Telegrammi. 486



 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 486 del 6 marzo 2011

Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

 

Sommario di questo numero:

1. Franca Bimbi: Genere e violenza al tempo delle migrazioni globalizzate

2. Paola Mancinelli: Riprendere la voce

3. Luisa Mondo: Questo otto marzo

4. Beppe Pavan: Questo otto marzo

5. L'otto marzo a Viterbo

6. La "Carta" del Movimento Nonviolento

7. Per saperne di piu'

 

1. RIFLESSIONE: FRANCA BIMBI: GENERE E VIOLENZA AL TEMPO DELLE MIGRAZIONI

[Ringraziamo Franca Bimbi (per contatti: franca.bimbi at unipd.it) per averci messo a disposizione il seguente testo presentato al convegno "Www. world wide women - Globalizzazione, generi, linguaggi", organizzato dal Cirsde, Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne, dell'Universita' di Torino.

Franca Bimbi e' professore ordinario di Sociologia all'Universita' di Padova e dirige la Scuola di dottorato in Scienze sociali. Ha contribuito a sviluppare in Italia gli studi delle donne con una epistemologia femminista. Negli anni '70 e' stata tra le fondatrici del Centro femminista per la salute della donna di Padova e della Fondazione milanese per la storia del movimento di liberazione della donna (oggi Fondazione Elvira Badaracco). All'inizio degli anni '90 ha promosso l'istituzione del Centro antiviolenza del Comune di Venezia, dove, in tempi diversi, e' stata assessora e delegata del sindaco per la "Cittadinanza delle donne e cultura delle differenze". Sino al marzo 2010, come delegata del sindaco Massimo Cacciari, ha coordinato le politiche del Centro donna e del Centro antiviolenza, con le case segrete d'accoglienza e con il Punto antiviolenza dei pronto soccorso degli ospedali veneziani. Inoltre e' stata promotrice e responsabile dell'Osservatorio Lgbt del Comune, membro della Rete degli Osservatori analoghi tra diversi Comuni Italiani. Con Alberta Basaglia ha curato di recente (2010), Violenza contro le donne. Formazione di genere e migrazioni globalizzate (Milano, Guerini) che propone un approccio non etnocentrico all'analisi della violenza di genere ed alle poltiche di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne]

 

Genere (1) e violenza al tempo delle migrazioni globalizzate

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1. Due casi paradigmatici (2) di conflitto sull'accessibilita' al corpo delle donne.

Dall'inizio di febbraio, in Italia, il tema della violenza sulle donne si e' presentato nel dibattito pubblico in due differenti situazioni riguardanti il corpo femminile, cioe' i modi della disponibilita' delle donne rispetto alle decisioni relative al loro corpo, e dell'accessibilita' al corpo delle donne da parte degli uomini.

Le forme della violenza. I due casi riguardano la violenza intesa come violazione della liberta' e della dignita'. Nel primo si tratta di un gruppo particolare di straniere migranti (comunque supposte non-native), presumibilmente obbligate o indotte a coprire il volto e il corpo in pubblico; nel secondo la violenza toccherebbe tutte le donne italiane, offese dai modi dell'uso privato del corpo femminile da parte di un gruppo specifico di uomini.

Le forme di risposta: regolazione e agency. Nel primo caso si e' proposto di vietare, nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, un comportamento interpretato come negazione della liberta' femminile in quanto non nella piena disponibilita' delle donne, ma regolato da altri del proprio gruppo, sia in pubblico che negli spazi privati o dell'intimita'. Nell'altro caso si firmano appelli e si manifesta per contestare la strumentalizzazione della liberta' femminile che consisterebbe nell'indurre giovani donne a svestire il corpo - che avrebbero nella loro piena disponibilita' - per vendere prestazioni sessuali per consumo privato ma in luoghi para-istituzionali.

Coprire e scoprire il corpo. Il primo di febbraio il Comune di Sesto San Giovanni ha vietato di indossare il burqua. A somiglianza del Parlamento francese, un modo di coprirsi il corpo da parte delle donne viene identificato come tratto culturale fortemente disomogeneo rispetto ai significati condivisi dalla cultura prevalente. Nel caso italiano, la non previsione di sanzioni sottolinea il significato eminentemente simbolico, di conflitto culturale, assegnato ad un comportamento femminile, mentre l'abbigliamento in se' viene privato del riconoscimento di uno stile individuale e di una scelta personale, in maniera difforme dall'interpretazione del vestirsi prevalente nel "nostro" spazio geopolitico.

Si tratta, dunque, di un conflitto rappresentato ed agito attraverso regole definite dalla cultura egemone verso minoranze culturali in difesa della liberta' femminile.

Al contrario, dopo quasi un anno di dibattito sui modi del mostrare il corpo delle donne in trasmissioni televisive (3) e sulle abitudini sessuali di alcuni esponenti politici, gruppi di militanti politiche e di intellettuali impegnate si stanno mobilitando (13 febbraio) per rappresentare una contro-interpretazione della liberta' femminile, contestando come attacco alla "nostra" dignita' l'utilizzo di sesso a pagamento e di scambi di favori con varie tipologie di donne, da parte di un rappresentante di un organo dello Stato e dei suoi amici personali. Gli incontri sarebbero avvenuti in spazi intesi come di vita intima, ma in dimore di pertinenza istituzionale.

In questo caso emerge un conflitto culturale interno al "noi", sulle interpretazioni dei limiti della liberta' di scelta negli stili della vita intima, rispetto al quale i gruppi contestatori si pongono sia come culture egemoni (in quanto "vere" rappresentanti dei significati condivisi dalle donne italiane della liberta' femminile rispetto all'uso del corpo) che contro-egemoni (in quanto sfidano le intepretetazioni di chi detiene il potere).

