Archivi. 42
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- Date: Fri, 11 Feb 2011 14:54:23 +0100 (CET)
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ARCHIVI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XII)
Numero 42 dell'11 febbraio 2011
In questo numero:
Jean-Marie Muller: Momenti e metodi dell'azione nonviolenta (parte seconda)
TESTI. JEAN-MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA (PARTE SECONDA)
[Riproponiamo ancora una volta il testo di un opuscolo edito dal Movimento Nonviolento che a sua volta riproduceva anastaticamente un capitolo di una piu' ampia opera. L'opuscolo e': Jean-Marie Muller, Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, s. i. l. 1981; il libro e' Jean-Marie Muller, Strategia dell'azione nonviolenta, Marsilio, Venezia-Padova 1975 (il capitolo e' il settimo, alle pp. 73-99). Noi riproduciamo qui il testo di Muller senza le note dell'autore e senza la presentazione del traduttore Matteo Soccio (uno dei maggiori studiosi ed amici della nonviolenza in Italia), rinviando per la lettura del testo integrale all'acquisto dell'opuscolo, disponibile presso il Movimento nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212, e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org
Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E' direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza, Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977; Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005]
6. Azioni dirette
Divenuta inevitabile la prova di forza, in seguito al fallimento dei mezzi di persuasione, e' necessario mettere in opera dei mezzi di costrizione. Sottolineiamo tuttavia che e' opportuno proseguire lo sforzo di persuasione, in modo particolare nei confronti dell'opinione pubblica. Comunque, a questo stadio del conflitto, non si tratta piu' soltanto di invitare l'opinione pubblica a esprimersi: bisogna incitarla ad agire. Percio' le manifestazioni pubbliche non devono essere interrotte. Si puo' prevedere che, quando il conflitto si inasprira', queste manifestazioni vengano proibite. Sara' percio' compito dei responsabili dei movimento calcolare la capacita' dei manifestanti di far fronte alla repressione delle forze di polizia attenendosi ai principi e ai metodi della nonviolenza. Potra' verificarsi il caso in cui sia necessario sospendere una manifestazione essendoci probabilita' che essa non si svolga senza offrire pretesti per gravi disordini, il che arrecherebbe discredito al movimento. Certi ripiegamenti strategici si rivelano necessari allo scopo di permettere una migliore preparazione della successiva offensiva. Sara' percio' opportuno rinforzare l'organizzazione e il servizio d'ordine delle manifestazioni e forse limitare volontariamente il numero dei manifestanti, per essere in grado di sfidare il governo; infatti non si possono sospendere tutte le manifestazioni. Una simile misura sarebbe una prova di debolezza e rischierebbe di pregiudicare il morale di coloro che sono mobilitati per la lotta e di spezzare il dinamismo del movimento. Nel 1962, durante la campagna condotta ad Albany, una disposizione federale proibi' una manifestazione di massa indetta da King. Questi, dopo molte esitazioni, decise finalmente, contro il parere di numerosi leader, di disdire la manifestazione prevista perche' non voleva violare un'interdizione del Governo federale che lo aveva sostenuto fino ad allora contro le autorita' locali quando queste non rispettavano i testi costituzionali. Ma "successivamente - ci ricorda sua moglie Coretta - egli ebbe l'impressione che fu questa decisione ad aver spezzato lo slancio del movimento di Albany, e se ne dispiacque".
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a. Azioni dirette di non-cooperazione
E' importante che i gesti di non-cooperazione proposti dal movimento siano alla portata di tutti. Chiedere dei gesti di rottura le cui conseguenze siano molto gravi significa riservare l'azione ad un'elite e costringere gli altri a tenersi ai margini, nella veste di semplici spettatori; mentre e' essenziale che il maggior numero di persone possa partecipare.
Facciamo notare che molte di queste azioni di non-cooperazione, cosi' come abbiamo rilevato per le semplici manifestazioni, possono essere o no azioni di disobbedienza civile secondo la legislazione in vigore o le decisioni prese dalle autorita' governative durante il conflitto.
Fra le azioni di non-cooperazione che possono essere adottate nel caso di una campagna di azione diretta, ricordiamo in particolare:
- L'hartal. Un hartal e' un giorno di sciopero generale durante il quale viene chiesto a tutta la popolazione di disertare i luoghi di lavoro, le strade e i locali pubblici e di restare a casa. In quel giorno, tutte le attivita' devono cessare, le citta' e i paesi devono sembrare morti. Un hartal puo' essere deciso allo scopo di inaugurare la campagna di azione diretta. Esso esprime la determinazione della popolazione a condurre la lotta fino a che i diritti non verranno riconosciuti e rispettati; manifesta la sua unita' e la sua capacita' di autodisciplina. Il successo di un hartal implica che la popolazione abbia forte coscienza della portata del conflitto in corso e abbia gia' dato segni concreti della sua determinazione. Gandhi fece ricorso a questo metodo in diverse occasioni. Fu proprio con un hartal che egli inauguro', il 6 aprile 1919, la prima campagna di azione diretta che segnava l'inizio della lotta aperta dell'India contro il governo britannico per la sua indipendenza. Questo metodo fu pure utilizzato a Budapest nel 1956, all'inizio della rivoluzione ungherese.
