Telegrammi. 209
- Subject: Telegrammi. 209
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 2 Jun 2010 00:56:51 +0200
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 209 del 2
giugno 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino
proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche
della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero:
1. Il 2 giugno contro la guerra e contro il razzismo
2. Mao
Valpiana: Israele e la Freedom Flotilla. Violenza
genera violenza
3. Giselle Dian
intervista Monica Lanfranco
4.
Il cinque per mille al Movimento Nonviolento
5.
"Azione nonviolenta"
6. Segnalazioni librarie 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'
1. EDITORIALE. IL 2 GIUGNO CONTRO LA GUERRA E CONTRO IL RAZZISMO
Il 2 giugno e' la festa della Repubblica Italiana che ripudia la
guerra. Cessi quindi la partecipazione italiana alla guerra afgana.
Il 2 giugno e' la festa della Repubblica Italiana che riconosce i diritti
umani di tutti gli esseri umani. Cessi quindi la criminale persecuzione
razzista.
Il 2 giugno si ricordi che le armi uccidono e che occorre fare la scelta
del disarmo.
Il 2 giugno si ricordi che vi e' una sola umanita' e che ad ogni
essere umano va recato soccorso da parte di tutti gli altri esseri umani.
Solo la scelta della nonviolenza invera il patto scritto nella Costituzione
della Repubblica Italiana.
2. RIFLESSIONE. MAO VALPIANA: ISRAELE E LA FREEDOM FLOTILLA. VIOLENZA GENERA VIOLENZA [Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: Movimento Nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org) per questo intervento. Mao (Massimo) Valpiana e' una delle figure piu' belle e autorevoli della nonviolenza in Italia; e' nato nel 1955 a Verona dove vive e ha lavorato come assistente sociale e giornalista; fin da giovanissimo si e' impegnato nel Movimento Nonviolento (si e' diplomato con una tesi su "La nonviolenza come metodo innovativo di intervento nel sociale"), e' segretario nazionale del Movimento Nonviolento, responsabile della Casa della nonviolenza di Verona e direttore della rivista mensile "Azione Nonviolenta", fondata nel 1964 da Aldo Capitini. Obiettore di coscienza al servizio e alle spese militari ha partecipato tra l'altro nel 1972 alla campagna per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza e alla fondazione della Lega obiettori di coscienza (Loc), di cui e' stato segretario nazionale; durante la prima guerra del Golfo ha partecipato ad un'azione diretta nonviolenta per fermare un treno carico di armi (processato per "blocco ferroviario", e' stato assolto); e' inoltre membro del consiglio direttivo della Fondazione Alexander Langer, ha fatto parte del Consiglio della War Resisters International e del Beoc (Ufficio Europeo dell'Obiezione di Coscienza); e' stato anche tra i promotori del "Verona Forum" (comitato di sostegno alle forze ed iniziative di pace nei Balcani) e della marcia per la pace da Trieste a Belgrado nel 1991; nel giugno 2005 ha promosso il digiuno di solidarieta' con Clementina Cantoni, la volontaria italiana rapita in Afghanistan e poi liberata. Con Michele Boato e Maria G. Di Rienzo ha promosso l'appello "Crisi politica. Cosa possiamo fare come donne e uomini ecologisti e amici della nonviolenza?" da cui e' scaturita l'assemblea di Bologna del 2 marzo 2008 e quindi il manifesto "Una rete di donne e uomini per l'ecologia, il femminismo e la nonviolenza". Un suo profilo autobiografico, scritto con grande gentilezza e generosita' su nostra richiesta, e' nel n. 435 del 4 dicembre 2002 de "La nonviolenza e' in cammino"; una sua ampia intervista e' nelle "Minime" n. 255 del 27 ottobre 2007]
L'aggressione della marina militare israeliana contro la “Freedom Flotilla”, battente bandiera turca in rotta verso la striscia di Gaza, con la conseguente strage, e' un gravissimo atto di pirateria che deve essere giudicato e condannato da un Tribunale internazionale. Il governo israeliano, che ha rivendicato e giustificato l'attacco, sta conducendo una politica che distrugge ogni possibilita' di proseguimento del processo di pace e che pone Israele nell'isolamento internazionale. La conseguenza di questa follia e' il rafforzamento delle voci piu' estremiste e integraliste in Iran, in Arabia Saudita, in Turchia, che mirano alla distruzione di Israele. La violenza del governo di Israele alimenta la violenza dei sostenitori di Hamas, creando una spirale di odio che degenera ogni giorno di piu'. Chi ha
davvero a cuore il destino della Palestina, oggi deve lavorare per liberarla
dall'abbraccio mortale di regimi totalitari e gruppi politici antisemiti che
vorrebbero islamizzare l'intera area. Chi ha davvero a cuore il destino di Israele, oggi deve lavorare per liberarla da un governo sempre piu' estremista e violento, che vuole imporre la propria potenza negando ogni diritto altrui. Il faticoso sentiero del processo di pace e' tutto in salita e ha un solo sbocco possibile: la convivenza di palestinesi e israeliani in un'unica terra. Israele ha tutto il diritto di esistere, e deve farlo nel pieno rispetto del diritto internazionale e della liberta' altrui. La Palestina ha tutto il diritto di esistere, e deve farlo in modo democratico e garantendo la sicurezza altrui. Il punto nodale dell'intera vicenda e' sempre lo stesso: sconfiggere la tentazione alla “pulizia etnica” dall'una e dall'altra parte, e favorire la convivenza plurietnica, plurireligiosa, pluriculturale. In quel fazzoletto di terra, per arabi ed ebrei, la pace si chiama “convivenza”; per questo il nostro compito e' quello di sostenere, aiutare, favorire le azioni e le voci di chi a Tel Aviv e Gaza, a Gerusalemme e Ramallah, lavora per la nonviolenza e con la nonviolenza. Per Israele/Palestina c'e' un unico destino. Mao Valpiana, segretario del Movimento Nonviolento Verona, primo giugno 2010 3. RIFLESSIONE. GISELLE DIAN INTERVISTA MONICA LANFRANCO [Ringraziamo
Giselle Dian (per contatti: gipsy91 at live.it) per averci messo a
disposizione questa intervista a Monica Lanfranco.
