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Voci e volti della nonviolenza. 375
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 375
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 15 Sep 2009 09:34:11 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 375 del 15 settembre 2009 In questo numero: Alcuni estratti da "Identita' e violenza" di Amartya Sen LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "IDENTITA' E VIOLENZA" DI AMARTYA SEN [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Amartya Sen, Identita' e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or.: Identity and Violence. The Illusion of Destiny, Norton, New York-London 2006)] Indice del volume Prologo; Prefazione; I. La violenza dell'illusione; II. Dare un senso all'identita'; III. Prigionieri delle civilta'; IV. Affiliazioni religiose e storia islamica; V. Occidente e Antioccidente; VI. Cultura e cattivita'; VII. Globalizzazione e voce dei cittadini; VIII. Multiculturalismo e liberta'; IX. Liberta' di pensiero; Note; Indice dei nomi; Indice analitico. * Da pagina XIII Prefazione Fu Oscar Wilde a pronunciare l'enigmatica affermazione: "La maggior parte della gente e' altra gente". Sembra uno dei suoi rompicapo piu' stravaganti, ma in questo caso Wilde difese il suo punto di vista in maniera estremamente convincente: "I loro pensieri sono opinioni di qualcun altro, le loro vite uno scimmiottamento, le loro passioni una citazione". E' straordinario fino a che punto ci facciamo influenzare dalle persone con cui ci identifichiamo. Odi settari attivamente incoraggiati possono diffondersi in un lampo, come abbiamo visto recentemente nel Kosovo, in Bosnia, in Ruanda, a Timor, in Israele, in Palestina, in Sudan e in molte altre parti del mondo. Con un'adeguata dose di istigazione, un sentimento di identita' con un gruppo di persone puo' essere trasformato in un'arma potentissima per esercitare violenza su un altro gruppo. Molti dei conflitti e delle atrocita' del mondo sono tenuti in piedi dall'illusione di un'identita' univoca e senza possibilita' di scelta. L'arte di costruire l'odio assume la forma dell'invocazione del potere magico di una determinata identita', spacciata per dominante, che soffoca le altre affiliazioni e puo' arrivare anche, in una forma adeguatamente bellicosa, a sopraffare qualsiasi simpatia umana o naturale benevolenza di cui possiamo normalmente essere dotati. Il risultato puo' essere una violenza elementare, artigianale, oppure una violenza e un terrorismo globali, sofisticati. L'idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura e' un'importante fonte di conflitto potenziale nel mondo contemporaneo. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica puo' incendiare il mondo intero. Come ho gia' detto, una visione del mondo basata su un unico criterio di suddivisione non contrasta soltanto con la buona vecchia convinzione che noi esseri umani siamo piu' o meno uguali ma anche con l'idea, meno dibattuta ma molto piu' plausibile, che siamo diversamente differenti. Il mondo viene spesso visto come se fosse un insieme di religioni (o di "civilta'", o di "culture"), ignorando le altre identita' che gli individui possiedono e giudicano importanti, legate alla classe sociale, al genere, alla professione, alla lingua, alla scienza, alla morale e alla politica. Questa tendenza a suddividere in base a un criterio unico provoca molti piu' conflitti di quanto non faccia l'universo di classificazioni plurali e distinte che da' forma al mondo in cui viviamo realmente. Il riduzionismo "alto" della teoria puo' dare un grande contributo, spesso senza rendersene conto, alla violenza "bassa" della politica. I tentativi a livello globale di sconfiggere questa violenza, inoltre, risentono spesso di una confusione concettuale analoga, con l'accettazione - esplicita o implicita - di un'identita' unica, preliminare a molte delle strade piu' ovvie per opporsi alla violenza. E la conseguenza puo' essere che la violenza religiosa non viene combattuta passando attraverso il rafforzamento della societa' civile (il che sarebbe ovvio), ma schierando una serie di leader religiosi di opinioni apparentemente "moderate", incaricati di sconfiggere gli estremisti in una