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Telegrammi. 305
- Subject: Telegrammi. 305
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 6 Sep 2010 01:11:07 +0200
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 305 del 6 settembre 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal
Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della
nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero:
1. Alcuni estratti da "Una rivoluzione nonviolenta" di Danilo Dolci
2. Per
sostenere il Movimento Nonviolento
3.
"Azione nonviolenta"
4.
Segnalazioni librarie
5. La "Carta" del Movimento
Nonviolento 6. Per saperne di piu'
1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "UNA RIVOLUZIONE NONVIOLENTA" DI DANILO
DOLCI
[Riproponiamo (ripresi dal sito www.tecalibri.it) i seguenti estratti
dall'antologia di scritti di Danilo Dolci, Una rivoluzione nonviolenta, Terre di
mezzo, Milano 2007]
Indice del volume
Biografia: Un mondo nuovo potrebbe crescere, diverso, di Giuseppe Barone;
Parole: Perche' i sogni diventino progetti. Un'intervista di Mao Valpiana a
Danilo Dolci; Per una rivoluzione nonviolenta; Dal trasmettere al comunicare;
Massa significa pasta; Il sistema clientelare-mafioso; Il metodo maieutico
reciproco; Il Centro per lo sviluppo creativo "Danilo Dolci".
*
Da pagina 10
Gli anni della formazione
Danilo Dolci nasce il 28 giugno 1924 a Sesana, una localita' del nostro
estremo confine orientale, posta a quel tempo in provincia di Trieste, e oggi in
territorio sloveno. La madre, Meli Kontelj, e' di origini slave, il padre,
Enrico, e' ferroviere: il suo lavoro determina per la famiglia frequenti cambi
di residenza. In Lombardia il giovane Danilo compie i primi studi, conseguendo
il diploma presso un Istituto tecnico e poi la maturita' artistica a Brera. E'
un ragazzo piuttosto introverso e incline alla meditazione, attratto dalla
musica (i Lieder, le partiture per pianoforte dei grandi compositori
dell'Ottocento e, piu' di tutto, Bach). Gli piace nuotare e talvolta marina la
scuola per fare lunghe passeggiate nei boschi. Spesso si sveglia nel cuore della
notte per dedicarsi alla sua passione piu' grande: i libri. In modo in parte
casuale, comincia a costruirsi un percorso di letture che lo conduce a conoscere
Tolstoj e Ibsen, Russell e Voltaire, Seneca e i filosofi presocratici, i
Dialoghi di Platone e i poeti del Romanticismo tedesco, i classici del pensiero
orientale e il teatro di Shakespeare.
Nel 1940 il padre e' promosso capostazione e trasferito a Trappeto, un
piccolo centro costiero del Golfo di Castellammare, posto esattamente a meta'
strada tra Palermo e Trapani. Qui Danilo, durante la chiusura delle scuole,
trascorre alcuni brevi periodi di vacanza, facendo amicizia con i pescatori suoi
coetanei e conoscendo le dure condizioni di vita di quelle terre. Questi
soggiorni, che avrebbero potuto rappresentare solo delle brevi parentesi negli
anni della formazione, gettano invece nel suo animo dei semi che germineranno in
modo vigoroso una decina di anni piu' tardi.
Pur non avendo rapporti con esponenti dell'opposizione clandestina, Dolci
matura presto un forte, ancorche' generico, senso di avversione al fascismo. Nel
tortonese, dove risiede con la famiglia durante la fase iniziale del conflitto,
cominciano a tenerlo sotto controllo: e' stato visto strappare manifesti
propagandistici del regime. Nel 1943 rifiuta di vestire la divisa repubblichina
e tenta di passare la linea del fronte, ma e' arrestato a Genova: approfittando
di un momento di distrazione dei carcerieri, riesce a fuggire riparando in un
piccolo borgo dell'Appennino abruzzese, Poggio Cancelli, dove trova ospitalita'
presso una famiglia di pastori. Li' impara ad apprezzare la loro straordinaria
capacita' di rapportarsi con la natura e di vivere una dimensione autenticamente
poetica.
Al termine della guerra - dopo un breve soggiorno nella capitale, durante
il quale segue corsi universitari di architettura e le lezioni di Ernesto
Buonaiuti - e' di ritorno a Milano, dove prosegue gli studi al Politecnico e
conosce, tra gli altri, Bruno Zevi. Le prime opere che pubblica sono due manuali
di scienza delle costruzioni a uso degli studenti di architettura (Studio
tecnico delle strutture isostatiche e Compendio della teoria del cemento
armato). Per non gravare sulle modeste finanze familiari, insegna presso una
scuola serale a Sesto San Giovanni: tra gli operai che siedono dietro i banchi
c'e' anche Franco Alasia, col quale inizia un importante e fecondo rapporto di
amicizia e collaborazione. "Danilo invito' ciascuno di noi a esprimere opinioni,
a tentare risposte", ricorda Alasia. "Propose di procedere 'a giro', dando la
parola a ciascuno, perche' tutti potessero esprimersi, non soltanto quei pochi
che tendevano ad intervenire in continuazione. Partecipavo non del tutto
consapevole a una delle prime esperienze educative in cui la maieutica socratica
diventava 'sviluppo maieutico reciproco'. Ma forse Danilo stesso, giovanissimo,
pur avendo avuto quella grande intuizione, non ne aveva piena consapevolezza.
