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La domenica della nonviolenza. 235
- Subject: La domenica della nonviolenza. 235
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 27 Sep 2009 07:59:28 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 235 del 27 settembre 2009 In questo numero: 1. Mario Gozzini ricorda Lorenzo Milani (1997) 2. Enzo Romeo ricorda Raoul Follereau (2008) 1. MEMORIA. MARIO GOZZINI RICORDA LORENZO MILANI (1997) [Dal mensile "Jesus", n. 6, giugno 1997, col titolo "Lorenzo Milani. Il ribelle obbediente" e il sommario "A trent'anni dalla morte, il priore di Barbiana rimane un segno di contraddizione sempre vivo. Il suo anticonformismo fu scambiato per dissacrazione; in realta' contestava i falsi valori della societa' borghese, ma per educare a valori piu' autentici, alti e universali. La sua lezione resta ancora oggi un antidoto efficace contro l'idolatria del mercato. Quanto ai suoi contrastati rapporti con l'autorita' ecclesiastica, le sue diagnosi si sono rivelate esatte, tanto che il Concilio le ha fatte proprie"] I. Il ribelle obbediente Don Milani! Chi era costui? E' il titolo dell'ottimo libro di Giorgio Pecorini (Baldini & Castoldi, 1996, pp. 420, lire 28.000), l'ultimo arrivato, per ora, ad accrescere la gia' copiosa messe di studi sul priore di Barbiana. L'interrogativo manzoniano e' perfettamente appropriato, anche se, com'e' ovvio, fra Carneade e don Abbondio, da una parte, e don Lorenzo, dall'altra, non c'e' proprio nulla in comune. Appropriato perche', a trent'anni dalla morte, non abbiamo ancora una risposta univoca, definitiva, condivisa da tutti. In vita si scontro' con i superiori ecclesiastici e con i tribunali civili che lo processarono per apologia di reato (l'obiezione di coscienza) mentre la cultura laica tendeva a esaltarlo, sia come "prete contro", sia come testimone attivo e propugnatore di una scuola diversa, meno attenta ai Pierini figli di papa' e piu' ai Gianni proletari, emarginati a causa di un ambiente familiare che non li aiutava per nulla a crescere in coscienza, responsabilita', padronanza della parola: fino a fare di lui addirittura un precursore del Sessantotto. Oggi la situazione appare in qualche modo rovesciata: l'obiezione di coscienza al servizio militare ha avuto riconoscimento giuridico in una legge del 1972, appena cinque anni dopo la morte di Milani, e i tribunali non avrebbero piu' alcun motivo di perseguirlo per averla anticipatamente difesa; quanto all'autorita' ecclesiastica, Esperienze pastorali, il libro che nel 1958 l'allora Sant'Uffizio fece ritirare dal commercio, se lo si rilegge ora, ci si accorge che vi si trovano diagnosi, ruvide, si', nella forma, ma esatte nella sostanza, talche', di li' a poco, il Concilio le avrebbe fatte proprie, ristabilendo con la riforma liturgica la centralità dell'Eucaristia, laddove i buoni cattolici di San Donato a Calenzano (Milani vi fu mandato cappellano, quasi subito dopo l'ordinazione, salvo un brevissimo incarico nella parrocchia di Montespertoli) nel loro analfabetismo religioso partecipavano puntuali e compunti al Vespro e alla Processione per il santo patrono ma disertavano la messa: proprio questo squilibrio intollerabile era stigmatizzato nel libro. I contrasti col vescovo non avevano mai investito questioni di ortodossia, bensi' soltanto il voto alla Dc e un certo modo non del tutto passivo di intendere l'obbedienza; la punizione dell'esilio a Barbiana (parrocchia dell'Alto Mugello destinata alla chiusura per spopolamento, e tenuta aperta solo per confinarci lui) s'era risolta in un boomerang perche' l'intelligenza tenace, forse imprevedibile, di don Lorenzo riusci' a far fiorire il deserto e a rendere il nome di Barbiana un riferimento prezioso per chiunque, credente o no, rifiuti di rassegnarsi all'esistente. D'altronde l'attuale arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, ha detto e fatto quanto gli era possibile per restituire al suo antico compagno di seminario quell'onore ecclesiale che il suo predecessore gli nego'. Al contrario, la cultura laicista - non tutta, solo qualche frangia - tende oggi a mettere in dubbio la validita' della sua esperienza e a darne giudizi drasticamente negativi, anche con falsificazione di dati (come ha fatto Sebastiano Vassalli, celebrato scrittore; Pecorini lo dimostra nel suo libro). E ci sono ancora cattolici laici, come Irene Pivetti, che non perdonano a don Lorenzo la sua singolarita' di obbediente-disobbediente, e altri che, invece, non gli perdonano l'obbedienza, di non averla trasformata in ribellione e distacco. Certo e' che il priore di Barbiana fu, e rimane, a trent'anni dalla morte, un segno di contraddizione sempre vivo e interpellante. A parte quella piu' appariscente di ribelle-obbediente, lo si e' accusato di illuminismo, ma la sua fede rocciosa, il suo bisogno della Chiesa, il suo amore alla "ditta" di appartenenza (come la chiamava, a seguito di quella vena ironica, molto toscana, che e' un aspetto non marginale del suo carattere e della sua scrittura) dimostrano una spiritualita' incontenibile nei confini della pura ragione (anche