battaglia intrareligiosa, ridefinendo in modo adeguato, nel caso, le prescrizioni della religione interessata. Come gia' accennato, considerare le relazioni interpersonali tra esseri umani unicamente in termini di rapporti tra gruppi, come "amicizia" o "dialogo" fra civilta' o comunita' religiose, trascurando gli altri gruppi a cui quegli stessi individui appartengono (sulla base di legami economici, sociali, politici o altro genere di legami culturali), equivale a perdere per strada gran parte dell'importanza della vita umana, equivale a suddividere gli individui in tanti piccoli contenitori. Gli effetti spiacevoli di questa miniaturizzazione degli individui sono l'argomento principale di questo libro. E' necessario riesaminare, dare una nuova valutazione di argomenti consolidati come la globalizzazione economica, il multiculturalismo politico, il postcolonialismo storico, l'etnicita' sociale, il fondamentalismo religioso e il terrorismo globale. Le prospettive di pace nel mondo contemporaneo possono nascere forse dal riconoscimento della natura plurale delle nostre affiliazioni, e nel ricorso alla discussione ragionata in quanto semplici abitanti di un vasto mondo, invece di fare di noi stessi tanti detenuti rigidamente imprigionati in angusti contenitori. Cio' di cui abbiamo bisogno sopra ogni altra cosa e' una comprensione lucida dell'importanza della liberta' di cui possiamo disporre nel determinare le nostre priorita'. E a questo proposito e' indispensabile dare il giusto riconoscimento al ruolo e all'efficacia di una voce pubblica ragionata, all'interno dei singoli paesi e nel mondo intero. * Da pagina 3 La violenza dell'illusione Lo scrittore afroamericano Langston Hughes, nella sua autobiografia del 1940, intitolata Nel mare della vita, descrive l'esaltazione che provo' mentre partiva da New York per andare in Africa. Getto' in mare i suoi libri americani: "Fu come togliermi dal cuore non uno, ma mille pesi". Stava andando nella sua "Africa, patria dei negri!". Presto avrebbe sperimentato "una cosa concreta, da toccarsi e vedere, non semplicemente da leggere in un libro". Un senso di identita' puo' essere fonte non semplicemente di orgoglio e felicita', ma anche di forza e sicurezza nei propri mezzi. Non sorprende che il concetto di identita' incontri tanta ammirazione, dal popolare invito ad amare il prossimo alle raffinate teorie del capitale sociale e dell'autodefinizione comunitaria. Eppure l'identita' puo' anche uccidere, uccidere con trasporto. Un sentimento forte - ed esclusivo - di appartenenza a un gruppo puo' in molti casi portare con se' la percezione di distanza e divergenza da altri gruppi. La solidarieta' all'interno del gruppo puo' contribuire ad alimentare la discordia tra gruppi. Potremmo improvvisamente apprendere di non essere semplicemente ruandesi ma piu' specificamente degli hutu ("odiamo i tutsi"), oppure venire a sapere che non siamo in realta' semplicemente jugoslavi ma serbi ("i musulmani non ci piacciono per niente"). Degli scontri fra indu' e musulmani degli anni Quaranta, legati alla politica della partition, ricordo, nella mia memoria di bambino, la velocita' con cui gli esseri umani di gennaio si trasformarono repentinamente negli implacabili indu' e negli spietati musulmani di luglio. Centinaia di migliaia perirono per mano di persone che - guidate dai comandanti della carneficina - uccidevano in nome della "propria gente" altre persone. La violenza e' fomentata dall'imposizione di identita' uniche e bellicose a individui abbindolabili, sostenute da esperti artigiani del terrore. Il senso di identita' puo' dare un importante contributo alla forza e all'intensita' delle nostre relazioni con il prossimo, che puo' essere rappresentato dai vicini, o dai membri della stessa comunita', o dai concittadini, o dai seguaci della stessa religione. Concentrarci su identita' specifiche puo' servire ad arricchire i nostri legami, puo' spingerci a fare molto gli uni per gli altri, puo' aiutarci ad andare al di la' delle nostre vite autoreferenziali. I recenti studi sul "capitale sociale", efficacemente analizzato da Robert Putnam e da altri, hanno evidenziato con sufficiente chiarezza che l'identificazione con altri membri della stessa