Giselle Dian fa parte della redazione di
"Viterbo oltre il muro. Spazio di informazione nonviolenta", un'esperienza nata
dagli incontri di formazione nonviolenta che si svolgono settimanalmente a
Viterbo.
Monica Lanfranco, giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo
1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese
delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di
formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha
curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il
quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il
Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e' socia fondatrice della societa' di
formazione Chance. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne
strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle
donne e sulla comunicazione. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di
sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne -
18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per
Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal
1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision
making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un
matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha
scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta
del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e
disponibile in floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile
anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della
partoriente (La Clessidra). Ha pubblicato due importanti volumi curati in
collaborazione con Maria G. Di Rienzo: Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia,
Napoli 2003; Senza velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra
Moenia, Napoli 2005. Il suo libro piu' recente e': Letteralmente femminista.
Perche’ e’ ancora necessario il movimento delle donne, Edizioni Punto Rosso,
Milano 2009]
- Giselle Dian: La riflessione
e la pratica del femminismo hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione
dei movimenti sociali impegnati per i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Come si e' esercitato questo ruolo nel corso degli ultimi decenni a livello
planetario? - Monica Lanfranco: Per rispondere a questa domanda riprendo un pezzo del sesto capitolo “Pratiche antiche e nuove”, del mio ultimo libro, Letteralmente femminista. Perche’ e’ ancora necessario il movimento delle donne. Nonviolenza,
unica strada "E' importante che le donne capiscano che ci troviamo in un tempo di cruciale transizione, in cui il modello dominatore patriarcale del potere viene contrastato da un movimento globale teso verso sistemi di condivisione. Donne ed uomini in tutto il mondo stanno sviluppando nuovi modelli e teorie del potere, basandosi su modi di vivere equi e relazionali. Capire come il modello dominatore si manifesti anche nelle nostre persone e' il primo e vitale passo per riuscire a sviluppare nuovi modi di essere. I modi di essere non patriarcali devono essere vissuti su una base quotidiana da ogni persona coinvolta nel processo di trasformazione della cultura: poiche' la coscienza spirituale, politica, economica e sociale sono interconnesse, questi esperimenti viventi offrono grandi opportunita': condividendo il processo e le idee, noi insegneremo a noi stesse/i e agli altri e alle altre cio' di cui abbiamo bisogno". Le parole di Ruth Barrett, sociologa e femminista pacifista, hanno preso corpo in molte parti del mondo, ultimamente. E, anche se lontano dai riflettori, una messa in pratica di questa pericolosa (perche' la pace fa molto piu' paura della guerra ai potenti, che si trovano immediatamente senza lavoro), paziente, instancabile strada che, in molte e molti, stanno percorrendo da tempo si e' manifestata a partire dall’attacco alle due torri, e dopo la conseguente guerra in Irak. Oltre 200 persone - rappresentanti di sindacati, di associazioni, di Ong, parlamentari e cittadini - hanno partecipato per l'Italia, insieme a circa 300 pacifisti europei, alla missione civile "Action for Peace" in Palestina e Israele, dove hanno incontrato esponenti pubblici e rappresentanti della societa' civile palestinese e israeliana. E ogni anno l’appuntamento si rinnova, instancabile, nonostante nulla di buono ancora sia accaduto sui due fronti di una guerra infinita. "Quando due parti non ce la fanno a dialogare e' necessario che un terza parte si faccia avanti, e intrecci parole e fatti per riannodare il filo perduto. Questo, oggi, mi pare sia il nostro compito, come nonviolente e soprattutto come donne". Laura Bergomi, aderente all'Associazione per la Pace, una delle femministe che insieme a Luisa Morgantini e altre donne in nero ha fatto parte della delegazione ha ancora negli occhi le immagini del viaggio. "Meglio soffrire le pene della pace che le agonie della guerra" si leggeva, scritta in inglese e arabo, lungo strade e muri di case un po’ dappertutto in Palestina. "Scegli la vita", scritto in arabo, inglese ed ebraico, perche' tutte e tutti capissero, faceva da sfondo al palco finale della manifestazione indetta dalla Coalizione delle donne per una pace giusta, da Gerusalemme Ovest a Gerusalemme Est. Le donne, nelle seconda Intifada, sono meno, molto meno visibili. Laura e Luisa, e Cristina Cattafesta, e Ivana Stefani ne hanno incontrato molte; tra queste Zaira Kamal, delegata alle questioni di genere presso il Ministero della Pianificazione e della Cooperazione Internazionale dell’Anp. Il suo racconto e' un rosario che sgrana solo dolore: quello delle giovanissime vedove, di tutte quelle che si ritrovano capofamiglia senza preparazione; delle madri che vedono le paure dei bambini, i disturbi nel linguaggio e nella crescita causati dalla paura; delle insegnanti che rilevano difficolta' di concentrazione, scarso rendimento; delle operatrici che vedono crescere il bisogno di cure sociali e psicologiche per donne e bambini; quello dell’impotenza di quante e quanti, tra gli israeliani, lavora per la pace. Nei
primi giorni del 2002 dieci donne hanno partorito bloccate ai check point: una
di loro e' morta, e cosi' quattro bambini. Zaira continua: passano vecchie
che si trascinano con il bastone, ma nessuno ha il tempo di aiutarle: il tempo
di vita si spende per le strade ai check point, lei stessa impiega a volte sei
ore per andare e tornare dal luogo di lavoro che disterebbe 20 minuti. E si
continua cosi', senza che nulla cambi, a parte nuovi muri che
crescono. Che
fare? "Di certo e' importantissimo che, visto l’odioso veto Usa alla
presenza di osservatori, si intensifichino le missioni di interposizione dal
basso, fino ad una nuova iniziativa forte per Pasqua, sostiene Laura.