se di questa ampiamente si avvaleva, come del resto, cattolicamente, e' non solo legittimo ma doveroso); lo si e' dipinto come un sovvertitore di costumi e un corruttore di giovani, mentre, da un lato, il suo rigore estremo, didattico, e morale, balza fuori dagli scritti con intransigente evidenza, dall'altro, la sua scuola ha formato, di ragazzi analfabeti e isolati fra boschi e pecore, cittadini consapevoli e impegnati, educatori a loro volta, nella scuola e nel sindacato. Il suo anticonformismo fu scambiato per dissacrazione; in realta', egli dissacrava, si', gli pseudovalori della societa' borghese (a cominciare dal militarismo e la guerra), ma per educare e richiamare a valori piu' autentici, piu' alti, piu' universali; dissacrava e stigmatizzava, si', un certo modo di essere Chiesa ma per una piu' profonda fedelta' all'annuncio cristiano (cio' che fu, in definitiva, il fine del Concilio, esplicitamente dichiarato). Non c'e' dubbio, pare a me, che la lezione di don Milani sia un antidoto tra i piu' efficaci contro l'idolatria del mercato e del consumo, rivincita rischiosa della cultura illuministica e borghese nella società d'oggi. Ma la contraddizione di fondo, rispetto a chiunque si pieghi a compromessi con quelle che Giovanni Paolo II ha definito "strutture di peccato", sta in quel che si potrebbe anche dire il suo integralismo esistenziale (che non ha proprio nulla da spartire con l'integralismo negatore di laicita'). "Io non vendo le mie singole prestazioni ma la mia vita intera a una comunita' intera". O ancora, in una lettera alla mamma: "Non sono contento se la mia vita non ha ogni attimo la stessa intensita'... Io son sereno solo quando son sempre intonato con ogni evenienza. Cioe' quando il mio pensiero o attivita' non stona con nulla d'altrui che possa accadere". E l'evenienza, nel caso concreto, era un giovane morente di cancro, cui don Lorenzo fece da padre, da infermiere, da prete. Questa ricerca d'essere "sempre intonato" faceva da contrappeso a quel suo estremismo che cacciava dalla scuola, anche in malo modo, chi ci veniva con sussiego, chiuso nelle proprie sicurezze. Anche a proposito dell'obiezione di coscienza - la cui difesa gli sarebbe costata una condanna penale, come a padre Balducci, se il reato non si fosse estinto per morte dell'imputato - egli non era affatto estremista, non ne faceva un assoluto, anzi mostrava un raro equilibrio relativizzante. Cosi' scrive a uno dei suoi ragazzi a disagio nel servizio militare: "Di fronte alla chiarezza universale della frase 'il cristiano deve rifiutarsi di incendiare un villaggio con donne e bambini' stonerebbe la frase 'il cristiano deve rifiutarsi di mettersi sull'attenti'". Non conformista, certo, ma nemmeno, altrettanto certamente, anarchico. Ma chi era, chi e' don Lorenzo Milani? Cominciamo dalla scuola. Perche', da cappellano a San Donato, poi, con ancor piu' assoluta assiduita', a Barbiana, intese come impegno primario di prete quello di dare alla gente, di cui era spiritualmente responsabile, il massimo possibile di acculturazione, non solo nel senso di conoscenza ma anche in quello di capacita' critica? Di fare lui, insomma, cio' che la scuola istituzionale, mal frequentata o escludente, non sapeva fare? Perche' non si contentava, da "buon prete", di amministrare dottrina e Sacramenti, ma diceva che "per ora" non faceva "con convinzione altro che scuola"? La risposta e' chiara, ce la da' lui stesso in Esperienze pastorali: e' l'analisi penetrante di un popolo che si dice cristiano ma in cui la fede e' ridotta ad abitudine, a imitazione di quel che fanno tutti, ad aggregazione passiva, privata del benche' minimo senso di una comunita' credente che nasce dalla, e culmina nella, liturgia eucaristica. Si badi: don Lorenzo non allude a quel fenomeno che piu' tardi si dira' secolarizzazione (La citta' secolare del pastore battista americano Harvey Cox, prima diagnosi specifica ed esatta del fenomeno, e' del 1965: egli non fece a tempo a conoscerla), mette a nudo piuttosto un sottosviluppo e uno squilibrio nella fede che hanno radici remote, prima delle quali la mancanza di un alfabeto che renda possibile la comprensione e l'accoglienza del messaggio. Un altro prete, anzi la stragrande maggioranza dei preti, se ne accontentava, non avvertiva il problema; don Lorenzo si', e con acuta sofferenza si chiede cosa c'e' di comune fra lui e quella gente fatta cosi'. "Ci manca anche il linguaggio col quale qualcosa di comune, se non c'e'è, si crea". Conseguenza non eludibile, per un uomo e un prete come Milani, "la scuola, in questo popolo e in questo momento, non e' uno dei tanti metodi ma mezzo necessario e passaggio obbligato ne' piu' ne' meno di quel che non sia la parola per i missionari dell'Istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina". Aveva tuttavia, di questo suo convincimento, una coscienza critica: "Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti piu' cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli incolti pecorai di questi monti. E' che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore, s'arrangino, se sceglieranno male peggio per loro. Ma qui e' diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato la parola? I missionari dei sordomuti fanno cosi'. Fanno scuola della parola per anni e poi dottrina per poche ore. E il loro agire e' logico, obbligato, perfettamente sacerdotale". Ne' c'era in lui l'orgogliosa pretesa di imporre la sua scelta personale, legata alla realta' trovata a Barbiana, a tutti i suoi confratelli. C'e' una nota che spiega: "Ho detto hic et nunc e nulla piu'. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i problemi si presentano in modo diverso mi lascino dire. Non entro nei fatti loro. Cio' che dico servira' per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a questa". Allora l'affermazione che la scuola gli e' "sacra come un ottavo sacramento" appare meno azzardata, anzi coerentissima col mandato pastorale da don Milani accolto con serieta' assolutamente responsabile. Soltanto la rassegnazione a lasciar concepire i sette sacramenti canonici come atti sacro-magici preclusi al loro senso autentico puo' indurre a pensare che la scuola sia un arbitrio, un capriccio e non una premessa e uno strumento indispensabili. Proprio siffatta rassegnazione don Milani non sopportava e in questo senso, si', era un rivoluzionario, "rompeva le scatole", ossia gli schemi mentali del clero cui apparteneva. Gia' questo era un fattore di contrapposizione e, al limite, di ostilita' piu' o meno latente fra i suoi confratelli preti. A ben guardare, peraltro, nessuno puo' onestamente negare che la scuola, per Lorenzo, avesse una motivazione direttamente pastorale, religiosa: l'accusa di illuminismo era davvero, questa si', del tutto arbitraria, cervellotica: il priore di Barbiana vedeva nella scuola nulla piu' che uno strumento, preliminare e obbligato, per svolgere meglio, piu' efficacemente, il mandato ricevuto. Non attribuiva alla scuola funzioni e finalita' immediatamente evangelizzanti: si rendeva ben conto che, con essa, "non li potro' far cristiani ma li potro' far uomini, a uomini potro' spiegare la dottrina...". E chi sono gli uomini degni di questo nome? Risposta: "Chiamo uomo chi e' padrone della sua lingua". Qui veniva, ma solo come conseguenza secondaria, l'aspetto sociopolitico della scuola milaniana: dare la padronanza della parola voleva dire, anche, porre le premesse per una rivoluzione culturale negli alunni, non piu' rassegnati ad accettare lo stato delle cose, la loro condanna al silenzio e all'ingiustizia. Donde la ribellione alla scuola istituzionale che faceva ponti d'oro ai fortunati e respingeva, di fatto, i figli dei poveri. Don Milani insegnava a criticare, a protestare - sempre in modo nonviolento, va ribadito - contro la burocrazia oppressiva e per far valere i propri diritti. Si puo' dire che non era un insegnamento mai direttamente politico, in senso partitico; era piuttosto qualcosa di prepolitico, si direbbe oggi, verso la presa di coscienza che certi problemi sono propri anche di altri. E allora "sortirne tutti insieme e' la politica, sortirne da soli e' l'avarizia". Politica, dunque, come - anzitutto - solidarieta' con tutti quelli che soffrono gli stessi problemi di ineguaglianza, di emarginazione, di privazione di diritti umani fondamentali. Anche questo era un fattore di grande innovazione nei confronti di una mentalita' diffusa (e vecchia di secoli) secondo la quale la religione deve inculcare sottomissione al potere costituito. Ora, in quegli stessi anni, non solo si venivano sviluppando i temi della "teologia politica" (l'esodo degli ebrei dall'Egitto interpretato non piu' come puro simbolo dell'uscita del singolo dal peccato ma come segno che Dio vuole la liberazione del suo popolo da ogni tipo di schiavitu') ma, al massimo livello magisteriale (Sinodo dei vescovi 1971 sulla giustizia nel mondo), si sarebbe proclamato che "la liberazione da ogni stato di cose oppressivo e' parte integrante della predicazione del Vangelo". Evidentemente, quindi, e' tutt'altro che fuori luogo, o encomiastico, vedere in Milani un profeta, nel duplice senso di chi parla e agisce in nome di Dio e di chi anticipa temporalmente idee e posizioni che verranno poi fatte proprie dalla Chiesa nella pienezza della sua autorita'. Probabilmente, anche se leggeva il tedesco, don Lorenzo non conobbe Bonhoeffer, le cui traduzioni italiane sono posteriori. Certo e' che se ne sarebbe a suo modo entusiasmato: penso ai temi dell'"uomo adulto" chiamato ad assumere fino in fondo le proprie responsabilita' nella storia (anche politiche, certo) e a rimuovere quel "Dio tappabuchi" che, in maniera del tutto difforme dal messaggio rivelato della Bibbia, viene diminuito ad alibi troppo umano dei nostri vuoti di conoscenza, di intervento, di potenza. "I care", mi interesso, mi preoccupo, me ne curo - l'opposto del "me ne frego" fascista -, era il motto, come si sa, della scuola di Barbiana; motto, appunto, che si addice all'"uomo adulto" delineato dal grande pastore luterano resistente al nazismo e finito sulla forca un mese prima che la guerra finisse. Il quale respingeva con sdegno qualsiasi "ricatto religioso" verso i compagni di prigionia