comunita' sociale e' in grado di rendere la vita, all'interno di quella comunita', molto migliore; un senso di appartenenza a una comunita' viene visto quindi come una risorsa, come un capitale. E' un modo di vedere le cose importante, ma e' necessario riconoscere anche un altro fattore, e cioe' che, se e' vero che un senso di identita' puo' accogliere e unire le persone, e' vero anche che puo' escluderne molte altre senza appello. La comunita' ben integrata, i cui abitanti compiono istintivamente le azioni piu' belle nei confronti gli uni degli altri con la massima premura e solidarieta', puo' essere la stessa comunita' in cui la gente scaglia mattoni contro le finestre degli immigrati trasferitisi in quella regione da altre zone. La calamita' dell'esclusione puo' andare a braccetto con la benedizione dell'inclusione. Il ricorso alla violenza associato a conflitti di identita' sembra ripetersi in tutto il mondo con sempre maggiore persistenza. Gli equilibri di potere in Ruanda e in Congo saranno anche cambiati, ma la pratica di prendere di mira un gruppo da parte di un altro gruppo continua a essere vitale. Il dispiegamento di un'aggressiva identita' islamica sudanese, unito allo sfruttamento delle divisioni razziali, ha condotto a stupri e uccisioni ai danni di vittime impotenti nella parte meridionale di quello Stato spaventosamente militarizzato. Israele e Palestina continuano a sperimentare i funesti effetti di identita' dicotomizzate, pronte a infliggersi reciprocamente punizioni cariche di odio. La dottrina di al-Qaida consiste in gran parte nel coltivare e sfruttare un'identita' islamica militante diretta specificamente contro gli occidentali. E arrivano continuamente notizie, da Abu Ghraib e da altre parti, che le attivita' di certi soldati americani o britannici spediti a combattere per la causa della liberta' e della democrazia comprendono anche le azioni di cosiddetto "ammorbidimento" dei prigionieri, condotte in modi assolutamente disumani. Possedere un potere illimitato sulla vita di sospetti combattenti nemici, o di presunti miscredenti, traccia una linea divisoria invalicabile fra prigionieri e carcerieri, depositari di identita' distinte ("loro sono di un'altra razza rispetto a noi"). E tutto cio' sembra estromettere, il piu' delle volte, qualsiasi considerazione dell'altro, eclissare gli aspetti meno conflittuali delle persone dall'altra parte della barricata: uno fra tutti, la comune appartenenza alla razza umana. * Da pagina 13 La tesi dello scontro di civilta' inizia a mostrare i suoi limiti ben prima di arrivare alla questione dell'inevitabile scontro: il problema e' gia' nella presunzione della rilevanza univoca di un unico criterio di classificazione. La stessa domanda "Esiste uno scontro fra civilta'?" si fonda sul presupposto che l'umanita' possa essere classificata in via preferenziale in civilta' distinte e separate, e che le relazioni tra esseri umani differenti possano essere in qualche modo considerate, senza nuocere piu' di tanto alla comprensione, in termini di rapporti tra civilta' differenti. Il difetto fondamentale di questa tesi sta molto piu' a monte dell'interrogativo sulla necessita' di questo scontro tra civilta'. Questa visione riduzionista si combina tradizionalmente, ahime', con una percezione piuttosto nebulosa della storia, che trascura innanzitutto la portata delle diversita' interne nell'ambito di queste civilta' e, in secondo luogo, l'estensione e l'influenza delle interazioni - intellettuali cosi' come materiali - che travalicano i confini regionali delle cosiddette civilta' (ne parleremo piu' approfonditamente nel terzo capitolo). E la sua capacita' di confondere puo' finire con l'intrappolare non soltanto coloro che sono disposti a sostenere la tesi dello scontro (categoria che va dagli sciovinisti occidentali ai fondamentalisti islamici), ma anche coloro che vorrebbero contestarla ma che cercano di replicare a essa rimanendo negli angusti limiti dei suoi criteri prestabiliti di riferimento. Un simile modo di pensare ha dei limiti che costituiscono un'insidia anche per i progetti di "dialogo tra civilta'" (che di questi tempi sembra molto ricercato), oltre che per le teorie di uno scontro fra civilta'. L'obiettivo