L'hartal puo' anche essere presentato come una giornata di "lutto nazionale" deciso dalla popolazione al fine di esprimere i suoi sentimenti di fronte ad una qualche decisione dei governo mirante a privarla di uno dei suoi diritti essenziali.
- Rinvio di titoli e di decorazioni. Il rinvio di titoli e di decorazioni non puo' non avere un'influenza diretta nel rapporto di forze in campo. Esso e' essenzialmente un gesto simbolico, ma in quanto tale nel suo impatto sull'opinione pubblica puo' essere considerevole.
Nel piano di non-cooperazione che egli compi' nel 1920, la prima tappa prevista da Gandhi era il rinvio dei titoli e la rinuncia ai posti onorifici. Gandhi, come d'abitudine, diede il primo esempio e il primo agosto 1920 restitui' al vicere' le tre medaglie che gli erano state conferite per i suoi buoni e leali servizi resi all'impero britannico.
Nel 1970 negli Stati Uniti i resistenti alla guerra del Vietnam organizzarono una manifestazione di massa durante la quale soldati americani in congedo che avevano partecipato a questa guerra gettarono a terra le loro decorazioni, secondo una messinscena che dava a questo gesto un significato del tutto particolare. Questa manifestazione impressiono' notevolmente l'opinione pubblica sia nazionale che internazionale.
Si puo' ragionevolmente pensare che se molte personalita' francesi in vista (universitari, scrittori, vescovi...) decidessero di restituire al presidente della Repubblica la loro Legione d'onore per protestare, ad esempio, contro le vendite di armi, consentite dal governo francese, tanto al governo razzista del Sudafrica quanto alla dittatura militare del Brasile, questo gesto non mancherebbe di colpire vivamente l'opinione pubblica. Esso avrebbe una portata non soltanto simbolica, ma realmente politica.
- Lo sciopero. Lo sciopero illustra direttamente il principio di non-cooperazione. Poiche' i capitalisti (nel senso tecnico della parola) devono in gran parte la loro potenza economica e sociale alla cooperazione degli operai, e' possibile per questi ultimi (quando sono vittime di una ingiustizia relativa sia alle loro condizioni di lavoro, sia alle loro condizioni di salario) interrompere questa cooperazione allo scopo di costringere i propri avversari di classe a riconoscere i loro diritti. Certo, numerosi scioperi si sono svolti in un contesto di violenza e sarebbe ridicolo pretendere di recuperare gli scioperi operai nel campo della nonviolenza. Tuttavia, e' opportuno rilevare che se delle forme di violenza hanno accompagnato molto spesso - non sempre - gli scioperi, esse sono rimaste marginali rispetto all'azione di sciopero propriamente detto. D'altronde resterebbe da dimostrare l'efficacia reale di queste violenze, in rapporto all'evoluzione del conflitto. Qui e' importante sottolineare che lo sciopero puo' essere organizzato attenendosi strettamente allo spirito e ai principi della nonviolenza e, pensiamo, con maggiori possibilita' di successo.
- Il boicottaggio. Il principio del boicottaggio e' una variante del principio di non-cooperazione. I proprietari di una impresa commerciale devono la loro ricchezza alla cooperazione volontaria dei loro clienti. Il boicottaggio consiste, quando per esempio i proprietari rifiutano di soddisfare una certa rivendicazione del personale giudicata essenziale, nel ritirare loro il beneficio di questa cooperazione al fine di esercitare su di essi una pressione sociale che li costringa a cedere. Il potere di acquisto dei consumatori diventa allora un vero potere sociale che si oppone al potere dell'avversario. Certo, il boicottaggio puo' riuscire solo se una forte percentuale della popolazione si unisce al movimento. Cio' dovrebbe essere possibile soprattutto quando l'obiettivo e' particolarmente chiaro e preciso, poiche' la partecipazione a un boicottaggio non comporta generalmente gravi inconvenienti.
Lo sciopero e il boicottaggio condotti da Cesar Chavez negli Stati Uniti illustrano in modo esemplare la possibilita' e l'efficacia della lotta nonviolenta nel contesto della lotta di classe. Cesar Chavez non si e' avvicinato agli oppressi per fornire loro il suo aiuto generoso. Egli e' nato tra di loro. E' uno di loro. E' uno di quegli americani di origine messicana, uno di quei chicanos che formano la maggior parte della manodopera dei vigneti californiani. I chicanos costituiscono il tipo stesso di un sottoproletariato inorganizzato e sfruttato. Tutti gli sforzi compiuti in precedenza erano stati spezzati dai proprietari e votati al fallimento. Cesar Chavez ha lavorato dapprima con Saul Alinsky nel quadro della Comunity Service Organisation e fu in questo lavoro che egli scopri' in maniera empirica i principi della strategia dell'azione nonviolenta. Solo piu' tardi egli scopri' Gandhi a cui si riferi' costantemente cosi' come a Martin Luther King. Dopo aver rotto con questa organizzazione, che giudicava troppo lontana dagli operai stessi, egli decise di creare un sindacato. Prima di lanciare delle azioni di rivendicazione impiego' parecchi mesi in un lavoro di "coscientizzazione" e di organizzazione. Spinto dalle circostanze, quando non si sentiva ancora sufficientemente pronto, nel 1965 diede slancio al suo movimento in uno sciopero. Chavez volle sin dall'inizio che il movimento diventasse nonviolento sia nello spirito che nei metodi. Questa scelta precisa fu sottoposta al voto di tutti gli operai durante una manifestazione di preparazione allo sciopero e approvata all'unanimita'. Picchetti di sciopero furono organizzati nei vigneti dagli operai, allo scopo di proseguire il lavoro di coscientizzazione e di persuadere quelli che accettavano ancora di lavorare che era loro interesse fare sciopero e unirsi al movimento. Sin dall'inizio dello sciopero, i proprietari reagirono brutalmente e cercarono di spezzare il movimento. Inoltre, gli operai dovettero subire parecchi fastidi da parte delle autorita' locali che si erano schierate a fianco dei proprietari. D'altra parte, i proprietari poterono reclutare lavoratori "crumiri" in numero sufficiente da garantire la raccolta dell'uva. Tuttavia, questa prima fase della lotta permise agli operai di superare la loro paura e di prendere coscienza della loro forza.
