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Voci e volti della nonviolenza. 376
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 376
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 22 Sep 2009 10:50:58 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 376 del 22 settembre 2009 In questo numero: 1. Guglielmo Minervini ricorda Tonino Bello (2003) 2. Maurizio De Paoli ricorda Raffaele Bensi (1998) 3. Sergio Zavoli ricorda Giuseppe Dossetti (1997) 4. Elena Cristina Bolla ricorda Nazareno Fabbretti (1998) 1. MEMORIA. GUGLIELMO MINERVINI RICORDA TONINO BELLO (2003) [Dal mensile "Jesus", n. 4, aprile 2003, col titolo "Monsignor Tonino Bello. L'uomo del Concilio" e il sommario "Strano a dirsi, il noto 'vescovo di strada' ebbe una brutta impressione al suo primo approccio con il Vaticano II. Una volta pero' che il Concilio ebbe aperto la via del dialogo con il mondo, pochi la seguirono anima e corpo come lui. Oggi, pero', a dieci anni dalla scomparsa, la profetica figura di don Tonino rischia di finire rinchiusa nei cliche'"] Nella terza ora del 20 aprile di dieci anni fa, don Tonino scioglieva il suo soffio in un ultimo dono di speranza: "Vedrete come, fra poco, la fioritura della primavera spirituale inondera' il mondo perche' andiamo verso momenti splendidi della storia. Non andiamo verso la catastrofe. Ricordatevelo. Queste non sono allucinazioni di uno che delira per la febbre. No, non e' vero, andiamo in alto. Andiamo verso punti risolutori della storia, verso il punto omega, cioe' la zeta, ovvero l'ultima lettera dell'alfabeto, non verso la fine ma verso l'inizio". Lo sguardo, nonostante il dolore e la sofferenza, le amarezze e le sconfitte, si chiudeva riconciliato col mondo, con una fresca fiducia nel futuro. Don Tonino era proprio cosi'. Oggi continua ad attrarre per la fragranza evangelica che promana dalla sua testimonianza. La sua scomparsa non ha fatto che dilatarne la popolarita'. In numerosi hanno continuato a conoscerlo soprattutto attraverso i suoi scritti, nei quali hanno assaporato una parola inconsueta e sorprendente, lirica ma nel contempo irrequieta, tersa ma ancora provocatoria. E' stato studiato, descritto, raccontato. Frammenti della sua complessa vicenda umana e pastorale sono rimbalzati dovunque, in forme talvolta anche disordinate, parziali o semplicemente aneddotiche. La sua fama addirittura sembra essere avviata alla consacrazione ufficiale. Cosi' oggi circolano tanti don Tonino non sempre congruenti tra loro. Il don Tonino sacerdote, il vescovo, il terziario francescano, il pacifista, il salentino, il molfettese, lo studioso mariano, il mistico, lo scrittore, il poeta, il visionario, l'impegnato, l'eccentrico, e cosi' via. Ciascuno allarga il lato dal quale ha fatto conoscenza di don Tonino, e tende a rappresentarlo come unico ed esclusivo. Il risultato e', negli ultimi tempi, la tendenza a costringere l'eccedente complessita' di don Tonino dentro una tradizionale cornice devozionistica, meno problematica e piu' immediata da comunicare. Don Tonino e' uno di quelli che hanno preso sul serio il Vangelo e che hanno creduto fino in fondo alla possibilita' della sequela. La sua scelta, pero', non si risolve solo in una personalissima esperienza di fede. Egli avverte l'urgenza di incarnare la sua storia personale nella storia della fine del Novecento e nella geografia dove la sua vicenda umana si consuma, nel finis terrae dello stivale e, quindi, dell'Occidente. In questo movimento di incarnazione in un "qui" e "ora", per dirla alla Primo Levi, sente di interpretare la svolta segnata dal Concilio Vaticano II. Quello sguardo di fiducia verso le cose degli uomini, che non si spegnera' nemmeno nella sua ora ultima, trae origine proprio dal battesimo presbiterale che don Tonino ha nel Concilio. Quando il suo vescovo e maestro, monsignor Ruotolo (un modello di sacerdote del Sud, "una vita povera" e "in mezzo alla gente", un prete che "profumava di popolo") lo chiama con se', come esperto teologo, ai lavori del Concilio, don Tonino non era che un giovane prete di 28 anni, intellettualmente vivace e di provincia. Al Concilio don Tonino non ci resta molto tempo, pero'. Solo una manciata di giorni. Non regge molto a quella geometria di "monsignori con la sottana paonazza, con la fascia paonazza, con le calze paonazze" che il suo occhio acuto e gioviale coglie in "curioso contrasto con altri preti stranieri che, sotto una sottanina trasparente che arriva a mezza gamba, lasciano emergere mezzo metro di calzoni e un paio di scarpe smisurate". L'insofferenza per i formalismi e le ritualita' prevale sulla sua curiosita'. Ma quella seppur breve esperienza e' cosi' profonda da lasciare una traccia indeledibile. Per la verita' cade in un terreno gia' fertile, perche' solcato, sui