nobile ed elevato di perseguire l'amicizia tra le persone, nel momento in cui viene visto in un'ottica di amicizia tra civilta', riduce repentinamente le molte sfaccettature degli esseri umani a una dimensione soltanto, mettendo la museruola a quella varieta' di legami che, per molti secoli, hanno fornito terreno fertile e variegato a interazioni transnazionali, in campi come le arti, la letteratura, la scienza, la matematica, i giochi, la politica e altre sfere di comune interesse per gli esseri umani. Tentativi benintenzionati di perseguire la pace nel mondo possono avere conseguenze estremamente controproducenti quando sono basati su una visione fortemente illusoria dell'umanita'. * Da pagina 48 L'India e' una civilta' induista? Per illustrare l'argomento, prendero' in esame il trattamento riservato al mio paese, l'India, in questo sistema di classificazione. Descrivendo l'India come una "civilta' induista", nell'esposizione della sua teoria sullo "scontro di civilta'", Huntington minimizza il fatto che l'India ha piu' musulmani di qualsiasi altro paese al mondo con l'eccezione dell'Indonesia e, di stretta misura, del Pakistan. Non rientrera' nell'arbitraria definizione di "mondo islamico", ma fatto sta che l'India (con i suoi 145 milioni di musulmani, piu' dell'intera popolazione britannica e francese messe insieme) ha molti piu' musulmani di quasi qualsiasi altro paese del "mondo islamico" di Huntington. Ed e' impossibile, tra l'altro, pensare alla civilta' dell'India contemporanea senza tener conto dell'importante ruolo avuto dai musulmani nella storia del paese. Sarebbe anzi abbastanza futile cercare di comprendere la natura e la vastita' dell'arte, della letteratura, della musica, del cinema o della cucina indiane senza prendere in considerazione la vasta gamma di apporti provenienti, in modo assolutamente inestricabile, sia dagli induisti che dai musulmani. Le interazioni nella vita di tutti i giorni, o nelle attivita' culturali, non seguono confini comunitari. Possiamo comparare lo stile di Ravi Shankar, lo straordinario sitarista, con quello di Ali Akbar Khan, il grande suonatore di sarod, in base alla loro particolare padronanza di forme diverse della musica classica indiana, ma non possiamo considerarli rispettivamente un "musicista indu'" e un "musicista musulmano" (anche se Shankar e' un indu' e Khan e' un musulmano). Lo stesso vale per altri settori della creativita' culturale, inclusa Bollywood, la grande arena della cultura di massa indiana, dove molti degli attori e delle attrici piu' famosi, e anche dei registi, sono di famiglia musulmana (insieme ad altri non musulmani), e sono adorati da una popolazione che all'80 per cento e' di religione induista. Senza contare che i musulmani non sono l'unico gruppo non induista della popolazione indiana. E' forte anche la presenza dei sikh e dei giainisti. Il buddismo, che in India ha avuto origine, e' stato la religione dominante per oltre un millennio, e i cinesi spesso definiscono l'India "il regno buddista". Scuole di pensiero agnostiche e atee - i Carvaka e i Lokayata - sono fiorite in India dal VI secolo a.C. ai nostri giorni. Grosse comunita' cristiane sono presenti in India fin dal IV secolo, duecento anni prima che cominciassero a formarsi consistenti comunita' cristiane in Gran Bretagna. Gli ebrei arrivarono in India poco dopo la caduta di Gerusalemme; i parsi a partire dall'VIII secolo. E' evidente che la classificazione dell'India come "civilta' induista" operata da Huntington presenta molti limiti descrittivi. Senza contare il fatto che e' politicamente incendiaria, perche' tende ad attribuire una qualche credibilita', quanto mai infondata, alla fenomenale distorsione storica e alla manipolazione della realta' corrente di cui i politici induisti settari hanno cercato di farsi promotori tentando di promuovere una visione dell'India come civilta' induista. Huntington, infatti, e' frequentemente citato da molti leader del movimento politico Hindutva, e non c'e' da stupirsi, considerando le similitudini fra la sua visione dell'India come civilta' induista, e la promozione di una "visione induista" dell'India, tanto cara ai guru politici dell'Hindutva. Si da' il caso che, nelle elezioni politiche