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Coi piedi per terra. 260
- Subject: Coi piedi per terra. 260
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 12 Jun 2010 10:00:29 +0200
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COI PIEDI PER TERRA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 260 del 12 giugno 2010
In questo numero:
1. Giuseppe Fava: i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa
2. Per contattare il comitato che si oppone al mega-aeroporto di Viterbo e
s'impegna per la riduzione del trasporto aereo 1. MEMORIA. GIUSEPPE FAVA: I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE
MAFIOSA
[Quello che qui si ripubblica ancora una volta e' un indimenticabile
articolo che ha il valore di un documento storico del grande giornalista e
scrittore catanese Giuseppe Fava, I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa,
pubblicato originariamente nella rivista "I Siciliani", n. 1, nel gennaio 1983.
Un anno dopo Giuseppe Fava fu assassinato dalla mafia. E', a nostro avviso, un
testo di importanza fondamentale. E per molti motivi. E certo non e' casuale che
esso col titolo "La ballata dei cavalieri" costituisca il capitolo finale e
culminante dell'ultimo grande libro di Fava: Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa,
una sorta di vero e proprio testamento politico e morale che Fava lascia al
movimento antimafia, e a tutte le donne e gli uomini di volonta' buona.
Giuseppe Fava e' nato a Palazzolo Acreide (Siracusa) il 15 settembre 1925.
Laureato in giurisprudenza nel 1947, giornalista professionista dal 1952,
redattore e inviato speciale nei settori di attualita' e di cinema per riviste
come "Tempo illustrato" e "La domenica del Corriere", corrispondente di
"Tuttosport", variamente collaboro' a "La Sicilia", dal 1956 al 1980
capocronista del quotidiano "Espresso sera". Drammaturgo, romanziere, autore di
libri-inchiesta; nel 1975 ottiene grande successo il suo romanzo Gente di
rispetto; nel 1977 pubblica un altro grande romanzo: Prima che vi uccidano. Nel
1983 pubblica L'ultima violenza, da molti considerato il suo capolavoro
drammaturgico. Nei primi anni '80 si consuma l'esperienza di direzione del
quotidiano catanese "Giornale del Sud", due anni di limpide battaglie civili,
antimafia e pacifiste, ed una rottura conclusiva di testimonianza esemplare. Nel
gennaio del 1983 esce il primo numero del mensile "I Siciliani" che Fava fonda
con un gruppo di giovani: sara' una delle esperienze decisive per il movimento
antimafia che si sta formando in Italia, e resta un punto di riferimento
fondamentale. Il 5 gennaio 1984 Pippo Fava e' assassinato dalla mafia a Catania.
Opere di Giuseppe Fava: I. Opere letterarie e teatrali di Fava pubblicate in
volume: Pagine, Ites, Catania 1969; Gente di rispetto, Bompiani, Milano 1975;
Prima che vi uccidano, Bompiani, Milano 1977; Passione di Michele, Cappelli,
Firenze 1980; Teatro, Tringale, Catania 1988; II. Libri-inchiesta: Processo alla
Sicilia, Ites, Catania 1967; I Siciliani, Cappelli, Firenze 1980; Mafia. Da
Giuliano a Dalla Chiesa, Siciliani Editori - Editori Riuniti, Roma 1983; III.
Opere teatrali di Giuseppe Fava messe in scena: Vortice - Le vie della gloria,
Palazzolo Acreide 1947; La qualcosa, Catania 1960; Cronaca di un uomo, Catania
1967; La violenza, Catania 1970; Il proboviro, Catania 1972; Bello bellissimo,
Catania 1974; Opera buffa, Taormina 1977; Delirio, Catania 1979; Foemina ridens,
Catania 1981; Ultima violenza, Catania 1983; Maffia - Parole e suoni, Catania
1984; Sinfonie d'amore, Catania 1987; IV. Opere teatrali di Giuseppe Fava mai
rappresentate: La rivoluzione; America America; Dialoghi futuri imminenti; Il
Vangelo secondo Giuda; Paradigma; L'uomo del Nord (incompiuta). [Questa nota e'
ripresa dal libro di Rosalba Cannavo', di seguito segnalato]. Opere su Giuseppe
Fava: Claudio Fava, La mafia comanda a Catania, Laterza, Roma-Bari 1991; Idem,
Nel nome del padre, Baldini & Castoldi, Milano 1996; Nando dalla Chiesa,
Storie, Einaudi, Torino 1990 (e particolarmente il capitolo primo, "I carusi di
Fava"); Riccardo Orioles, L'esperienza de "I Siciliani", in Umberto Santino (a
cura di), L'antimafia difficile, Centro siciliano di documentazione Giuseppe
Impastato, Palermo 1989; Rosalba Cannavo', Pippo Fava. Cronaca di un uomo
libero, Cuecm, Catania 1990]
Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente
siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori
della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la nazione, bisogna
prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta,
nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio
intendere tutto bisogna prima capire e identificare le prede della mafia nel
nostro tempo. Una breve storia, terribile e pero' mai annoiante, poiche'
continuamente vedremo balzare innanzi, come su un'immensa ribalta, tutti i
personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello e' qui di casa) nel gioco
delle parti.
Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie
perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune fatali
complicita' organizzative. L'una categoria raggruppa tutte le tradizionali
vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell'economia, i cosiddetti
"racket", che controllano quasi tutte le attivita' economiche di una grande
citta': i mercati generali; le concessionarie di prodotti industriali, auto,
elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night; e su ogni
attivita' impongono una taglia, una specie di tassa che l'operatore economico e'
costretto a pagare se non vuole correre il rischio di vede bruciare la propria
azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In taluni casi d'essere
ucciso.
Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, pero' frantumati
e dispersi in un'infinita' di rivoli e canali. Un apparato mafioso che
lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola inquinando anche le grandi
citta' del nord, oramai da anni anch'esse violentate da sparatorie, stragi,
violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali emigrati dalla
Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. E' la mafia cosiddetta dei manovali, senza
vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna per il predominio in
un quartiere o un settore.
Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi
di imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro e' fatale.
Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che insanguina un
quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione da una grande
citta' all'altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i rackets in lotta
cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra consanguinei, amici, parenti,
fratelli. Una caratteristica di questa mafia e' infatti la presenza costante
della famiglia, cioe' del rapporto di parentela fra molti membri dello stesso
clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse senza nemmeno voler essere cinico:
"Una buona famiglia meridionale all'antica, in cui sono ancora molto forti i
sentimenti tradizionali della famiglia, puo' costruire un racket mafioso di
tutto rispetto. E' piu' temuta!". Questo spiega anche talune agghiaccianti
efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un filo elettrico in
modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi genitali resecati e
infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi all'uscio di casa. Una
crudelta' che scaturisce dall'odio definitivo di chi ha visto cadere per mano
avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non ha possibilita' di
pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura mortalmente fino al
fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia trovato scampo lo
sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguitera' fino nella piu' profonda
cella di carcere.
E' la mafia che miete la quasi totalita' delle vittime, centinaia, forse
migliaia ogni anno in tutte le citta' della Sicilia e dell'Italia. Quasi tutte
le vittime sono anch'esse creature criminali, o loro complici, talvolta anche
avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o professionisti che in
un modo o nell'altro si sono lasciati adescare e sottomettere da un racket
mafioso. Al momento in cui quel racket entra in guerra cadono anche le loro
teste. E' una malia che sembra animata da una tragica vocazione al suicidio e
tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetida tenia oramai intanato
nel ventre della nazione, dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e
ricresce. Sociologicamente sarebbe forse piu' esatto definirlo gangsterismo ma,
come ora vedremo, esso e' pero', mortalmente, indissolubilmente legato, proprio
in un rapporto fra manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso.
E qui c'e' il salto di qualita', diremmo di cultura criminale, fra le prede
mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le
nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della
mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due:
il denaro pubblico e la droga. Il distacco e' vertiginoso. E' come se un grande
corpo, un grande animale, lo Stato italiano, mai morto e continuamente in
agonia, fosse divorato ancora da vivo. In basso c'e' un brulicare orrendo di
vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo misterioso e terribile dei
mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore della vittima. Non riesco a
trovare un paragone piu' amabile ed egualmente preciso.
*
La droga anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il
petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che la
droga coinvolge si puo' fare solo nell'ordine di decine di migliaia di miliardi.
La contaminazione del vizio oramai e' intercontinentale, dall'Asia all'Africa,
all'Europa, alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili. Si calcola che ci
siano al mondo circa cento milioni di persone, molte oramai tossicodipendenti,
che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo ciascuna in media (ma la
valutazione forse e' troppo esigua) circa diecimila lire al giorno. Sono mille
miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi l'anno. Una cifra che fa paura. Molto
piu' alta del bilancio di una grande nazione industriale. I guadagni sono
anch'essi incalcolabili. Secondo gli studi attuali un quantitativo di cocaina,
acquistata alle fonti di produzione per poco piu' di un milione, dopo la
raffinazione puo' valere sul mercato da due a tre miliardi, secondo la purezza
del prodotto.