temi sociali, dalla formazione nella scuola bolognese del cardinale Lercaro. Il mondo non e' la parte impura della creazione, il suo lato "selvatico e non divino", un impiccio per la Chiesa, un ripostiglio di errori. Al contrario e' il luogo dove la creazione trae compimento, la storia di salvezza si dispiega e Dio rinnova la sua alleanza con l'uomo. Quando il Concilio rovescia gli atteggiamenti verso il mondo contemporaneo per attrezzarsi di fronte ai profondissimi mutamenti in atto, don Tonino era gia' pronto, la sua sensibilita' gia' matura. Appena a margine del Concilio scrive: "Forse la poverta' che il mondo d'oggi attende dalla Chiesa e' soprattutto poverta' culturale, e cioe' la purezza evangelica del suo messaggio e la fiducia nella ragione umana". La fede si apre alla storia non per attendere arcigna l'apocalisse o il trionfo del male ma per farsi viandante, compagna di strada che sostiene la ricerca di senso. Quest'idea si conficca non solo nella testa ma anche nel cuore. E feconda di ragioni la sua cultura di meridionale e salentino, inguaribilmente intrisa di semplicita', apertura e accoglienza. Allora, la domanda cui don Tonino ha, con la sua testimonianza, inteso rispondere e': l'immagine di Chiesa, cioe' di fede, di sacerdozio, di laicato, disegnata dal Concilio, e' realizzabile? E' possibile tradurre, anche nella pastorale, la scelta di una Chiesa che non si isoli ne' si sovrapponga al mondo per "prendere da esso le distanze, e tanto meno per giudicarlo e per condannarlo" ma che semplicemente gli si faccia accanto "per comprenderlo, per amarlo, per farne propri, per quanto e' possibile e sempre criticamente, le istanze e i valori"? E' questo il filo rosso che congiunge i molteplici aspetti delle sue attivita' e dei suoi interessi ma anche le distinte stagioni della sua vita. E' questo soprattutto il tema generatore con cui si possono leggere gli intensi dieci anni di episcopato vissuti a Molfetta come anche la trascinante pagina della presidenza nazionale di Pax Christi. Don Tonino accetta di divenire vescovo, peraltro dopo ripetute sollecitazioni, perche' intende giocarsi la sfida della costruzione, da pastore appunto, di una Chiesa di strada, partecipe delle cose degli uomini e delle donne, una Chiesa, come quella disegnata dal Concilio, con al centro non se stessa ma l'annuncio da offrire al mondo. Don Tonino raccoglie questo suo manifesto di rinnovamento della Chiesa nel piano pastorale "Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi", la sua unica opera compiuta e sistematica. La stessa genesi del testo costituisce un'assoluta novita'. Invece di somministrare il suo pensiero alla diocesi, don Tonino disegna un complesso itinerario attraverso il quale matura una vera e propria "scrittura collettiva" del piano pastorale. Le decine di matrici da ciclostile che furono perforate nelle afose notti dell'estate del 1984 (era vescovo da poco piu' di un anno) si trasformarono, per la prima volta, in un decisivo timone restituito nelle mani del suo popolo per orientare la rotta del proprio futuro. Specie da vescovo e' stato poco nei ranghi. Scende in piazza con gli operai, lotta con i marittimi, accoglie sfrattati e prostitute in episcopio, solidarizza con i profughi albanesi, s'indebita (se stesso, non la diocesi) fino all'ultimo capello per fondare comunita' d'accoglienza, gira di notte nelle zone d'ombra della citta' raccogliendo ladri, ubriachi e sbandati, litiga con gli amministratori pubblici, denuncia l'impianto clientelare delle politiche sociali. Dinanzi all'omicidio del sindaco mette sul banco degli imputati le responsabilita' collettive della citta' piuttosto che quelle soggettive del "mostro", promuove petizioni per lo sviluppo civile e non militare del suo territorio, raccoglie firme degli altri vescovi per impedire di rovesciare la Puglia "da arca di pace in un arco di guerra", sostiene leggi per l'inasprimento dei controlli e dei vincoli sul commercio delle armi made in Italy. Ancora: scrive a parlamentari, ministri, presidenti del consiglio per ricordare lo sbarramento insormontabile posto dall'articolo 11 della Costituzione alla guerra ("l'Italia svergogna la guerra"). E, infine, dona la sofferenza del suo cancro a una Sarajevo violentata dalle bombe e dalla guerra. Un folle di Dio, secondo alcuni. Un'ira di Dio, secondo molti altri. Don Tonino e' stato l'ultimo riformatore sociale del Mezzogiorno. Ha infranto le regole del buoncostume episcopale, frantumato le sbarre invisibili dell'esclusione sociale, sovvertito l'ordine dei valori dominanti. Come tutti i grandi riformatori, ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali, quelli che si toccano: la casa, la disoccupazione, il disagio, le criminalita', lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi sulle