Fu a quel punto che Cesar Chavez decise di organizzare il boicottaggio dell'uva. Picchetti di boicottaggio furono organizzati un po' ovunque negli Stati Uniti e l'azione si rivelo' subito estremamente efficace. Venne effettuata una marcia di cinquecento chilometri su Sacramento allo scopo di dare il massimo di pubblicita' all'azione degli operai dei vigneti. A Boston, i leader del boicottaggio diedero una rappresentazione del Boston Tea Party (e' noto che fu gettando in mare un carico di te' britannico nel porto di Boston che inizio' il processo che doveva portare la "Nuova Inghilterra" alla sua indipendenza): dopo aver effettuato una sfilata attraverso la citta', essi buttarono diverse casse di uva nel porto. Nel quadro del boicottaggio, furono rappresentate scene satiriche allo scopo di drammatizzare la lotta agli occhi della popolazione. L'opinione pubblica cosi' interpellata e informata si schiero' sempre piu' numerosa in favore del movimento di Chavez. Versamenti di fondi manifestarono concretamente la solidarieta' del paese e permisero al movimento di assicurare agli scioperanti e alle famiglie il minimo vitale. La Chiesa, i sindacati, numerosi movimenti e diverse personalita' diedero il loro sostegno a Chavez.
I proprietari dei vigneti decisero allora di esportare il massimo di uva che restava invenduta sul mercato degli Stati Uniti e del Canada. Ma, a San Francisco, il sindacato degli scaricatori di porto rifiuto' di caricare l'uva sulle navi che dovevano salpare per l'Oriente. In Inghilterra gli operai si rifiutarono di scaricare piu' di trenta tonnellate di uva della California. La stessa cosa si verifico' in Finlandia, in Svezia e in Norvegia. Ma, dal canto suo, il Pentagono, le cui simpatie si indovina facilmente a chi andavano, forni' un aiuto prezioso ai proprietari; opero' massicci acquisti di uva di cui la maggior parte fu destinata ai soldati del Vietnam. Ma l'intervento dell'esercito non fu in grado di spezzare il boicottaggio.
Infine, dopo cinque anni di lotta, i proprietari dovettero cedere e il 29 luglio 1970 riconobbero il sindacato di Chavez e accettarono l'essenziale delle sue richieste. Durante la riunione nella quale furono firmati gli accordi, Cesar Chavez pote' affermare: "Oggi, nel momento in cui vi e' tanta violenza in questo paese, siamo felici di mostrare che questo accordo giustifica la nostra posizione: la giustizia sociale puo' essere realizzata attraverso l'azione nonviolenta". Dopo questa vittoria Cesar Chavez divenne il leader di tutti gli operai agricoli della California. Altre azioni furono intraprese e altri successi ottenuti.
- Lo sciopero degli affitti. Sul finire del XIX secolo, nel quadro della lotta condotta dall'Irish Land League il cui fine era di "dare la terra al popolo", "i contadini cattolici irlandesi si rifiutarono di pagare l'affitto ai proprietari terrieri che erano in genere inglesi molto ricchi" (D. De Ligt).
In conclusione, nonostante la mobilitazione di 15.000 poliziotti e di 40.000 soldati, il movimento ottenne un largo successo.
Nel maggio del 1965, il primo sciopero promosso da Cesar Chavez non fu diretto contro i proprietari dei vigneti, ma contro coloro che affittavano agli operai agricoli capanne di una sola stanza, col tetto metallico, prive di finestre e acqua corrente, costruite provvisoriamente nel 1937. Era stato appena deciso un aumento di affitto che elevava il prezzo da diciotto a venticinque dollari. Cesar Chavez giudico' inammissibile questo aumento e lancio' la parola d'ordine dello sciopero degli affitti. Nel novembre dello stesso anno, gli operai videro trionfare la loro causa.