I due casi hanno diversi punti in comune. Il frame di ambedue le situazioni riguarda, a mio avviso, una contesa, interna allo spazio del sistema politico, che si svolge tra gruppi di uomini (4), i quali si narrano tutti come i "veri" rappresentanti della cultura condivisa dalla societa' degli autoctoni. Non e' un caso che le differenti interpretazioni e motivazioni dei due comportamenti femminili (indossare il burqa, lavorare in quel segmento del mercato del sesso) restino fuori o ai margini del dibattito. Inoltre un effetto comune allo svolgimento dei due discorsi riguarda il paradosso della categorizzazione delle donne che dovrebbero essere difese dalla violenza, mentre gli uomini vengono distinti come persone singole in base ai loro posizionamenti (amici o nemici delle donne e del bene comune) ma non categorizzati. Stiamo assistendo alla separazione di due gruppi generici di donne rispetto a "tutte le altre", a quelle, cioe', considerate accettabili dal punto di vista dei modelli ideali di cittadina, sul piano della civilta' e dell'etica. Chi indossa il burqa indipendentemente dalla sua scelta, chi si prostituisce per scelta (indipendentemente dal fatto che distingua la prostituzione al potere da una scommessa di empowerment femminile attraverso la prostituzione), apparterrebbe a una categoria di donne "altre", utilizzate nel dibattito per definire un confine con "madri, nonne, figlie, nipoti", rappresentanti di una genealogia femminile autoctona che "in Italia e' il frutto di secoli di battaglie culturali e civili".

Non pensiamo che il secondo caso sia riducibile agli aspetti particolari del "caso italiano". Tutti e due possono esser letti come esempio dei paradossi presenti nel conflitto sui significati culturali dei modelli di convivenza europea, espressi attraverso i conflitti sul corpo delle donne, e riguardanti le definizioni della liberta' femminile, dell'onore maschile, della violenza di genere. In ambedue le situazioni sono presenti differenti interpretazioni dell'onore maschile e della violenza di genere, mentre l'onorabilita' delle donne (questa e' una possibile interpretazione del concetto di dignita') parrebbe dipendere dalla loro capacita' di contrastare alcuni modi dell'ascrizione (nel primo caso) o della circoscrizione (nel secondo caso) del loro corpo nel campo del dominio maschile. Nel primo caso l'onorabilita' femminile si affermerebbe solo trasgredendo ad una cultura d'appartenenza pre-moderna, con cio' attingendo alla liberta' individuale della "nostra" modernita'; nel secondo caso stenta a prodursi un modello condiviso della dignita'-onorabilita' femminile compatibile con le differenti versioni della liberta' delle scelte di stili della vita intima degli uomini e delle donne, mentre si delinea confusamente una gerarchia tra modelli di genere piu' o meno accettabili.

Possiamo intravedere in questi due casi la struttura di un paradosso culturale composto di due aspetti o che agisce su due piani. I conflitti culturali "interni" producono un discorso egemone nei loro diversi campi, da quello politico a quello delle diverse opinioni pubbliche, a quello delle identificazioni comunitarie dei migranti, ed essi vengono proiettati e preferibilmente espressi verso l'"esterno" (migranti, minoranze intese a volte in senso numerico altre volte in senso culturale, donne col burqa, prostitute troppo libere). Anche chi dichiara di sostenere l'autonomia femminile come principio di tipo universalista tende a tacitare il pluralismo interno, in nome di qualche comune nemico. Nel complesso i due tipi di processi - di costruzione dell'alterita' e di interpretazione etnocentrica dell'universalismo - tendono a far perdere consistenza e visibilita' pubblica alle azioni delle minoranze culturali, in questo caso di quelle donne che hanno per obiettivo il riconoscimento di uno spazio pubblico per discorsi pubblici femminili distinti. Dunque, le domande di cittadinanza delle donne rischiano di venir costantemente proiettate verso un '"esterno" o un altrove definito dai gruppi di riferimento piu' forti.

I discorsi sul corpo delle donne e sulle politiche sessuali si collocano spesso nella giuntura dei paradossi che - nel contesto delle societa' segnate dalle migrazioni globalizzate - riguardano la compresenza di due regimi separati della modernita' in uno stesso spazio geopolitico ma che allo stesso tempo svelano la permeabilita' dei loro confini (Butler 2008).

Nei nostri due casi il discorso politico - della politica e dei media - mostra lo svolgimento di uno stesso conflitto, narrato dentro un discorso che si rappresenta come universale anche rispetto al genere. Esso e' relativo all'interpretazione di un aspetto cardine del pluralismo culturale ritenuto tipico delle democrazie: la liberta' di scelta individuale, particolarmente nelle dimensioni della vita intima, e' ritenuta costitutiva dello spazio simbolico comune; tuttavia i suoi svolgimenti sono negoziabili entro limiti costruiti in maniera asimmetrica, in modo tale che verso l'"esterno" possano prevalere interpretazioni unilaterali, mentre verso l'interno le forme della regolazione appaiono naturalizzate.

Nei nostri due casi i limiti sono indicativi della definizione delle appartenenze dei gruppi implicati a differenti regimi di modernita' che riguardano il corpo della donna. Infatti nel dibattito sul burqa chi regola la situazione la rappresenta come un conflitto della modernita' verso la dimensione del tempo patriarcale pre-moderno; mentre chi discute sui limiti del libero mercato del sesso si colloca nel tempo post-patriarcale della modernita' avanzata. In ogni caso il soggetto che ha il potere di definire lo spazio pubblico delle voice ammesse alla negoziazione non e' specificato ne' specificabile (solo gli esclusi lo sono), perche' e' definito come "tutti noi" indipendentemente dal genere e dalle appartenenze autoattribuite.

In realta' il testo esplicito del discorso pubblico evita, in ambedue i casi, la connessione con la violenza sulle donne, mentre si riferisce, in maniere diverse, a lesioni della liberta' e della dignita' femminile. La nostra interpretazione e' che in ambedue assistiamo alla rimozione della violenza simbolica (Bourdieu 1998), ovvero le regole di riproduzione dell'asimmetria di genere non sono ne' dicibili ne' discutibili, a causa della necessaria opacita' del discorso sul potere nel campo delle relazioni tra uomini e tra uomini e donne.

Nel caso del burqa emerge in maniera esplicita che chi ha preso quella decisione interpreta le donne velate come non libere di decidere i modi del mostrare il viso e il corpo, mentre viene nascosto - per ragioni di opportunita' politica nelle relazioni interno-esterno - che cio' potrebbe dipendere dall'accessibilita' esclusiva degli uomini nei confronti delle donne, con l'adesione o meno delle medesime.