Doveva sperimentare anni e anni, per tutta la vita, con i pescatori di Trappeto,
i braccianti e gli 'industriali' di Spine Sante a Partinico o nei bassi di
Palermo e dei paesi dell'interno della Sicilia; con gruppi di giovani, di
scolari e di studenti, nei licei, negli istituti tecnici e nelle universita',
dalla Sicilia alla Calabria, alla Sardegna fino alla Val d'Aosta, alla Svizzera,
alla Svezia, negli Stati Uniti e altrove nel mondo (esiste un'ampia
documentazione). Io allora, piu' di mezzo secolo fa, non sapevo il significato
della parola maieutica, ma ne sperimentavo la qualita' dell'approccio educativo
sulla mia pelle".
Alla fine degli anni Quaranta e' gia' conosciuto e apprezzato autore di
versi: diverse riviste e volumi antologici ospitano i suoi componimenti e nel
1947 e' nella rosa dei finalisti del Premio Libera Stampa di Lugano (organizzato
dall'omonimo quotidiano ticinese), con Andrea Camilleri, Maria Corti, Pier Paolo
Pasolini, David Maria Turoldo, Andrea Zanzotto.
Nel 1948 da' alle stampe un'antologia di massime commentate e divise per
argomento, L'ascesa alla felicita'. Si tratta di un testo giovanile, edito in
modo spartano (il libro e' poco piu' di un ciclostilato), pervaso da un profondo
sentimento religioso, ma che gia' contiene in nuce alcuni dei temi che avranno
poi largo sviluppo nel dipanarsi della sua vicenda: la ricerca di un equilibrio
tra conoscenza scientifica ed espressione artistica e poetica, l'enfasi posta
sul lavoro educativo, la valorizzazione della creativita' individuale e di
gruppo, il rifiuto di ogni netta cesura tra teoria e prassi, tra concreto
operare e tensione utopica. Si colgono, inoltre, gia' con chiarezza le tensioni
che determineranno le decisioni degli anni successivi: "Come puoi essere
felice", si chiede Dolci, "se intorno a te i tuoi fratelli vengono consumati e
travolti dalla fame e dalla miseria?". E la domanda potrebbe persino sembrarci
retorica, se non conoscessimo gia' la sua personalissima, concretissima
risposta.
*
Da Nomadelfia alla Sicilia
Nel 1950 Danilo Dolci compie una scelta fondamentale per tutto il suo
percorso successivo: "Cominciavo a capire che un architetto avrebbe lavorato
solo per i ricchi, per chi aveva i soldi, e non per chi non aveva ne' case ne'
soldi; occorreva dunque fare un altro lavoro, prima dell'architettura e prima
della cosiddetta urbanistica". A un passo dal completamento degli studi (aveva
superato tutti gli esami e stava gia' lavorando alla tesi di laurea), abbandona
l'Universita' e va a vivere a Nomadelfia, "la citta' dove la fraternita' e'
legge": una comunita' di accoglienza per bambini sbandati dalla guerra, sorta
nell'ex campo di concentramento nazifascista di Fossoli (Modena) ad opera di don
Zeno Saltini, apertamente osteggiata dai benpensanti e considerata un pericoloso
covo di sovversivi dalla gretta classe dirigente di quel tempo e dalle stesse
gerarchie cattoliche. Nel 1951 e' ormai uno dei principali collaboratori di don
Zeno e viene incaricato di coordinare i lavori per la fondazione di una nuova
sede della comunita', sul colle Ceffarello, nei pressi di Grosseto.
"Per quattro mesi", scrive la giornalista Antonietta Massarotto, "nella
nuova scuola di architettura dei Piccoli Apostoli studio' appassionatamente il
grande progetto. Venivano interpellati gli uomini, i ragazzi, le donne. Il
plastico urbanistico della futura borgata nacque cosi' linea per linea,
discussione per discussione, dalla comune collaborazione dei millecinquecento e
piu' cittadini di Nomadelfia".
L'anno successivo, una decisione ancora piu' radicale: senza che si consumi
alcuna rottura con don Zeno, Dolci avverte la necessita' di abbandonare quella
che ormai giudicava una sorta di "arca, pur se meravigliosa", separata dal resto
del mondo, e decide di andare a vivere nel paese piu' povero, piu' bisognoso di
soccorso che avesse mai visto: Trappeto.