E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per capire
appieno la imponenza del fenomeno-droga su scala mondiale, un evento quotidiano
che minaccia di deformare la societa' contemporanea. Ogni anno centomila esseri
umani, per lo piu' giovani o addirittura adolescenti e ragazzi, muoiono per
causa della droga; almeno nove o dieci milioni diventano irrecuperabili alla
vita sociale, sia per la loro definitiva incapacita' intellettuale o
inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro costante pericolosita', cioe' la
disponibilita' a qualsiasi proposta criminale. Milioni di famiglie vengono
praticamente distrutte poiche' quasi sempre, accanto alla pietosa tragedia del
ragazzo drogato, c'e' la infelicita' di un intero gruppo umano, i genitori, i
fratelli, la moglie, per i quali il recupero - spesso impossibile - del
congiunto diventa una costante di dolore e disperazione.
La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della
nostra societa', la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno
trasformando in luogo di autentico contagio. Punti fermi della grande struttura
civile collettiva vengono cosi' destabilizzati, ed e' tutta la struttura che
comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello internazionale contro
la droga, esige un prezzo che diventa sempre piu' insostenibile; migliaia di
giornate lavorative perdute, migliaia di uomini, magistrati, studiosi,
poliziotti, medici, mobilitati costantemente per arginare l'avanzata della
droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta sperperati, per tenere in vita
ospedali, centri di emergenza, istituti e cliniche di recupero umano e sociale.
E su tutto questo oceano, sporco e insanguinato di denaro, che scorre
ininterrottamente da un continente all'altro, l'ombra invulnerabile della
mafia.
Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l'immenso affare. Dapprima nelle
grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul,
la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente
anche in Sicilia. L'isola e' nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio
obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall'area afroasiatica verso
le grandi nazioni dell'occidente. Per qualche tempo in Sicilia la mafia si e'
limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e
reimbarco, sicurezza e rapidita' in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio
una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene
la mafia pretende una tangente dai concessionari perche' possano svolgere il
lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per
fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comporto' allo
stesso modo per la droga. Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva,
copriva, incassava la sua tangente, faceva i conti, cercava di capire
perfettamente l'ingranaggio. Forse c'era una residua repugnanza morale (siamo in
Sicilia dove ogni paradosso psicologico e' possibile) verso un affare che era
portatore di morte e dolore per un'infinita' di esseri umani, soprattutto
giovani. Ma anche senza complicita' mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo stesso
per tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e
l'ultima repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche
in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e
aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato: la ricerca alle fonti di
produzione, la creazione di stabilimenti segreti per la raffinazione della droga
e la spedizione nelle grandi capitali dell'occidente. In quell'attimo compi' un
salto di cultura criminale che avrebbe fatto tremare l'Italia.
Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume
travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti, che
si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni, mettendo
radici sempre piu' profonde, integrando gradualmente e infine totalmente anche
camorra napoletana e 'ndrangheta calabrese, coinvolgendo definitivamente una
massa di uomini sempre piu' vasta, la mafia ha creato una struttura criminale
che, per le sue proporzioni e per il suo distacco da quella che e' la logica
comune, appare quasi un congegno di fantascienza. In verita' molte componenti di
questa struttura si sono determinate quasi per forza di cose, per la
concatenazione fatale di un gioco d'interessi, ma c'e' voluta indubbiamente una
grande capacita' di fantasia per intuire questa forza delle cose e questa
concatenazione d'interessi e costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto
che la mafia del nostro tempo ha genio. Anche il demonio ha genio. Negarlo
sarebbe diminuire il merito di Domineddio.
Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti
l'uno all'altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno. Cominciamo
dal basso. Il livello piu' propriamente criminale: gli specialisti
dell'assassinio.
Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto. Per gestire valori
economici cosi' imponenti, legati all'impunita' della produzione e del traffico
di migliaia di tonnellate di droga e' indispensabile un controllo costante e
totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un ostacolo, un rischio,
una trappola. E' necessaria quindi una folla di complicita' dovunque, in ogni
settore della societa', criminali comuni, impiegati del fisco, piccoli armatori
marittimi, dipendenti delle linee aeree, funzionari dello stato, probabilmente
anche funzionari di polizia, magistrati, ufficiali di finanza, amministratori di
enti locali, sindaci, assessori. Tutti costoro stanno al livello che abbiamo
detto della manovalanza criminale, ognuno pagato e ricattato per suo conto,
all'interno di un gruppo che garantisce il dominio di un piccolo territorio o
quartiere della citta'.
Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno pero' con piccoli compiti,
avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione
soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppo si
scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora accade
l'ecatombe, trenta, quaranta assassinii finche' un gruppo viene sterminato e la
supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi dei
Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l'assassinio di Alfio Ferlito, assieme ai
tre carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal carcere di Enna a
quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie piu' feroci per aggiudicarsi
la supremazia in una grande area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di
Stefano Bontade e Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una
catena di cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che ha
visto la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i
vincenti, i padroni del clan, sono poco piu' di subappaltatori dell'immenso
palinsesto mafioso: governano l'impresa criminale su una zona, conoscono alcune
segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del potere.
La loro autentica forza e' la capacita' di uccidere, disporre di trenta,
quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi piu' micidiali e
all'occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilita'. Capimastri,
non di piu'! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella
stanza dei progetti.
Molto piu' in alto dei cosiddetti uccisori c'e' il livello dei pensatori,
con la lontananza, il distacco di autorita' che puo' esserci tra una fanteria
alla quale e' affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare,
morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la
grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa strategia e' la
riciclazione del denaro continuamente prodotto dall'operazione droga, cioe' la
fase ultima e piu' delicata, quella appunto che esige una autentica capacita'
tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di miliardi
che, per essere immessi nel mercato economico e diventare usufruibili, debbono
passare attraverso una serie di operazioni legali che li assorbano e magicamente
li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento, ci vuole fantasia, competenza
tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa.
*
Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese
economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo
celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano (cento miliardi
provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone miseramente
morte o uccise, e migliaia di infelicita' umane, possono essere impiegati per la
costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga, un'autostrada). Le banche
gestite e controllate dallo stato difficilmente potrebbero (ma non e' detto che
non possano) poiche' c'e' sempre il rischio di un funzionario di vertice che
indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le banche private. Talune banche
private ovviamente. Non a caso Sindona aveva la vocazione di creare banche, ne
aveva l'estro, la fantasia. Il giorno in cui dovesse decidere di raccontare
finalmente tutta la verita', molti imperi finanziari vacillerebbero. E in
realta' Sindona, invecchiato, gracile, stanco, terrorizzato, preferisce starsene
in un tiepido carcere americano. All'aria aperta, in liberta', non avrebbe
certamente piu' di un giorno di vita!
Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere
appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui
riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'Italia, Michele
Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riusci' in meno di quindici anni a
creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano, si
moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi citta' e nei centri di
periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della
piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata gia' d'avanzo un'agenzia
del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano di colpo i battenti:
"Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!", tutto l'apparato gia'
pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi
elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la
divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie inaugurali con interventi
di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti, "Taglia il nastro
la gentile signora di sua eccellenza", fiori, applausi, banchetto, champagne,
capitali gia' depositati nelle casseforti.
Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di
Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice
milanese dette incarico a un famoso commercialista, l'avvocato Ambrosoli, di
venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto
ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire
in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più nessuno.
In verita' c'era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far
trasalire la nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando un
cocciuto magistrato palermitano scopri' che il senatore democristiano Verzotto,
per anni segretario regionale del partito e presidente dell'Ente minerario
siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e diversi miliardi
dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle banche di Sindona e
ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la vicenda avesse indotto piu'
all'ironia che allo spavento, dipese probabilmente dalla sagoma del
protagonista, il nominato senatore Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli
grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo
di cammello svolazzante sulle spalle, sembrava anche visivamente il personaggio
perfetto per una pochade politica piu' che per una tragedia mafiosa. Invece fin
d'allora si sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben piu' profonde oscurita'
arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come esse
servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro che non
si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un giudice
coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada, invece esso venne
precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici della banca di
stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del denaro sul territorio
nazionale, valutandone origini e destinazione, venne presa alcuna iniziativa
sulle banche che stavano proliferando nel sud. Nemmeno il governo del tempo ed i
ministri finanziari batterono ciglio. Tutti arretrarono di qualche passo per
prendere le distanze, a spintoni e calci venne fatto avanzare il solo
tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase solo alla ribalta, perche'
l'opinione pubblica potesse farci in conclusione una bella risata di
scherno.
Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il piu' sottile cervello
politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente; quanto
quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto Verzotto era
invece calmo, opimo, quasi regale, elegante, cortese e, probabilmente, anche un
po' minchione. Per la magniloquenza del suo tratto era uno di quei personaggi
capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta noncuranza e senza
probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal suo esilio di Beirut, dove ebbe
l'agilita' di scappare una settimana prima dell'ordine di cattura, disse una
cosa significativa: "Come potete pensare che io vada a sporcarmi le mani per un
semplice affare di poche centinaia di milioni di interessi, quando in una banca
si possono manovrare invece interessi per centinaia di miliardi!". Tutti
pensarono alla malinconica battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si
sono perdute le tracce.
Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non
conosciamo e che pero' il potere politico e i vertici finanziari dello stato
dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero,
sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le
tracce della sua provenienza, cioe' reinvestirlo e cosi' purificarlo, ma non
possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento.
Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese
industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente,
garbatamente, silenziosamente amabilmente finanziate, possono riuscire ad
impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore economico. E
non e' detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un
moderno ospedale, un carcere modello, una citta'-giardino, un complesso
sportivo, persino una nuova chiesa.
*
E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro
cavalieri catanesi. Dopo quello che e' accaduto, vien facile perfino la
citazione: "I quattro cavalieri dell'Apocalisse". L'Italia e' uno strano paese
in cui si sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro
invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent'anni si e'
spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa a
Palma di Montechiaro, e' invece un appaltatore che riesce a trovare fantasia e
modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese dove la gestione
e la moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna economica o finanziaria,
per struttura stessa della societa' politica, deve fatalmente passare attraverso
un compromesso costante con il potere, con i partiti che sostanzialmente
amministrano la nazione, con gli uomini politici o gli altissimi burocrati ai
quali i partiti delegano praticamente tale funzione, lo spirito di nuove leggi e
decreti, la scelta delle opere pubbliche, l'assegnazione degli appalti. Chi
afferma il contrario e' candidamente fuori dal mondo oppure e' un amabile
imbecille.
A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro
cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di
aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci
in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E' una
domanda importante ed anche spettacolare poiche' i quattro personaggi sembrano
disegnati apposta per costituire spettacolo. Profondamente dissimili l'uno
dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere. Costanzo massiccio e
sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico,
Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e
indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono pero' tutti alla
stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni
cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda proprio
dell'industriale self-made-man.
Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni,
industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il piu'
ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono sia
invece Costanzo, il piu' prepotente, l'unico che abbia osato pretendere e
ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci,
proprietario di una banca che, per capitali, e' il terzo istituto della regione.
La ricchezza di Finocchiaro non e' valutabile. Molti ancora si chiedono: ma chi
e' questo Finocchiaro.
Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici
(la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei
congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso nazionale
dei magistrati in cui era appunto all'ordine del giorno la lotta contro la
mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di lavorare in uno dei
templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce anche autostrade, ponti,
gallerie, dighe; e possiede anche le industrie necessarie a produrre tutto
quello che serve alle costruzioni: travature metalliche, macchine, tondini di
ferro, precompressi in cemento, infissi in alluminio, tegole, attrezzature
sanitarie. Un impero economico autonomo che non deve chiedere niente a nessuno.
Poche aziende in Europa reggono il confronto per completezza di struttura. Ha un
buon pacchetto di azioni in una delle piu' diffuse emittenti televisive private.
E' anche presidente e maggiore azionista della Banca popolare.
Rendo ha interessi piu' diversificati, diremmo piu' moderni, almeno
culturalmente la sua azienda sembra un gradino piu' in alto. Anche lui
costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche aziende
agricole modello che guardano con estrema attenzione agli sviluppi del mercato
europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo piccolo fiore
all'occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla ricerca
scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i soldi non
possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della holding e' il
ritratto stesso dell'azienda, una serie di palazzi di acciaio, alluminio e
metallo, l'uno legato all'altro, sulla cima di una collina alle spalle di
Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi della RAI di via
Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso giardino al quale si
accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini armati. Sembra il
passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la sua televisione privata
con la quale garbatamente interviene nella informazione della pubblica opinione.
Ricordiamoci che Andropov, l'uomo nuovo del Cremlino successore di Breznev, e'
riuscito ad arrivare al vertice dell'impero sovietico poiche' mentre era a capo
dei servizi segreti invento' l'ufficio della disinformazione, specializzato nel
confondere la realta'. Si tratta di una scienza ammessa al massimo livello
politico.
L'impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le
iniziative e' probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprieta'. Per il
resto Graci e' pressoche' invisibile. Amico di Gullotti e di Lauricella, vive
gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra tutti e'
quello che ha la piu' vasta copia di interessi, cantieri di costruzione in ogni
parte dell'isola e dell'Italia, aziende agricole, villaggi turistici, immense
estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua predilezione sono i
grandi alberghi di fama internazionale: il suo piu' recente acquisto l'hotel
Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco, uno degli alberghi
piu' belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo novecento. Pare
abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una storia del Gattopardo,
raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il piu' prezioso
giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che non hanno eguali in Europa e
che per quarant'anni nessuno ha osato sottrarre alla sua destinazione balneare.