Nel caso della contestazione "interna" degli scambi tra sesso e potere non si mette in discussione la violenza simbolica prodotta in se' dall'organizzazione del mercato del sesso, nei suoi aspetti globali e locali, nonostante la piena disponibilita' formale delle donne rispetto all'uso del proprio corpo. Cio' avviene perche' tali scambi sono definiti in un regime moderno, liberale e post-patriarcale, delle liberta' della vita privata ed intima, che, nelle sue pratiche, puo' riconoscere l'asimmetria di potere nei rapporti di genere solo come un'eccezione deviante. La violenza puo' esser nominata solo se le donne esplicitano la mancanza di consenso, solo se c'e' eccesso di potere da parte degli uomini rispetto ad uno scambio tra due liberta' eguali, solo se sono identificabili specifiche fattispecie violente subite dalle donne, solo se le donne coinvolte sono non-prostitute (cio' che si e' anche verificato nel caso in questione!).

La violenza risulta dicibile nelle sue fenomenologie ma non nelle "normali" pratiche che ne costruiscono il senso comune e le premesse, che ne rendono possibile la reiterazione, e, soprattutto, ne rallentano il riconoscimento anche da parte delle stesse vittime.

In ambedue i casi, i modi dell'accessibilita' maschile al corpo delle donne non vengono identificati come forme costitutive dell'asimmetria di genere e come spazi simbolicamente previsti per pratiche di sopraffazione esercitabili anche senza l'uso della forza.

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2. Modernita', opposizioni, compresenze

Riflettere sulla violenza contro le donne al tempo delle migrazioni globalizzate e' un modo di ripensare la modernita' dal punto di vista di genere.

La mia analisi - contestualizzata in Italia e parzialmente in Europa - tenta di assumere criticamente un doppio posizionamento: dal punto di vista della "nostra" egemonia - di donne native - sul discorso universalista dei diritti per tutti; dal punto di vista dei discorsi differenti sulla donna ed i diritti, e sull'universalismo dei diritti di genere, che ci presentano vari gruppi di "loro", cioe' di donne che si autodesignano anche secondo altre appartenenze: migranti e non native, per semplificare.

Potremmo utilizzare il doppio posizionamento per identificare nello stesso spazio dell'Italia delle migrazioni globalizzate due campi separati: "il posto delle donne nel tempo della modernita' post-patriarcale" e " il posto delle minoranze nel tempo della modernita' post-coloniale".

Oppure possiamo considerare un campo complessivo disegnato da "relazioni di genere, transizioni della modernita', compresenze di forme differenti di dominio e liberta'".

Seguire la seconda strada, non permette comunque di evitare la prima.

Transizioni italiane nel contesto delle politiche antiviolenza delle donne. Il tema della violenza sulle donne si e' formato negli ultimi quarant'anni in uno spazio culturale e simbolico della sfera pubblica in cui le donne di molti continenti hanno reso autorevole la loro voce, a partire da pratiche locali di mutuo riconoscimento delle loro sofferenze e delle loro capacita' di agire liberamente. Tuttavia esso si e' anche definito attraverso le pratiche egemoniche delle "societa' dei diritti" nello spazio ideologico "West and North" (Kapur 2002) in cui sono prevalse prescrizioni di percorsi di liberta' analoghi, definizioni e tassonomie di violenza identiche, misurazioni degli effetti delle violenze costruite sugli stessi parametri di danno personale e sociale, modelli di riparazione che prevedono una tendenziale coincidenza tra stili dell'identita' delle donne e delle relazioni di genere considerabili come moderni.

La divaricazione tra le due dinamiche - di self-empowerment e di giuridificazione e regolazione - (Batliwala1994) a favore del prevalere odierno della seconda ha effetti diversi a seconda che i contesti di vita delle donne in una stessa societa' nazionale (per semplificare) siano considerati appartenenti a culture segnate dalle due diverse temporalita', ma anche a seconda di come le donne vi si considerino a vario titolo incorporate.

In Italia l'arco di tempo tra il 1965 (quando Franca Viola, diciassettenne di Alcamo, rifiuto' di sposare il suo stupratore) ed il 1996 (approvazione della legge contro la violenza sessuale) puo' esser considerato come periodo della transizione culturale ed istituzionale dal tempo patriarcale pre-moderno a quello della modernita' che inizia ad essere post-patriarcale. Si tratta di un periodo di formazione di una sfera pubblica gender sensitive che puo' esser considerato come l'inizio dell'attribuzione agli uomini della responsabilita' sociale per la violenza alle donne. Passando per la legge sull'aborto del 1978 si tratta di un tempo in cui emerge un senso comune condiviso che ha delegittimato le prescrizioni regolative del corpo delle donne da parte degli uomini, della famiglia, dello stato.

L'Italia del 1965 era un paese culturalmente in transizione, costretto in un'immagine omogenea di appartenenza al tempo pre-moderno attraverso il paradigma "honour and shame" (5), frutto dello sguardo razializzante degli studi di alcuni antropologi statunitensi. Questo dovrebbe renderci particolarmente consapevoli dei rischi di neo-colonialismo insiti nel discorso egemonico della modernita' e dei diritti.

Oggi in Europa, in Italia, e negli scenari della modernita' matura, sembra non esserci spazio per un discorso egemonico maschile sui corpi femminili e tanto meno per la sua legittimazione pubblica. L'accessibilita' al corpo di ciascuno puo' esser decisa solo dalla persona nel suo corpo ed il corpo e' la metafora piu' concreta ed integrale della vita di ognuno anche nelle sue pratiche di genere (Young 2005). Percio' le societa' europee che ricevono le migrazioni globali si rappresentano come societa' post-patriarcali, in cui le relazioni tra donne ed uomini si svolgerebbero all'insegna di diritti umani di genere gia' acquisiti e della reciprocita' nella vita intima. Nei "nostri" mondi, personali, familiari, sociali, la violenza sulle donne da parte degli uomini autoctoni tende ad esser considerata come una patologia individuale - di tipo medico-psicologico - oppure come una patologia socio-criminale residuale rispetto a valori condivisi, mentre quella esercitata dai migranti e' sovente rappresentata come "barbarie", attribuita a caratteristiche fondanti le culture d'appartenenza, che vengono in tal modo naturalizzate come pre-moderne. La distinzione dicotomica tra uomini da curare ed uomini da reprimere segue praticamente le linee del colore della pelle, della lingua, della nazionalita' e persino della religione. La vittima di violenza - al contrario - viene rappresentata a partire dalla presunzione di un'efficacia universale dell'approccio occidentale ai diritti, alle liberta' ed alle modalita' di riparazione delle violenze.