- Il rifiuto collettivo dell'imposta. E' opportuno precisare sin dall'inizio che il rifiuto di pagare l'imposta non potrebbe giustificarsi come opposizione al principio stesso dell'imposta. Non soltanto e' legittimo, ma e' necessario che i membri di una comunita' partecipino al finanziamento delle realizzazioni della comunita' stessa. Il pagamento dell'imposta e' l'esercizio pratico della solidarieta' che deve legare tutti i membri della medesima comunita'. Non si puo' pertanto opporsi al pagamento dell'imposta che quando questa viene ad alimentare delle ingiustizie di cui ci si rifiuta di essere complici e che si vogliono denunciare e combattere pubblicamente.
Il rifiuto di pagare interamente o in parte l'imposta puo' concepirsi in due prospettive diverse. Puo' trattarsi innanzitutto di far cessare un'ingiustizia di cui si e' personalmente vittima. Quando, ad esempio, delle imposte colpiscono una certa categoria sociale o un certo settore d'attivita' in modo abusivo, diventa legittimo per coloro che sono vittime di questo abuso il rifiuto di pagare queste imposte allo scopo di obbligare il governo a rendere loro giustizia. Cosi' il rifiuto collettivo dell'imposta praticato a Bardoli, in India, nel 1928, si rivelo' un mezzo efficace di lotta nelle mani dei contadini contro l'arbitrio del governo di Bombay. Questo aveva deciso un aumento del 22% dell'imposta sul ricavato agricolo. Dopo aver tentato, ma invano, di ottenere l'annullamento di questa decisione attraverso vie legali, i contadini decisero di organizzare la resistenza. Fecero percio' appello a Patel, un avvocato che aveva rinunciato alla sua professione per seguire Gandhi. Sotto la guida di Patel, i contadini decisero di rifiutarsi di pagare l'imposta fino a che avessero ottenuto o l'annullamento dell'aumento del 22%, o la creazione di una commissione d'inchiesta che potesse giudicare imparzialmente la loro situazione. Il governo si rifiuto' di cedere e decise al contrario di esercitare una brutale repressione, praticando in particolare numerosi pignoramenti sui beni e sulle terre dei contadini, e procedendo a numerosi arresti. Ma i contadini non cedettero e si attennero strettamente alle indicazioni nonviolente date da Patel. Gandhi sostenne pubblicamente l'azione. Tutta l'India segui' con molta attenzione l'evoluzione dei fatti e manifesto' concretamente la propria solidarieta' inviando a Patel considerevoli somme di denaro. I giornali inglesi fecero eco all'azione dei contadini e l'opinione pubblica inglese, scossa da questa insurrezione pacifica, si risveglio'. Fu aperto un dibattito alla Camera dei Comuni sui fatti di Bardoli. Infine le autorita' di Bombay furono costrette a cedere, sei mesi dopo l'inizio della campagna di sfida, e a nominare una commissione d'inchiesta. Questa convenne che l'aumento dei 22% deciso non poteva giustificarsi. Essa "decise in conclusione che l'aumento non doveva superare il 6,25%. Tuttavia, essendosi la commissione dichiarata incompetente nel giudicare certi elementi del dossier, questi, su pressante richiesta dei contadini, furono presi in considerazione nell'accordo finale in modo tale che praticamente non fu deciso alcun aumento d'imposte a Bardoli" (Joan Bondurant). "Dopo tanti anni d'inerzia - osserva Nanda - questo successo costitui' uno stimolo senza precedenti (...), poiche' questa campagna aveva rivelato un'energia latente che si poteva sperare d'impegnare nella lotta per la liberazione del paese".
In secondo luogo, puo' invece trattarsi di opporsi ad una decisione ingiusta del governo non accettando che il finanziamento di questa ingiustizia venga assicurato con i propri denari e mettendo in opera tutto cio' che e' possibile per costringere il governo a tornare su questa decisione. Quando gli strumenti di controllo previsti dalla costituzione si rivelano inefficaci, questo mezzo permette alla popolazione di esercitare un controllo effettivo sull'azione del governo. Osserviamo che conviene in questo caso non tenere per se' i soldi "risparmiati" sulle proprie imposte ma versarli a organismi o movimenti che partecipano direttamente alla lotta contro l'ingiustizia in questione. Certo, il governo sara' generalmente ben provvisto di mezzi repressivi che dovrebbero consentirgli in particolare, attraverso trattenute sui salari o pignoramenti sui beni, di recuperare il denaro che egli e' stato rifiutato, senza contare le ammende che non mancheranno di colpire i contribuenti refrattari. Tuttavia l'impatto che si cerca non e' finanziario, ma politico, e questa repressione deve venire ad accrescerlo. Se il numero di coloro che rifiutano l'imposta in queste circostanze diventasse notevole, l'efficace di un simile gesto potrebbe essere molto grande. Siccome pero' il costo di quest'azione potrebbe anche essere elevato, quelli che decidono di ricorrervi devono avere piena coscienza delle sue conseguenze e devono essere pronti ad assumersele fino in fondo. E' fondamentale percio' che essi possano contare, se dovesse occorrere, sulla solidarieta' effettiva di un gruppo di sostegno, in particolare dal punto di vista finanziario.
Negli Stati Uniti, alcuni militanti contro la guerra dei Vietnam si rifiutavano di pagare una parte delle loro imposte allo scopo di rifiutare ogni complicita' personale con quella guerra e di denunciarla pubblicamente.