Tornata in Italia, trovo tristemente adatta alla situazione una frase di Martin
Luther King: "Non temo le parole dei violenti, mi preoccupa molto il silenzio
degli onesti". Alla Porta di Jaffa, alla fine del corteo pacifista del 28
dicembre 2003 a Gerusalemme, una donna in nero di Haifa racconta di essere corsa
all’ospedale subito dopo l’attentato suicida di un palestinese ad un autobus e
di aver fatto visita all’autista, volato via dal suo mezzo a causa
dell’esplosione: il ferito ha indicato la spilla a forma di colomba bianca,
simbolo delle donne pacifiste, che lei indossava come sempre, e le ha detto
"Only this is the way", questa e' l’unica strada. Seminare
pace E se in
tempo di guerra c’e' chi pensa che siano da ricercare le parole per far smettere
alle armi di parlare c’e' chi in tempo di (relativa) pace inizia dall’abc a
seminare, ovvero dall’educazione della prole. Ha iniziato, una trentina di anni
fa, in Africa, con i suoi figli, a sperimentare un sistema educativo e di
osservazione delle dinamiche sociali. Non sapeva, allora, che il suo sguardo
anche materno, amorevole e curioso avrebbe, coniugato con una tenace
intelligenza creativa e una forte convinzione che i conflitti vanno affrontati e
risolti con ogni mezzo nonviolento, dato alla luce uno dei modelli piu' avanzati
di gestione della violenza nel mondo. Pat Patfoort, antropologa, pacifista, formatrice di origine fiamminga, di recente "adottata" dalla Sardegna grazie al lavoro dell'associazione "La Triangola" per un suo studio sulla atavica e complessa conflittualita' sociale e culturale dell’isola, tra poco dara' alle stampe la traduzione italiana del suo ultimo libro, Difendersi senza attaccare, e sara' interessante comparare la sua visione del potere, del conflitto e delle modalita' con cui affrontarlo anche alla luce del crescente successo di argomentazioni limitrofe e consequenziali, quali ad esempio quelle di John Holloway con il suo Cambiare il mondo senza prendere il potere. Pat
Patfoort non e' una studiosa tradizionale, e maneggia con disinvoltura
creativa e spiazzante linguaggio e contenuti, tanto da aver immesso nella
formazione sulla gestione del conflitto il concetto e metodo dell'Equivalenza,
che sta utilizzando sia in Senegal, facilitando le relazioni tra il governo
centrale di Dakar e i ribelli armati, sia in Belgio, dove il 70% dei detenuti ha
meno di 30 anni ed e' un’emergenza sociale il futuro di questi cittadini
una volta scontata la pena. In sostanza si tratta di adottare, al posto della concezione dominante del minore/maggiore (dal quale deriva tra l’altro anche il collaudato metodo della democrazia parlamentare e di quella dei partiti, basato sulla dinamica maggioranza/minoranza) quella di equiparazione per la risoluzione dei conflitti, nei quali attori e attrici del conflitto, quale esso sia, fanno pesare allo stesso modo e in eguale misura convincimenti, bisogni, desideri, principi. Il fatto straordinario e' che il metodo sembra non avere confini quanto al suo utilizzo, e Patford lo ha testato dai conflitti interetnici, alle carceri, all’ambito familiare, ai gruppi di movimento. In una intervista, rilanciata dalla newsletter "La nonviolenza in cammino" che da anni condivide quotidianamente materiali sulla nonviolenza via web Patfoort ha spiegato la radice del suo nuovo lavoro. "Secondo
un’antica leggenda musulmana esiste un fiore, detto fiore di fuoco, un fiore
virtuale, che
trasmette amore solo a chi coltiva la propria forza interiore. Il fiore
significa dolcezza, bonta', il fuoco e' forza. Questi due poli, nella mia
visione di nonviolenza, interagiscono: per essere nonviolenti bisogna avere
consapevolezza delle proprie qualita', bisogna avere
autostima. L'autostima negli esseri umani, specie nei bambini e nelle bambine, deve essere coltivata, non repressa. Ad esempio, nel rapporto tra padre e figlio, piuttosto che fare molte critiche, sottolineare cio' che non va, che avrebbe potuto fare meglio, il padre potrebbe prestare piu' attenzione alle qualita', alle attitudini personali, ai progressi che fa suo figlio. Generalmente
in famiglia non va cosi': un bambino che mostra empatia con il mondo che lo
circonda, che osserva le cose, viene lodato meno di uno bravissimo a scuola, che
sa far di conto velocemente, che sa leggere ad un'eta' precoce e cosi' via.
Considero questa negativita' come la malattia della societa' contemporanea. Noi
stessi l'abbiamo dentro il nostro vissuto: ce l'hanno
insegnata da piccoli, e da grandi la ripetiamo inconsciamente e l'applichiamo ai
nostri figli. Infatti, il momento migliore per avvicinarsi alla
nonviolenza e' quando ci nasce un figlio o una figlia. La nonviolenza serve
a questo punto, per aiutare i piccoli a diventare individui forti, senza
frustrazioni, che non abbiano bisogno di esercitare la violenza sugli altri per
affermarsi nella societa'". La
risposta e' nel vento Una
intervista radiofonica, raccolta circa trent'anni fa, dall’editorialista
Colman McCarthy, oggi columnist del "Washington Post". L’intervistata e'
Joan Baez, attivista pacifista e folk singer; la sua esecuzione di Blowing
in the wind sara' la colonna sonora di migliaia di manifestazioni contro le
guerre, a partire da quella del Vietnam, una dolce bandiera di note e parole per
la pace. Ritrovare questo materiale mi ha fatto uno strano effetto: le domande
poste alla Baez sono le stesse, identiche, che oggi vengono rivolte a chi
prova a parlare di nonviolenza in vari ambienti, compresi quelli dell’attivismo
odierno: "Si', si', bei discorsi, niente armi ne' mezzi di difesa. Ma cosa
faresti se, per ipotesi, qualcuno aggredisse tua nonna?". La forza delle
(apparentemente) lievi e ironiche risposte della Baez sta tutta in questa sua
considerazione, che spiazza l’incalzante intervistatore, convinto che in fondo
chi parla di nonviolenza stia sfuggendo di fronte all’inevitabile scelta
ultimativa: "Nessuno sa cosa fara' in un momento di crisi, domande ipotetiche
ottengono risposte ipotetiche. Il fatto e' che mettiamo le persone in
processi d'apprendimento il cui scopo e' trovare modi efficaci di uccidere.