cose che non si toccano e, quindi, forse le piu' dure: le culture, le relazioni, lo scetticismo, le coscienze. Cosa ricordare, a dieci anni dalla sua morte? La domanda, in questo tempo di cesure, passaggi e, dunque, bilanci, e' ancora piu' pertinente perche' e' sul giudizio attorno al Concilio che si giocano il futuro e le prospettive della Chiesa. Allora, la figura di don Tonino diviene un ricchissimo scrigno di stimoli e di indicazioni per sostenere il piu' ampio cammino di una fede che non cada nella tentazione di ergersi maestra sulla realta', di rinchiudersi nella protezione di alcuni spazi mondani, ma continui ad alimentare l'ansia di cambiamento con le armi della profezia e della verita'. Il mondo di oggi ha ancora la febbre. Oscilla ancora tra la misura della giustizia e della convivenza e quella dell'esclusione e della guerra. Ma il bisogno piu' intimo e' di una coscienza. Di una voce morale profonda. Una Chiesa cosi' come lui l'ha sognata: "Come Chiesa non siamo chiamati a entrare in competizione, non dobbiamo rivestirci dei segni del potere. Noi abbiamo il potere dei segni, non i segni del potere... Abbiamo invece il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce su cui cammina la gente, segni di condivisione, di poverta'". * Postilla. Don Tonino Bello era nato ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935. Ordinato prete nel '57, esercito' il ministero anzitutto come animatore in seminario e come parroco. Nel 1982 fu nominato vescovo di Molfetta, e dal 1985 divenne presidente nazionale di Pax Christi. Per il decimo anniversario della scomparsa di don Tonino, i suoi "eredi" hanno organizzato due convegni di studio. Il primo, ad Assisi dal 4 al 6 aprile, e' promosso dalla Fondazione intitolata all'ex vescovo di Molfetta e dalla Biblioteca della Pro civitate christiana, ed e' dedicato a "Don Tonino Bello, costruttore di speranza nella Chiesa italiana di fine Novecento". La seconda iniziativa e' il convegno nazionale "Don Tonino, un vescovo secondo Concilio", organizzato dal 24 al 26 aprile a Molfetta dalla diocesi, dalla Fondazione, da Pax Christi, dalla Facolta' teologica di Molfetta e dalle edizioni La Meridiana. Intervengono, tra gli altri, monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Locri, e l'ex presidente della Repubblica Scalfaro. 2. MEMORIA. MAURIZIO DE PAOLI RICORDA RAFFAELE BENSI (1998) [Dal mensile "Jesus", n. 3, marzo 1998, col titolo "Don Raffaele Bensi. Padre e maestro" e il sommario "'E' stato come un vescovo nella nostra citta'. Un punto luminoso di riferimento'. Per il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo di Firenze, non c'e' dubbio: senza don Raffaele Bensi, padre spirituale, educatore e maestro che ha solcato da protagonista discreto piu' di sessant'anni di vita della Chiesa fiorentina, 'non saremmo quello che siamo'"] Sfogliare la storia della diocesi di Firenze degli ultimi settant'anni significa imbattersi in straordinarie figure di grande spessore profetico: Giorgio La Pira, don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, padre David Maria Turoldo, per citarne solo alcune. Sono questi i protagonisti di cui tutti conoscono il nome. Ma c'e' stato un sacerdote, un protagonista nascosto e meno noto ai piu', che ha percorso come un fiume carsico sessantasei anni della storia della Chiesa fiorentina lasciando un'impronta che resta ancora oggi indelebile in migliaia di cristiani e nel tessuto religioso, ma anche sociale del capoluogo toscano. Si tratta di don Raffaele Bensi, del quale - nell'introduzione ad un libro che ne raccoglie la biografia, curato da Raffaello Torricelli - l'attuale arcivescovo di Firenze, cardinale Silvano Piovanelli, scrive: "Don Bensi e' stato come un vescovo nella nostra citta'. Un punto luminoso di riferimento. Un sacramento personale di Gesu' che accoglie e perdona. Un padre sempre pronto ad ascoltarti, a farti coraggio e a metterti sulle orme del Cristo con le ali dell'entusiasmo". Originario di Scandicci, dov'era nato l'11 febbraio 1896, don Bensi e' ordinato sacerdote il 6 aprile 1919. Pochi mesi dopo sceglie quello che sara' lo scenario del suo ministero pastorale per tutta la sua vita: diventa curato a San Michele Visdomini, in via dei Servi, a pochi passi dalla cattedrale e da Palazzo Pucci, sede dell'Azione cattolica, della Fuci, della stampa cattolica e di altre associazioni laicali. Da quel momento, don Bensi diventa il padre spirituale di migliaia di giovani fiorentini a cui trasmette l'entusiasmo della sua fede coerente, forte e genuina, maturata all'ombra di quello che possiamo considerare il motto del suo servizio pastorale: "L'uomo si agita e Dio lo conduce". E sara' sempre con questa totale disponibilita' a seguire la voce del Dio che guida la storia che assumera' via via gli