In Francia, diverse persone appartenenti alla Comunita' di Ricerca e di Azione Nonviolenta di Orleans hanno incominciato nel 1970 a rifiutare di pagare allo Stato il 20% delle loro imposte che hanno versato al movimento "Azione, Giustizia e Pace" di dom Helder Camara. Esse intendono denunciare in questo modo la degradazione dei termini di scambio con i paesi dei Terzo Mondo e la politica militare francese soprattutto in materia di armamenti nucleari, sostenendo che i paesi ricchi si rifiutano di pagare ad un giusto prezzo le materie prime dei paesi poveri, ma non esitano invece a investire somme ingenti in una corsa sfrenata agli armamenti. Dom Helder Camara, in una lettera dei 13 novembre 1970 indirizzata a quelli che si erano impegnati in questa azione, scrisse in particolare: "La vostra decisione mi sembra un gesto perfetto di autentica violenza dei pacifici, di autentica pressione morale liberatrice".
- L'obiezione di coscienza. L'obiezione di coscienza in passato non si inseriva il piu' delle volte nel quadro di una strategia dell'azione nonviolenta. Essa si basava fondamentalmente su una esigenza morale e/o religiosa che proibiva l'omicidio e aveva innanzitutto un carattere individualista.
L'obiezione di coscienza politica puo' concepirsi secondo due prospettive. In primo luogo, puo' trattarsi, per coloro che sono convinti dell'efficacia dei metodi nonviolenti in caso di aggressione straniera diretta contro la propria nazione, di rivendicare il diritto di essere riconosciuti cittadini a tutti gli effetti pur scegliendo la via della nonviolenza. Infatti e' inammissibile che gli Stati impongano a tutti i cittadini il mezzo della violenza come il solo modo di assumersi le responsabilita' civiche nel caso di un conflitto internazionale. In questa prospettiva l'obiettore di coscienza deve svolgere un servizio nazionale durante il quale e' suo diritto-dovere prima di ogni cosa studiare teoricamente i principi e i metodi della nonviolenza e prepararsi a metterli successivamente in pratica. Precisiamo che nei paesi in cui esiste una legge che riconosce l'obiezione di coscienza, cio' non vuol dire che la nonviolenza abbia ottenuto diritto di cittadinanza. Infatti questa legge e' stata generalmente accordata al solo scopo di risolvere qualche singolo caso che diventava sempre piu' scomodo. La nonviolenza, tuttavia, continua ad essere disprezzata dal governo come un'idea ingenua e pericolosa.
In secondo luogo, l'obiezione di coscienza puo' essere utilizzata come mezzo per opporsi alla politica del governo, in un certo campo, in particolare quando nell'esecuzione di questa politica riveste primaria importanza il ruolo giocato dall'esercito. In questo caso, l'obiezione di coscienza e' un metodo nonviolento impiegato per combattere una politica precisa, anche se essa non implica, come nel caso precedente, un'opzione fondamentale per la nonviolenza. Cosi', in Francia durante la guerra d'Algeria, molti giovani chiamati alle armi, giudicando ingiusta questa guerra, si sono rifiutati di mettersi a disposizione dell'autorita' militare e hanno dichiarato la propria obiezione di coscienza. Essi si opponevano a quella guerra con un metodo nonviolento di non-cooperazione, ma cio' non significava necessariamente che essi si opponessero a ogni guerra e che non fossero pronti a ricorrere alla violenza in altre circostanze.
- Lo sciopero della fame illimitato. Uno sciopero della fame illimitato non ha piu' per fine, come e' il caso dello sciopero della fame limitato, di protestare contro un'ingiustizia. Quelli che ricorrono ad esso sono intenzionati a proseguirlo fino al raggiungimento degli obiettivi che si sono fissati, fino a quando, cioe', venga eliminata l'ingiustizia che essi denunciano. Questa azione pone numerosi e gravi problemi tali da far pensare che essa non sia un mezzo che possa trovare il suo posto nella strategia dell'azione nonviolenta. Inoltre, non possiamo affatto citare qui come esempio i digiuni illimitati intrapresi da Gandhi. Il loro significato e la loro efficacia devono spiegarsi essenzialmente nell'influsso del tutto eccezionale esercitato da Gandhi sulla popolazione indiana. Per di piu', e' in questo caso che religione e politica si trovano inestricabilmente mescolate nell'atteggiamento di Gandhi. Cosi', a proposito del digiuno illimitato deciso da Gandhi nel settembre 1932, il suo biografo Nanda scrive: "Gandhi, tuttavia, non doveva giustificarsi con nessuno tranne che con la propria coscienza o, come lui diceva, con il suo creatore". Ci conviene percio' cercare altrove i criteri per definire a quali condizioni uno sciopero della fame illimitato puo' essere intrapreso conformemente alle esigenze della nonviolenza.