Di tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a qualche anno fa era
sconosciuto a Catania, e il piu' riservato, raramente compare in prima persona.
Possiede anche lui la maggioranza azionaria di un'emittente privata e di un
giornale quotidiano, ma il suo nome non figura nei rispettivi consigli di
amministrazione. Narrano anche della sua generosita'. Ogni tanto organizza per i
suoi amici mitiche partite di caccia in uno dei suoi feudi siciliani! Possiede
anche una favolosa cantina di vini pregiati ai quali sono ammessi soltanto gli
amici di vertice.
Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L'ultimo arrivato dei quattro
al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo palazzi.
Ha pero' una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi appalti
sono stati sempre terminati a tempo di record. In meno di due anni ha costruito
il nuovo palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco edificio moderno sul
lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la nuova Pretura, altro massiccio
edificio incastrato proprio nel cuore della citta', a cento metri dal palazzo di
Giustizia. Poiche' la Pretura di Catania convoglia quotidianamente gli interessi
di migliaia di persone, non appena il nuovo edificio entrera' in funzione, il
traffico di tutta quella zona essenziale della vita cittadina restera'
probabilmente paralizzato. Esempio di come possa essere nefanda un'opera
pubblica pur perfettamente realizzata. Finocchiaro infine e' anche il piu'
lezioso. La sede della sua impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i
Ciclopi, in uno dei tratti piu' splendidi della riviera, una grande villa, in
verita' bellissima, sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine
intercomunicanti, sicche', una levissima massa d'acqua si muove
ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e
s'incanta.
Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di
Catania. Ma chi sono in verita'? Perseguiti dalla magistratura con mandati di
cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi fiscali
e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di finanza
che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica opinione,
soprattutto dai piu' poveri e sfortunati i quali non riescono mai ad amare le
fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le vedono crollare
hanno un momento di trasalimento di felicita' e un grido: "Lo sapevo!", i
quattro cavalieri sono nell'occhio del ciclone, in mezzo al quale sta immobile e
sanguinoso l'assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la piu' feroce e tragica
sfida portata dalla mafia all'intera nazione.
Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo
autentico tempo di apocalisse? Gia' il fatto che questi quattro personaggi si
siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro
dell'imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia e stiano
li' segretamente, due piu' due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a
valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che e' facile
immaginare di gelido vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto
dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del
palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il piu' plateale,
chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari
spavaldamente al massimo giornale italiano: "Abbiamo deciso di aggiudicarci
tutte le operazioni e gli appalti piu' importanti, quelli per decine o centinaia
di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi,
tanto perche' possano campare anche loro!"; e che tutti e quattro siano
giudiziariamente accusati di evasioni per decine o forse centinaia di miliardi,
tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, al
piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all'impiegato di gruppo C,
all'emigrante, poveri innumerevoli italiani che sputano sangue per sopravvivere
e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati
amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola, ricercato per
l'omicidio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato
insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde
all'immagine, secondo costituzione, di cavalieri della repubblica.
Ma non e' questo il punto. Il quesito e' un altro, ben piu' duro e
drammatico: i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in
quel massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda
si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare,
quello che la gente pensa, e quello che probabilmente e' vero. Quello che appare
e' cio' che abbiamo descritto, cioe' di quattro potenti di colpo sospinti nel
cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per
possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potra' dire una verita' che puo'
essere tutto e il contrario di tutto.
Quello che la gente pensa e' piu' brutale, e cioe' che i cavalieri di
Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro
a impartire l'ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale oso' chiedere
allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici. Ma
quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi giornali, con perigliose
acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non puo' avere alcun valore
giuridico e nemmeno morale, poiche' puo' nascere da pensieri spesso mediocri,
rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e quindi fino ad oggi non
esiste!
Infine quello che probabilmente e': cioe' di quattro personaggi i quali,
con superiore astuzia, temerarieta', saggezza, intraprendenza, hanno saputo
perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del
nostro tempo e della classe politica che la governa, ed essere piu' rapidi e
decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte. Anche
Agnelli deve essere piu' rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto con la
mafia e' stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi
vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e
aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo e' affar
nostro. Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i
subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Pero' non vogliamo bombe
nei nostri cantieri, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti,
fratelli, amici, possano essere rapiti o sequestrati.