Sai come funziona: ruggire e urlare, uccidere e strisciare via, e saltare giu'
dagli aeroplani. Roba ben organizzata. Un generale pianta uno spillo in una
mappa. Una settimana piu' tardi un mucchio di ragazzini suda in una giungla da
qualche parte. Si fanno saltar via braccia e gambe, piangono, pregano e perdono
il controllo degli intestini". L’intervistatore non molla: "Ma cosa fai, allora?
Porgi l'altra guancia, suppongo. Guarda un po' che gli e' successo, a
quello che diceva ‘Non uccidere’. Lo hanno attaccato ad una maledetta croce!".
Sentite come risponde Joan: "Non devi metterti a scegliere come morire, o dove.
Puoi solo scegliere in che modo vivere. Adesso. Confrontati con il male, ecco
cosa ti dice la pacifista. Resisti con tutto il tuo cuore, tutta la tua mente,
tutto il tuo corpo, finche' esso sara' sconfitto. Il problema e' il
consenso. C'e' del consenso la' fuori sul fatto che va bene uccidere quando il
tuo governo decide chi dev'essere ucciso. Se uccidi qualcuno nel tuo paese, hai
dei guai. Se uccidi qualcuno fuori dal tuo paese, al tempo giusto, nella
stagione giusta, perche' e' l'ultimo nemico in ordine di tempo, ti prendi
una medaglia. Ci sono 130 stati-nazione e ciascuno di essi pensa che non sia poi
cosi' peregrina l'idea di far fuori gli altri 129, perche' il ‘nostro’
stato e' piu' importante. I pacifisti pensano che ci sia al mondo una sola
tribu', di tre miliardi di persone. Queste persone vengono prima di tutto il
resto. Noi pensiamo che uccidere un membro della famiglia sia un'idea cretina.
Pensiamo che ci siano metodi piu' decenti, e piu' intelligenti, di comporre le
differenze. E l'umanita' deve mettersi ad investigare questi metodi, perche' se
non lo fa, per errore o volutamente, e' probabile che si uccida l'intera
dannata razza umana. Vogliamo arrivare a costruire un pavimento, un forte e
nuovo pavimento, stando sul quale non si potra' piu' affondare. Una piattaforma,
che sta un po' piu' in su del napalm, della tortura, dello sfruttamento, dei gas
velenosi, delle bombe nucleari. Vogliamo dare all'umanita' un posto decente per
stare in piedi. Fino ad ora ci siamo trascinati nel sangue umano, nel vomito e
nella carne bruciata, urlando che questo avrebbe portato pace al mondo. E come
costruire, praticamente, questa struttura? Dalle
fondamenta. Studiando, sperimentando ogni possibile alternativa alla violenza,
ad ogni livello. Imparando a dire no alle tasse per la guerra, no alla leva, no
all'uccidere in genere e si’ alla cooperazione, dando vita ad istituzioni basate
sul principio che l'omicidio in ogni sua forma e'
fuori discussione, creando e mantenendo relazioni nonviolente in tutto il mondo,
impegnandoci in ogni occasione di dialogo con le persone e i gruppi, per
spostare quel consenso che ora c'e' attorno all'opzione di uccidere. Ci sara'
chi continuera' a dire: 'Suona proprio bene, ma non credo possa funzionare'.
Probabilmente ha ragione. Probabilmente non abbiamo abbastanza tempo:
ebbene, forse saremo un glorioso flop, ma sapendo che l'unico fallimento
peggiore dell'organizzazione della nonviolenza e' stato l'organizzazione
della violenza". Alba e
le altre In italiano si chiamerebbe Alba la giovane donna che porta in giro questo nome pacatamente luminoso; se e' vero che talvolta l’appellativo incide sul carattere, di luce ne ha tanta dentro e fuori, Dawn Peterson, da New York, 25 anni, studentessa, attivista di "Peaceful Tomorrow", l’associazione dei familiari delle vittime dell’attentato dell’11 settembre che hanno detto "not in my name" allo scoppio della guerra angloamericana contro l’Irak. Not in my name, no alla guerra senza se e senza ma: lo abbiamo sentito dire molto, lo abbiamo detto, e scritto in molti modi, in tutto il mondo nelle piazze con le manifestazioni e dai balconi delle nostre case, con l’esposizione delle bandiere della pace, subito dopo l’11 settembre e allo scoppio della guerra in Irak. Ma sentirlo dire, e ascoltare l’impegno diretto contro la violenza dalle labbra di una persona che avrebbe motivo legittimo di sbattere in faccia al mondo le sue ragioni per chiedere vendetta, per infischiarsene del pacifismo di chi non e' coinvolto personalmente dalla violenza, nella sua stessa carne, nei suoi affetti, fa un grande impressione, e fa la differenza. Come quando si ascoltano ebrei e palestinesi che continuano a sostenere argomentazioni di non belligeranza, di nonviolenza ad ogni costo, pur nello strazio che ormai tocca a livello personale quasi tutti in entrambi i popoli, cosi' e' inedito affacciarsi ad un percorso di pace incarnato in una persona che viene dagli Stati Uniti, e che per di più e' da un anno in lutto a causa del terrorismo. Succede che ti chiedi: "se capitasse a me, avrei la forza di elaborare e trasformare la rabbia, il dolore indicibile e perenne in energia positiva, in spinta verso l’esterno piuttosto che in cupa vendetta, ancestrale sete di sangue con la quale illudersi di lenire la pena?". La sua perdita si chiama Davin, il fratello maggiore che stava al piano 104 di una delle Twin Towers, assieme ad altri settecento colleghi in una compagnia import-export, nessuno dei quali e' tornato a casa, "L’11 settembre? La caduta delle Torri - racconta - e' per me direttamente connessa alla perdita di Davin. Dopo il crollo che ha ucciso mio fratello molte cose sono cambiate. Non avevo mai immaginato una vita in cui lui non ci fosse. Avevamo vissuto insieme a New York per oltre tre anni, e molti aspetti delle nostre vite erano legati insieme. Era il primogenito e nella mia famiglia mia sorella, mio fratello, mia madre ed io guardavamo a lui per avere consigli e pareri. Era un po’ come una guida". Dawn e'
stata in Italia due volte dal 2001, ospite di diverse associazioni e movimenti
per la pace italiani. La sua voce arriva da una New York tesa. "Da
allora - racconta - si respira in citta' un clima traumatico, che
colpisce duramente chi ha pelle scura e tratti mediorientali: sono vere le
manifestazioni di razzismo che vengono denunciate. La liberta' e' stata
lacerata un bel po' negli ultimi mesi. Liberta' non significa decidere cos'e'
meglio per gli altri con il pretesto che li stiamo liberando, o stiamo
salvaguardando la loro liberazione. Liberta' e' la capacita' di pensare,
parlare e porre domande. Non significa ferire gli altri con la scusa che stanno
morendo per un bene piu' grande. Dov'e' la loro liberta'? Per me, liberta'
e' vivere la propria vita nel modo che si sente appropriato, mentre si
rispetta questo diritto per le altre persone. La liberta' non implica il dover
sacrificare la propria vita. Davin era fidanzato con una ragazza di origine
araba. All’indomani dell’attentato lei, che era in condizioni
strazianti, e' stata aggredita per strada da gente che le ha urlato contro
frasi razziste a causa del suo aspetto, accomunandola ai terroristi. E lei era
in lutto e sotto shock. E’ stato orribile". Pur cosi' giovane Dawn ha affrontato prove che per una ragazza della sua eta', senza preparazione e sostegno, sembrano inimmaginabili. Poco tempo dopo lo sgomento per la perdita subita ha dato vita a "Peaceful Tomorrow", il cui primo atto e' stato incontrare un gruppo di donne madri di giovani che hanno perso la vita nell’attacco. Non deve essere stato facile. "La
gente e' varia - racconta -. Qualcuno pensa che io sia troppo
idealista, qualcuno pensa che io sbagli e che l'unico modo in cui le persone
possono apprendere qualcosa, o l'unico modo in cui si puo' avere a che fare con
chi usa il terrore sia mostrargli il dominio attraverso la violenza militare.