terrorizzati dai bombardamenti; analogamente don Milani, come si vedra', respingeva l'idea di "portare alla Chiesa" i suoi ragazzi. Bonhoeffer sarebbe stato certamente d'accordo con l'affermazione-esortazione del priore di Barbiana che "ognuno deve sentirsi responsabile di tutto". Dove e' implicito, fra l'altro, un aspetto fondamentale della sua scuola: educare ad obbedire alle leggi vigenti (altro che anarchismo) e nello stesso tempo ad operare per cambiarle, non appena ci si accorge che non rispondono piu' alla realta' della vita sociale e alla tutela dei valori autentici. L'analisi della motivazione primariamente religiosa e pastorale che lo "costringeva" a fare scuola prima di far Dottrina e Sacramenti non esaurisce certo l'originalita' della fede di don Milani, della sua qualita' specifica, personalissima. Il punto oscuro della conversione e della scelta sacerdotale e' sicuramente un ostacolo a capirne di piu'. Ma basta quell'episodio noto - "io prendero' il suo posto" davanti alla salma del prete morto - a dirci intanto un carattere preciso: il forte senso dell'istituzione e della sua permanenza nel tempo (della "ditta" come scherzosamente soleva dire della Chiesa, per lui luogo e fonte insostituibile della remissione dei peccati). Un carattere confermato da tutta la sua esperienza di prete, in particolare dalla ricerca angosciosa e ostinata, sullo scorcio della vita, di una riparazione del suo macchiato "onore" sacerdotale da parte del vescovo. Fa parte di questo suo attaccamento, quasi viscerale si direbbe, l'aspirazione a che il vescovo sia meglio "informato" prima di pronunciare opinioni o, peggio, condanne: un aspetto, questo, consegnato in particolare alla famosa lettera indirizzata a Nicola Pistelli (quella che ha per tema la necessita' di "educare il vescovo"), pagine magistrali, un catechismo non dottrinale ma pratico, un vademecum prezioso per tutti i cattolici desiderosi di una coscienza ecclesiale piu' aperta ed efficace, meno passivamente conformista (nella Chiesa, avrebbe detto il cardinale Leger, arcivescovo di Montreal e uno dei protagonisti del Concilio, "la critica e' un dovere non meno dell'obbedienza"). Contrastante con questo attaccamento, invece, l'assenza di attenzione al Concilio e al suo svolgersi, almeno a stare ai testi che conosciamo: non sembrano nemmeno sfiorarlo le grandi novita' sul rapporto fra la Chiesa e il mondo e sulla storicita' della comprensione della Parola di Dio (Dei Verbum, 8: una novita', questa, che era pure una giustificazione magisteriale rilevante del suo operare hic et nunc). E qui, forse, ci sarebbe da studiare se, ed eventualmente quanto, l'ascendenza ebraica per parte di madre abbia lasciato tracce nel temperamento e nel cattolicesimo di Lorenzo: qualcuno sostiene, infatti, che la sua fede, cosi' caparbia e ostinata, abbia indole piu' da Antico Testamento che da Nuovo. Una tesi, a prima vista, scarsamente persuasiva, ma meritevole di approfondimenti che qui non siamo in grado di fare. * II. Non si puo' amare senza "perdere la testa" Il rifiuto di un generico "amore universale" e' uno dei cardini dell'esperienza di don Milani. Vogliamo soffermarci su un atteggiamento nettamente provocatorio, ma tutt'altro che soltanto polemico, sul quale Milani torna spesso e che costituisce, sotto certi aspetti, un motivo conduttore di tutta la sua esperienza. Si tratta del ripudio esplicito e reiterato dell'"amore universale". "Se credessi davvero al comandamento che continuamente mi rinfacciano, e cioe' che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni un prete da salotto, cioe' da cenacolo mistico-intellettual-ascetico, e smetterei di essere quello che sono, cioe' un parroco di montagna che non vede al di la' dei suoi parrocchiani... Se offrissi un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri di ascetica, smetterei d'esser parte vivente d'un popolo di montanari...". "Il sacerdote e' padre universale? Se fosse cosi' mi spreterei subito... Vi ho convinto e commosso solo perche' vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature ma che le amavo con amore singolare e non universale". Certo, si può anche rilevare un certo carattere appunto provocatorio e paradossale in queste affermazioni quasi gridate. Ma il grido di Lorenzo tocca un punto critico dell'esser cristiani. Da un lato, l'amore e' vero solo se resiste alla prova, solo se, come i metalli sotto il morso del fuoco, si manifesta vivo quando scocca l'ora della difficolta', della malattia che colpisce la persona "amata" e si tratta di assisterla giorno e notte; dall'altro lato, come dice il pastore Paolo Ricca, non sono io che posso dire "ti amo", e' solo l'altro che puo' dire di sentirsi amato. Abbiamo d'altronde una conclusione, ineccepibile nella sua drastica semplicita' e, vorrei dire, incontestabile evidenza: "Non si puo' amare tutti gli uomini. Di fatto si puo' amare un numero di persone limitato... E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo e' possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di piu'". Una conclusione piu' efficace, nella sua immediata concretezza, di tante disquisizioni