Se cosi' e', tutto questo non e' morale, ma non e' nemmeno reato! E
purtroppo non e' nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in
cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verita' definitive, anche
se agghiaccianti. Esiste infatti una realta' innegabile: perche' la mafia possa
amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese private ed
istituti pubblici, uomini d'affari o di politica capaci di garantire l'impiego e
la purificazione di quell'ininterrotto fiume di denaro. La nazione ha finalmente
il diritto di identificarli! E la Sicilia il diritto di non essere data in
olocausto alla incapacita' dello stato (o peggio) di identificarli. Esiste
oltretutto una realta' che e' anche un fatto morale e politico di cui bisogna
onestamente parlare. Da decenni, forse da secoli, la societa' siciliana non ha
avuto una imprenditoria capace di esprimere le sue esigenze e metterle al passo
con la tecnica e la civilta'. Venivano tutti da nord, prendevano il denaro e il
territorio, costruivano e se ne andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le
loro opere erano autentiche rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del
golfo di Augusta e l'avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio con
gli scarichi petrolchimici costituirono una di queste grandi imprese. I
giganteschi ruderi industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che
non hanno mai funzionato e che hanno divorato migliaia di miliardi della
regione, rappresentano un'altra impresa. In tutto quello che e' stato costruito
in Sicilia, i siciliani sono stati al piu' subappaltatori (se possibile anche
mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti, disponibili,
costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici della Rasiom
furono costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati in manovali.
La Sicilia e' stata sempre una terra tecnodipendente.
Improvvisamente, nell'ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del
lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi,
qualcuno anche grossolano e ignorante, pero' dotati di fantasia, di
straordinarie capacita' industriali e tecniche, e di talento, precisione,
velocita'. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato
aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa grande
macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro
intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in
Africa, nel Sud America. La loro concorrenza e' spietata. Molte grandi aziende
del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si
vedono insidiate nel loro stesso territorio. Bene, la tragedia mafiosa
certamente ha offerto la possibilita' di una controffensiva su tutto il fronte,
una specie di santa inquisizione. Il tentativo di stabilire un rapporto di
colonizzazione e' chiaro.
Allora a questo punto il discorso e' gia' perfetto. Se tutti i cavalieri di
Catania e di Sicilia, tutta l'imprenditoria dell'isola fa parte della struttura
mafiosa, che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se
solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto loro,
implacabilmente, eliminandoli dalla societa', e rilasciando cosi' agli altri, ai
superstiti, una possibilita' politica e morale di continuare l'opera di
evoluzione tecnica che per molti versi stava trasformando la Sicilia. Colpire
tutti, anche gli innocenti, equivale a non colpire nessuno, lasciando quindi i
mafiosi nel loro ruolo; significa egualmente il trionfo della mafia. La mafia
che finalmente si identifica con lo stato! Ed e' qui che entra in gioco l'ultimo
livello della struttura, l'imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la
giustizia.
*
Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali
che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose
dalle quali puo' nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le
estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi
tutte le funzioni della societa' sottomettendo le province, le citta', i
quartieri. Piu' in alto, molto piu' in alto, i due livelli paralleli, i grandi,
insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi della
droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa infame e
infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi, che assorbono
quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private. Manca
l'ultimo livello, il piu' alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero
possibilita' di esistere. Il potere politico! Vi racconto una piccola atroce
storia per capire quale possa essere la posizione del potere politico dentro una
vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe
senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tutt'oggi il senso politico
della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della
Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana c'e' un sindaco
democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale
essendo anche segretario comunale della Dc, rifiuto' la tessera di iscrizione al
partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici,
clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe
stato un trionfo politico del partito, in una zona fin allora feudo di liberali
e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi
tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato
il comune. Con un gesto di temeraria dignita' rifiuto' le tessere.
Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora domanda alla
segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo dall'ancora giovanile
Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle
quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di
paese, un galantuomo che credeva nella Dc come ideale di governo politico, ed
era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i
postulanti gli fecero semplicemente sapere che se non avesse ceduto, lo
avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico galantuomo, sempre convinto che
la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiuto' ancora. La segreteria provinciale si
incazzo', sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento
tessere. Il sindaco Pasquale Almerico comincio' a vivere in attesa della morte.
Scrisse un memoriale, indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del
partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi
probabili assassini. E continuo' a vivere nell'attesa della morte. Solo,
abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario
che voleva solo continuare a comandare da solo la citta' emarginando forze
politiche nuove e moderne. Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici
armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre
mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di
Camporeale e da tre punti opposti della piazza si comincio' a sparare contro
quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di
lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i
mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche
negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla
memoria.