Nasce il "Borgo di Dio": comincia a essere intessuta una delle vicende piu'
limpide e significative della faticosa rinascita civile e democratica del nostro
Paese dalle devastazioni, non solo materiali, del fascismo e del secondo
conflitto mondiale, "continuazione della Resistenza, senza sparare". Bruno Zevi,
qualche anno dopo, annota: "Evitiamo il pericolo di creare un mito di comodo,
per liquidarlo. Basta dire: 'e' un essere superiore, un apostolo, un eroe' per
sottintendere: 'noi, con lui, non c'entriamo'. Si tratta invece di un architetto
come noi, che ha optato per una via alternativa senza la quale l'architettura
scade nel mestierantismo avaro, perde ogni forza di 'profezia', ogni ruolo di
promozione civile, diviene un mezzo sconsolato per campare magari agiatamente,
ma privi di felicita'".
Le condizioni di vita sono davvero disperate: centinaia di braccianti e
pescatori spesso non guadagnano abbastanza neppure per acquistare il pane, la
mortalita' infantile arriva quasi al dieci per cento, una fogna a cielo aperto
(a pochi metri dalla quale i bambini giocano e trascorrono le loro giornate)
attraversa la strada principale del paese, causando periodiche esplosioni di
epidemie. Cosi' Carlo Levi, ne Le parole sono pietre, descrive il suo arrivo a
Trappeto e l'incontro con Dolci: "Scendemmo con lui al Vallone, per le strade
miserabili e putride, rivedemmo, ancora una volta, come in tanti altri villaggi
e paesi del Sud, la grigia faccia della miseria; gli uomini senza lavoro,
'disfiziati', senza volonta' e desideri, le madri senza latte, i bambini
denutriti e ridotti a scheletri. In via Silvio Pellico, una specie di burrone
scosceso tra catapecchie cadenti, in faccia alla casa dove era stato nascosto,
negli anni scorsi, un famoso bandito, vidi la stanza, simile, come le altre, a
una tana senza luce, dove vive uno dei giovani attirati qui dall'esempio di
Dolci, un musicista di Ginevra che fa il pescatore con i pescatori, su questo
mare ridotto sterile e senza pesci dalla pirateria dei pescatori di frodo,
tollerata benevolmente dalle autorita'. Poco piu' su, un uomo ancora giovane,
dal viso smunto, infreddolito dalla tubercolosi, cercava, avvolto in uno scialle
di lana, di scaldarsi al sole. In quella totale destituzione gli occhi
guardavano tuttavia Danilo con un lume di speranza, e una certa vaga speranza
anche in se stessi mi pareva leggervi di riflesso".
Nell'ottobre del 1952 un bambino, Benedetto Barretta, muore, letteralmente,
di fame. Non e' la prima volta che accade un episodio del genere, ma in questa
occasione Dolci decide che non e' piu' possibile aspettare, o affidarsi, come
era avvenuto sino a quel momento, alle sole attivita' di assistenza messe in
piedi con le donazioni di alcuni amici piu' generosi: "Non si poteva piu'
continuare a inseguire i moribondi, bisognava intervenire". Il 14 ottobre,
sdraiato sul letto dove si era spento il piccolo Benedetto, Danilo Dolci da'
inizio al suo primo digiuno. Alcuni pescatori suoi amici (Paolino Russo, Toni
Alia e altri) si dichiarano pronti a prendere il suo posto, e a proseguire la
protesta, qualora lui fosse morto. La stampa nazionale comincia a definirlo il
"Gandhi italiano". Dolci precisa, tuttavia, che il suo gesto "non si era
prodotto, come hanno pensato molti, in seguito a letture o a riflessioni
mistiche".
E spiega: "Quando ho visto le condizioni disperate di questo bambino sono
corso alla farmacia di Balestrate per cercare del latte da portargli, ma e'
stato inutile. E' morto proprio davanti a me. Allora cominciai a digiunare. Non
c'era un ragionamento preciso, non avevo letto Gandhi, sapevo solo che non
potevo accettare che esistesse un paese senza fognature, senza strade. Anzi le
fognature erano le strade stesse. Volevo manifestare istintivamente la mia
solidarieta'. Avevo la vaga intuizione, ma non la certezza, che nella zona le
cose potessero cambiare. Mi ero messo d'accordo con dei pescatori e con degli
agricoltori che se io fossi morto, sarebbero andati avanti loro. Molta gente
veniva dove stavo io, piangeva e mi chiedeva perche' lo facessi. [...] La gente
sa cosa e' la fame, soprattutto quei siciliani lo sapevano. Io non avevo ancora
l'idea che quello potesse essere un lievito per muovere la gente. Avevo iniziato
a digiunare perche' avrei avuto schifo di me a continuare a mangiare tranquillo
intanto che gli altri morivano. E invece in quell'occasione mi sono accorto
della forza di questo mezzo, che poi ho valorizzato con una coscienza diversa.
Imparai che, a certe condizioni, il digiuno poteva diventare una forza".