tenutesi in India nella primavera del 2004, la coalizione guidata dal partito nazionalista indu' abbia subito una severa sconfitta un po' dappertutto. Oltre a essere guidata da un presidente musulmano, la laica repubblica dell'India adesso ha un primo ministro sikh e un cristiano come presidente del partito di governo (non male per l'elettorato piu' numeroso del mondo, costituito all'80 per cento e oltre da indu'). Ma la minaccia di un ritorno sulla scena della concezione settaria induista del paese e' sempre presente. Anche se i partiti politici fautori di una visione induista dell'India hanno ricevuto molto meno di un quarto dei suffragi (una piccola frazione della popolazione indu'), i tentativi politici di considerare l'India una civilta' induista non scompariranno facilmente. Caratterizzare l'India unicamente in base alla religione, ridotta artificiosamente a una soltanto, continua a essere, oltre che inesatto, politicamente esplosivo. * Da pagina 59 Astrazioni sommarie e confusione storica Affidarsi a una ripartizione della popolazione mondiale in civilta' e' assolutamente sbagliato, almeno per due diversi motivi. Il primo e' che esiste un problema metodologico di base nella presunzione implicita che una suddivisione per civilta' sia l'unico criterio di classificazione rilevante, e che esso debba soffocare - o spazzare via - gli altri metodi. E' gia' abbastanza negativo, anche se certo non sorprendente, che coloro che fomentano scontri a livello mondiale o violenza settaria a livello locale cerchino di imporre un'identita' unica, conflittuale e predefinita, a quei soggetti da reclutare come "fanteria" della brutalita' politica; ma e' veramente triste vedere come questa ottusa visione venga significativamente rafforzata dal sostegno implicito che i guerrieri del fondamentalismo antioccidentale ricevono dalle teorie della classificazione unica degli abitanti del pianeta nate nei paesi occidentali. Il secondo punto debole della suddivisione per civilta', tipico di questo approccio, e' che essa e' basata su una rozzezza descrittiva e un'ingenuita' storica straordinarie. Ignora di fatto molti dei maggiori elementi di diversita' presenti all'interno di ogni civilta', e trascura in gran parte le interazioni fra civilta'. Questi due difetti gemelli producono una visione fortemente impoverita delle diverse civilta' e delle loro similitudini, delle loro connessioni, della loro interdipendenza nel campo della scienza, della tecnologia, della matematica, della letteratura, degli scambi, del commercio e del pensiero politico, economico e sociale. La percezione confusa della storia mondiale determina una visione eccezionalmente limitata di ciascuna cultura, che comprende una lettura singolarmente provinciale della civilta' occidentale. * Da pagina 138 La possibilita' di una maggiore giustizia [...] La pratica dell'economia di mercato e' coerente con molti diversi modelli di proprieta', disponibilita' di risorse, strutture sociali e normative (come la legislazione sui brevetti, i regolamenti antitrust, le prestazioni sanitarie e di supporto al reddito ecc.). E a seconda di queste condizioni, l'economia di mercato genera differenti modelli di prezzi, condizioni di scambio, distribuzione del reddito, producendo, piu' in generale, effetti complessivi diversissimi tra loro. Ad esempio, ogni volta che vengono creati ospedali, scuole o universita', oppure ogni volta che c'e' un trasferimento di risorse da un gruppo a un altro, invariabilmente i prezzi e le quantita' subiscono delle alterazioni. I mercati non agiscono - non possono agire - in solitudine. Non esistono "gli effetti del mercato" sempre uguali a prescindere dalle condizioni che governano i mercati stessi, fra le quali la distribuzione delle risorse economiche e della proprieta'. Anche l'introduzione o il potenziamento di sistemi istituzionali di previdenza sociale e altri interventi pubblici assistenziali possono produrre differenze importanti negli esiti finali. L'interrogativo centrale non e' - anzi, non puo' essere - se ricorrere o no all'economia di mercato. E' un quesito superficiale, a cui e' facile dare una risposta. Nessuna economia, nella storia del mondo, e' mai riuscita a raggiungere una prosperita' diffusa, al