E' una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco
soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia pero' perfetta come
un teorema poiche' spiega come puo' il potere politico gestire la vicenda
mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi negli anni '80, al vertice
di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere
politico. Il potere politico che e' misterioso sempre e mai perfettamente
identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia, che ha nelle mani
tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere
ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla
speculazione selvaggia; gia' da dieci anni avrebbe dovuto abolire il segreto
bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe emarginare gli uomini corrotti,
ignoranti, violenti e viceversa li conduce talvolta in parlamento e gli affida
uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarita' dei concorsi
e invece assedia le commissioni di esame con raccomandazioni e violenze morali;
dovrebbe costruire una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio
turistico in un'altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e
invece li abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere
politico che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il
potere politico che stabilisce la spesa di migliaia di miliardi per opere
pubbliche, determina l'ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli
appalti. Il presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui
democristiano onesto, venne ucciso perche' aveva deciso di spendere onestamente
i mille miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi
certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere
condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c'erano i suoi assassini.
Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vice
questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del
procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La
Torre. Tutti e quattro assassinati poiche' stavano gia' scoprendo i punti di
sutura fra politica e mafia.
*
Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso
eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di
iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata poiche' Gelli aveva
fiutato l'infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso Dalla Chiesa ebbe poi
a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa personale per
scoprire alcune verita' politiche all'interno della loggia massonica segreta.
Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui. Certo era un uomo che da
tempo aveva intuito la connessione fra potere politico, ricchezza e violenza. La
lunga e atroce lotta contro le BR gli aveva fornito preziosi elementi di prova,
ed altri ne aveva acquisiti in centinaia di interrogatori. Si stava disegnando
una sua mappa dell'occulto. Quando arrivo' a Palermo con la carica di
superprefetto, i vertici criminali sapevano perfettamente di avere di fronte
l'avversario piu' duro e cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima
di lui, egli aveva in piu' un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere
in pugno gli strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in
fondo: quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognera' pur
riscriverla perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che
tuttavia alla fine avrebbe dovuto concedergli. Dalla Chiesa commise un solo
errore. Di vanita'. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un
retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le
vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi,
dimostrazioni di amore popolare. Tutto questo contro un avversario che era
sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere
dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui
sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e
congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi certamente
accadde. La guerra contro un tale nemico e' oscura e senza gloria, e
infinitamente piu' terribile di ogni altra, non si puo' vincere in una serie
infinita di scaramucce, poiche' i serpenti restano dovunque, muoiono e si
moltiplicano, ma bisogna vincerla in una volta sola, una sola battaglia,
preparata con paziente perfezione in ogni dettaglio. Invece il generale Dalla
Chiesa faceva discorsi, rilasciava interviste, invocava, accusava, era l'unico
personaggio italiano che poteva chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi
anche la facolta' di indagini nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece
sapere a tutti: praticamente come se dicesse a tutti, gridasse: "So chi siete,
da un momento all'altro vi strappero' la maschera! Fate presto a uccidermi o non
avrete tempo!".
E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la
battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni
diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la giovane
moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo poveraccio
avrebbe dovuto rifiutarsi: "Generale, io cosi' con lei non viaggio!". Ma Dalla
Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilita' irrisoria, a colpo
sicuro, (se e' vero quello che finora ha detto la magistratura) con due rozzi
killer, proprio manovali della mafia fatti venire da un'altra provincia della
Sicilia e addirittura dalla Calabria.
Dalla Chiesa mori', ma il suo colpo tremendo l'aveva gia' vibrato, forse
proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a tutta
la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri ministri, anche altissimi
ufficiali e magistrati, sapevano e pero' non dicevano, cioe' dov'era il
groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo scoperto e
schiacciarli.
2. RIFERIMENTI. PER CONTATTARE IL COMITATO CHE SI OPPONE AL MEGA-AEROPORTO
DI VITERBO E S'IMPEGNA PER LA RIDUZIONE DEL TRASPORTO AEREO
Per informazioni e contatti: Comitato che si oppone al mega-aeroporto di
Viterbo e s'impegna per la riduzione del trasporto aereo, in difesa della
salute, dell'ambiente, della democrazia, dei diritti di tutti: e-mail:
info at coipiediperterra.org , sito: www.coipiediperterra.org
Per contattare direttamente la portavoce del comitato, la dottoressa
Antonella Litta: tel. 3383810091, e-mail: antonella.litta at gmail.com
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 260 del 12 giugno 2010
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