Sono trascorsi gia' alcuni giorni, e le condizioni di salute di Danilo
Dolci cominciano a peggiorare, quando un emissario del presidente della Regione
giunge da Palermo a garantire che saranno immediatamente avviati i primi lavori
per migliorare le condizioni di vita degli abitanti di Trappeto: saranno
costruite le fogne e una strada, arrivera' l'acqua potabile. La protesta
finalmente puo' essere interrotta. La situazione per gli abitanti del piccolo
centro del Golfo di Castellammare comincia, lentamente ma in modo chiaro, a
cambiare.
Tra i primi a cogliere appieno il valore di un gesto inusuale per il nostro
Paese e' Aldo Capitini, con il quale si stabilisce un dialogo fitto, intenso,
duraturo: "Tra la povera gente che veniva - talvolta piangendo - in quella
stanza con il pavimento di terra che rischiava di essere sommerso dal vicino
torrente-fognatura, e' arrivata la postina con una lettera, una lettera sola, da
Perugia, da uno che non conoscevo. Nei mesi successivi ho voluto incontrarlo.
Dopo di allora, finche' ha vissuto, non c'e' stata decisione di fondo nel nostro
lavoro a Partinico e nella zona che non sia stata verificata anche con lui: come
ci era possibile data la distanza, per lettera o attraverso incontri
personali".
Nel dicembre del 1952, Dolci - che gia' nel corso della seconda guerra
mondiale aveva rifiutato di imbracciare le armi, anche mettendo a rischio la
propria vita - prende apertamente posizione in favore dell'obiezione di
coscienza, diffondendo un lungo appello e invitando tutti a sottoscriverlo:
"Sento ora necessario dichiarare", leggiamo nel volantino, "che se saro'
chiamato per uccidere o collaborare anche indirettamente alla guerra mi
rifiutero': non voglio essere assassino".
Oltre quarant'anni piu' tardi, a chi gli chiede un giudizio sul valore
dell'obiezione di coscienza, risponde: "Io ho sempre sostenuto che l'obiezione
di coscienza e' importante, ma non e' sufficiente. Preferisco parlare di
obiezione/azione di coscienza. Perche' obiettore sembra solo uno che dice di no,
ma non basta dire solo di no. Cio' che e' essenziale e' produrre alternative.
Certo la difesa del diritto all'obiezione di coscienza e' importantissima (io
sono stato vicepresidente di War Resisters' International per circa tre anni),
ma sempre cercando di portare avanti un lavoro soprattutto preventivo. Questo e'
veramente importante. Perche' il lavoro preventivo e' un lavoro per la salute;
il dire solo di no alla guerra e' intervenire gia' nella malattia, nella
nevrosi. Per diventare delle 'persone', non basta dire no, occorre proprio
sapere dove dire di no e inventare un si'".
*
Da pagina 71
Per una rivoluzione nonviolenta
Chi si spaventa quando sente dire
rivoluzione,
forse non ha capito.
Non e' una sassata a una testa di sbirro,
sputare sul poveraccio
che indossa una divisa non sapendo
come mangiare;
non e' incendiare il municipio
o le carte al catasto
per andare stupidi in galera
rinforzando il nemico di pretesti.
Il dominio e' potere malato -
cresci soltanto quando ti maturi
corresponsabile:
la gente non e' suolo ma semente.
Quando senza mirare ti agiti
la rivoluzione viene a mancare;
se raggiungi potere e la natura
dei rapporti rimane come prima,
viene tradita.
E' conquistata ad ogni istante quando
creature si organizzano
estinguendo ogni zecca.
Da Se gli occhi fioriscono, Bologna, Martina, 1997, p. 29.
*
Una complessa strategia
Non e' difficile trovare architetti disposti a costruire case per chi ha
soldi, economisti pronti ad aumentare il danaro dei ricchi, sociologi
disponibili a collaborare con chi sfrutta affinche' lo sfruttamento avvenga con
meno difficolta', strateghi o diplomatici disponibili a far propria la causa dei
forti. D'altra parte non e' difficile trovare candide persone che credono si
possa cambiare gli ingiusti privilegiati e gli sfruttatori prepotenti con le
prediche. Si incontrano a un estremo esperti di aumento di produzione e reddito,
impegnati a realizzare sviluppo in particolari settori, il cui scopo e'
conseguire il massimo guadagno con il minimo sforzo: perlopiu' presentati come
scienziati o tecnici, spesso non sono che quadri piu' o meno abili dello
sfruttamento, o alleati che facilitano loro il compito realizzando reti di
opportuni servizi. Dall'altro estremo e' facile incontrare sognatori impotenti,
sfocati, o evasivi, con premura di trovare panacee universali; o educatori
impegnati in un lavoro di sviluppo personale o settoriale che prescinde, o
quasi, dalla necessaria trasformazione delle condizioni ambientali
globali.
Alla solidita' chiusa dei primi corrisponde la genericita' effimera o
l'insufficenza dei secondi.