Innanzitutto, deve essere scrupolosamente rispettato anche qui cio' che e' richiesto per le altre azioni dirette nonviolente, vista la natura particolare dell'azione e la gravita' dei rischi che devono correre gli attori. In particolare, e' necessario che questi abbiano in precedenza fatto ricorso ad altre iniziative per farsi ascoltare dall'avversario e che quest'ultimo si sia ostinatamente rifiutato di prenderli in considerazione. Uno sciopero della fame illimitato non puo' essere intrapreso che per motivi particolarmente gravi, quando e' apparso, dopo un'analisi dettagliata del dossier, che l'obiettivo ricercato puo' essere raggiunto nello spazio di tempo che esso consente. Uno sciopero della fame illimitato intrapreso su un obiettivo impossibile da raggiungersi, oltre ad essere un gesto disperato di protesta, non sarebbe un'azione nonviolenta. Questo atteggiamento si avvicinerebbe invece a quello di coloro che si immolano con il fuoco. Pur non volendo esprimere qui un giudizio sul significato e sul valore che simili gesti possono avere - soprattutto quando questi si collocano nella prospettiva di una filosofia o di una religione orientale -, ci teniamo a sottolineare che essi non possono entrare a far parte di una strategia dell'azione nonviolenta.
Resta il fatto che ogni sciopero della fame illimitato comporta, per chi lo intraprende seriamente, il rischio di morire. Tutte le precauzioni prese per assicurare l'efficacia dell'azione non possono garantire in assoluto la sua riuscita. Ma ci sono delle cause che giustificano questo rischio. E colui che decide di correrlo volontariamente deve assumersene la responsabilita' fino alle sue piu' estreme conseguenze. Esercitare pressioni sull'avversario e minacciarlo facendogli capire che non cedendo diverrebbe responsabile delle sofferenze e, nel caso estremo, della morte di coloro che fanno lo sciopero della fame, costituirebbe un inammissibile ricatto. Le sole responsabilita' che gli devono essere attribuite durante lo sciopero sono quelle che egli porta effettivamente a proposito dell'ingiustizia denunciata e combattuta. Le pressioni che devono essere esercitate nei confronti dei responsabili dell'ingiustizia non devono affatto mettere in evidenza le sofferenze degli scioperanti della fame, ma le sofferenze di coloro che sono vittime dell'ingiustizia.
Perche' l'obiettivo possa essere raggiunto in uno spazio di tempo cosi breve, e' necessario che l'opinione pubblica sia gia' sensibilizzata riguardo all'ingiustizia di cui si vuole ottenere l'eliminazione. La funzione di uno sciopero della fame illimitato e' di opporsi a una ingiustizia contro cui si e' delineata una maggioranza, rimasta pero' ancora silenziosa. L'ingiustizia e' gia' stata identificata come tale, ma non ne e' stata veramente percepita la sua gravita'. La tentazione di rassegnarsi e' piu' forte della volonta' di agire. La maggioranza potra' allora trovare nell'azione degli scioperanti l'espressione del proprio sentimento e del proprio pensiero. Essa avra' cosi' modo di esprimersi e di agire a sua volta allo scopo di esercitare il proprio potere politico per far fallire il potere di coloro che sono responsabili dell'ingiustizia. Lo sciopero della fame illimitato svolge allora il ruolo di catalizzatore che mobilita e mette in moto per una stessa azione delle energie rimaste latenti. A questo punto facciamo nostra l'affermazione di Gandhi secondo cui e' piu' conveniente intraprendere il digiuno contro i propri amici, che contro i propri nemici.
La pressione, che dovra' essere decisiva per il raggiungimento dell'obiettivo fissato, non deve essere quella dello sciopero della fame, ma quella che e' stata suscitata dallo sciopero della fame. Cosi', quando si conduce la lotta contro una decisione del governo, lo sciopero della fame illimitato non ha come fine diretto quello di farlo cedere, ma di cristallizzare l'opposizione e la determinazione della popolazione perche' questa faccia cadere il governo. E' percio' necessario che gli scioperanti possano contare immediatamente su appoggi, innanzitutto a livello dell'informazione ma anche a livello dell'azione. Cio' richiede che organizzazioni che giocano un ruolo importante nei confronti dell'opinione pubblica, come i partiti politici, i sindacati e le Chiese, e anche personalita' influenti, condividano nella parte essenziale, prima ancora dell'inizio dello sciopero, l'analisi e l'obiettivo di coloro che sono decisi ad intraprenderlo e siano pronti a sostenerlo. Per costringere l'avversario a cedere, sara' dunque necessario che siano organizzate altre manifestazioni nonviolente: non soltanto manifestazioni pubbliche ma pure azioni di non-cooperazione, magari di disobbedienza civile. E' compito di coloro che hanno preso l'iniziativa dei movimento di resistenza, cioe' degli scioperanti, suggerire quali sono le possibilita' concrete di azione. Dovra' essere costituito un comitato direttivo con il compito di coordinarle.