Altri pero' sostengono quello che faccio. I membri di "Peaceful Tomorrows"
ovviamente supportano il movimento per la pace. Tutti noi abbiamo deciso che i
risultati dell'11 settembre dovevano essere la pace e la
nonviolenza". "Peaceful Tomorrows" ha molti progetti per il futuro. Alcuni della rete si sono recati prima in Afghanistan e poi in Irak per incontrare la gente, e dire che non tutti gli americani sono per la guerra. Anche questa una decisione mica da poco. Cosi' come inedito e trasgressivo per la cultura del paese piu' armato e belligerante del mondo e' il progetto di gemellaggio e pacificazione tra New York e le due comunita' giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, rase al suolo dall’atomica nordamericana che concluse la seconda guerra mondiale. E proprio a Hiroshima c’e', tra gli altri, un monumento ai Bambini di pace, un cippo in pietra sommerso da piccoli uccellini di carta, un origami semplice, alla portata anche di chi non ha esperienza nell’arte sottile del ritaglio: e' dedicato alla dodicenne Sadako Sasaki, che mori' di leucemia da radiazioni nel 1955. Sadako lotto' con tutte le sue forze contro la malattia, e negli otto mesi che passo' in ospedale costrui' centinaia di uccellini di carta, mentre sperava di guarire. Al monumento la gente lascia ancora in pegno queste piccole forme di carta colorata, come i biglietti del metro' che cospargono la tomba di Simone de Beauvoir a Parigi. Oggi, senza clamore, le forze governative del Giappone, che ha nella sua Costituzione un articolo, il 9, molto simile al nostro 11 di ripudio della guerra come strumento per dirimere le controversie, stanno premendo per allentare il divieto assoluto del paese a fare guerra, e a costruire un esercito offensivo, e alcune voci si stanno levando per informare il mondo di questo. Lo fa, per esempio, una donna molto sofferente, Michiko Yamaoka, vicedirettora e narratrice al Centro di Cultura della Pace di Hiroshima. Si chiama cosi', narratrice, e questo c’e' scritto anche sul suo biglietto da visita. La racconta, in un delicato ritratto, la giornalista Evelyn Varady del "Journal of Women Thinking and Acting for Peace". Parla di Michiko, dei ricordi mai sopiti del giorno della bomba, di visioni d'inferno, come le file dei corpi nudi sormontati da facce mostruose, con la pelle che si staccava dalle membra, il dolore bruciante, continuo, delle ferite, il primo salvataggio da sotto le macerie della casa dove stava quella mattina, e il secondo, da parte di sua madre, che la fermo' mentre stava per gettarsi nel fiume, perche' voleva smettere di vivere nel dolore continuo; e quello non meno piccolo quando il suo fidanzato la lascio' dopo aver visto com'era ridotto il suo corpo. Del primo viaggio negli Usa, nel 1955, dove c’era gente che le gridava: "Ricordati di Pearl Harbour". Qui, assieme ad altre ventiquattro donne Michiko ha subito numerosi interventi chirurgici per tentare di guarire dagli orrendi danni della bomba: oltre venti interventi di chirurgia le hanno lasciato comunque la mascella cascante, le mani di un rosso vivo screpolato e senza unghie, il sorriso storto, alcuni tumori ancora in corso con i quali convive. Solo dopo vent’anni lei e altre donne hanno rotto il silenzio del dolore e del trauma, e iniziato a raccontare. Oggi questo e' il suo lavoro, in Giappone e nel mondo. Sorprendentemente Michiko Yamaoka, nel cui biglietto da visita, molto grande, c'è scritto "Pace, Amore e Vita", dice che non e' molto interessata alla politica, ma che spendera' gli anni che le restano nel raccontare la storia di Hiroshima e Nagasaki. Oggi il suo nuovo impegno e' quello di contrastare il "ritocco" alla Costituzione e l’apertura conseguente del Giappone alla partecipazione in imprese militari aggressive. "Fate tesoro della vita, e non pensate mai di essere prive e privi di potere - ammonisce -. La pace sara' il risultato dello sforzo di ogni persona. Il desiderio piu' profondo del mio cuore e' l'abolizione delle armi nucleari, e pace genuina sulla Terra". Dal Giappone al Canada, passando per la scrittura. E’ una delle piu' grandi autrici canadesi femministe viventi, si chiama Margaret Atwood, e un paio di suoi libri sono stati paradigmatici nella descrizione letteraria e politica di due risvolti drammatici dell’umanita' femminile: la schiavitu' e l’emarginazione nei regimi religiosi da una parte, e la schiavitu' delle dittature culturali del mercato nei regimi laici dall’altra. La prima descritta ne Il racconto dell’ancella, un dolente giallo fantascientifico nel quale si mescolano l’arretratezza dell’Afghanistan sotto i taleban e l’aridita' dell’occidente ricco ed egoista, la seconda ne La donna da mangiare, uno (in apparenza) scoppiettante ritratto di giovane donna afflitta dai malesseri delle civilta' opulente: la bulimia e l’anoressia. In sintesi, come nel titolo di un altro testo, questa volta dell’indiana Anita Desai, Atwood ha messo in scena lo scontro tra due tendenze e maledizioni degli estremi culturali dei nostri tempi: digiunare, divorare, la drastica condizione di squilibrio degli esseri umani in questo pianeta. Prudente nel firmare appelli, sapiente descrittrice delle miserie e delle grandezze del contraddittorio e straordinario continente nordamericano, la Atwood ha di recente scritto una lettera, che lei stessa ha definito "davvero difficile", ad un soggetto altrettanto arduo da identificare come mittente: l’America, o meglio quel nord America che nella finzione