A livello locale, nazionale e internazionale, in un contesto transnazionale
- i problemi trapassano ormai in ogni modo frontiera -, occorrono nuovi esperti
capaci di promuovere e operare dalle singole situazioni, allargandosi via via
con le popolazioni potenzialmente interessate, esatte diagnosi e necessari
interventi: capaci di lavoro di gruppo, attenti all'intrecciato insieme dei
problemi, sensibili sia agli aspetti quantitativi, sia alla qualita' dello
sviluppo, cioe' veri esperti di valorizzazione. E soprattutto, a evitare inutili
e dannosi conflitti, capaci di intuire quando e come sia possibile operare prima
che le situazioni si deteriorino, si sfascino.
Intervenire, a livello locale come a livello internazionale, quando le
situazioni sono gia' gravemente compromesse e i rapporti sono ormai corrotti o
addirittura saltati, e' naturalmente piu' difficile. Non pochi d'altronde
desiderano prepararsi per dare un senso profondo alla propria vita e operare con
competenza efficace alla realizzazione di una vita nuova, di tutti, con nuove
prospettive.
La costruzione di una nuova societa' che viva in modo pacifico, ovviamente
non puo' significare l'assenza di conflitto o lo status quo. Quando si mira a
una societa' pacifica, penso, si mira ad una societa' nonviolenta, cioe' a una
societa' che strutturalmente tenda a eliminare quelle violenze dirette o
indirette (come la guerra, il razzismo, lo sfruttamento) che impediscono lo
sviluppo; e nel contempo a una societa' in cui, chi risulti in qualsiasi modo
impedito, tenda a impegnarsi - nei conflitti che stima necessari - in modo
nonviolento.
La complessa strategia per operare trasformazioni nonviolente richiede
capacita' specifiche, ad esempio:
1) Saper promuovere "coscientizzazione" nelle popolazioni interessate,
precisa autoanalisi popolare, scoprendo zona per zona le tecniche piu'
adatte.
Occorre che ciascuno sappia riconoscere i problemi essenziali: ciascuno, ad
esempio, dovrebbe avere esattissima coscienza di come nel suo ambiente si forma,
e viene esercitato, il potere. Ogni zona, ogni problema, richiede uno studio a
se', approfondito, per sapere ad esempio come impostare la ricerca dei dati
essenziali, la proposta di nuovo sviluppo, la discussione popolare di queste
proposte, le possibili azioni costruttive, le piu' opportune pressioni.
2) Saper promuovere tra chi e' debole perche' solo, isolato, la sua
partecipazione ai diversi gruppi (locali e non) in cui, integrato, possa
valorizzarsi sulla base dei suoi piu' profondi interessi; mirare alle piu' vaste
dimensioni, agli obiettivi piu' complessi, sapendo come occorre iniziare
trovando i punti piu' saldi su cui far leva.
3) Saper promuovere e interrelare nuovi gruppi aperti, democratici,
valorizzatori di ciascun membro, e all'esterno.
4) Saper riconoscere e sviluppare i piu' profondi valori, e le persone che
li incarnano, ove sono, spesso silenziosi e nascosti: riuscendo a sostituire al
modello violento imposto i modelli ideali nonviolenti.
5) Saper promuovere assunzione di responsabilita' nelle popolazioni per una
precisa azione di denuncia dei fatti e dei fenomeni relativi alle strutture
violente, anche facendo leva sulle "carte" e le leggi, internazionali o
nazionali, gia' esistenti.
6) Saper ogni volta inventare le piu' efficaci forme di pressione
nonviolenta: attente a elevare il livello dei conflitti da parte di chi li muove
(tendendo a elevarli anche negli avversari violenti, se non si vogliono scoprire
all'opinione pubblica per quello che sono).
7) Saper promuovere nuovi gruppi di gruppi.
8) Saper promuovere zona per zona, con metodi che variano secondo il grado
di maturita' acquisita dalle popolazioni, una pianificazione democratica,
organica, col massimo di partecipazione creativa da parte di ciascuno, individuo
o gruppo.
9) Saper operare con la necessaria dialettica tra azione maieutica
all'intorno, e assunzione personale di responsabilita'.
10) Saper contribuire a promuovere o consolidare la formazione di necessari
centri di coordinazione mondiale - non necessariamente di potere - e la
coordinazione tra loro stessi.
Non e' possibile prevedere se gli uomini sceglieranno di sopravvivere o di
suicidarsi: ma se sceglieranno la vita - per paura se non per amore - questa
scelta significhera' l'invenzione sempre piu' scientificamente organica
dell'azione e della rivoluzione (cioe' anche di una cultura e di una morale)
nonviolenta.
A chi obietta che finora nella storia non sono stati possibili cambiamenti
strutturali con metodi nonviolenti, che non sono esistite rivoluzioni
nonviolente, occorre rispondere con nuove sperimentazioni per cui sia evidente
che quanto ancora non e' esistito in modo compiuto, puo' esistere. Occorre
promuovere una nuova storia.
Da Non sentite l'odore del fumo?, Bari, Laterza, 1971, pp. 87-90.