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3. Violenza simbolica e regole d'accessibilita'

La polarizzazione delle due spiegazioni tendenziali delle violenze maschili sulle donne opera anche attraverso le classificazioni delle fenomenologie delle violenze ed i modelli d'intervento che si vogliono standardizzati a livello internazionale. Percio' anche nella ricerca si sta verificando un corto circuito, tra cio' che e' accuratamente descritto (le classificazioni delle tipologie della violenza) ed i modelli interpretativi dell'azione violenta, che tendono ad essere graduati sul continuum patologia-non modernita'. Si tratta di un corto-circuito che e' anch'esso effetto del rapporto paradossale tra le narrazioni universali sulla violenza di genere e la classificazione culturale dei soggetti nei due tempi, considerati non comunicanti e misurati sull'asse del "progresso".

Cio' rende possibile un andamento parallelo di narrazioni divaricate. Nello spazio culturale europeo ritornano i crimini d'onore (Thapar-Bjorkert 2007), identificati come tali in relazione alle culture dei migranti e su base etnica, soprattutto se l'aggressore usa l'onore a sua giustificazione. Nel caso degli autoctoni e' spesso il riconoscimento sociale di una crisi d'identita' o di una patologia depressiva ad interpretare un vulnus della rappresentazione di se' che ha caratteristiche e motivazioni analoghe al crimine d'onore. La de-genderizzazione delle motivazioni maschili e la loro traduzione nei linguaggi medico-psicologici e' un aspetto non secondario dell'opacita' del discorso che vela la centralita' della difesa dell'onore maschile rispetto alle costruzioni delle asimmetrie nelle relazioni di genere moderne. Questo tipo di traduzione dei conflitti di genere per l'accessibilita' alle risorse costituite dalle donne in patologie individuali rende incomprensibile la permanenza della violenza di genere nei contesti cosiddetti post-patriarcali. La stima della quantita' pressoche' analoga delle percentuali di violenza sulle donne nelle survey internazionali e' forse una spia dei confini non troppo netti tra aspetti considerati tradizionali e aspetti considerati moderni delle forme di regolazione dell'asimmetria di genere.

La giuntura tra i due livelli e tra i due discorsi sulla e della modernita' sta nel fatto che ambedue riguardano il potere simbolico inerente alle definizioni della disponibilita' delle donne rispetto al loro corpo e delle forme legittime di accessibilita' al corpo delle donne a parte degli uomini.

La distinzione delle donne in gruppi ad hoc operata nel dibattito pubblico, attraverso separazioni esplicite ed implicite, ha effetti sul discorso relativo alla violenza di genere. Nei nostri due casi la categorizzazione di alcuni gruppi di donne impedisce di qualificare la struttura simbolica della violenza e di renderla identificabile rispetto alle tipologie specifiche delle forme di vessazione ed  aggressione esercitate contro le donne. Cio' rende anche opaca l'individuazione delle vittime: sono vittime tutte le donne con burqa, tutte le donne contrarie all'ordinanza comunale? Sono vittime tutte le donne italiane, solo le italiane d'accordo con le contestatrici; sono vittime tutte le donne nel mercato del sesso, solo le donne in quel mercato del sesso, solo le donne obbligate al mercato sessuale?

Ambedue gli esempi, inoltre, si prestano a declinare alcune domande cruciali: come definiamo la violenza sulle donne? Chi la definisce? Come distinguiamo e confrontiamo le fenomenologie della violenza identificate da tassonomie descrittive pretese come universalmente applicabili ed universalmente misurabili (violenza fisica, psicologica/intima, domestica/familiare, economica etc.) dalle forme differenti della violenza simbolica, ovvero dalle diverse regole di accessibilita' al corpo, al tempo, al lavoro, allo spazio, alla ricchezza prodotta dalle donne che configurano le differenti declinazioni del campo del dominio maschile?

L'interpretazione della violenza simbolica attraverso le regole di accessibilita' incorporate, tacite, date per scontate anche dalle donne, nelle configurazioni specifiche dei rapporti di genere, permette di analizzare le dinamiche tra liberta' e dominio ma anche le funzioni delle definizioni della violenza, dei metodi di classificazione e di misurazione, delle pratiche di riparazione che operano nella riproduzione delle specifiche egemonie culturali (maschili, ma non maschili in generale, e di compartecipazione femminile) anche nel discorso dei diritti delle donne e nella definizioni delle sanzioni preferite per chi agisce la violenza sulle donne.

Interpretare la violenza simbolica come regole d'accessibilita' significa non tenere conto dei soli meccanismi della complicita', del consenso e della mancanza di riconoscimento della donna-vittima rispetto alle sue stesse sofferenze (Morgan, Bjorkert 2006), ma implica prima di tutto cercare di indagare il doppio processo di costruzione culturale, dell'opacita' delle "nostre" regole di accessibilita' e dell' evidenza della violenza presente nelle regole altrui, e richiede d'investigare cio' che accade sui confini, nelle condotte delle donne, che provano ad attraversare i limiti dell'accessibilita' normata.

Sui confini si posizionano le sfide per il cambiamento, di donne ed uomini, e dunque anche le possibilita' di self-empowerment e di reciprocita', qualsiasi sia il regime d'accessibilita' e di disponibilita' prescritto.