incarichi che gli verranno affidati: nel 1922 assistente dell'associazione "Italia Nova", un'organizzazione che si occupa della formazione religiosa degli studenti delle scuole medie superiori, fondata da padre Giovannozzi e da don Giulio Facibeni; dal 1922 al 1932 dirige le pagine fiorentine di "Avvenire". Quindi da' vita alla San Vincenzo de' Paoli giovanile, nella quale si mette subito in evidenza un giovane professore siciliano trapiantato a Firenze, Giorgio La Pira. Don Bensi fonda quindi il Circolo per i militari, punto di riferimento per molti giovani provenienti da tutta Italia per il servizio di leva. Dal 1926, e per quarant'anni, don Bensi e' anche insegnante di religione: oltre trentacinquemila gli studenti che lo hanno come maestro di spiritualita' e testimone di fede sui banchi della scuola. Una delle sue alunne, Nicchia Furian Ruffo, in un libro di ricordi, lo descrive cosi': "Don Bensi, il nostro padre di religione, era un prete diverso da tutti gli altri: malgrado i capelli bianchi, pareva proprio un ragazzo come noi. 'In Paradiso', diceva, 'faremo le capriole con gli angeli'. Ci educava alla liberta', all'amicizia, all'amore, ci insegnava la ricerca dell'essenza delle cose, dell'essere e non del parere. Nei nostri incontri-scontri con lui, non ci dava mai la quiete dell'anima, anzi spesso ce la toglieva". Grazie a questo suo rigore e a questa sua capacita', tutta toscana, di dire la verita' senza sconti ma con rispetto per l'interlocutore, don Bensi diventa punto di riferimento anche per molti sacerdoti che a Firenze sono i protagonisti di quella stagione inquieta che trovera' poi nel Concilio il suo punto di riferimento. A conferma dell'autorevolezza morale di don Bensi c'e' l'episodio che Raffaello Torricelli rivela nel suo libro: all'epoca del caso dell'Isolotto, che divise drammaticamente la Chiesa fiorentina, i vescovi della Toscana pensano che ci sia un uomo in grado di comporre il dissidio: don Bensi. In Vaticano si dicono d'accordo, e per don Raffaele e' pronta la nomina a vescovo ausiliare. Ma quel Dio che "conduce l'uomo che si agita" decide diversamente. Non se ne fa nulla. E don Bensi continua la sua opera di padre, maestro, testimone, fino al momento della morte, il Giovedi' santo del 1985, quando se ne va dopo essersi preoccupato di non lasciare dietro di se' documenti, lettere, carte che ne perpetuino la memoria. Tutto inutile: Firenze non l'ha dimenticato. Ne' potrebbe, se e' vero quanto scrive ancora il cardinale Piovanelli: "Senza di lui, don Bensi, non saremmo quello che siamo. Per mezzo di lui Dio si e' fatto prossimo alla nostra vita, con forza paterna, con tenerezza materna". 3. MEMORIA. SERGIO ZAVOLI RICORDA GIUSEPPE DOSSETTI (1997) [Dal mensile "Jesus", n. 3, marzo 1997, col titolo "La lezione di Dossetti cittadino e persona" e il sommario "Dossetti tenne unite storia ed etica, politica e morale, accettando che la regola personale trasferisse la sua forza nella sfera comune. A due mesi dalla morte, lo hanno ricordato al San Fedele di Milano il fratello Ermanno, il cardinale Martini, Sorge, Monaco e Zavoli"] La vicenda di Dossetti cittadino e Dossetti persona ha il suo esordio storico quando i cattolici, nella riconquistata liberta', consolidano, dopo vent'anni di fascismo, la scelta democratica di Sturzo. Il radiomessaggio per il Natale del 1944, pronunciato da un Papa al tempo stesso ieratico e controverso, conteso tra la prudenza della storia e il passo della profezia, ha del resto sancito che un sistema democratico e' lo strumento di governo meglio corrispondente alla realta' della persona e alle sue esigenze di partecipazione politica. Dossetti vi coglie quella parola a lui sacra, persona, e ne fa una sorta di divisa civile. Quanto all'altra espressione del Pontefice, partecipazione politica, essa s'incardina nelle due linee di tendenza dei cattolici decisi a scendere in campo: mentre De Gasperi interpreta subito la necessita' di dar vita a una libera iniziativa economica da cui far nascere un Paese al di fuori dei dirigismi statali e delle logiche collettivistiche, Dossetti propende per una liberta' politica cui va invece affiancata una economia anche statale in grado di garantire la tutela delle categorie subalterne, certamente piu' deboli rispetto ai potere contrattuale delle grandi forze economiche nei loro assetti proprietari, con la loro grande incidenza sulle decisioni politiche generali. E' appena il '45 quando scrive: "La Democrazia cristiana non vuole e non puo' essere un movimento conservatore, ma vuole essere un movimento tutto permeato dalla convinzione che tra l'ideologia e l'esperienza del liberalismo capitalista e l'esperienza, se non l'ideologia, dei nuovi grandi movimenti anticapitalistici, la piu' radicalmente anticristiana non e' la seconda, ma