Ricordiamo che fu attraverso uno sciopero della fame illimitato che Louis Lecoin, all'eta' allora di settantaquattro anni, ottenne il riconoscimento legale in Francia dell'obiezione di coscienza. Nell'ottobre dei 1958, il comitato di sostegno degli obiettori di coscienza consegno' al governo il progetto di uno statuto. Nonostante tutti i passi intrapresi, non fu dato alcun seguito a questo progetto. Tuttavia, interrogato in privato, soprattutto da Albert Camus, il generale De Gaulle rispose che gli obiettori avrebbero avuto uno statuto, ma che bisognava attendere il momento opportuno, cioe' la fine della guerra d'Algeria. All'inizio del 1962, Lecoin stimo' che non c'era piu' niente che poteva opporsi all'approvazione di questo statuto. Egli decise percio' d'impegnarsi in una prova di forza con il governo. Il 28 maggio scrisse al generale De Gaulle per informarlo che avrebbe incominciato dal primo di giugno uno sciopero della fame affinche' le buone intenzioni manifestate fin allora a favore degli obiettori di coscienza si traducessero nei fatti. A partire dal primo di giugno Lecoin si astenne percio' da qualsiasi nutrimento. Dopo qualche giorno, i giornali e la radio diedero abbondanti informazioni sull'azione di Lecoin. Ben presto dagli ambienti vicini al presidente della Repubblica arrivarono promesse ufficiose. Lo stesso generale De Gaulle disse ad una persona molto vicina a lui: "Non voglio vedere morire il signor Lecoin". Il vecchio anarchico volle pero' proseguire il suo sciopero fino a che una decisione non fosse stata presa ufficialmente. L'opinione pubblica, interpellata, incomincio' a mobilitarsi. Furono promosse numerose iniziative a sostegno dell'azione di Lecoin. Il 15 giugno, alcuni poliziotti, accompagnati da un medico legale, fecero irruzione nella camera di Lecoin e lo trasportarono all'ospedale. Il 21 giugno, il primo ministro Georges Pompidou informo' che il governo aveva deciso di sottoporre all'Assemblea nazionale, durante la sessione in corso, un progetto di legge per il riconoscimento degli obiettori di coscienza. Lecoin poteva a quel punto ritenersi del tutto soddisfatto. Tuttavia egli richiese che se, per un qualsiasi motivo, il Parlamento non avesse potuto discutere il progetto durante la sessione in corso e fosse stato costretto a spostare l'esame a una data ulteriore, gli obiettori incarcerati fossero liberati in attesa di un voto definitivo. La sera dei 22 giugno il governo diede questa assicurazione e Lecoin cesso' il suo sciopero. Bisogno' pero' aspettare il 24 luglio 1963 perche' l'Assemblea potesse discutere il progetto di legge. Lecoin assistette ai dibattiti. Ma numerosi emendamenti, di cui molti furono presentati dal deputato Michel Debre' che si trovava purtroppo "in posizione critica rispetto al governo", mutilarono il progetto iniziale che purtuttavia era stato accettato dallo stesso generale De Gaulle. A quel punto Lecoin, non potendo sopportare ulteriormente, si alzo' e grido': "E' una vergogna, e' uno scandalo". Gli uscieri e i poliziotti lo bloccarono e lo portarono in questura. Alla fine, cio' che resto' del progetto fu votato definitivamente il 22 dicembre 1963.
- Lo sciopero generale. Nella sua Histoire socialiste Jaures riporta la seguente dichiarazione che Mirabeau pronunzio all'Assemblee des Etats de Provence rivolgendola all'indirizzo di "tutti i gentiluomini e signorotti che intendevano tutelare gli interessi della classe produttiva": "State attenti, non sdegnate questo popolo che produce tutto, questo popolo che per essere formidabile non dovrebbe che rimanere immobile". E Jaures osserva che Mirabeau diede in questa occasione "la piu' potente e la piu' sbalorditiva formula di cio' che chiamiamo oggi sciopero generale". Cosi' definito, lo sciopero generale di tutto un popolo, deciso a spezzare il giogo della tirannide e dell'oppressione che pesa sulle sue spalle e a diventare padrone dei proprio destino, e' l'esemplificazione piu' perfetta del principio di non-cooperazione.
Nel suo famoso libro Considerazioni sulla violenza, Georges Sorel fa l'apologia della "violenza proletaria". Ma nell'affermare con forza la necessita' della violenza per la liberazione dei proletariato, Sorel non intende incitare gli operai a buttarsi in uno scontro sanguinoso con gli eserciti della borghesia. Al contrario, egli si rammarica del fatto che la parola rivoluzione evochi generalmente questa immagine, e rifiuta questa prospettiva che, egli afferma, appartiene al passato. "Per moltissimo tempo - egli scrive - la Rivoluzione e' apparsa, nei suoi tratti fondamentali, come un succedersi di guerre gloriose, che un popolo, assetato di liberta', e mosso dalle piu' nobili passioni, aveva sostenuto contro la coalizione di tutte le forze della tirannide e dell'errore". Ma, facendo leva soprattutto sui fatti tragici della Comune avvenuti nel 1871, egli mostra che il proletariato ha dovuto distogliere la sua immaginazione e la sua ragione da qualsiasi epopea guerresca. D'altra parte, Sorel se la prende con forza con i "socialisti parlamentari" che vorrebbero convincere gli operai del fatto che e' possibile ormai ottenere il riconoscimento dei loro diritti con il solo gioco della democrazia formale. Sorel afferma che ormai il proletariato deve porre il suo ideale e la sua speranza soltanto nello sciopero generale. Dicendo cio', egli non si preoccupa di concepire l'organizzazione pratica di questa azione gigantesca: cio' che a lui interessa dimostrare e' che l'idea dello sciopero generale corrisponde alle aspirazioni profonde dell'anima operaia e che essa e' capace di mobilitare il proletariato nella lotta contro la borghesia. Per lui lo sciopero generale e' un mito e deve essere considerato come tale, ma pensa appunto che solo la potenza di questo mito puo' creare il dinamismo necessario al movimento rivoluzionario. "Lo sciopero generale - egli scrive con molta perspicacia - e' il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo, nella sua interezza, un organismo d'immagini capaci di evocare, con la forza dell'istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo, contro la societa' moderna. Gli scioperi hanno fatto fiorire nel proletariato i sentimenti piu' nobili, piu' profondi e piu' fattivi che esso possegga. Lo sciopero generale li unisce tutti, in un quadro d'insieme; da' a ciascuno di essi, riunendoli insieme, la massima intensita'. (...) Noi otteniamo, cosi', quella intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva fornirci in modo perfettamente chiaro - e l'otteniamo, in un insieme percepito istantaneamente".
