". Espone pericolosamente in questo modo Michela, che pero' continua ad avere l'appoggio del marito e dei suoi figli, mentre rompe ogni relazione con la sua famiglia d'origine.

Non basta. Dopo qualche giorno si viene a sapere che il comitato che aveva lanciato la sottoscrizione decide che la somma raccolta deve andare soltanto ai parenti dei "servitori dello stato". Cosi' Michela Buscemi, insieme a Vita Rugnetta, oltre a subire l'isolamento del loro ambiente, non mafioso ma succube della mafia, vennero isolate proprio da una parte di quella "societa' civile" che avrebbe dovuto, al contrario, sostenere il loro impegno.

I giornali dettero la notizia e soltanto il Centro Impastato di Palermo e l'Associazione donne siciliane per la lotta alla mafia decisero di aiutarle, sottolineando l'importanza del gesto delle due donne e lanciando a loro volta delle sottoscrizioni. Ad aiutarle furono anche gli avvocati che gia' avevano accettato la loro difesa e che continuarono gratuitamente ad assisterle. Per cui le somme raccolte furono date a loro (e a un'altra donna, Piera Lo Verso, che in un altro processo aveva accusato i mafiosi che riteneva avessero ucciso il marito e con lui altre sette persone) poiche' per la loro decisione avevano subito dei danni economici: nessuno piu' andava nel bar che Michela aveva aperto con il marito, ne' nel negozietto di mobili della Rugnetta (ne' nella macelleria di Piera).

Le due associazioni non si sono limitate al contributo economico, ma sono state loro accanto durante le udienze.

Al processo d'appello Michela si ripresenta, malgrado le fossero arrivati avvertimenti e qualche minaccia. Lei racconta: "Ero con Vita Rugnetta, siamo andate in aula e ho sentito una voce: 'Arreri cca e'! (Di nuovo qua e'!)'. Il 7 marzo, alle undici di sera, ho ricevuto una telefonata. L'ha presa una delle mie figlie. Era un uomo che chiedeva di me: 'Lei e' Buscemi Michela? Si ritiri da parte civile che e' meglio per lei. Se no prima di Pasqua avra' un morto in famiglia. Non creda perche' suo figlio e' partito e' in salvo. Si ritiri'. E ha bloccato il telefono. Le mie figlie erano terrorizzate. E allora ho deciso di parlare a mio marito, perche' delle prime minacce non gli avevo detto niente. Mio marito si e' preoccupato e mi ha detto di ritirarmi. Ne ho parlato con il Centro Impastato, con l'Associazione delle donne contro la mafia e con l'avvocato e ho deciso di ritirarmi. Anche se mi faceva una rabbia ritirarmi... Sottostare al loro volere mi pareva una cosa assurda. Ma non volevo che ci andasse di mezzo la mia famiglia".

Ritirarsi da parte civile, per lei, fu come se i suoi fratelli venissero uccisi un'altra volta; cosi' decise di andare in aula per dichiarare apertamente, davanti alle gabbie dove erano rinchiusi gli imputati, che si ritirava solo perche' le minacce ricevute ora riguardavano i suoi figli.

Michela e' diventata socia dell'Associazione donne contro la mafia, assumendo nel tempo anche un ruolo direttivo. Da allora ha partecipato innumerevoli volte a iniziative antimafia in Italia e anche all'estero, con una particolare attenzione verso gli studenti. Ha scritto un'autobiografia, Nonostante la paura, e una poesia in cui racconta un suo sogno: A morti da mafia (La morte della mafia).

Bibliografia: Anna Puglisi, Sole contro la mafia, Palermo, La Luna 1990.

 

4. PROFILI. ANNA PUGLISI: GIOVANNA GIACONIA TERRANOVA

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]

 

Giovanna Giaconia Terranova (Palermo 1922 - vivente).