letteraria diviene una persona cara alla quale ci si rivolge con passione e dolore: "Confesso di avere difficolta' a capire che cosa oggi tu sia", scrive. Atwood elenca cose condivise anche da noi europei: i fumetti dell’infanzia, Paperino e Topolino, la musica di Ella Fitzgerald, dei Platters, di Elvis. Come darle torto quando nomina "alcuni tra i mie libri piu' cari: Huckleberry Finn, Beth e Jo in Piccole donne, coraggiose in modi diversi. E poi Whitman, ed Emily Dickinson, testimone dell’anima umana femminile, Hammett e Chandler, eroi della strada, e Hemingway, Fitzgerald, e Faulkner, che tracciarono i percorsi dei labirinti oscuri del cuore, e ancora Sinclair Lewis e Arthur Miller, che con il loro idealismo hanno indicato le strade per dare dignita' all’agire umano. Tu - scrive Atwood agli Stati Uniti - hai indicato alle moltitudini la via per l’onesta', la giustizia e la liberta', hai protetto gli innocenti. Ho creduto a tutto questo, e' stato vero, e reale, fin qui. Non mi addentro nelle motivazioni che ti hanno portato all’avventura in Irak. So solo che tu hai sventrato la Costituzione, e il risultato? La tua casa e' stata invasa, sei stata incarcerata senza ragione, la tua posta spiata, i tuoi ricordi privati violati. Ti hanno detto che tutto questo lo si sta facendo per il tuo bene, ma fermati un attimo a riflettere: perche' hai così paura, al punto da distruggerti? La gente nel mondo sta iniziando a non credere piu' nelle cose buone che hai costruito, la gente nel mondo sta guardandoti distruggere le leggi della giustizia, stanno pensando che tu hai distrutto e infangato il tuo stesso nido. Nel mito anglosassone c’e' la figura di Re Artu', che non sarebbe morto, ma starebbe dormendo in una grotta, e nel momento del massimo pericolo si sveglierebbe, per tornare a salvare il mondo. Anche tu, amica mia, annoveri figure di donne e uomini da risvegliare, persone coraggiose, oneste, giuste: hai bisogno di loro, chiamali a raccolta per ispirarti e difendere le cose migliori che ci sono ancora in te". "La
logica suggerirebbe che una donna che ha perso un figlio o una figlia in una
guerra basata sull'odio etnico divenga amara e rabbiosa. Ci si aspetta che
questa madre si dedichi alla vendetta, e ad alimentare i fuochi dell'odio.
Invece scopriamo che queste donne dicono: cio' che e' accaduto a me non
deve piu' accadere a nessun'altra, perche' io so quanto e' terribile, e
cosa si prova. Percio', per favore, non compatite queste donne. Sono donne
dall'enorme coraggio, e dal grandissimo impegno". Sono le parole di Swanee Hunt,
ex ambasciatrice Usa, tra le fondatrici di Women Waging peace: tradotto
letteralmente "donne che intraprendono la pace", un network internazionale
fondato quattro anni fa che attinge alle risorse di ogni paese del mondo dove
c’e' guerra e odio e chiede alle donne di scegliere il genere come paradigma e
diventare quella terza parte che puo' fermare lo spargimento di sangue. A fine
novembre il network ha fatto un incontro molto intenso, riportato negli Usa
dalle pagine del "Los Angeles Times", bucando il rituale ricorso dei media alle
sole notizie e analisi dell’infernale impresa irachena. Ecco quindi il racconto di Sawsan Al-Barak, che viene da Hilla, una citta' fra le colline irachene. Durante il regime di Saddam Hussein, piu' di 20.000 persone sul mezzo milione di residenti della sua citta' sono state imprigionate e ne hanno riportato cicatrici fisiche e psicologiche. Lo scorso giugno Al-Barak, ingegnera al Ministero dell'Industria del suo paese, ha fondato il "Centro per le donne Fatima Al-Zahara", dove le donne possono avere consigli legali, aiuto contro la violenza domestica, e frequentare corsi di formazione. Visaka Dharmadasa dello Sri Lanka e' la fondatrice dell'"Associazione genitori dei dispersi in guerra e delle donne che vi si oppongono". Dharmadasa insegna i diritti umani ai soldati, ai giovani, ai leader delle comunita' e promuove lo sviluppo sociale ed economico delle donne attraversando le linee del conflitto. Loro, e altre, sono il cuore di "Women Waging Peace". Citando il rapporto annuale dell’associazione Hunt ha raccontato come nelle zone di guerra le donne lavorino per migliorare le condizioni delle donne, mentre sono attive nella costruzione della pace. Le loro azioni vanno dall'offrire seminari sulla risoluzione nonviolenta del conflitto all'ideazione e sviluppo di nuovi mezzi per la protezione dei diritti umani, al provvedere istruzione e formazione. Poiche' sono molto di frequente ritratte solo come vittime, esse ricevono scarso riconoscimento per il ruolo effettivo che giocano nel ristabilire e promuovere pace e sicurezza. E' una percezione che deve cambiare, dice Hunt, perche': "I politici e i diplomatici di solito ignorano le donne presenti e parlano solo agli uomini, dimenticando che sono le donne ad organizzarsi a livello di base, e a parlarsi l'un l'altra attraversando le linee del conflitto". Un caso
tra gli altri, portato a paradigma: in Namibia, nel 1997, mentre il paese si
stava riprendendo dopo una lunga guerra di guerriglia, gli stupri e la
degradazione delle donne erano fatti giornalieri e completamente ignorati sino a
che lo stupro di una bimba di due anni non venne reso pubblico. Le donne
dissero: ora basta. Diedero inizio ad un'intensa campagna contro la violenza
sessuale, fino a che il Presidente della Namibia dovette condannarla in un