la prima". Non saprei dire quanto da queste parole traspaia, e faccia sua, applicandola all'ideologia capitalistica, la distinzione stabilita da Maritain tra fascismo e comunismo: mentre il primo, cioe', andava considerato una forza estranea agli ideali cristiani in quanto sceglieva e perseguiva un ideale di Stato-guida, che permea di se' tutto, dagli ordinamenti ai cittadini e alla persona, il secondo e' visto anche come una sorta di "eresia cristiana", cioe' un sistema sociale che lontanamente richiama originarie ispirazioni cristiane, seppure esprimendole in forme tali da stravolgerne il senso piu' vero e profondo. Non spetterebbe a me introdurre, o semplicemente sfiorare, questa specifica premessa politica se non intendessi ricavarne il senso stesso dell'identita', come si diceva all'inizio, di Dossetti cittadino e persona. Di qui passa certamente il suo percorso civile vero e proprio, ma qui s'incontra soprattutto la qualita' di una scelta piu' radicale e profonda, che ne ha fatto un testimone scomodo - per quanto fu raro, esigente, talvolta persino mal tollerato - di cio' che si puo' dare alla politica senza farlo venir meno alla morale, al pragmatismo senza sottrarlo alla coerenza, al cittadino, per l'appunto, senza privarlo della persona. Chi non ha in mente questa fedelta' senza incrinature, laica e insieme religiosa, al primato dell'uomo, quello della sua intrinseca dignita' e liberta' personale, stentera' a farsi largo negli aspetti non di rado impervi della testimonianza di don Giuseppe Dossetti. Non a caso, al culmine dell'inscindibilita', non della separazione, del suo doppio agire, egli fa sempre coincidere l'unicum cui si ispira affrontando la politica come il momento in cui ci si fa responsabili personalmente, in quanto individui, di cio' che scegliamo per l'orientamento di noi stessi e nei confronti degli altri. Ecco, allora, la base su cui poggiare tutto il peso, appunto, della scelta: il principio costituzionale dell'eguaglianza tra i cittadini, da perseguire attraverso la ricerca e la messa a punto di un modello di statualita' sottratta, insieme, alle vischiosita' della conservazione borghese e a una giustizia sociale i cui costi gravino sulle liberta' personali; e cio' nell'assoluta preminenza dei diritti primari, inalienabili di una persona partecipe della speranza collettiva - laica, ragionata, organizzata dalla politica dentro la storia -, ma nella intangibile responsabilita' della risposta individuale, la quale sfugge a ogni contingenza e interesse temporale. Si e' detto di Dossetti che aveva i principali nemici, per paradosso, nelle sue idee. Certo, il voler trarre da una vocazione personale di tanto rigore e originalita' un patrimonio di principi da comunicare a masse di cittadini comportava un'impresa tra virtuosa e pedagogica tale da infastidire quel bisogno di duttilita', tolleranza, laicismo che la gran parte di un popolo appena rinato alla democrazia coltivava nel limbo della propria coscienza civile; in cui, per legittimarsi anche spiritualmente, bastava esibire l'alibi del "non possiamo non dirci cristiani" di crociana memoria; tale da indispettire chiunque, a cominciare dai cattolici, intendeva la lotta politica come un esercizio il cui fondamento era la pregiudiziale anticomunista e da tenere in sospetto una parte della stessa sinistra, la quale si sentiva come insidiata nella sua dimensione piu' difficile, quella dell'autocritica filosofica e pragmatica. Questi condizionamenti non giovarono all'immagine pubblica di Dossetti, ma al tempo stesso ne esaltarono la dimensione, per dir cosi', piu' sottesa e invisibile. Dossetti, tra gli uomini che hanno rifondato lo spirito democratico del nostro Paese, e' quello che ha reso piu' tangibile e manifesto il significato morale del far politica, alzandolo a un tale livello di esemplarita' da essere, non di rado, irriconoscibile. Mi rendo conto che, cosi' dicendo, si fa torto al politico; ma quanto gli si toglie nella sfera pubblica, alla sfera pubblica ritorna proprio attraverso quella privazione. E' il paradosso-Dossetti: e' la sua storia e la sua coscienza. Oggi non dichiareremmo i duri, controversi, ma alti meriti di Mani pulite se la Repubblica avesse nelle sue carni le cicatrici morali lasciate dai processi che uomini come Giuseppe Dossetti aprirono, ogni giorno, per tutto il tempo del loro impegno pubblico. Pochi eletti di quegli anni, e di anni piu' recenti, hanno uniformato i propri gesti al monito di quella lezione. Egli ne fu a tal punto consapevole che prese sul proprio corpo, e assunse nel proprio animo, il segno di contraddizione che egli stesso aveva finito per rappresentare. E quando comincio' a capire che la parola, passando per strade e piazze votate ormai alla facilita' degli slogan, all'intelligenza pratica