Giovanna Giaconia nasce a Palermo in una famiglia dell'alta borghesia. I figli (sette femmine e un maschio) crescono in un ambiente sereno; i genitori amano il teatro di prosa, l'opera lirica, i concerti. Giovanna ricorda la capacita' del padre di affrontare ogni situazione con leggerezza e umorismo, e la forza e la bellezza della madre, Carmela Cirino, che, morto improvvisamente il marito durante la guerra, affronta le difficolta' sopraggiunte, insegnando ai figli ad accettare le contrarieta' come eventi che fanno parte della vita.

Giovanna studia al Sacro Cuore, un collegio esclusivo tenuto da suore francesi che danno del lei anche alle bambine. Si laurea in lettere, ma non insegnera', per una sua innata timidezza che le impedisce di affrontare una scolaresca; da' pero' lezioni private con grande entusiasmo.

Nel '50 conosce Cesare Terranova, allora pretore in provincia di Messina, e si sposano dopo pochi mesi. Il marito si dimostrera' con lei sempre molto protettivo, ma le decisioni importanti verranni prese assieme, in particolare quelle che riguardano la carriera di Cesare, del cui lavoro Giovanna ama discutere, pur nel rispetto del segreto istruttorio.

Nel '58 il marito ottiene il trasferimento a Palermo e gia' negli anni Sessanta, da giudice istruttore, si occupa di mafia e con molta profondita', forse perche' molti sono i processi di mafia che si vanno accumulando sul suo tavolo, forse perche' - come ricorda Giovanna - e' il piu' giovane in quel momento o, ancora, perche' e' una persona molto disponibile. Dopo qualche anno Cesare Terranova diventa procuratore a Marsala e successivamente accetta l'offerta di candidarsi nelle elezioni nazionali come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano; entra a far parte della Commissione parlamentare antimafia. Durante il suo mandato parlamentare viene arrestato il capomafia di Riesi Giuseppe Di Cristina e sulla stampa viene pubblicata una sua dichiarazione: "Liggio ha condannato a morte il giudice Terranova". Cesare rassicura la moglie, ma scrive una lettera, una sorta di testamento spirituale limpido e toccante, che il suo legale consegnera' a Giovanna dopo la sua morte.

Il 19 luglio del '79 viene ucciso a Palermo il vicequestore Boris Giuliano, molto vicino a Cesare, il quale aveva deciso di tornare al suo lavoro di magistrato e chiesto il posto di giudice istruttore a Palermo. L'omicidio Giuliano mette in allarme Giovanna, e anche Cesare non riesce del tutto a nascondere la sua preoccupazione. Giovanna vorrebbe convincerlo a chiedere un'altra sede. Saputo ufficiosamente di essere stato nominato, rilascia un'intervista che viene pubblicata la domenica. Il martedi' successivo, 25 settembre 1979, Cesare Terranova viene ucciso con il maresciallo Lenin Mancuso, mentre si accinge ad andare al palazzo di giustizia. Giovanna sente un gran rumore: erano i colpi di mitra. Ha un presentimento, scende in vestaglia, ma le viene impedito di avvicinarsi al corpo del marito.

"Sprofondai in un abisso senza fondo, per un po' persi la cognizione del tempo... Poi la vita piu' o meno lentamente riprende, anche se una morte di questo tipo non si dimentica. Non si dimentica perche' al dolore si sovrappone l'orrore, la gratuita', la volgare brutalita' dell'assassinio, la violenza che colpisce pure la dignita' della persona fisica".

Giovanna si costituisce parte civile nel processo intentato contro Luciano Liggio, anche se e' convinta che proprio il lavoro del marito indicasse che i responsabili avrebbero dovuto essere cercati anche altrove. E accetta, lei che non aveva mai fatto attivita' sociale e politica di alcun genere, di far parte dell'Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, di cui diventa presidente all'atto della costituzione formale (1982).