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4. Violenza simbolica, migranti e vocabolari della violenza

Questa riflessione e' la sintesi di un percorso di ricerca su "i vocabolari della violenza di genere" che si e' occupata delle definizioni della violenza indagando le rappresentazioni di operatrici ed operatori nativi di servizi alla persona e di centri antiviolenza, ed il rapporto tra le definizioni normative dell'accessibilita' al corpo femminile, le definizioni della violenza e dei suoi confini da parte di donne migranti di differenti gruppi linguistico-culturali (Vianello, D'Odorico, 2011). La ricerca ha assunto la distinzione normalmente data per scontata tra l'appartenenza ai due tipi di temporalita' da parte dell'intervistatrice e della migrante intervistata, assumendo una distanza critica rispetto alle due possibili rappresentazioni culturali della violenza considerate operanti nei due spazi del patriarcato e del post-patriarcato: arbitrio d'autorita'/eccesso di potere o coartazione della liberta' di determinare se stessa (6).

Gli ambiti dell'accessibilita' considerati hanno riguardato il corpo, il lavoro di cura, il tempo, lo spazio, la ricchezza prodotta dalle donne (con o senza reddito). La preponderanza in qualche modo normata e data per scontata di una delle due direzioni, dell'accessibilita' degli uomini rispetto alle donne e della disponibilita' delle donne rispetto a se stesse, e' stata assunta come indicatore delle linee di distinzione tra modelli e modalita' di violenza simbolica, intesi come declinazioni dello scambio tra l'obbligo maschile della protezione delle donne e l'obbligo femminile della cura degli uomini, ivi compresa la cura della loro salute e felicita' sessuale. L'onore maschile e l'onorabilita' femminile (intese come forme sociali incorporate ma non coincidenti con le percezioni di se') sono state considerate come i capitali sociali in parte ereditati nei propri contesti culturali a cui ci si riferisce per giustificare a se stesse nel dar per scontate le asimmetrie di genere.

L'attenzione alle opacita' della violenza simbolica rispetto alla collocazione della "nostra" esperienza fa risaltare il persistere dello squilibrio di genere tra protezione e cura, che permette - particolarmente nei Paesi mediterranei - che il tempo delle donne sia a disposizione degli uomini in quantita' tali da minare - per le donne - l'accesso ad altri tipi di risorse. Per cui se volessimo rappresentare, in Italia ed in gran parte dell'Europa, questo tipo di violenza simbolica dovremmo proporre una campagna di comunicazione pubblica contro la violenza che indichi semplicemente lo squilibrio di genere nei tempi di vita e di lavoro. Volendo considerare anche gli aspetti globali della nostra complicita' con questo tipo di violenza potremmo rappresentare alle spalle di una giovane madre italiana della "doppia presenza" una migrante che si occupa dei genitori di lei mentre pensa ai suoi figli lontani. Una campagna simile, che coniugherebbe le politiche antiviolenza con quelle di promozione dei diritti dell'infanzia e l'adolescenza, risulta improponibile. Infatti le asimmetrie - di genere, tra autoctone e migranti e tra gruppi di bambini - non sono rappresentabili in questo aspetto strutturante delle relazioni di cura, che svelerebbe l'ovvio della violenza quotidianamente reiterata. Queste violente asimmetrie, che reggono gli scambi tra accessibilita' e disponibilita', tra cura e protezione, negano molti aspetti del discorso sui principi considerati universali della reciprocita' di genere e dell'universalismo dei diritti, prestandosi a favorire e a nascondere le specifiche condotte violente che si determinano quando le aspettative considerate legittime (da uno dei due generi o da ambedue) vengono in qualche modo a disarticolarsi dal contratto di genere interiorizzato.

Le violenze simboliche che strutturano le relazioni di genere delle "altre", assegnate a contesti pre-moderni e patriarcali, risultano apparentemente molto piu' evidenti come tali: dall'obbligo della verginita' ai matrimoni combinati, alle regole relative al coprire e al mostrare il corpo femminile, all'accessibilita' unilaterale del corpo della donna ai desideri del marito. L'incontro con le migranti ci appare inizialmente un remake della storia italiana di un passato recente, di cui la mia generazione incorpora ancora memorie familiari.

Tuttavia la ricerca sui "vocabolari" fa emergere soprattutto un doppio registro, tra cio' che pare "loro" di senso comune nelle relazioni di genere (le regole di alleanza gestite dalla famiglia e la normale preminenza dell'onore maschile come regolatore delle relazioni sociali) e cio' che e' di senso comune se riferito alla percezione di se' pur nell'asimmetria. Il rispetto, la dignita', il rappresentare un percorso di codecisione, la reciprocita' nella vita intima emergono come linguaggio comune della rappresentazione di se', tra donne che si riconoscono in appartenenze culturali differenti. Soprattutto "rispetto" e "dignita'" paiono segnare la linea di distinzione - anche se non di separazione -  tra principi morali di giustizia riferiti a se' e principi di regolazione riferiti a se' nel campo della "naturale" preminenza maschile. I concetti di rispetto e dignita' emergono nella duplice accezione di dimensioni dell'integrita' del senso di se' e di espressione delle regole sociali nel comportamento quotidiano (e dunque "rispetto" puo' traslitterarsi in "rispettabilita'" e "dignita'" in "socialmente dignitoso").