teologiche e commenti al capitolo 13 della I Lettera ai Corinzi, il celebre inno alla carita': se cediamo a una lettura "universale" di quella mirabile pagina neotestamentaria, c'e' il rischio che la carita' evapori in una nebbia indistinta; da richiamo fortissimo al vissuto concreto delle relazioni interpersonali si trasformi in esortazione generica, privata di incidenza sulla realta'. Del resto, quando il Magistero parla di "scelta preferenziale dei poveri", in diretta dipendenza dalla prima Beatitudine, mi pare confermi la scelta di don Lorenzo, nel senso di "accorgersi" dei poveri e amarli di un amore privilegiato, "schierandosi" al loro fianco. Ma la lezione milaniana va ancora oltre l'evidenza che Dio non ci chiede che l'amare - sul serio - un numero limitato di persone. In una delle lettere piu' significative, quella alla studentessa Nadia, combattuta tra fede e ateismo, scrive: "E' inutile che tu ti bachi il cervello alla ricerca di Dio o non Dio. Quando avrai perso la testa come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio... Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene". Perdere la testa: espressione toscana, che in italiano puo' anche avere il significato negativo di uscir dalla ragione, ma qui, nella lingua di don Milani, ne ha uno esclusivamente positivo, quello di vivere per l'altro dimenticando se stessi. Confinato nel deserto di Barbiana, avrebbe potuto cercare di salvarsi facendo il minimo del suo dovere di parroco; invece, per grazia di Dio e per la sua indomabile tenacia di fede - compratosi, appena arrivato, lo spazio per la tomba nel cimiterino parrocchiale, e dunque deciso a restar li', senza nulla fare perche' il confino fosse revocato -, "perse la testa dietro poche decine di creature" e si salvo'. Laicamente si potrebbe dire: eterogenesi dei fini; cristianamente si deve rilevare che, anche per lui, i disegni di Dio non corrisposero ai pensieri degli uomini, sia pure vescovi. "Quei due preti mi domandavano se il mio scopo finale nel fare scuola fosse di portarli alla Chiesa o no e cosa altro mi potesse interessare al mondo nel fare scuola se non questo. E io come potevo spiegare a loro cosi' pii e cosi' puliti che io i miei figlioli li amo, che ho perso la testa per loro, che non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare? Come faccio a spiegare che amo i miei parrocchiani molto piu' che la Chiesa e il Papa?". Un paradosso, perche' sappiamo bene quanto per lui la Chiesa fosse un mezzo non surrogabile di salvezza; ma un paradosso che sta al centro della fede cristiana, una lezione preziosa per chiunque intenda prenderla sul serio, da credente o da non credente. "Ho voluto piu' bene a voi che a Dio", scrive ai suoi ragazzi poco prima di morire, "ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto". Ora a Barbiana e' tornato il silenzio e il deserto. La chiesa e' chiusa, la parrocchia soppressa, come gia' era stato deliberato prima di tenerla aperta per mandarci lui, in esilio. La strada per arrivarci e' dissestata, fitta di sassi, invasa dalle erbacce. Ma quella tomba seguita ad essere, trent'anni dopo, meta incessante di visitatori, anche di intere scolaresche. Vanno a "fare memoria" di un uomo e di un prete al quale sentono di dovere molto. Su quella tomba ando' a inginocchiarsi, come primo atto dopo la nomina ad arcivescovo di Firenze, Silvano Piovanelli, ora cardinale: semplice omaggio affettuoso all'antico compagno di seminario o qualcosa di piu', molto di piu'? Certo e' che don Milani sta a buon diritto nella costellazione dei grandi spiriti che hanno sospinto la Chiesa fiorentina e italiana verso il terzo millennio, papa Giovanni, Enrico Bartoletti, Elia Della Costa, don Mazzolari, don Facibeni, Giorgio La Pira, per ricordarne solo qualcuno. E nessuno lo toglie, Lorenzo, da quella luce, ne' i cattolici che non riusciranno mai a digerirlo ne' i laici che lo ritengono "mascalzone", "maestro improvvisato e sbagliato", "violento demagogo". Guai a farne un mito da inseguir fra le nuvole; don Milani e' una straordinaria realta' di cui non c'e' che da ringraziare, per i credenti, Iddio, per chi non crede, la storia e la natura umana. 2. MEMORIA. ENZO ROMEO RICORDA RAOUL FOLLEREAU (2008) [Dal mensile "Jesus" n. 2, febbraio 2008, col titolo "Raoul Follereau. Il vagabondo della carita'" e il sommario "Trent'anni fa moriva il giornalista e conferenziere cattolico francese che divenne noto in tutto il mondo come 'l'apostolo dei lebbrosi'. Utopista ma non ingenuo, fu un antesignano della globalizzazione, convinto come era che di fronte a un problema planetario, la lotta doveva essere condotta sulla stessa scala"] Nell'ultima apparizione in tv, nel giugno del 1977, Raoul Follereau racconto' la storia della lebbrosa africana la cui foto sorridente era appesa nel suo studio. Quando la incontro', la donna aveva gia' perso due figli, morti di fame, non di lebbra. Lei stessa aveva fame e i suoi piccoli s'erano sfiniti a succhiare dalle mammelle vuote, lanciando piccoli lamenti finche' le labbra non avevano smesso di muoversi. Anche il terzo bambino stava per morire di stenti. "E lei