Malgrado la sua timidezza, partecipa agli incontri con gli studenti e a tutte le iniziative pubbliche dell'Associazione. Assieme alle altre socie, e' accanto ad alcune donne palermitane costituitesi parte civile nei processi contro gli assassini mafiosi dei loro congiunti, donne che comprendono appieno l'importanza della loro decisione di rompere con la sudditanza alla mafia. Nell'88 riceve il premio "Donna d'Europa".

"All'inizio l'istinto e' quello di rinchiudersi nel proprio dolore, non si pensa assolutamente di mettersi in gioco. E' quello che ho provato anch'io. Pero' poi ho avuto la sensazione di non essere la protagonista di una tragedia soltanto personale, ma di una tragedia collettiva, che il pericolo minacciava un'intera societa', non solo me. E' questo che spinge ad un certo punto a testimoniare, quando ci si dice che non sono fatti tuoi, ma sono fatti di tutti i cittadini. E non si deve perdere la capacita' di reagire, cioe' quel filo che ci lega gli uni agli altri in una societa' civile, che e' il filo della reattivita'. Altrimenti si rischia di scivolare nell'indifferenza e nella rassegnazione, si rischia di dimenticare".

Bibliografia: A. Puglisi, Storie di donne. Antonietta Renda, Giovanna Terranova, Milly Giaccone raccontano la loro vita, Trapani, Di Girolamo 2007.

 

5. PROFILI. ANNA PUGLISI: ANTONIETTA MARINO RENDA

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]

 

Antonietta Marino Renda (Mazzarino (Caltanissetta) 1923 - Palermo 2010).

Antonietta Marino nasce a Mazzarino, un paese di contadini, in una famiglia di socialisti, ed e' la maggiore di cinque fratelli.

Giovanissima, inizia l'attivita' politica nel Partito comunista. Racconta: "Mentre nel Nord Italia c'era la guerra di liberazione, noi giovani ci riunivamo... Si leggevano i giornali, i libri. E poi si comincio' a parlare di Marx, dell'Unione Sovietica. A mio padre... faceva piacere che, invece di battere le mani al duce, pensavamo ad altro" (Storie di donne).

Preso il diploma magistrale, nel '40, vorrebbe prendere la maturita' scientifica, con l'intenzione di iscriversi all'Universita', ma l'impegno politico ha il sopravvento. Nel '45 viene fondata in paese la sezione del Partito Comunista. Antonietta prende la tessera e le viene proposto di candidarsi alle elezioni comunali del '46. Viene eletta e si attiva, assieme ai compagni, per risolvere i problemi del paese, tanto che, malgrado le elezioni fossero state vinte dalla Democrazia Cristiana, sembrava che a governare fosse la sinistra, che effettivamente in seguito per anni amministro' il paese.

Il suo impegno era rivolto specialmente alle donne, di cui ricorda la presenza alle sedute del consiglio comunale e nelle iniziative "destando la sorpresa di chi pensava che le donne non si interessassero di politica". Ricorda che durante le assemblee con i contadini questi si meravigliavano che una ragazza, cosi' giovane, intervenisse per parlare del loro diritto ad avere la terra. "E non dimenticavo mai di dire loro di far partecipare le donne... E le donne venivano, ed erano centinaia".

La presenza numerosa delle donne alle iniziative sindacali e politiche, e' una costante nel racconto dell'esperienza del suo lavoro politico, continuato a Caltanissetta come responsabile femminile alla Camera del lavoro e, dopo il matrimonio, ad Agrigento e poi a Palermo.

Per il suo impegno Antonietta (un lavoro volontario perche' non e' mai stata una funzionaria stipendiata), era costretta a spostarsi nei paesi. Ricorda l'estrema poverta' di mezzi a disposizione ma anche l'affettuosa ospitalita' della gente.

Antonietta nel '49 si sposa, dopo un breve fidanzamento, con Francesco Renda, allora giovane dirigente della Confederterra. Si erano conosciuti nel '47 quando Renda era andato a Mazzarino per un comizio sindacale e si era congratulato con lei per il movimento che c'era nel paese e per la partecipazione delle donne. Si sposano civilmente perche' entrambi non credenti. Antonietta aveva deciso di non andare piu' in chiesa da ragazzina, dopo avere aver assistito a un episodio che l'aveva turbata profondamente: un prete aveva mandato via, perche' non aveva le sei lire richieste, una donna che gli aveva chiesto di battezzare il suo bambino che stava morendo.