e quindi alla convenienza del giorno per giorno, non suscitava piu' le risposte che avrebbe voluto udire, la porto' nel deserto e ne rimase attento, paziente, incorruttibile custode. Aveva cosi' descritto il senso di quel viaggio fruttuoso: "Il mio sacerdozio e' nato... da uno sbocco credo coerente con la vita che gia' conducevo, una vita consacrata, nell'intenzione e nella forma, al dominio dell'orazione sull'azione... tutta orientata a diffondere tra i laici cristiani una formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse continuamente dai suoi pericoli: perche' il pensiero politico e' continuamente insidiato da grandi pericoli". E subito dopo, come per ricomporre nella sua fondamentale unita' il senso dell'altra scelta, dice: "Noi non siamo monaci, conduciamo una vita molto simile, o quasi integralmente eguale alla vita dei monaci, pero' negli istituti monastici tradizionali non mi riconosco... La penso unita a un vescovo, sottomessa alla sua volonta' e inserita nel presbiterio diocesano". Nasceva, qui, la necessita' di radicare in un certo luogo - con una testimonianza tangibile anche per i significati di memoria e di monito che cio' finiva per assumere - la motivazione centrale, ultima, definitiva della scelta di Monte Sole come punto di riferimento e di irradiazione verso la Palestina, l'Oriente, le cento terre, le cento patrie, le cento paci promesse. Monte Sole e' una sorta di vulcano alla rovescia dove si e' compiuta una violenza senza tempo, in quanto consumata davanti al giudizio di Dio. E' quindi il luogo della preghiera continua, di una richiesta di perdono senza soste. Qui Dossetti vuole un radicamento e si conforma a una regola. Egli e' "uomo delle regole". Viene da una cultura giuridica, sa che la civilta' del diritto si fonda sul "contratto". Si tratta di regolare quel "contratto". Nella Costituzione, come nel Concilio, come nella stessa "piccola regola" che si dara' il monastero di Monte Sole. Un "contratto" che rimetta insieme, anzitutto, storia ed etica, politica e morale. Non si tratta di trasferire nella vita civile quello che ricavi dalla vita religiosa, non e' integralismo, ne' zelo, ne' mera virtu': si tratta di rivivere la dimensione pubblica secondo il principio della condivisione della solidarieta', accettando che la regola personale trasferisca la sua forza nella sfera comune. C'e' un fascino di Dossetti che sta, per me, anche in questo enigma, o mistero: quel continuo contemplare e agire, e quell'indomito mettere in crisi cio' a cui pensa per sottoporlo alla prova di cio' in cui crede. Un esempio: egli vedeva in lontananza una grande crisi religiosa, anche di cristianita', forse per l'insorgere di culture pragmatiche, portatrici di grandi doni quotidiani, dispensatrici di straordinari sollievi terreni, annunciatrici di enormi risorse pratiche, ma cosi' spesso ingannevoli e persino alienanti. Anche di qui il suo sguardo all'Oriente, in cerca di una grande scaturigine di religiosita', da attingere in un grembo vasto, limpido, universale. Il mistero, per me, sta nell'aver visto queste distanze, nell'aver concepito quel viaggio, dal suo fedele, piccolo stare a Monteveglio, centro della sua intoccabile, appartata totalita'. "Non e' possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi si', ma insieme; separarsi per non sporcarsi e' la sporcizia piu' grande". Sono parole di Tolstoj e don Giuseppe le sa a memoria, tanto che avverte il bisogno di dire: "Si puo' convenire che chi si facesse monaco per questo sarebbe in partenza un monaco fallito. Perche', al contrario, il vero monaco e' tale, e lo diventa sempre piu', in quanto piu' sente in se' e su di se' l'impurita' e il peccato proprio e di tutto il mondo, in una solidarieta' sempre sofferta e sempre ricomposta, momento per momento, e unicamente, nella fiducia in una pura fede". La sua vita e' stata giudicata, per come l'ha vissuta nella sua parte finale, una fuga dal mondo. Dossetti stesso annotava: "E qualcuno (anche tra cattolici e persino teologi) parla della vita monastica non solo come di fuga dal mondo, ma persino dalla Chiesa". Qui trovo una possibile conclusione, in queste parole: "Al termine di ogni via c'e' la scoperta dell'Amore del Padre per noi in Cristo; c'e' l'unico e definitivo Mistero, il Mistero di Gesu' di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la sua croce e la sua morte volontaria, gloriosa e vivificante, e' divenuto il primogenito dai morti ed ha aperto per noi la via della Risurrezione". Qui Dossetti chiude il suo libro. Morira' il 15 dicembre del '96. Credenti e non credenti parteciperanno alle esequie in gran numero. Intorno alla bara, per un tratto della cerimonia funebre, si alterneranno vecchi partigiani con i loro nipoti e pronipoti, i nuovi bambini della comunita'. Laicamente destinati a capire, io spero, i valori anche civili che lo spirito - Dossetti ce lo dimostra - sa mettere nella storia. Una storia - e' sotto gli occhi di tutti - cui serve un non piu' rimandabile ritorno alle regole attraverso la prima delle regole: la ricongiunzione del cittadino con la persona, della politica con la moralita', dello Stato con gli interessi generali della popolazione. E sempre nell'idea che l'uomo e', continuamente, il destino di se stesso. 