Cosi' Sorel, ed e' in cio' che la sua analisi ci sembra interessante, tenta di sostituire nella coscienza operaia il mito della guerra rivoluzionaria con la quale il proletariato schiaccia definitivamente la borghesia in un bagno di sangue - e noi sappiamo quanti "rivoluzionari" in tutto il mondo sono ancora legati piu' o meno coscientemente a questo mito -, con il mito dello sciopero generale con il quale il proletariato pone fine all'oppressione capitalistica e inaugura con entusiasmo l'era del socialismo. Comunque, esiste effettivamente una tradizione operaia in cui lo sciopero generale concentra tutte le speranze del proletariato. Barthelemy De Ligt ci ricorda una canzone che una volta "si cantava dappertutto: nelle famiglie, nelle assemblee e nelle officine". Essa illustra questa tradizione in modo particolarmente significativo:
"0 tu che ti chini verso la terra / La tua fronte e' pallida dal dolore / Sollevati, fiero proletario / Un migliore avvenire appare all'orizzonte! / Non a colpi di mitraglia / Il Capitale vincerai / Per vincere la battaglia / Non avrai che da incrociar le braccia! / Per la caduta fatale / Degli sfruttatori tiranni, / Lo sciopero generale / Ci fara' trionfanti! / La migliore arma per abbattere / I difensori del Capitale, / Questa orrenda razza matrigna, / e' lo sciopero generale".
Rosa Luxemburg ha consacrato allo sciopero generale uno studio documentato e dettagliato, facendo riferimento essenzialmente all'esperienza della rivoluzione russa del 1905. Per molto tempo lo sciopero generale fu combattuto in seno ai partiti comunisti come un'idea pericolosa, propagandata dagli anarchici e capace di portare il movimento rivoluzionario fuori dalle vie realiste. Su questo punto, Engels aveva vivamente attaccato Bakunin. Ma Rosa Luxemburg non esita ad affermare: "Lo sciopero di massa (...) appare oggi l'arma piu' potente della lotta politica per i diritti politici". Analizzando gli avvenimenti sopravvenuti in Russia, Rosa Luxemburg sottolinea che "lo sciopero di massa non puo' essere "fatto" artificiosamente, non puo' essere "deciso" nel cielo azzurro, ne' "propagandato", ma che esso e' un fenomeno storico che in un certo momento risulta dalle condizioni sociali con la forza della necessita' storica".
Percio' "il Partito deve - se si osa adoperare questo termine - agganciarsi al movimento di massa, quando lo sciopero sia stato spontaneamente intrapreso, e ha il compito di dargli un contenuto politico e delle parole d'ordine giuste. Se non ne ha l'iniziativa, deve averne la direzione e l'orientamento politico. E' soltanto cosi' che potra' impedire che l'azione si perda e rifluisca nel caos".
Se ci riferiamo allo sciopero di massa avvenuto in Francia, nel maggio del '68, non possiamo che essere sorpresi dalla giustezza delle affermazioni di Rosa Luxemburg. E' vero che nel 1968 lo sciopero generale non e' stato ne' suscitato, ne' deciso, ne' organizzato da alcun partito ne' organizzazione ma che esso e' stato intrapreso spontaneamente da un movimento venuto dalle masse stesse. E' pure vero che, per il fatto di non aver intravisto come possibile un tale fenomeno, i diversi partiti e le diverse organizzazioni che si ritiene rappresentino gli interessi delle masse, sono stati presi alla sprovvista. Si sono trovati nell'incapacita' di dare un contenuto politico coerente allo sciopero generale e non hanno potuto "impedire che l'azione si disperdesse". Cosi', anche se appare difficile preparare a medio termine, per tale giorno e a tale ora, l'inizio di uno sciopero generale, e' opportuno che quest'ultimo venga tenuto in considerazione come un elemento essenziale della prospettiva rivoluzionaria. La sua possibilita' concreta deve essere ricercata in certe circostanze sociali particolari, allo scopo di potere allora dominare e orientare l'avvenimento e di far riuscire per quell'occasione i progetti da cui dipende l'avvento di un "socialismo dal volto umano".
(Parte seconda - continua)
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Numero 42 dell'11 febbraio 2011
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