Nel '50, dopo la nascita del primo figlio, Marcello, la famiglia si trasferisce ad Agrigento perche' il marito viene nominato segretario della Camera del lavoro in quella citta', dove lei riprende il lavoro politico. Ad aiutarla in casa, anche perche' successivamente nascono altri due figli, Emilio e Adriana, viene la sorella della madre.

Nel '55 la famiglia si trasferisce Palermo, perche' il marito viene eletto all'Assemblea regionale. Antonietta, malgrado i figli siano ancora piccoli, non lascia l'impegno politico: come maestra volontaria nella scuola popolare dell'Udi (Unione Donne Italiane), nei quartieri popolari della citta' e nei paesi della provincia, nella lotta per la pace, durante le campagne elettorali. Ad aiutarla questa volta (dopo la morte della zia e della madre) e' il padre che si trasferisce in casa loro.

Nel '67 inizia a lavorare come maestra alle scuole elementari, perche' la famiglia e' numerosa. Aveva partecipato a tre concorsi ottenendo l'idoneita', ma non era riuscita ad avere il posto in ruolo perche' in Italia, per accedere all'insegnamento nella scuola elementare, c'erano due graduatorie, una per gli uomini e una per le donne che potevano essere scavalcate dagli uomini, anche se avevano un punteggio piu' elevato. Antonietta entra in ruolo dopo che le maestre riescono ad ottenere la graduatoria unica. E' una vittoria delle donne siciliane. Infatti la lotta viene condotta specialmente dalle compagne di Palermo, che preparano il disegno di legge presentato dalle deputate palermitane del Pci, e vede Antonietta in prima fila.

Inizia l'insegnamento in paesi lontani da Palermo e "la domenica era una giornata di lavoro immenso per la casa". Il marito era stato eletto senatore, ma Antonietta ricorda che in casa non c'era mai una lira, perche' c'erano tre figli da mantenere e allora gli eletti dei partiti di sinistra lasciavano la meta' dello stipendio al partito. E c'erano sempre compagni che avevano bisogno di aiuto economico. E ricorda con orgoglio di non avere abusato delle cariche di suo marito per avere il trasferimento in sedi meno disagiate, neanche nel periodo in cui suo marito fece parte della Commissione pubblica istruzione. Successivamente Francesco Renda si dedichera' all'insegnamento universitario e sara' uno dei maggiori storici siciliani.

Antonietta, rimasta una dolcissima comunista malgrado le tante delusioni accumulatesi negli anni, ha continuato a essere fedele ai suoi ideali di uguaglianza e di giustizia, anche se non piu' impegnata attivamente.

Bibliografia: Anna Puglisi, Storie di donne. Antonietta Renda, Giovanna Terranova, Milly Giaccone raccontano la loro vita, Trapani, Di Girolamo 2007.

 