lo guardava", sono le parole di Follereau, "ormai oltre le lacrime e la disperazione, rassegnata". Passo' di li' un sottotenente medico. Vide la lebbrosa e il bambino agonizzante e li mise nella sua macchina senza dire una parola. "Lei lo lascio' fare: morire li' o altrove che cosa volete che le importasse? Portata al comando, fu immediatamente ricoverata e guari'. Quanto al bambino la cosa fu semplice. La moglie dell'ufficiale medico aveva un bebe' della stessa eta', grasso, roseo e paffuto e che non riusciva ad arrivare alla fine della poppata. Sa, quando ce n'e' per uno ce n'e' per due... Il bambino nero, un po' confuso, un po' sorpreso dalla bianchezza di quella carne, esito': all'inizio dovettero forzarlo, fino a che non divenne vorace. Quello era il segno che si sarebbe salvato". Non e' una favola, e' una storia vera. E non esiste una morale da tirare, ma un fatto da considerare. Disse Follereau al giornalista che voleva saperne di piu': "La conclusione? Non ce n'e' una. La lebbrosa e' guarita ed e' tornata al suo villaggio. Il bambino oggi e' un adolescente. Il sottotenente medico sara' diventato, immagino, capitano e adesso si trovera' in qualche altro posto. Quanto a sua moglie, alla nutrice, se le avessero detto che aveva fatto qualcosa di straordinario sarebbe rimasta sorpresa: era una donna che amava rendersi utile. Ne ha avuto l'occasione e lo ha fatto, con tutto il cuore, semplicemente". L'avventura di Follereau "apostolo dei lebbrosi" era iniziata molti anni prima. Nel 1936 stava attraversando il deserto del Sahara. V'era andato gia' diverse volte, in veste di giornalista e di credente, per raccontare la vita di padre Charles de Foucauld, il piccolo fratello del deserto. A un certo punto il radiatore della sua auto si mise a bollire e i passeggeri furono obbligati a una sosta per far raffreddare il motore. Fu allora che apparvero dei fantasmi d'uomini che si trascinavano a stento, lo sguardo pieno di paura. Follereau con il suo proverbiale impeto li chiamo', li invito' ad avvicinarsi, ma quelli si allontanarono e si nascosero. Allora si rivolse al suo accompagnatore. "Chi sono?", chiese. "Lebbrosi", rispose quello. E non seppe aggiungere altro, ne' spiegare perche' vivessero da reietti, isolati da tutto e tutti. "Quel giorno", racconto' anni dopo Follereau, "capii che esisteva un crimine imperdonabile, degno di qualsiasi castigo, un crimine senza appelli e senza amnistia: la lebbra". Quell'incontro nel deserto fu un caso. Forse. L'uomo di carita' e' colui che e' attento alla sofferenza degli altri. L'adolescenza di Follereau era stata stravolta dalla Grande Guerra. Quando scoppio' il primo conflitto mondiale aveva appena 11 anni (era nato a Nevers nel 1903). Il padre venne chiamato alle armi. La piccola fabbrica di famiglia, che produceva attrezzi per l'agricoltura, fu convertita in "industria bellica". Non c'era piu' spazio per i sogni e per i giochi. Anche Raoul, insieme al fratello maggiore, fu costretto a lavorare alle macchine per produrre proiettili. La scuola divenne un lusso, ma il ragazzo ostinato studiava la sera con l'aiuto di un anziano sacerdote. Le ostilita' sembravano non cessare piu', infinito l'elenco dei morti. A casa si pregava perche' fosse risparmiata la vita del proprio congiunto. Purtroppo non fu cosi'. Nel 1917 avvenne cio' che tutti temevano: il soldato Follereau venne ucciso in battaglia, nella Champagne. Raoul aveva 13 anni ed era uno dei tre milioni di francesi resi orfani dalla guerra. Il disastro bellico in Francia s'era sovrapposto a un altro conflitto, che riguardava questa volta le coscienze e bruciava negli animi piu' sensibili ai valori della religione cristiana. Nel 1905, con la cosiddetta legge Combes (dal primo ministro che l'aveva proposta, un ex seminarista divenuto massone), la Francia aveva dichiarato solennemente la separazione tra Stato e Chiesa. Gli edifici di culto vennero espropriati, gli ordini religiosi disciolti e costretti all'esilio. Raoul, che aveva studiato presso i Fratelli delle scuole cristiane, sperimento' su di se' l'anticlericalismo. Nel 1920, agli esami per l'ingresso alla facolta' di Filosofia, venne bocciato per due volte nonostante la sua dissertazione fosse tra le migliori. Ma non piacevano le tesi esposte e dunque... Dovettero intervenire le organizzazioni degli ex combattenti per difendere il figlio di un caduto in guerra. Il ministro dell'Istruzione, per evitare lo scandalo, ammise d'ufficio Follereau alla Sorbona. Del resto, quel giovane era gia' una piccola personalita'. Dall'eta' di 15 anni aveva scoperto la sua vena di comunicatore. La sua prima conferenza la tenne nel 1918 nel cinema della sua citta', in occasione di una cerimonia per ricordare le vittime del conflitto mondiale. "Dio e' amore", fu il titolo. Studente brillante, Follereau a vent'anni era gia' laureato in Filosofia e Diritto. Sentiva in se' la vocazione di difensore degli ultimi, di lottatore contro le ingiustizie. Scelse la strada dell'avvocatura, ma nello studio dove inizio' a lavorare la prima causa che gli affidarono fu quella per un divorzio. Sbatte' subito contro il muro della