*
Da pagina 75
Per una rivoluzione nonviolenta
Molto spesso, nelle piu' diverse parti del mondo, non si sa che lo sviluppo
e' possibile, non si sa esattamente come e' possibile: e le situazioni
all'estremo o permangono statiche, come in molte delle zone chiamate
sottosviluppate - o, se migliorano in qualche modo, non sono autopropulsive -; o
hanno una dinamica coi paraocchi, come avviene perlopiu' nelle zone a intensa
industrializzazione, concependo quasi come fatale un particolare tipo di
sviluppo. In un caso o nell'altro manca perlopiu' alle popolazioni interessate
la conoscenza esatta dei loro problemi e la visione delle possibili alternative.
Le popolazioni soffrono i loro problemi e, in quanto questi rimangono irrisolti,
crescono condizioni insane, grumose, talvolta mostruose: e ci si dibatte, spesso
ciecamente, o d'istinto a tentoni, talvolta ci si scatena frenetici quando la
sensazione del male e' tanto acuta da generare panico, incapaci di trovare con
la necessaria serena concentrazione gli spiragli delle soluzioni. Tutto questo
ci e' piu' chiaro quando vediamo una vespa o un uccello sbattersi disperatamente
contro la rigidita' dei vetri pur quando la possibilita' di uscirne dovrebbe
essere evidente: molto meno chiaro quando noi ci sentiamo prigionieri e come
incapaci di riconquistare il nostro libero movimento, il giusto ritmo del nostro
respiro.
Pensare che il mancato cambiamento sociale sia sempre e solo imputabile
alla incapacita' di sviluppo delle persone, categorie, classi, popolazioni piu'
sofferenti, e' ovviamente falso: le stesse persone, o categorie, classi,
popolazioni, quando siano eliminati i fondamentali impedimenti che li
costringono come dal di sopra, hanno piu' facili possibilita' di sviluppo.
Pensare d'altronde che il mancato cambiamento sia sempre e solo imputabile a
persone conservatrici, o categorie, classi, popolazioni, ed ai piu' o meno
complicati intrighi messi da loro in atto, e' altrettanto falso: e diminuisce il
necessario senso di responsabilita', tende a eliminare la necessaria analisi di
quegli impedimenti allo sviluppo che pur possono essere presenti in chi e'
oppresso. In molte situazioni infatti la grande maggioranza delle persone e'
malcontenta, ma non riesce a trasformare il proprio malcontento in una nuova
forza propulsiva, capace di vincere gli impedimenti esterni al proprio
sviluppo.
Se per cambiamento sociale intendiamo quella modifica delle condizioni
umane per cui ciascuno, individuo o gruppo, abbia maggiore possibilita' di
realizzare la propria personalita' - dunque maggiori possibilita' economiche,
ambientali, giuridiche, culturali, morali - e' comunque ovvio che molto spesso
l'impedimento fondamentale e' costituito da una resistenza al cambiamento
operata, consapevolmente o ciecamente, dagli interessati - individui o gruppi -
a che il cambiamento non avvenga: resistenza che molto spesso si esercita
attraverso strumenti e metodi violenti.
Operare per un cambiamento sociale pacifico significa impegnarsi
soprattutto affinche' i piu' direttamente interessati al cambiamento riescano a
organizzarsi per diagnosticare quali esattamente siano, caso per caso, gli
impedimenti allo sviluppo, e stabilire i propri obiettivi, globali e intermedi;
per inventare quelle strategie e quei metodi che possano permettere di impostare
esattamente i necessari conflitti e la loro soluzione; per riuscire a uscire dal
pragmatismo qualunquista attraverso un'azione costruttiva ben finalizzata. Non
ignorando che viviamo in un'epoca di transizione in cui l'umanita' sempre piu'
facilmente puo' ottenere, attraverso la tecnica, gli strumenti della propria
distruzione o del proprio sviluppo.
Quando si dice giustizia, si intende solitamente riferirsi a due
significati diversi: corrispondere alle piu' profonde necessita', al piu'
profondo interesse di ciascuno, persona o gruppo, con senso di responsabilita';
o il complesso delle leggi e degli strumenti che dovrebbero rappresentare il
minimo proposto dai diversi governi. Si tende a istituzionalizzare le piu'
profonde intuizioni morali: il secondo significato rincorre, sia pure talvolta
contraddittoriamente, il primo. La giustizia come la pace, non viene mai
sufficientemente realizzata. La disperazione uccide: niente uccide quanto la
disperazione.
La nuova intuizione morale identifica ingiustizia e violenza: l'impedire,
direttamente o indirettamente, lo sviluppo delle persone, dei gruppi, delle
collettivita'. In quanto il mondo per gran parte e' inaccettabile, la nuova
morale, necessaria agli uomini se vogliono sopravvivere, identifica la giustizia
col cambiamento sociale e, dove l'ingiustizia e' piu' grave, con la rivoluzione
nonviolenta: cioe' con un cambiamento che al contempo sia strutturale, profondo,
rapido, educativo per ciascuno, per cui ciascuno possa assumersi responsabilita'
e effettivo potere. Identifica la giustizia con una nuova pianificazione operata
creativamente da ciascuno, individuo e gruppo, che sia l'effettivo superamento
degli attuali tentativi di "razionalizzazione del sistema". Identica la
giustizia con il fare esplodere, dove necessario, le inaccettabili
contraddizioni.