discorso televisivo e promuovere nuove leggi". Era presente anche Ala Talabani, cofondatrice dell'Alto consiglio delle donne irachene, che ha ribadito il ruolo centrale delle donne del suo paese nel saper conciliare le differenze etniche e culturali ed ha chiesto maggior riconoscimento nel processo di ricostruzione: "Oggi siamo più del 55% della popolazione irachena. La nostra e' una societa' molto varia: siamo curdi, turchi, musulmani, ed altro ancora. Saremo coloro che costruiranno la pace. Non permetteremo che le divisioni etniche distruggano un paese che neppure un dittatore e' riuscito, in decenni, a distruggere". Al forum
le donne dell'Afghanistan, dell'Iran, dell'Iraq e di Israele si sono sedute
accanto alle donne delle Fiji, del Guatemala, del Kosovo, della Liberia e
del Congo. Hanno parlato delle tecniche per la costruzione della pace e della
frustrazione nell'aver a che fare con corpi diplomatici dominati da uomini in
divisa. E tutte hanno ricordato che le donne spesso mostrano scarsa
deferenza per i confini politici, etnici o nazionali. Proprio per questo, e per
la loro abilita' nel risvegliare la comune umanita' in forze ostili, sono
cruciali nei processi di pace: "Le donne si mettono di fronte agli uomini
armati. Alzano le braccia davanti ai fucili e dicono: Fermi! O vanno in luoghi
in cui gli uomini, al loro posto, verrebbero uccisi. Dicono: Si', sono serba,
croata, oppure palestinese o israeliana, fa parte della mia identita'. Ma sono
anche una donna, e capisco le altre in questa situazione". "Abbiamo
la necessita' di sfidare la montante agenda reazionaria, sempre piu'
fondamentalista, sui ‘tradizionali valori familiari’. Non possiamo costruire una
democrazia sana fondandola sull’autoritarismo e sull’intolleranza, in casa come
fuori di casa. Le relazioni familiari influenzano i modi in cui le persone
pensano ed agiscono". Riane Eisler, storica nordamericana autrice del bestseller internazionale Il calice e la spada, allarma cosI', alla vigilia del mediatico e commerciale "mummy day" la comunita' politica e sociale del suo paese dalle pagine virtuali del sito del Center for Partnership Studies, www.partnershipway.org, del quale e' presidente. "Ricordate
lo slogan: 'il personale e' politico'? Oggi, sono i fondamentalisti
reazionari, non i progressisti, ad essere piu' a proprio agio nel parlare del
personale come politico, prosegue Eisler. Sono loro, e non i progressisti, a
dominare il dibattito sulla vita ‘privata’ e sui ‘valori della famiglia’. Eppure
le relazioni familiari influenzano direttamente cio' che le persone considerano
normale e morale in tutte le relazioni, private e pubbliche. Influenzano il modo
in cui le persone votano e governano, e la scelta sul sostenere politiche di
giustizia democratiche o politiche di violenza ed oppressione. Gli slogan sui
valori tradizionali spesso mascherano una moralita' familiare tagliata su misura
per culture non democratiche, rigidamente dominate dal maschio e cronicamente
violente. Esse spacciano sul mercato una famiglia in cui le donne sono
subordinate ed economicamente dipendenti, dove i padri dettano le regole e
puniscono severamente la disobbedienza, il tipo di famiglia che prepara le
persone ad essere deferenti con i leader forti, che non ammettono dissenso ed
usano la forza per imporre la loro volonta'. Non e' una coincidenza che per
i fondamentalisti reazionari (cristiani, hindu, ebrei o musulmani) la sola
morale familiare sia quella modellata sui ranghi inferiore/superiore della
dominazione, sostenuta dalla paura e dalla forza. Non e' una coincidenza
che i terroristi dell’11 settembre provenissero da famiglie in cui donne e
bambini vengono forzati alla sottomissione mediante il
terrore". Fin qui
l’analisi della Eisler, mentre la fredda contabilita' dei numeri ci inchioda ad
una fotografia cupa: l’Organizzazione mondiale della sanita' riporta che ogni
anno 40 milioni di bambini sotto i 15 anni sono vittime di abusi familiari
abbastanza seri da richiedere soccorso medico. L’abuso sessuale e lo stupro sono
all’ordine del giorno in meta' del pianeta. Negli Usa una donna viene picchiata,
dall’uomo di casa, ogni 15 secondi. La
Eisler conclude con una esortazione, e un paragone di certo non lusinghiero per
i fautori dell’american dream: "I progressisti non possono ritirarsi sui valori
morali e su questioni come l’aborto e i diritti degli omosessuali. Abbiamo
bisogno di un’agenda progressista per la famiglia che sia in linea con gli
insegnamenti chiave di tutte le religioni: cura, empatia e responsabilita',
anziche' coercizione, intolleranza e violenza. Non e' un sogno. Le nazioni
nordiche, per esempio, hanno economie prospere, persone con maggior aspettative
di vita, e meno crimini degli Usa. Le donne e gli uomini sono partner con
maggior eguaglianza, e politiche quali la sanita' pubblica e il congedo
parentale retribuito incrementano la salute delle famiglie e della societa'. Non
possiamo credere di costruire societa' che rispettino i diritti umani e la
democrazia quando milioni di persone crescono in famiglie che violano di routine
i diritti umani. Negli Usa non e' una questione di Democratici contro
Repubblicani. La questione e' promuovere valori che ci aiutino davvero nel
fare la nostra societa' sicura, prospera, giusta,
egualitaria". * -
Giselle Dian: E' sempre
piu' evidente la coerenza e la saldatura tra impegno per la pace, affermazione
dei diritti umani di tutti gli esseri umani, scelta della nonviolenza,
femminismo ed ecologia. Come e perche' si realizza questa convergenza?