4. MEMORIA. ELENA CRISTINA BOLLA RICORDA NAZARENO FABBRETTI (1998) [Dal mensile "Jesus", n. 11, novembre 1998, col titolo "Nazareno Fabbretti. Giullare e profeta" e il sommario "A un anno dalla morte, resta vivissimo il ricordo di un cristiano difficile da inquadrare in categorie troppo rigide: giornalista, attore, predicatore, frate francescano, amico dei premi Nobel come dei mendicanti, Fabbretti rimase fedele al suo stile gioioso di testimoniare una fede autentica fino all'ultimo dei suoi giorni terreni"] E' passato un anno, fra Nazareno, e ancora non ti decidi ad essere morto. Gli amici ti si radunano intorno, come al solito. Parliamo di te ogni giorno. Si ripubblica il tuo primo libro. Le commemorazioni si moltiplicano. Ma quale Fabbretti commemorare? Lo scrittore? Il giornalista? Il sacerdote? Il francescano? Il profeta? L'anticipatore del Concilio? L'amico di Mazzolari, Milani, Turoldo? Il giullare di Dio dei mass media? Nazareno dai mille volti. Ne avevi uno per ogni amico. Con ciascuno sapevi essere te stesso e diverso. E a ciascuno sapevi dare l'impressione di essere l'unico, il piu' caro, l'insostituibile, il depositario delle tue confidenze piu' vere. Ora che ci ritroviamo insieme a confrontare i ricordi, ne esce un ritratto sconcertante. "E io che credevo di conoscerlo...", e' il ritornello che ha sostituito l'altro: "Nessuno lo conosceva meglio di me". Nessuno ti conoscera' mai davvero, Gino Nazareno Fabbretti. A chi ti definiva la sua luce, rispondevi: "Ho sempre amato anche le zone d'ombra". Su di esse hai scelto di tacere. E tra i rimasti, per amor della tua memoria, e' passata la consegna del silenzio. Percio', una ricostruzione "storica" del personaggio Fabbretti e' praticamente impossibile. Personaggio? Personaggi. Sei stato uno splendido attore, fra Nazareno. Possiamo ben dirtelo, ora che un Papa ex attore non scandalizza piu' nessuno. Della tua vita hai fatto un'ininterrotta "sacra rappresentazione", sul pulpito, al tavolo del conferenziere, nei salotti, nelle chiese, davanti alle telecamere. Un attore metodo Stanislavskij come il tuo san Francesco, giullare e profeta della comunicazione di massa: tu vivevi, tu eri ogni volta il tuo personaggio. Anzi, i tuoi personaggi. Non a caso raccontavi che Macario, tuo "penitente" e amicone, voleva convincerti a cambiar mestiere e a seguirlo sul palcoscenico. Lo raccontavi. Ma sara' vero? Affabulatore inguaribile, trasfiguravi ricordi, avvenimenti, nomi, luoghi, incontri, persone. Di un fatto di cronaca, di un episodio storico, eri capace di sfornare tre o quattro versioni differenti. Anche per iscritto: eterno leitmotiv dei nostri bisticci. Ti fidavi della tua formidabile memoria, ma spesso la memoria diventava fantasia. "Ma perche' non controlli le fonti?", ti urlavamo a ogni svarione un po' troppo grosso. E tu: "Sono anch'io una fonte". "Si', di guai...". Ovviamente, della tua "sacra rappresentazione" eri fonte, sceneggiatore e regista. Eri tutti i personaggi, e tutti erano te. Lo scrittore di successo, l'umorista feroce, il frate mondano, l'amico dei Vip. Ma anche il ragazzo ombroso e malinconico, il francescano radicale, il sacerdote accorato e appassionato. E tanti altri. La tua migliore interpretazione - da Oscar - e' comunque la riedizione moderna del personaggio di san Francesco. Agli occhi del mondo, nessuno, in questo secolo, ha saputo come te incarnarne tutti gli aspetti, tutti i carismi. Altri ne ha imitato la poverta', o la letizia, o la sofferenza (pensiamo a padre Pio): ma tu l'hai "recitato" a tutto tondo, dalle giullarate all'ascesi, dalla poverta' alle sante provocazioni, dalla letizia alle stigmate. Anche il tuo molteplice "ministero della parola" reca l'impronta fondante di quel grandissimo comunicatore che fu san Francesco. E li', davvero, tu eri re. Capace di buttar giu' un articolo in cinque minuti, d'improvvisare discorsi per un'ora sugli argomenti piu' ardui, senza preparazione. Pistoiese, conterraneo di Petrocchi (Dizionario della lingua italiana), incantavi tutti con i tuoi aggettivi, il ritmo della frase, l'accattivante cadenza toscana, rimasta intatta negli anni. Nelle querele (quante!) ti difendevi da solo e magari finivi amico degli avvocati di parte avversa. Sei entrato nelle antologie con i tuoi cinquanta e piu' libri (nemmeno tu sapevi quanti) e nella