6. PROFILI. UMBERTO SANTINO: MARIA GIUDICE

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it

Umberto Santino ha fondato e dirige il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Da decenni e' uno dei militanti democratici piu' impegnati contro la mafia ed i suoi complici. E' uno dei massimi studiosi a livello internazionale di questioni concernenti i poteri criminali, i mercati illegali, i rapporti tra economia, politica e criminalita'. Tra le opere di Umberto Santino: (a cura di), L'antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1989; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni '60 ad oggi, Franco Angeli, Milano 1989; Umberto Santino, Giovanni La Fiura, L'impresa mafiosa. Dall'Italia agli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 1990; Giorgio Chinnici, Umberto Santino, Giovanni La Fiura, Ugo Adragna, Gabbie vuote. Processi per omicidio a Palermo dal 1983 al maxiprocesso, Franco Angeli, Milano 1992 (seconda edizione); Umberto Santino e Giovanni La Fiura, Dietro la droga. Economie di sopravvivenza, imprese criminali, azioni di guerra, progetti di sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1993; La borghesia mafiosa, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia come soggetto politico, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; Casa Europa. Contro le mafie, per l'ambiente, per lo sviluppo, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1994; La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1995; Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia e per la democrazia dal 1893 al 1994, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1995; La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Oltre la legalita'. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 1997; L'alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000; La cosa e il nome. Materiali per lo studio dei fenomeni premafiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000; Dalla mafia alle mafie, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; Mafie e globalizzazione, Di Girolamo Editore, Trapani 2007; (a cura di), Chi ha ucciso Peppino Impastato, Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato", Palermo 2008; Breve storia della mafia e dell'antimafia, Di Girolamo Editore, Trapani 2008. Su Umberto Santino cfr. la bibliografia ragionata "Contro la mafia. Una breve rassegna di alcuni lavori di Umberto Santino" apparsa su "La nonviolenza e' in cammino", da ultimo nel supplemento "Coi piedi per terra" nei nn. 421-425 del novembre 2010]

 

Maria Giudice (Codevilla (Pavia) 1880 - Roma 1953).

Maestra elementare e madre di sette figli, avuti da Carlo Civardi, prima anarchico e poi socialista (morira' in guerra), lavora come segretaria della Camera del lavoro di Voghera; dopo una condanna per avere pubblicato un articolo sugli eccidi proletari, fugge in Svizzera. Qui conosce Lenin e Mussolini, allora socialista, su cui esprime un giudizio durissimo, e assieme alla socialista Angelica Balabanoff pubblica il quindicinale "Su Compagne!". Tra i temi della rivista centrale e' la questione femminile. Ad avviso della Giudice, mentre il femminismo borghese si contenta di enunciazioni di principio, il socialismo predica e pratica insieme la liberazione economica e quella dalla subalternita' al dominio maschile. Le donne potranno liberarsi dal "doppio sfruttamento" solo se sapranno trovare in se stesse la forza di farlo.

Rientrata in Italia nell'aprile del 1905, sconta alcuni mesi di carcere e successivamente lavora alla redazione dell'"Avanti!", diventa segretaria provinciale del Partito Socialista torinese e dirige il giornale "Il grido del popolo", di cui era redattore Antonio Gramsci. Nel 1916 viene arrestata assieme a Umberto Terracini per aver tenuto una riunione pubblica senza autorizzazione in cui aveva sostenuto che la guerra era voluta dai signori per arricchirsi, e viene condannata a tre mesi di carcere. In seguito alla sommossa di Torino dell'agosto del 1917 (una manifestazione per la mancanza di pane si era trasformata in protesta contro la guerra e si era conclusa in un massacro: caddero 50 manifestanti e 10 agenti della forza pubblica) e' arrestata e condannata a tre anni e un mese di reclusione.

Viene amnistiata nel 1919, nel gennaio del 1920 viene inviata in Sicilia dalla direzione nazionale del Partito Socialista, e avra' un ruolo di primo piano nelle vicende siciliane di quegli anni. Sara' lei a presiedere il Congresso regionale socialista del 19 marzo dello stesso anno, ma sara' pure l'unica donna presente. In un articolo pubblicato sul periodico palermitano "La dittatura proletaria" dell'8 agosto 1919, dal titolo "Alle donne proletarie", si parla della presenza delle donne in varie attivita' lavorative, ma si lamenta la loro passivita'. In realta' le donne siciliane, che erano state protagoniste della prima fase delle lotte contadine, i Fasci siciliani (1891-94), costituendo anche fasci di sole donne, avevano avuto un ruolo notevole nelle manifestazioni pacifiste precedenti la prima guerra mondiale che si erano protratte anche durante la guerra. Scarsa invece la loro partecipazione alle occupazioni di terre nel dopoguerra, organizzate in gran parte dalle associazioni degli ex combattenti. Ma ci fu una significativa presenza femminile nelle manifestazioni contro il carovita, che si registrarono con frequenza negli anni che precedettero l'affermazione del regime fascista e che, in alcuni casi, diedero luogo ad eccidi. Al centro di queste manifestazioni troviamo Maria Giudice che viene considerata dalla stampa reazionaria la responsabile dei "disordini" e che si vorrebbe allontanare dalla Sicilia. Anche le donne operaie danno segni di vitalita': a Palermo nel maggio del '19 le tessili dello stabilimento "Tele olone e canapacci" scioperano per 14 giorni e ottengono la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore.