Inoltre e' risultato di estremo interesse il discorso sullo stile del corpo (Toffanin 2011). La mancanza di una disposizione corporale accettabile viene riferita talvolta come "volgare". Il termine, nel contesto discorsivo, assume un significato estetico-morale. In questo caso il lavoro di ricerca con le donne migranti ha portato ad identificare le differenze nel posizionamento della "linea del pudore", ovvero le diverse legittime disposizioni corporali che indicano il tipo di rapporto culturalmente preferito tra la possibilita' femminile del poter decidere il modo di mettere in scena il corpo ed il diritto maschile a definirne le regole di accessibilita', per se', nella sfera privata, nella dimensione pubblica. La possibilita' di identificare la "linea del pudore" come confine di circoscrizione della violenza simbolica sul corpo della donna nei regimi patriarcali e' stata confrontata con il dibattito interno alla "nostra" modernita', nella quale apparentemente non puo' rappresentarsi una "linea del pudore" condivisa (vedi il paragrafo 1). Ma non e' detto, invece, che il dibattito "interno" attuale non riguardi anche il posizionamento e l'accettabilita' di diverse "linee del pudore" nel tempo post-patriarcale. A questo proposito, in un'esercitazione parallela condotta con gli studenti della Laurea magistrale in Comunicazione sui significati molteplici che assume il corpo della donna nella pubblicita', e' stato utile riflettere, comparativamente, su cio' che viene facilmente misconosciuto dall'interno del campo o facilmente identificato dall'esterno, come violenza simbolica e come sue funzioni sociali. Uno yogurt che gusteremmo su un prato, risvegliate dal piacere come la Bella addormentata nel bosco, non mette in allerta il senso comune sulla dignita' femminile o sul rispetto come la pubblicita' di un burkini sul bordo di una piscina per sole donne: in quest'ultima immagine si e' indotti a riconoscere in maniera immediata una "violenza simbolica", per l'ipotetica funzione che l'indumento pare rivestire nell'opprimere, discriminare, reprimere sessualmente il corpo femminile. E' la vicinanza a "noi" di un segno, un simbolo, un'immagine, che indica assieme forme di relazione e pratiche quotidiane (nell'uso del corpo, del tempo, dello spazio, del denaro), ad impedire di riconoscervi il nesso tra dominio maschile e subordinazione femminile. Inoltre, tanto piu' il segno e' assunto nelle disposizioni corporali di ciascuno, tanto piu' puo' apparire assolutamente "normale", "naturalmente" femminile o maschile, corporalmente corretto (Fusaschi 2008).

La ricerca sul vocabolario della violenza mette spesso nella tentazione di assegnare alla contaminazione culturale con "noi" la responsabilita' di una "loro" transizione a regimi meno patriarcali. Tuttavia e' piuttosto la migrazione - come occasione di presa di distanza dall'esperienza delle determinazioni date per scontate e di scoperta di capacita' prima non sperimentabili - che pare render possibile una diversa dialettica tra accessibilita' maschile al corpo delle donne e disponibilita' femminile dei propri corpi, tempi e spazi.

Una diversa configurazione delle regole del gioco non significa la riduzione dei giochi culturali ad uno solo, prefigurato dalle maggioranze dominanti, fossero pur femminili.

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Note

1. Si tratta della prima stesura della relazione presentata l'11 febbraio 2011 al Convegno Internazionale "Www world wide women - Globalizzazione, generi, linguaggi" organizzato dal Cirsde (Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne dell'Universita' di Torino) nella sessione Violenze e agency delle donne. Il primo paragrafo risente delle discussioni avvenute per la preparazione della manifestazione delle donne "Se non ora... quando" tenuta nelle principali citta' italiane il 13 febbraio 2011. A Padova sono stata tra le organizzatrici della manifestazione, tuttavia ho espresso molte perplessita' su alcune delle interpretazioni della "dignita' delle donne" a mio avviso contradditorie rispetto a gran parte del dibattito femminista sulla prostituzione. Pur ritenendo che il mercato globalizzato del sesso, e non solo il mercato delle prostituzioni, esprima molta violenza (simbolica e soggettiva) sulle donne, tuttavia ritengo che la lotta per i diritti delle prostitute faccia parte a pieno titolo - nelle sue varie forme - sia del percorso femminista che del percorso per i diritti umani di genere. Da qui le considerazioni critiche su alcune posizioni del dibattito precedente alla manifestazione che, implicitamente o esplicitamente, distinguevano "noi" (le brave ragazze?) da "loro" (le cattive ragazze?).

2. La circoscrizione del genere al discorso delle donne e della norma eterosessuale e' un'autolimitazione che assumiamo in questo testo pur conoscendone i limiti ed i rischi. Rischi e limiti sono solo in parte evitabili con il riferimento ai due idealtipi di regime di accessibilita' al corpo delle donne che, pur definiti da un punto d'osservazione ristretto del campo del dominio maschile, restano cruciali nel discorso delle politiche delle donne contro la violenza e nel discorso dello stato sul medesimo oggetto. Infatti il sottotesto delle politiche sessuali in Italia, ed in parte anche in Europa, resta ancorato al riferimento al campo dell'alleanza, cioe' al matrimonio ed ai suoi sostituti funzionali, in ogni caso alle relazioni di vita intima non iscritte nello scambio temporalmente definito tra sesso e denaro. Vedi Bimbi (2009).

3. Sul rapporto tra la violenza di genere e l'esposizione diffusa nelle rappresentazioni mediatiche di sezioni del corpo della donna come "carne esteticamente configurata", cfr. Bimbi (2010).

4. Quest'interpretazione tiene conto della presenza delle donne italiane nel dibattito, soprattutto nel secondo caso, ma  prende anche atto della marginalita' della voice femminile nel campo specifico della politica e di un collateralismo di fatto ai  tempi ed ai modi della politica da parte della voice femminile espressa dalla societa' civile delle autoctone. Quanto alle migranti, il loro quasi totale silenzio (che pure cela molto lavoro politico invisibile) pare l'unico rumore rimarcabile: puo' essere un effetto della loro doppia o tripla condizione di minoranze culturali, rispetto alla societa' nazionale di residenza attuale, alle comunita' di riferimento, ed alle donne autoctone.

5. Nel 1965 Peristiany J. G. pubblica Honor and Shame: the Values of Mediterranean Society, uno dei saggi che contribuisce a fissare non solo il Sud in quello che Gilmore riconoscera' più tardi (1982) come "Banfield's simplistic "amoral familism"... no longer accepted as an explanatory model in Mediterranean studies". Esso era correlato anche alla costruzione unidimensionale della donna italiana in relazione alla vigilanza familiare e comunitaria ed alla verginita'.