memoria di tutti per quelle tue trascinanti prediche dal tono appassionato e dalla sintassi incredibilmente perfetta. Eppure i tuoi manoscritti erano un disastro. "Sei il peggior dattilografo d'Italia", ti urlavamo al telefono. Ma tu ridevi, ben sapendo che noi, tuoi "segretari", pronti a rimediare ai refusi, eravamo legione. Ti perdonavamo anche questa. Ti perdonavamo tutto, ahime'. Forse non ci siamo accorti in tempo che quelle distrazioni, quelle dimenticanze, preannunciavano insidiose il male che ti avrebbe distrutto lentamente, con inesorabile ironica crudelta'. Ti definivi "handicappato felice", alludendo al tuo piede zoppo. "Purche' non sia zoppo lo spirito", ribattevamo citando Montaigne. Parole agghiaccianti, con il senno di poi. Quando il cuore comincio' a tradirti, ci scherzavamo su: "L'hai usato troppo". Ma c'era poco da scherzare. Il cuore alimenta anche il cervello, e non per metafora. E tu lo capivi. Forse e' stata questa la tua croce piu' pesante. Se ti salverai, Nazareno, se ti sei salvato, molto ti e' stato certamente perdonato per come hai accettato quella croce. Da grande. Finche' e' stato possibile, ti abbiamo fatto quadrato intorno, noi amici. Perche' il mondo non sapesse che Nazareno Fabbretti stava perdendo la memoria, la facolta' di scrivere, la parola, le idee. E tu hai continuato a lavorare fino all'ultimo, negli intervalli di coscienza normale. Tu eri morto, e ancora usciva sulle riviste il tuo ultimo articolo. Morto? No, non siamo d'accordo. "Fra tre mesi nessuno si ricordera' di lui", pontificavano i profeti di sventura. E invece e' passato un anno e non e' cambiato nulla. Tu continui a riunirci intorno a te come prima, e a regnare sulla "corte" dei tuoi amici. Quelli che erano lontani si sono avvicinati. Quelli che non si conoscevano si sono incontrati. Quelli che si davano del lei si danno del tu. E ogni giorno ne spuntano di nuovi. Gli amici non ti bastano mai. Gli amici non ti bastavano mai. Forse ti sei fatto frate anche per questo: un solo amore umano non ti avrebbe appagato. Tu eri di quelli che "scelgono tutto". Come, era il tuo segreto, e anche il tuo dramma. Per quanto tu potessi gettare interamente il tuo cuore in un sogno, in un'idea, in una creatura, te ne restava sempre d'avanzo. E allora il saio, a braccia aperte, abbracciava il mondo. Ma a quale prezzo, lo sa solo Dio. Non giudichiamo. Ti faranno teologo dell'amicizia, in concorrenza con Aelredo di Rievaulx. A chi ti dava del teologo rispondevi con un insulto e un lampo di malizia negli occhi beige. Eppure hai predicato per tutta la vita questa "teologia dell'amicizia", ad alto e basso livello, ai premi Nobel e a chi non apriva mai un tuo libro. Ti capivano anche gli analfabeti. Dicevi amicizia - il tuo "ottavo sacramento" - ma intendevi amore. Era questo il tuo modo di veicolare la carita', che e' amore, che e' Dio. Con l'intellettuale, con il mendicante, con il signore, con il bambino, con il religioso, con la donna, sapevi essere l'amico perfetto. E forse anche il perfetto nemico. Nemici non te ne mancano, anche da morto. Le tue provocazioni, le tue "eresie" ormai sono ortodossia postconciliare, ma c'e' ancora chi ti brucerebbe in effigie, per piu' di un motivo. E non si possono proprio dargli tutti i torti. Tu pero' ti "vendichi" andando ancora a caccia di amici. Cosi' si resta vivi. Non riposare in pace, fra Nazareno. * Postilla Nazareno Fabbretti, dei Frati minori, era nato a Iano, presso Pistoia, nel 1920. Ordinato sacerdote nel 1943, dopo un'esperienza nell'insegnamento si dedico' al giornalismo e all'attivita' di scrittore. Segui' i lavori del Concilio come inviato del quotidiano torinese "La gazzetta del popolo". A Genova, dove visse dal 1949 al 1963, fu tra i fondatori del periodico "Il gallo". Nel 1963 padre Fabbretti lascio' Genova, su sollecitazione del cardinale Siri, contrario alle sue "aperture progressiste", e si trasferi' a Voghera, continuando l'attivita' di giornalista, scrittore e conferenziere. Nell'agosto dello scorso anno, a seguito di un aggravarsi dei disturbi cardiaci di cui soffriva da tempo, venne ricoverato a Voghera e quindi, l'8 settembre, all'Istituto Don Gnocchi di Salice Terme, dove mori' all'alba di sabato 25 ottobre. E' sepolto nel cimitero di Voghera, tra la gente comune, com'era suo desiderio. Sono molti i libri scritti da padre Nazareno Fabbretti, ad iniziare dal primo, Nessuno, che risale al 1953, fino a Preghiera della cicala, pubblicato nel 1994 dalla San Paolo, editore per il quale, nel 1987, aveva scritto I vescovi di Roma, breve e vivace storia dei Papi, con la prefazione di Enzo Biagi. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 376 del 22 settembre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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