Quali frutti rechera' all'umanita'? - Monica Lanfranco: "Noi donne, in
tutta la nostra vibrante e favolosa diversita', siamo testimoni della crescita
delle aggressioni contro lo spirito, la mente e il corpo umano, e la continua
invasione ed assalto contro la terra e le sue diverse specie. E siamo
infuriate". Questa era la frase di apertura del
numero di "Marea" del marzo 2001, prima del G8 di Genova, quando a giugno la
nostra rivista organizzo' "Punto G", appuntamento internazionale di donne sulla
globalizzazione che apri' in anticipo i forum tematici per un'altra
globalizzazione, contro il neoliberismo selvaggio e inumano. A dieci anni da
allora i temi che ruotano intorno al rapporto umanita', stato della terra e
delle risorse sono ancora al centro dei proclami delle enclave dei governi; ma
la sensazione e' che poco stia cambiando. I movimenti ecologisti premono
perche' soprattutto le nuove generazioni siano sensibilizzate e alfabetizzate
verso un'idea e una pratica di consumo sostenibile, ma solo nicchie di mercato,
di politica e di opinione pubblica vanno in quella direzione. Poco si fa per
dare valore e impulso anche all'ecologia del quotidiano, facendo apparire come
inefficace e quasi inutile l'impegno singolo, rimandando solo alle strutture
forti (i governi) la possibilita' di incidere davvero. L'ecofemminismo ha, fin
dalla sua nascita, ribaltato questa visione, dando grande valore anche al
cambiamento individuale come motore di quello collettivo. E sostenendo che
l'oppressione subita dalle donne e il deterioramento ambientale sono prodotti
dai valori patriarcali, che generano entrambi le
ingiustizie. Oggi le donne, da vittime come lo e' la Terra, sono passate a prendere parola e a promuovere azioni per fermare la distruzione delle risorse, scongiurando la tragica ipotesi di un lascito di un pianeta devastato e infecondo. Come sempre, quando il movimento e il pensiero delle donne si connette con altre filosofie e pratiche di cambiamento, i risultati sono incoraggianti. In questo numero di "Marea" del marzo 2010 abbiamo cercato di dimostrare come l'ecofemminismo sia uno di questi. Non sara' un caso che le parole e i
corpi di chi ha dato vita allo straordinario e variegato movimento che si oppone
alla globalizzazione neoliberista siano parole e corpi di donne, prima tra tutte
l’ecofemminista indiana Vandana Shiva. Il suo pensiero ci parla di diversita' ecologica come unica strada per fermare la fine del pianeta e delle sue risorse, e per farlo si serve di un piccolissimo esempio, quello del seme di senape, minacciato di essere completamente distrutto in India dalla monocultura della soia imposta dalla multinazionali. E spesso accosta la metafora del corpo violentato di una donna per descrivere cio' che l’incuria e l’arroganza umana sta causando alla terra. "In questi tempi di 'pulizia etnica', spiega Shiva nel suo Monocolture della mente, mentre le monocolture si diffondono nella societa' e nella natura, riconciliarsi con la diversita' diventa un imperativo per la sopravvivenza. Le monocolture sono una componente essenziale della globalizzazione, che si basa sulla omogeneizzazione e la distruzione della biodiversita'. Il
controllo globale delle materie prime e dei mercati rende le monocolture
necessarie. Questa guerra alla differenza non e' del tutto nuova. La
diversita' e' stata messa in pericolo dovunque sia stata vista come un
ostacolo. Le radici della guerra e della violenza stanno nel trattare la
diversita' come una minaccia, una fonte di perturbazione e di disordine. La
globalizzazione trasforma la diversita' in malattia e carenza, perche' non
riesce a tenerla sotto controllo. Quello che succede in natura si ripresenta
anche nella societa'. Quando l’omogeneizzazione viene imposta a differenti
sistemi sociali, le parti iniziano a disintegrarsi l’una dopo l’altra. Perche'
la violenza intrinseca all’integrazione globale centralizzata, a sua volta, crea
violenza anche tra le vittime. La globalizzazione non e' solo l’interazione
culturale tra le diverse societa', ma l’imposizione di una specifica cultura su
tutte le altre. Vi e' una solo strada per contenere queste epidemie di
violenza. Con sensibilita' e responsabilita' spetta a noi - chiunque siamo e
dovunque ci troviamo - riconciliarci con la diversita'".
4. APPELLI.
IL CINQUE PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Anche con la prossima dichiarazione dei redditi si puo' destinare il cinque per mille al Movimento Nonviolento. Non si tratta di versare denaro in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il cinque per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale del Movimento Nonviolento, che e': 93100500235. * Per ulteriori informazioni: tel. 0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 5.
STRUMENTI. "AZIONE NONVIOLENTA"
"Azione nonviolenta" e' la rivista del Movimento Nonviolento, fondata
da Aldo Capitini nel 1964, mensile di formazione, informazione e dibattito sulle
tematiche della nonviolenza in Italia e nel mondo.
Redazione, direzione, amministrazione: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803 (da lunedi' a venerdi': ore 9-13 e 15-19), fax: 0458009212, e-mail:
an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org
Per abbonarsi ad "Azione nonviolenta" inviare 30 euro sul ccp n. 10250363 intestato ad Azione nonviolenta, via Spagna 8, 37123 Verona. E' possibile chiedere una copia omaggio, inviando una e-mail all'indirizzo
an at nonviolenti.org scrivendo nell'oggetto
"copia di 'Azione nonviolenta'".
6. SEGNALAZIONI LIBRARIE
Riletture
- Sergio Labate, La sapienza dell'amore. In dialogo con Emmanuel Levinas,
Cittadella, Assisi 2000, pp. 272.
- Mario Martini (a cura di), La filosofia del dialogo. Da Buber a Levinas,
Cittadella, Assisi 1995, pp. 296.
7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e
internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento
dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della
creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo
di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU'
Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it
Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 209 del 2 giugno 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it, sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su:
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