Da Non sentite l'odore del fumo?, Bari, Laterza, 1971, pp. 93-96.
*
Da pagina 106
Il sistema clientelare-mafioso
Esistono contrade
ove si commercia una femmina
soldi alla mano, o buoi;
zoppica taluno
perche' agli schiavi che tentano liberarsi
e' segato un tendine;
si mozza la lingua a chi parla troppo,
si tronca al rivale il genitale
col falcetto per porgerlo monile
prestigioso all'amata;
all'albero si impicca chi e' sorpreso
a delinquere (basta uno strappo
e il collo inturgidisce violaceo);
in piazza la gente crocefissa
perche' diversa,
sotto gli avidi voli degli avvoltoi
per giorni e giorni si dissangua.
Nelle contrade ove
solo le foglie pendono dagli alberi,
le amate sono ornate con asettiche
palline di vetro o perle, col Sidol
i crocefissi sono lucidati -
si contratta la gente con pudore
viene ossequiato chi sa derubare
senza sfilare agli altri il portafoglio,
chi e' diverso si acqueta nella droga
(con urbane maniere:
si drogano o li drogano in privato),
ridacchiando dei barbari
si elegge
il piu' furbo a mentire,
Presidente.
Da Poema umano, Torino, Einaudi, 1974, pp. 202-203.
*
Criminalita' privata e criminalita' di Stato
L'angosciosa crisi del nostro tempo non deriva per gran parte dallo
smarrimento di chi appura insufficienti le antiche norme di comportamento,
mentre ancora gli mancano gli strumenti metodologici per concretare le
nuove?
Se uno arriva a una scelta inusuale, perche' no? Se responsabilmente
consapevole. Ma sovente uno non sceglie, si appoggia a consuetudini che gli
impongono gia' da piccolo, quando non sa, diventa adulto senza domandarsi il
perche' di quelle consuetudini non sue: condannare o lapidare gli altri, in
questi casi, e' rifiutare a priori la vita civile.
L'angoscia non arriva dalla solitudine dello smarrirsi nei labirinti ciechi
dei vecchi Castelli e dei moderni Palazzi dei Processi sbagliati in quanto
agiscono sugli effetti invece che sulle cause?
Non si e' disintegrata un'armonia.
I tentativi di restaurazione dispotica nel mondo ora perlopiu' avvengono
ipocritamente: dietro lo scudo degli abusati simboli cristiani, o islamici, o
chissa' quali altri, si tacciono o manipolano essenziali informazioni, si
camuffa l'inoculare affermando che sia comunicare, e cosi' via.
La protesta esasperata si amplifica e diffonde. Ove la protesta diviene
dominante senza al contempo saper avviare alternative valide, si accelera lo
sfascio.
La grande svolta, lentamente si evidenzia, puo' avvenire nel rifiutare
l'opinione che l'uomo "ha bisogno di un padrone"; nel respingere l'opinione che
l'uomo e' "come un legno storto" da cui "non puo' uscire nulla di interamente
diritto"; nel rigettare il pregiudizio che il dominio sugli uomini e'
necessario, col relativo rapporto fra comando-comandamento e
obbedienza-sudditanza. La grande svolta puo' avvenire elaborando un'etica la
quale affermi necessario che ognuno impari a comunicare, impari a crescere
creativo, mentre apprende a coorganizzarsi: un'etica che consideri crimine il
dominio, l'assuefare "le masse al dominio", l'esaltazione della "volonta' di
dominio" - del Superuomo o dello Stato, sul branco -, mentre l'alternativa
cresce dall'apprendere la creativita' comunicante nelle strutture
valorizzatrici.
La gente ha cominciato a non credere piu' al padrone, al dominio, alle
verita' imposte? Ma ancora non sa esercitare la coorganizzazione maieutica, non
sa ancora uscire dalle proprie nicchie a organizzarsi in fronti atti a risolvere
i propri profondi interessi. E' arduo inventare soluzioni inedite alle piu'
ampie scale, alla ormai necessaria misura planetaria, valorizzando da ogni parte
l'insieme. Piu' che la tolleranza interculturale, la ricerca maieutica in comune
tra gente diversa aiuta alla verifica-composizione di scelte pur etiche.
Se un bambino viene addestrato dai genitori a rubare nelle tasche e nelle
case degli altri, crescendo in un contesto simile (come in certi quartieri di
Palermo) e' presumibile che cerchera' di imparare credendo di far bene.
In occasione della recente Marcia per la pace, contro la mafia a Reggio
Calabria, ho pensato opportuno a meta' del percorso andare in macchina con un
amico ad Archi (paese dove si spara di frequente, meta della marcia) per cercare
di ascoltare i ragazzi nella piazza cosa pensavano. Sostanzialmente dicevano:
"Arrivano i provocatori".