6. Evitiamo particolarmente il termine "abuso" come sinonimo di violenza anche se proprio con questo significato e' presente nel "linguaggio autorizzato" delle esperte, piu' diffuso a livello internazionale. E' anche la definizione di violenza sulle donne piu' utilizzata dalle operatrici da noi intervistate (Misiti, Farina 2010), quelle stesse che identificano come area di maggior rischio di violenza di genere l'appartenenza delle migranti a culture "non cattoliche" e di "paesi arretrati". L'origine professionale del termine abuso e' almeno duplice: si riferisce all'eccesso di punizione inflitta da parte di un'autorita' legittima che puo' usare sanzioni se non obbedita ed in particolare all'eccesso dell'uso di "mezzi di correzione" sui figli minori (e sui familiari dipendenti), ma si riferisce anche ad un diritto di uso ovvero all'avere l'altro nella propria disponibilita' (dall'uso del tempo dei servi a quello del corpo della moglie). L'origine patriarcale e pre-moderna del termine ha attraversato indenne quarant'anni di costruzioni sociali sulla violenza prodotte dalle donne e resta come spia di transizioni incerte verso la modernita'.

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Riferimenti bibliografici

- Batliwala S. (1994), The Meaning of Women's Empowerment: New Concepts from Action, in Sen G., Germaine A., Chen L.C. (eds.), Population Policies Reconsidered: Health, Empowerment and Rights, Harvard Center for Population and Development Studies, Cambridge, Mass., Harvard University Press.

- Bimbi F. (2009), Parola chiave "Genere. Donna/donne". Un approccio eurocentrico e transculturale, in La Rivista delle Politiche Sociali - Italian Journal of Social Policy, 2, pp. 261-297.

- Bimbi F. (2010), Corpi, genere, violenza sulle donne, in Bimbi F., Basaglia A. (a cura di), Violenza contro le donne. Formazione di genere e migrazioni globalizzate, Milano, Guerini, pp. 21-33.

- Bourdieu P. 1998, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano.

- Butler J. (2008), Sexual politics, torture, and secular time, in The British Journal of Sociology, Volume 59, Issue 1.

- Fusaschi M. (2008) Corporalmente corretto. Note di antropologia, Bari, Meltemi.

- Gilmore D. D. (1982), Anthropology of the Mediterranean Area, in Annual Review of Anthropology, vol. 11, pp. 175-205.

- Kapur R. (2002),  The Tragedy of Victimization Rhetoric: Resurrecting the Native Subject in International/Post-Colonial Feminist Legal Politics, in Harvard Human Rights Law Journal, vol. 15, pp. 1-38.

- Morgan K., Thapar-Bjorkert S. (2006), 'I'd rather you'd lay me on the floor and start kicking me': Understanding symbolic violence in everyday life, in Women's Studies International Forum 29, pp. 441-452.

- Misiti M., Farina G. (2010), Rappresentazioni della violenza sulle donne nel Veneto delle migrazioni globali, in Bimbi F., Basaglia A. (a cura di) (2010), Violenza contro le donne. Formazione di genere e migrazioni globalizzate, Milano, Guerini, pp. 35-52.

- Peristiany J. G. (1965), Honor and Shame: the Values of Mediterranean Society, London, Weidenfeld & Nicolson.

- Thapar-Bjorkert S. (2007), State Policy, Strategies and Implementation in Combating Patriarchal Violence, Focusing on 'Honour Related' Violence, Integrationsverkets stencilserie, n. 4, pp. 130.

- Toffanin A. M. (2011), La violenza simbolica nelle pubblicita': lo sguardo delle migranti, Poster, Convegno Internazionale Www world wide women - Globalizzazione, generi, linguaggi, Universita' di Torino, Cirsde, Torino, 10-12 febbraio.

- Vianello F. A., D'Odorico G. Le definizioni della violenza sulle donne. Verso un vocabolario transculturale, Relazione, Convegno Internazionale Www world wide women - Globalizzazione, generi, linguaggi, Universita' di Torino, Cirsde, Torino, 10-12 febbraio.

- Young M. Y. (2005), On female Body Experience. "Throwing like a Girl" and Other Essays, Oxford, Oxford University Press.

 

2. RIFLESSIONE. PAOLA MANCINELLI: RIPRENDERE LA VOCE

[Ringraziamo Paola Mancinelli (per contatti: mancinellipaola at libero.it) per questo intervento.

Per un sintetico profilo di Paola Mancinelli dall'ampia intervista nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 247 riprendiamo la seguente breve notizia autobiografica: "Teologa e filosofa, sono attualmente docente al liceo. Autrice di: Cristianesimo senza sacrifico: filosofia e teologia in Rene' Girard, Cittadella, Assisi, 2001; Pensare altrove: rivelazione e linguaggio in Franz Rosenzweig, Quattroventi, Urbino 2006; Lo stupore del bello, Polistampa, Firenze 2008. Fra le sillogi poetiche: Come memoria di latente nascita, Edizioni del leone, Venezia 1089; Oltre Babele, Edizioni del leone, Venezia 1991; La metafisica del silenzio, Stamperia dell'arancia, Grottammare 2003. Collaboro a riviste come "Dialeghestai", "Reportata", "Leussein" e sono membro del Coordinamento delle teologhe italiane". Cfr. anche l'intervista nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 421]

 

Il paradigma femminile che quest'anno vorrei presentare e' quello della voce e della lingua, sostantivi femminili per eccellenza, e per eccellenza istanze del generare e del chiamare, del nominare con lo stupore e l'estasi di un canto originario da cui si dipana il racconto del mondo.

Nel mito greco si narra di un canto dato come dono alle sorelle di Medusa per poter ricomporre nella bellezza il dolore della morte di lei, per poter trasfigurare il dolore nella levita' delle parole che da sempre radunano, come scrive la fine poetessa Raissa Oumançov Maritain, per una partenza verso il cielo.

Questa voce originaria, spesso conculcata da un potere maschile che ha imposto con la forza del logos la tradizione, dimenticandone invece, la capacita' di dialogo e di condivisione, e che ha ridotto il sapere a mero esercizio di potere, torna oggi ad essere istanza femminile, istanza di una coscienza e di una dignita' che, elaborando un pensiero della differenza, sa elaborare anche un paradigma della dignita' femminile che giustamente recupera un sapere grazie a cui la tradizione diviene la consegna di una memoria ed un progetto creativi, mediante una lingua madre che recupera la grammatica della poesia e del simbolico,  mediante una lingua che sa risalire alla sorgente, ben conscia che la sorgente e' donata, e che la lingua fattasi generativa e' dono di apertura al mondo e all'altro, anzi all'altra, come scrive Adriana Cavarero nel suo bel libro A piu' voci.