propria coscienza e dovette trovare altri strumenti per portare avanti la sua battaglia. L'occasione si presento' presto, sotto forma di un posto quale segretario di redazione del giornale parigino "L'Intransigeant". L'ambito intellettuale e dell'informazione era il piu' adatto a lui. Allargo' presto i suoi impegni e nel 1927 fondo' la Lega dell'Unione latina, un'organizzazione che si proponeva di difendere la civilta' cristiana contro tutti i "paganesimi" e le "barbarie". Follereau aveva elaborato la sua esperienza giovanile: le divisioni interne alla Francia, il ripudio della tradizione e delle radici cristiane su cui pure si fondava la nazione; e poi, la tragedia bellica generata da anacronistiche contrapposizioni tra le vecchie potenze dell'Europa. Da questo passato Follereau vedeva proiettare ombre sul futuro, che di li' a pochi anni avrebbero preso drammaticamente corpo. Chi erano i nuovi barbari temuti dalla sua Lega se non la triade con cui avrebbe fatto i conti tutto il XX secolo? Il germanismo, che sarebbe sfociato nella follia nazista; il bolscevismo, che avrebbe applicato la ricetta comunista sotto forma di feroce dittatura; e la corsa al denaro, che piu' avanti sarebbe divenuta quasi un'ideologia con il nome di consumismo, alimentata dalle ricette iperliberiste con al centro di tutto il mercato e la Borsa. Follereau era un vulcano: giornalista, drammaturgo, poeta, conferenziere... E intanto viaggiava all'estero, si recava in ogni luogo dove poteva esserci un'impronta francese o latina. Nel 1929 il Ministero della Pubblica Istruzione, forse per "risarcirlo" della discriminazione che aveva subito anni prima agli esami di ammissione universitaria, gli affido' una ricerca sull'influsso culturale francese in America del Sud. Nel suo rapporto scrisse di aver trovato dovunque i religiosi e le religiose francesi, cacciati dal proprio Paese a causa delle leggi del 1905. Avevano fondato scuole, collegi, universita' ed erano divenuti i migliori ambasciatori della patria che li aveva rifiutati. Chi aveva incaricato Follereau della missione si aspettava certo altre conclusioni... Durante quel viaggio il giornale argentino "La Nacion" gli commissiono' il reportage su de Foucauld che lo porto' a 33 anni nel deserto algerino, dove il "caso" lo fece imbattere nei lebbrosi. Un incontro che lo avrebbe segnato per sempre. Ma intanto la storia incalzava. Scrisse un libretto dal titolo Hitler, volto dell'Anticristo, si reco' in Italia e Romania per convincere queste nazioni - che la latinita' rendeva sorelle della Francia - a non schierarsi con la Germania nazista. Incontro' anche Mussolini, incuriosito dal fiocco che Follereau indossava a mo' di cravatta piu' che dalle idee dell'interlocutore. Quella strana cravatta, disse Follereau, e' il segno di una differenza e della liberta' individuale... Nel 1939, allo scoppio della guerra, fu destinato al servizio degli ascolti telefonici. Follereau, in altre parole, divenne una sorta di 007 e fu testimone diretto del drammatico precipitare degli eventi internazionali. L'anno dopo si trovo' a Vichy quando nacque il governo collaborazionista del maresciallo Petain. Rifiuto' ogni incarico e si rifugio' a St. Etienne, continuando la sua personale battaglia fatta di incontri e discorsi. Tra il '40 e il '42 giro' la Francia in lungo e in largo per ridare orgoglio e fiducia ai connazionali avviliti dall'occupazione straniera, mentre collaboro' discretamente con l'esercito clandestino. Tra tanto girovagare, nel novembre del '42, mentre nel mondo infuriava la guerra, Follereau incontro' una suora bergamasca, Eugenia Elisabetta Ravasio, che era divenuta giovanissima madre generale delle Suore missionarie di Nostra Signora degli Apostoli. La religiosa era appena tornata da un viaggio in Africa, dove s'era imbattuta in orde di hanseniani (i lebbrosi) costretti a vivere nell'isolamento e nell'abbandono piu' completi. Madre Eugenia voleva costruire per loro un piccolo villaggio nella foresta, dove ognuno avrebbe potuto disporre di un capanno con un orto e delle cure sanitarie. In Follereau si materializzo' l'immagine di sei anni prima, l'incontro casuale coi lebbrosi nel Sahara, il loro destino di perenni fuggiaschi. Il progetto della suora lo conquisto' e si butto' a capofitto nell'impresa di trasformarlo da sogno in realta'. Inizio' subito un giro di conferenze e una raccolta di fondi. Il primo appuntamento fu ad Annecy il 15 aprile del '43 e sembro' surreale l'iniziativa a favore dei lebbrosi tra le macerie dei bombardamenti, in una nazione e in un continente devastati dal conflitto bellico. "Ma la lebbra ormai mi aveva preso", racconto' piu' tardi Follereau, "ero il suo felice prigioniero". Il luogo per far sorgere il villaggio dei lebbrosi fu individuato in Costa d'Avorio, in una localita' chiamata Azopte'. Per dieci anni Follereau, insieme a due suore, giro' per le strade di Francia, Belgio, Svizzera, Libano, Algeria, Tunisia, Marocco, Canada. Tenne 1.200 conferenze e divenne il "vagabondo della carita'". Montagne di corrispondenza giunsero al suo indirizzo. Malati, medici, missionari gli raccontarono