L'unica donna con un ruolo dirigente e' comunque la lombarda Maria Giudice, una socialista che "predica il soviettismo ed incita le masse alla rivoluzione", come scrivono le informative poliziesche su di lei, che non aderira' al nuovo Partito Comunista, convinta che il Partito socialista abbia "una sua ragione di esistere e di permanere". Nel 1920 Maria Giudice pronuncia l'orazione funebre per Giovanni Orcel, il segretario degli operai metallurgici assassinato dalla mafia il 14 ottobre in una via centrale di Palermo. Nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 1921, sempre a Palermo, i fascisti devastano la sede della Federazione dei metallurgici. I dirigenti socialisti Maria Giudice e Giuseppe Sapienza, il suo nuovo compagno, che abitavano in un appartamento contiguo, si salvano calandosi da un balcone con un lenzuolo attorcigliato. Nel luglio del 1922 a Lentini, in provincia di Siracusa, durante un comizio della Giudice, la polizia spara sulla folla e uccide due donne. Intervengono squadre armate di agrari e combattenti nazionalfascisti, comandate da un proprietario terriero le cui terre erano state occupate dai contadini nei mesi precedenti. Nei giorni successivi si verificano scontri che provocano 4 morti e 50 feriti. La Giudice viene arrestata e condannata. Esce dal carcere nel febbraio del 1923. Nel '27 il fascismo la sottopone ad ammonizione. Gli anni che seguono la vedono isolata, vigilata, e stanchissima. Si trasferira' a Roma per seguire gli studi della figlia, la scrittrice Goliarda Sapienza. Morira' nel 1953.

Bibliografia: V. Poma (a cura di), Una maestra tra i socialisti. L'itinerario politico di Maria Giudice, Milano-Bari, Cariplo-Laterza 1991; J. Calapso, Una donna intransigente. Vita di Maria Giudice, Palermo, Sellerio 1996; U. Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Roma, Editori Riuniti University Press 2009.

 

7. PROFILI. UMBERTO SANTINO: FRANCESCA SERIO

[Dal sito www.enciclopediadelledonne.it]

 

Francesca Serio (Galati Mamertino (Messina) 1903 - Sciara (Palermo) 1992).

Per i militanti di sinistra era "mamma Carnevale", la donna che aveva accusato i mafiosi di Sciara, in provincia di Palermo, come responsabili dell'omicidio del figlio Salvatore, il sindacalista socialista ucciso dalla mafia il 16 maggio 1955. Francesca aveva partecipato ai processi, celebrati per legittima suspicione fuori dalla Sicilia, il primo a Santa Maria Capua Vetere, il secondo a Napoli, costituendosi parte civile, e aveva visto gli imputati condannati in primo grado all'ergastolo (un fatto tanto inedito da far gridare al miracolo) e assolti in appello per insufficienza di prove (a ricostituire una prassi tanto abituale da essere considerata scontata).