di la' dell'opulenza dell'elite, senza fare un massiccio ricorso al mercato e alle condizioni di produzione che dal mercato dipendono. Non e' difficile arrivare alla conclusione che e' impossibile raggiungere una prosperita' economica generale senza fare largo uso delle opportunita' di scambio e specializzazione offerte dai rapporti di mercato. Con questo non intendo negare affatto la realta' fondamentale che l'azione dell'economia di mercato puo' essere alquanto deficitaria in molte circostanze, a causa della necessita' di gestire beni destinati a un consumo collettivo (come le strutture sanitarie pubbliche), e anche a causa (se ne e' molto discusso recentemente) dell'asimmetria - e piu' in generale dell'imperfezione - delle informazioni a disposizione dei diversi attori del mercato. Ad esempio, l'acquirente di un'auto usata possiede molte meno informazioni sulla macchina rispetto al proprietario che la vende, e questo significa che la gente deve prendere decisioni di scambio in condizioni di parziale ignoranza, e, nello specifico, di conoscenza disuguale. Questi problemi, che sono gravi e importanti, possono pero' venire affrontati tramite politiche pubbliche appropriate, che vadano a integrare il funzionamento dell'economia di mercato. Sarebbe difficile, tuttavia, fare interamente a meno del mercato, senza minare completamente le prospettive di progresso economico. Vivere in un'economia di mercato non e' molto diverso dal parlare in prosa. Non e' facile farne a meno, ma molto dipende da quale prosa scegliamo di usare. L'economia di mercato non e' l'unico attore in campo nei rapporti globalizzati, anzi, non e' l'unico attore nemmeno all'interno di un determinato paese. Un sistema che include il mercato puo' produrre risultati molto diversi a seconda delle condizioni abilitanti presenti (ad esempio, la distribuzione delle risorse fisiche, il modo in cui sono sviluppate le risorse umane, quali regole prevalgono nei rapporti d'affari, quali sistemi di garanzie sociali esistono, quanto e' condivisa la conoscenza tecnica e cosi' via), ma va aggiunto che queste stesse condizioni dipendono in larga misura dalle istituzioni economiche, sociali e politiche che operano a livello nazionale e globale. Come e' stato ampiamente dimostrato da studi empirici, la natura degli effetti del mercato e' fortemente influenzata dalle politiche pubbliche in materia di istruzione, epidemiologia, riforma agraria, strutture per il microcredito, adeguate protezioni legali ecc., e in ognuno di questi settori e' possibile, attraverso l'azione pubblica, fare cose che incidono enormemente sugli esiti dei rapporti economici locali e globali. Dobbiamo comprendere e utilizzare questo tipo di interdipendenze se vogliamo incidere sulle disuguaglianze e le asimmetrie che caratterizzano l'economia mondiale. La semplice globalizzazione dei rapporti di mercato, da sola, rischia di essere un approccio altamente inadeguato alla questione della prosperita' mondiale. * Da pagina 160 Nascere in un particolare background sociale non e' di per se' un esercizio di liberta' culturale (come abbiamo detto in precedenza), non essendo frutto di una scelta. Al contrario, sarebbe un esercizio di liberta' la decisione di restare saldamente all'interno del sistema tradizionale, se la scelta venisse compiuta dopo aver preso in considerazione altre alternative. Rientrerebbe fra gli esercizi di liberta' anche la decisione di discostarsi - tanto o poco - dal modello comportamentale standard, se assunta dopo averci ragionato e riflettuto. La liberta' culturale spesso puo' entrare in conflitto con il conservatorismo culturale, e se si vuole difendere il multiculturalismo in nome della liberta' culturale risulta difficile pensare che la condizione irrinunciabile possa essere un sostegno inamovibile e incondizionato al rigido mantenimento della tradizione culturale ereditata. La seconda questione attiene al fatto, diffusamente trattato in questo libro, che anche se la religione e l'etnia possono rappresentare un'identita' importante per gli individui (specialmente se questi hanno la liberta' di scegliere se accogliere o rifiutare le tradizioni ereditate o assegnate), esistono altre affiliazioni e associazioni importanti. Il