storie, drammi, speranze. E tutti dissero che non c'era solo Azopte', che erano tanti e tanti - milioni - i lebbrosi da salvare dal peggiore effetto della malattia: il pregiudizio. L'impegno a favore dei lebbrosi divenne un fiume in piena, sempre piu' impetuoso e inarrestabile. Non ci fu piu' spazio per altri mestieri, prese corpo l'idea di una fondazione che incanalasse il lavoro svolto in cosi' tanti luoghi. Follereau passo' dall'Africa all'Asia, all'America latina. Nei suoi discorsi mirava al cuore degli ascoltatori, metteva a nudo l'indifferenza, la tiepidezza della maggioranza fortunata dell'umanita' verso gli ultimi e gli esclusi. Conio' il suo famoso slogan: "Nessuno ha diritto d'essere felice da solo". Per Follereau cio' valeva anche nella vita privata. A 15 anni appena s'era fidanzato con Madeleine, che a 21 sarebbe divenuta sua moglie. Madeleine fu per sempre la sua spalla. Lo sostenne nei momenti di difficolta' quando l'attivita' vulcanica del marito non si conciliava con il conto della spesa; lo affianco' nei viaggi avventurosi, perfino a rischio della vita, quando piegata da una crisi di appendicite si tratto' di accamparsi in Bolivia negli sperduti villaggi degli indios o di risalire il Rio delle Amazzoni con una canoa mezza rotta, tra nugoli di zanzare e caimani affamati. "La piu' grande fortuna della mia vita fu mia moglie", disse ormai anziano Raoul. E aggiunse: "Solo quando si e' in due si e' invincibili". Follereau credeva nell'utopia ma non era un ingenuo. Puntava sul coinvolgimento reciproco di opinione pubblica e istituzioni in un meccanismo di causa-effetto che avrebbe dovuto allargarsi a raggi concentrici. Fu un antesignano della globalizzazione: di fronte a un problema planetario, la lotta doveva essere condotta sulla stessa scala. Nel 1953 invento' la Giornata mondiale dei malati di lebbra, che continua a celebrarsi l'ultima domenica di gennaio. Aveva ben chiaro che il destino dell'umanita' era legato a un unico filo. L'esperienza della seconda guerra mondiale e l'ingresso nell'era atomica lo avevano rafforzato in questa idea. Nel 1948, in una sorta di manifesto dal titolo "Bomba atomica o carita'", affermava: "Non c'e' piu' posto per coloro che tergiversano o temporeggiano. Oggi bisogna scegliere, subito e per sempre. O gli uomini impareranno ad amarsi, a comprendersi, e l'uomo finalmente vivra' per l'uomo, o spariranno, tutti e tutti insieme". Gia' nel 1944 aveva scritto al presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, chiedendo che l'equivalente dei costi di un giorno di guerra fossero destinati alla ricostruzione e alla pace. Ma gli accordi di Yalta sancirono l'inizio della "guerra fredda" e cosi' dieci anni dopo Follereau invio' un'altra lettera, stavolta sia al presidente americano Eisenhower che a quello sovietico Malenkov, in cui chiedeva in regalo da ciascuno un aereo da bombardamento. Ne parlo' nel '65 in un'intervista a Milano con Sergio Zavoli: "Guardi, avevo calcolato - forse era un'ingenuita', non posso negarlo - che con il prezzo dei due apparecchi si sarebbero potuti acquistare i sulfamidici occorrenti per curare tutti i lebbrosi del mondo. Due aerei soltanto. Che importanza hanno due aerei in meno, dissi, per chi ne possiede centomila? Gli anni sono trascorsi e ben presto i famosi B52 sono caduti in disuso. Non volano abbastanza alti, ne' abbastanza veloci, non uccidono con sufficiente sicurezza. E un giorno ho ritrovato in un recinto di demolizione novantasei aeroplani B52 e li ho guardati: ce n'erano due ancora cromati, sembravano in buono stato, in grado di volare. E mi sono detto: 'Guarda, i miei due! Con il loro prezzo si sarebbero potuti curare i lebbrosi di tutto il mondo...'. Adesso i due uomini di Stato sono in pensione e ho pena per loro, perche' non si sono portati nella loro solitudine un meraviglioso ricordo". Con i giovani Follereau riusci' a creare un feeling speciale. Tre milioni di cartoline, inviate da ragazzi di tutto il mondo compresi tra i 14 e i 20 anni, seppellirono la scrivania del segretario delle Nazioni Unite. Chiedevano a Sithu U Thant di appoggiare la richiesta di Follereau di destinare "un giorno di guerra per la pace". Erano gli anni della contestazione e tra tanti adulti incapaci di comprendere i loro sogni, i giovani scoprivano un vecchio che parlava come loro di grandi ideali da realizzare. Ad essi si rivolse nella sua ultima conferenza: "Il mondo di domani sara' come voi lo farete. Avra' il vostro viso e la vostra dimensione. Costruite una cattedrale e che sia il rifugio di tutto cio' che vi e' di pulito, di schietto, di onesto e di gioioso nel cuore dell'uomo. Non crediate che il mondo sia perduto: non e' vero. Stiamo attraversando un brutto momento, ci troviamo in un tunnel, ma i miei vecchi occhi riescono ancora a vedere in fondo la luce verso cui stiamo andando". Raoul Follereau e' morto il 7 dicembre del '77. Sono passati trent'anni. Non abbastanza per dimenticarlo. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 235 del 27 settembre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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