Salvatore Carnevale aveva vissuto intensamente l'ultima fase delle lotte contadine, aveva coniugato da dirigente sindacale lotte per la terra e lotte operaie, battendosi per la riforma agraria, per le otto ore, scontrandosi con mafiosi e proprietari terrieri, come i Notarbartolo, padroni di Sciara. Francesca, che proveniva da un altro paese, Galati Mamertino, abbandonata dal marito, Giacomo Carnevale, presto vedova, si era trasferita a Sciara assieme ai fratelli; li' aveva allevato l'unico figlio, e per assicurargli il necessario era andata a lavorare nei campi. Il ricordo di quei giorni nel racconto a Carlo Levi, nelle pagine del libro Le parole sono pietre: "Andavo a lavorare per campare questo figlio piccolo, poi crebbe, ando' a scuola ma era ancora piccolino, cosi' tutti i mestieri facevo per mantenerlo. Andavo a raccogliere le olive, finite le olive cominciavano i piselli, finiti i piselli cominciavano le mandorle, finite le mandorle ricominciavano le olive, e mietere, mietere l'erba perche' si fa foraggio per gli animali e si usa il grano per noi, e mi toccava di zappare perche' c'era il bambino e non volevo farlo patire, e non volevo che nessuno lo disprezzasse, neanche nella mia stessa famiglia. Io dovevo lavorare tutto il giorno e lasciavo il bambino a mia sorella. Padre non ne aveva, se lo prese mio cognato qualche anno a impratichirsi dei lavori di campagna".

Salvatore frequenta la scuola fino alla terza elementare; ancora bambino va a giornata, prende il diploma di quinta elementare prima di partire per soldato, al ritorno comincia l'attivita' politica, fondando la sezione socialista. Alle elezioni del 1951 dice alla madre di votare Garibaldi (il simbolo del Blocco del popolo), Francesca promette ma davanti al simbolo della Democrazia Cristiana non si sente di mantenere la promessa. "Ma io quando andai a votare e vidi quel Dio benedetto di Croce, pensai: 'Questo Dio lo conosco. Come posso tradirlo per uno che non conosco?' E misi il segno sulla Croce" (Levi, Le parole sono pietre). I voti per i socialisti in paese sono solo sette e Salvatore diventa un "Lucifero". Francesca non gli dice come ha votato, si dispera quando il figlio diventa segretario della sezione socialista: "la sera che firmo' e si mise a capo come segretario, io feci una seratina di pianto. 'Figlio, mi stai dando l'ultimo colpo di coltello, non ti ci mettere alla testa. Il voto daglielo, ma non ti ci mettere alla testa, lo vedi che Sciara e' disgraziata, e' un pugno di delinquenti, vedi che sei ridotto senza padre e dobbiamo lavorare'. Ma lui rispose che erano tanti compagni e che non avessi paura. Io non volevo; ma ormai, madre di socialista ero, che dovevo fare?".

Francesca si schiera pubblicamente a fianco del figlio, partecipa all'occupazione delle terre. Cosi' racconta la prima occupazione, sempre nel '51, quando Salvatore aveva guidato i contadini ed era stato arrestato: "Eravamo andati alla montagna, eravamo piu' di trecento persone; mentre eravamo la' che stavamo mangiando un poco, chi era seduto, chi passeggiava, e non c'era nessuno che danneggiasse, venne un brigadiere di Sciara con un carabiniere, dice: 'per favore, per favore, per favore togliere la bandiera'. Perche' c'erano le bandiere che tenevamo sventolate. I contadini dicono: 'No, perche' dobbiamo togliere le bandiere, per quale motivo? Non e' che le bandiere fanno male. Qui non e' che stiamo facendo guasti'. Ma il brigadiere dice: 'Allora andiamo al paese'. Ce ne andammo al paese. Quando arrivammo un po' di via lontano, vedemmo di sotto la polizia col commissario e ci fermarono: 'In alto le mani'. Noi non avevamo ne' fucili ne' scoppette, niente. Ci fermarono e presero tutti i nomi e cognomi". I carabinieri si lamentano: sulle terre si sono sporcati scarpe e pantaloni; Francesca risponde: "Ma per noi (...), per noi questa giornata e' la piu' bella giornata del mondo: bella, tranquilla, col sole. Questo e' un divertimento che noi non abbiamo preso mai. Se non ci date le terre incolte, secondo la legge (perche' si devono perdere?) ne avrete da fare di queste giornate. Questa e' la prima che state facendo". Salvatore viene chiamato in municipio, crede di andare a un incontro di chiarimento e viene arrestato con altri tre. Rimarranno nel carcere di Termini per dieci giorni, saranno rinviati a giudizio e solo nell'estate del '54 saranno assolti.