Un mio amico che insegna in una scuola elementare li' vicino, mi racconta:
"Durante l'intervallo per la colazione, in un gruppetto impegnato in una
discussione animata, Z. F. di anni 8 si accalora: '... e' uno che non meritava
nessuna pieta'!... lo avete visto tutti come era grasso e ben pasciuto quando e'
tornato a casa.... lo hanno trattato come un principino e lui che cosa fa per
tutta riconoscenza? Si mette a fare la spia, il bastardo!... Avrebbero fatto
meglio ad ammazzarlo: stavano tutti piu' tranquilli e lui imparava a farsi i
fatti suoi'". Parlano di Cesare Casella e del sopralluogo effettuato con lui in
quei giorni nelle zone del sequestro. Nessuna meraviglia. E' molto difficile
riuscire a pensare diversamente da quanto un certo tipo di istituzione ci
inculca.
Ancora lo Stato italiano insiste a sparare (quando e' costretto dal clamore
di certi fatti), come avviene soprattutto in Calabria, contro gente che, nella
grandissima maggioranza, se avesse vero lavoro e una diversa educazione,
preferirebbe non avere a che fare con armi e sequestri. Mentre l'articolo 4
della Costituzione assicura: "La repubblica riconosce a tutti i cittadini il
diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo
diritto".
Di fatto, in certi luoghi la disoccupazione degli adulti arriva al 35 per
cento, quella giovanile al 51 per cento: sono dati dichiarati ufficialmente. Che
lo Stato uccida la gente disperata e' particolarmente criminale.
Il caso della maestra che tappa la bocca ai piccoli con lo scotch, e li
lega alla sedia, e' un misero caso di criminalita' privata: da una persona,
probabilmente malata, i ragazzini vengono impediti nello sviluppo della propria
creativita'. Ma se le scuole pubbliche pretendono sistematicamente di inquadrare
aggiogando milioni, miliardi di creature, questa risulta criminalita' di Stato,
usurpazione del diritto e del potere personale e collettivo.
Quale educare e' mai persuadere o dissuadere? L'ammaestrare, come si fa con
scimmie e pappagalli in gabbia, non e' esercizio del potere, reciproca influenza
del comunicare in cui ognuno cresce, ma tipico dominio che implica la
non-liberta' degli altri.
La violenza puo' apparire "il mezzo piu' risolutivo" sul momento, ma tale
non risulta in prospettiva. I valori si possono mai inculcare? Attraverso "i
valori che si inculcano" si puo' mai "compiere un processo di socializzazione"?
Che tipo di sapiente e' mai "chi inculca l'inferiore"?
Dal primo Novecento, come e' noto, si diffonde l'esigenza del suffragio
universale - ognuno, uomo o donna, partecipi a votare -; i conflitti operai
reclamano via via una piu' equa distribuzione del reddito e una maggiore
sicurezza sociale per i piu' deboli mentre, soprattutto quando avvampano guerre,
lo Stato si impone come industria militare, apparato
tecnologico-poliziesco.
La ricchezza di alcune famiglie puo' non significare affatto il benessere
di tutti i governati. Lo Stato moderno, pur se si ammanta di democrazia, sovente
sta diventando una macchina burocratica in cui "il governo" dipende di fatto,
direttamente o indirettamente, dal grande capitale, dai maggiori padroni che
influenzano - con peso occulto e attraverso i media - le decisioni fondamentali:
quando le esigenze sociali non vengano affermate e difese da organismi popolari,
ove la gente coraggiosamente si sveglia.
La "ragione di Stato" non esprime potere razionale, ma le patologiche
convinzioni dei dominatori, esprime volonta' di dominio. Lo Stato pretende di
incrementare il proprio dominio "a scapito di ogni altra finalita'". Su questa
scia si potra' incontrare, non ironico, un libro intitolato Le ragioni della
mafia.
2. APPELLI.
PER SOSTENERE IL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Sostenere finanziariamente la segreteria nazionale del Movimento Nonviolento e' un buon modo per aiutare la nonviolenza in Italia. Per informazioni e contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org
3. STRUMENTI. "AZIONE NONVIOLENTA" "Azione nonviolenta" e' la rivista del Movimento Nonviolento, fondata
da Aldo Capitini nel 1964, mensile di formazione, informazione e dibattito sulle
tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo.
Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail:
an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 30 euro sul ccp n. 10250363 intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona. E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail all'indirizzo
an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto
"copia di 'Azione nonviolenta'". 4. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riedizioni
- Michel Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al
College de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano 2004, 2010, pp. 416, euro
13.
- Hans Kung, Walter Jens, Della dignita' del
morire, Rcs Libri, Milano 1996, 2010, pp. 188, euro 9. 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e
internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento
dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della
creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo
di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 305 del 6 settembre 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
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