Questa sorgente non e' che la madre lingua da cui scaturisce una relazione, dovremmo dire la relazione originaria, quella che afferma senza imposizioni la legittimita' di una voce che diventa corale, e che, custodendo la memoria della vita, si traduce nel corpo della scrittura, conferendole un ritmo altro dal logos, quello della danza e della gratuita' ludica, indici di una sapienza che gode dell'incanto del mondo e insegna a mantenere lo stupore per lo spettacolo che si squaderna dinanzi, a lasciare che la domanda sorga come gioco che salva lo stesso mondo dall'usura e dal consumo.

Ecco perche', seguendo la suggestione derridiana, possiamo parlare del fonocentrismo della scrittura femminile, che rovescia in un ordine immaginifico legato al corpo datore di vita l'ordine metafisico della rappresentazione, istituendo un nuovo pensiero della parola ed un etimo capace di far riecheggiare le parole l'una nell'altra, istituendo un ordine differente, quello che fa implodere l'etimo della violenza e del possesso.

 

3. RIFLESSIONE. LUISA MONDO: QUESTO OTTO MARZO

[Ringraziamo Luisa Mondo (per contatti: lu.mondo at tiscalinet.it) per questo intervento.

Luisa Mondo, di Torino, e' medico epidemiologo, da anni si occupa della tutela della salute degli immigrati; fa parte del gruppo "Epidemiologi contro la guerra". E' mamma di un ragazzino e due bimbe ai quali vorrebbe lasciare un mondo migliore. Pacifista, animalista, vegetariana. Si veda anche l'ampia intervista nei "Telegrammi della nonviolenza in cammino" n. 254]

 

8 marzo.

Festa della donna. Sono donna, va bene: mi spetta.

Poi ci sara' la festa della mamma, figli ne ho: mi spetta pure quella.

Poi un compleanno, un anniversario col mio compagno, volendo un onomastico.

E il primo maggio, dato che lavoro.

E gli altri 360 giorni? Niente, giorni normali. Eppure in quegli altri 360 giorni sono sempre io.

Allora che senso ha questa festa?

Serve a spennare i poveri alberi di mimosa? Non credo (a proposito: se volete fare un regalo floreale, donate una pianta in vaso che dura come dovrebbe durare l'affetto di chi dona).

Serve per sortite tra sole donne? Ma ormai possiamo farlo in qualsiasi sera (e si trova anche piu' facilmente il posto al ristorante).

Ah, ecco! Dovrebbe servire a riflettere sulla condizione della donna in famiglia, al lavoro, nelle nostra citta', in Italia, nel mondo. Gia', ma anche su questo sarebbe opportuno riflettere ogni giorno.

C'e' poi la novita' che quest'anno ho ricevuto uno splendido regalo per l'8 marzo, e come spesso accade con le cose belle e' arrivato inaspettato e in anticipo, il 13 febbraio.

Lungo strade coloratissime, circondata da tante magnifiche donne, incontrando facce note ad ogni angolo, con le mie bimbe e la mia cagnolina avvolte di fili colorati. Un evento sociale, politico, ma libero dalle strumentalizzazioni partitiche (non politicizzato), un evento vivo e vibrante, con quella consonanza che salta fuori nei momenti cruciali...

Allora come regalo vorrei ancora tantissimi 13 febbraio, donne che guardano avanti, che non si vendono, che collaborano tra loro, con una sorellanza tanto antica quanto attuale.

Perche' solo cosi' potremo fare in modo che la dignita' vinca, pacificamente, e che ogni giorno sia festa, per qualsiasi individuo.

 

4. RIFLESSIONE. BEPPE PAVAN: QUESTO OTTO MARZO

[Ringraziamo Beppe Pavan (per contatti: carlaebeppe at libero.it) per questo intervento.

Beppe Pavan e' impegnato nella bellissima esperienza nonviolenta della comunita' di base e del "gruppo uomini" di Pinerolo (preziosa esperienza di un gruppo di uomini messisi all'ascolto del femminismo con quella virtu' dell'"attenzione" di cui ci parlava Simone Weil), ed in tante altre esperienze di pace, di nonviolenza, di solidarieta'; cura la newsletter "Uomini in cammino" ed e' tra i promotori dell'associazione "Maschile plurale"]

 

Questo 8 marzo e' per me l'ennesima occasione di incontro con le riflessioni di tante donne che mi convincono sempre di piu' che "il femminismo e' il vero umanesimo e il pensiero politico che unifica tutte le grandi utopie: quella socialista, quella pacifista, quella nonviolenta, quella anticapitalista" (cito da un report egiziano di Monica Lanfranco, mia sorella e madre simbolica).

Io credo che anche per noi uomini sia conveniente abbandonare l'ordine simbolico patriarcale per riconoscerci in quello della madre: ci sara' piu' facile abbattere steccati e competizioni conseguenti, da quelle religiose a quelle politiche, imparando davvero a convivere, con cura e rispetto, con tutte le differenze che compongono il meraviglioso e complesso caleidoscopio dell'universo vivente.

 

5. INCONTRI. L'OTTO MARZO A VITERBO

 

L'otto marzo 2011 a Viterbo, presso il centro sociale occupato autogestito "Valle Faul", si terra' una iniziativa per la Giornata della lotta delle donne per la liberazione dell'umanita', contro il maschilismo e il patriarcato, contro la guerra e il razzismo, contro lo sfruttamento che devasta e distrugge le vite umane e la biosfera, contro la mercificazione dei corpi e delle esistenze, contro ogni logica di violenza che umilia, opprime e distrugge.

Interviene Antonella Litta, presidente del Comitato "Nepi per la pace" ed animatrice di tante iniziative per i diritti ed il bene comune, di pace e di solidarieta'.

Il centro sociale "Valle Faul" si trova in strada Castel d'Asso snc, nei pressi di Viterbo.

 

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

 

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli.

 

7. PER SAPERNE DI PIU'

 

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it

Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 486 del 6 marzo 2011

 

Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/

 

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