multiculturalismo non puo', se non in un'accezione assai peculiare, sovrastare il diritto di un individuo a partecipare alla societa' civile, a prendere parte alla politica nazionale o a condurre una vita socialmente anticonformista. E ancor di piu', il multiculturalismo, per quanto importante, non puo' portare automaticamente a dare priorita' assoluta ai dettami della cultura tradizionale. Come detto in precedenza, la popolazione mondiale non puo' essere vista esclusivamente in funzione delle affiliazioni religiose, come una federazione di religioni. Per gli stessi motivi, piu' o meno, una Gran Bretagna multietnica non puo' essere considerata un insieme di comunita' etniche. La visione "federativa", pero', ha avuto un grande successo nella Gran Bretagna contemporanea. Nonostante le implicazioni tiranniche insite nel collocare gli individui in rigidi compartimenti ognuno corrispondente a una data "comunita'", questa impostazione viene spesso considerata, in maniera piuttosto sconcertante, come alleata della liberta' individuale. Esiste perfino una "visione", molto propagandata, del "futuro della Gran Bretagna multietnica" che vede il paese come "una federazione elastica di culture tenute insieme da vincoli comuni di interessi e di affetti e da un senso collettivo dell'essere". Ma e' indispensabile che il rapporto di un individuo con la Gran Bretagna venga mediato attraverso la cultura in cui questo individuo e' nato? Una persona puo' decidere di accostarsi a piu' di una di queste culture predefinite, o, altrettanto plausibilmente, a nessuna. Un individuo puo' anche decidere che la sua identita' etnica o culturale e' meno importante, per fare un esempio, delle sue convinzioni politiche, o dei suoi impegni professionali o dei suoi convincimenti letterari. E' una scelta che dev'essere fatta da quell'individuo, a prescindere dalla casella che occupa in questa bizzarra "federazione di culture". [...] Presenterebbe seri problemi, sotto il profilo delle rivendicazioni morali e sociali, un multiculturalismo che insistesse sul fatto che l'identita' di una persona debba essere definita dalla sua comunita' o dalla sua religione, trascurando tutte le altre affiliazioni che un individuo possiede, (dalla lingua, dalla classe sociale e dalle relazioni sociali alle opinioni politiche e ai ruoli civici), e dando automaticamente la priorita' alla religione o alla tradizione ereditata rispetto alla riflessione e alla scelta. Eppure, questa visione ristretta del multiculturalismo ha assunto un ruolo preminente in alcune delle politiche ufficiali britanniche degli ultimi anni. La politica ufficiale di promuovere attivamente le nuove "scuole religiose" appena istituite per i bambini musulmani, induisti e sikh (in aggiunta alle preesistenti scuole cristiane), che e' la dimostrazione di questo approccio, non solo e' discutibile sotto il profilo educativo, ma incoraggia anche una percezione frammentaria di cio' che e' necessario per vivere in una Gran Bretagna "desegregata". Molti di questi nuovi istituti stanno nascendo proprio in un momento in cui il fatto di dare la priorita' alla religione rappresenta una delle maggiori fonti di violenza a livello mondiale (per non parlare degli esempi analoghi nella stessa Gran Bretagna, con le divisioni tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord, esse stesse non disgiunte dalla segmentazione scolastica). Il primo ministro Tony Blair ha certamente ragione quando fa notare che "quelle scuole garantiscono un forte senso dell'etica e dei valori". Ma istruzione non vuol dire solamente immergere i bambini, anche quelli giovanissimi, nell'ethos dei padri. Vuol dire anche aiutare i bambini a sviluppare la capacita' di ragionare sulle decisioni nuove che qualsiasi persona adulta sara' chiamata a prendere. L'obiettivo importante non e' garantire una formula di "parita'" rispetto ai vecchi britannici con le loro vecchie scuole religiose, ma trovare il modo migliore per mettere in grado gli scolari che crescono in un paese integrato di vivere una "vita analizzata". ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 375 del 15 settembre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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