Uscito dal carcere, Salvatore si reca a lavorare in Toscana dove rimane due anni. Ritorna nell'agosto del 1954. Viene assunto dalla ditta Lambertini di Bologna, che per i lavori di costruzione del doppio binario ferroviario sfrutta una cava di proprieta' dei Notarbartolo, sotto il controllo dei mafiosi.

Salvatore organizza gli operai, chiede l'applicazione della giornata lavorativa di otto ore (lavoravano undici ore). Francesca racconta che dopo uno sciopero il maresciallo chiama suo figlio e gli dice: "Tu sei il veleno dei lavoratori"; Salvatore risponde che vuole far rispettare la legge e il mafioso Mangiafridda, che e' accanto al maresciallo, gli dice: "Picca (poco) n'hai di sta malandrineria". Il "malandrino" e' il sindacalista, sono lui e gli operai in lotta per l'applicazione di una legge gli eversori dell'ordine costituito, mentre il mafioso e' con le forze dell'ordine: al di la' delle divise e dei ruoli ufficiali, le parti sono assegnate e le forze in campo nettamente delineate. I mafiosi minacciano e tentano la carta delle promesse: se si ritira avra' "una buona somma", ma se continua finira' male. E Salvatore risponde, e' sempre Francesca a raccontarlo: "Chi uccide me uccide Gesu' Cristo". E ancora: "Io non sono una carne venduta, e non sono un opportunista". Il mattino del 16 maggio sulla strada per la cava Salvatore cade sotto i colpi di mafiosi perfettamente individuabili ma rimasti impuniti.

Francesca dopo la morte del figlio ne raccoglie l'eredita', accusa i mafiosi e denuncia la complice passivita' delle forze dell'ordine e della magistratura. Dopo l'assoluzione, celebra davanti a tutti coloro che la visitano nella sua casa poverissima, un solo vano stretto e lungo, un suo processo, civile e politico, in nome di una giustizia che disprezza quella ufficiale e non attende quella divina. "Niente altro esiste di lei e per lei se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta nella sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualita': acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Cosi' questa donna si e' fatta in un giorno: le lacrime non sono piu' lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d'improvviso un punto fermo su cui puo' poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, e' la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realta' della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell'ingiustizia che e' nelle cose" (Levi, Ibidem).

Questo processo Francesca l'ha fatto, anche silenziosamente, partecipando a manifestazioni pubbliche, accanto a Sandro Pertini, che l'aveva accompagnata quando si era recata dal procuratore della Repubblica e aveva collaborato alla stesura dell'esposto, ad altri dirigenti del Partito socialista finche' il partito piu' antico d'Italia, che ha pagato il piu' alto prezzo di sangue nella lotta contro la mafia, e' rimasto legato alle sue origini.

Col passare del tempo e con il mutare del quadro sociale e politico, per Francesca sono cominciati la solitudine e l'oblio. E' morta a 89 anni, il 18 luglio del 1992. Pochi ricordano una protagonista di quella storia negata che e' la storia delle donne di Sicilia, il loro ruolo nelle lotte popolari, dalle contadine dei Fasci ai nostri giorni. Nel piccolo cimitero di Sciara Salvatore e' sepolto lontano da lei. Sotto il cognome e il nome, le date di nascita e di morte (23.9.1923 - 16.5.1955) e la scritta "una prece". Come se fosse un morto qualunque.

Bibliografia: Carlo Levi, Le parole sono pietre, Torino, Einaudi 1955; Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Roma, Editori Riuniti 2009.

 

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE

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Numero 312 del primo aprile 2011

 

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