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Voci e volti della nonviolenza. 373
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 373
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 9 Sep 2009 10:17:31 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 373 del 9 settembre 2009 In questo numero: 1. Giorgio Amitrano: Letteratura giapponese oggi 2. Francesca Lazzarato: Letteratura messicana oggi 3. Isabella Mattazzi: Letteratura francese oggi 1. LETTERATURE. GIORGIO AMITRANO: LETTERATURA GIAPPONESE OGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 agosto 2009 col titolo "Atlante letterario. Visionari dal Giappone" e il sommario "Postmoderni radicati nei classici. Uscito da due mesi, l'ultimo intreccio di Murakami Haruki - in un doppio volume di oltre mille pagine - guida le classifiche. Quest'anno la scelta del piu' grande premio giapponese e' caduta sul romanzo iperletterario del quarantacinquenne Isozaki Kenichiro. Yoshimoto Banana continua a mietere successi con una storia ispirata a Trauma di Dario Argento. Ma l'ingegno narrativo piu' notevole e' nei manga di Hagio Moto"] A due mesi di distanza dall'uscita, l'ultimo romanzo di Murakami Haruki, 1Q84, continua a guidare le classifiche di vendita, e troneggia in tutte le librerie giapponesi. Diviso in due volumi (per un totale di 1055 pagine), con le sue due grandi Q verde e arancione in copertina produce un risultato inquietante, come di due occhi sgranati che ti seguono dappertutto. Big brother is watching you. Effetto non so quanto premeditato dall'ufficio marketing della casa editrice Shinchosha, ma sicuramente adatto a un libro che sin dal titolo allude al quasi omonimo romanzo di George Orwell. La differenza, rappresentata dalla sostituzione del numero 9 con la lettera Q, e' solo grafica: in giapponese 9 e Q si leggono allo stesso modo, ma i personaggi che nel romanzo vivono nell'anno 1Q84 hanno oltrepassato i confini della realta', e vedono cose che gli altri, sospinti dal flusso normale del tempo, non riescono nemmeno a scorgere da lontano. Tuttavia, la tensione che cresce nel corso dell'intreccio ci induce a pensare che la nuova realta', con i suoi connotati da incubo, travolgera' la diga che separa i due mondi paralleli, trionfando su tutto. L'effetto big brother del libro che coi suoi occhi ti spia minaccioso e' accentuato dal fatto che nella maggior parte delle librerie, 1Q84 lo trovi in piu' reparti: fra i libri piu' venduti, in mezzo ai romanzi scritti da uomini (si', di solito in Giappone esistono scaffali separati per gli scrittori e le scrittrici!), nella sezione dei "libri di cui si parla". Ma la cosa piu' curiosa e' che accanto alle torri di copie, vi e' spesso un espositore con i libri o i dischi citati nel romanzo: ecco il 1984 di Orwell, ovviamente, con il 9 ancora li' fermo al suo posto, L'isola di Sakhalin di Cechov, su cui Murakami si sofferma con ampie citazioni, I fratelli Karamazov di Dostoevskij, e la Sinfonietta di Janacek. * Vendite supersoniche Per L'isola di Sakhalin, uno dei libri meno conosciuti di Cechov, si e' trattato di un piccolo boom. Ristampato tempestivamente dalla casa editrice Iwanami nei tascabili, e' andato a ruba. Simile destino ha avuto la Sinfonietta di Janacek, che da un giorno all'altro e' diventato uno dei dischi di musica classica piu' richiesti, costringendo le case discografiche ad affannose ristampe. Ma naturalmente si tratta di cifre imparagonabili a quelle di 1Q84 che ha superato in poche settimane un milione di copie vendute. Il successo e' davvero eccezionale anche per un mercato librario florido come quello giapponese, e per uno dei suoi scrittori piu' celebri. Il dato che colpisce e' soprattutto la rapidita' delle vendite a ridosso dell'uscita, prima che potesse funzionare il passaparola, o che recensioni positive potessero influenzare le vendite. Giornalisti e critici che si sono interrogati sulle ragioni del fenomeno hanno concluso che l'assenza totale di informazioni sul libro, combinata con la reputazione ormai acquisita di Murakami e un numero elevato di fan, ha creato un clima di attesa cosi' forte da deflagrare in un successo eccezionale. Ora che il boato si e' attutito, si puo' ragionare meglio sul valore del libro. A mio parere si tratta del romanzo piu' bello e maturo di Murakami, quello che piu' di ogni altro rivela la sua straordinaria conoscenza del mondo, insieme alla capacita' di mantenere il contatto - paradossalmente per un autore fantastico - con la verita' dimessa della vita di tutti i giorni. Nell'orchestrare una distopia immaginativa e visionaria, Murakami intrattiene un rapporto intimo con la quotidianita' dell'esperienza umana, quella in cui i pensieri, le emozioni, i desideri, sono collegati alla realta' del corpo, del sonno, del cibo, del lavoro, della vita di relazione. E' confortante notare come il successo internazionale non abbia appannato in lui l'umilta', propria del grande scrittore, di abitare la terra (secondo Natalia Ginzburg, il lavoro dello scrittore era semplicemente "abitare la terra"). Forse per questo il suo alter ego nel romanzo, Tengo, ama appassionatamente il "reportage" da Sakhalin, l'isola dei deportati, resoconto di un viaggio fatto da Cechov quando era al massimo del successo, per tornare alle radici dell'umanita', staccandosi dalla societa' modaiola e superficiale degli scrittori russi. Fra i tanti temi che si intrecciano nel libro, uno e' quello dello scrivere, analizzato dal punto di vista dell'autore esordiente, gia' capace di governare con sapienza lo stile ma che non possiede la forza narrativa per raggiungere il cuore del pubblico; e dell'editor cinico, privo di scrupoli, pronto a operare qualsiasi alchimia per realizzare, da un canovaccio affascinante ma mal scritto, opera di una ragazza di appena diciassette anni, un libro perfetto, anche formalmente, da presentare in concorso a un premio letterario. Si puo' dire che il congegno romanzesco di 1Q84 (non lo racconteremo), parta proprio dal progetto di far vincere a questo libro il famoso premio Akutagawa, massimo riconoscimento letterario giapponese. Quest'anno il primo premio del 2009 (viene assegnato una volta ogni sei mesi) e' stato conferito proprio nel pieno del boom mediatico del successo di 1Q84. Chi seguiva le notizie dell'assegnazione mentre leggeva il libro, non poteva non provare una sensazione di curioso straniamento. Non ci saremmo stupiti di trovare il "romanzo nel romanzo" di Murakami candidato al vero premio Akutagawa, e magari vincente. Questo travaso dalla fiction al mondo vero sarebbe stato un episodio degno di "Ai confini della realta'", e anche un grande scoop per i giornalisti. Invece tutto si e' svolto tranquillamente e senza colpi di scena. Vincitore il quarantacinquenne Isozaki Kenichiro con il romanzo L'ultima dimora, storia della vita quotidiana di una coppia, descritta dal punto di vista di un marito osservatore e introverso. La giuria del premio, accusata talvolta di cedimento alle mode e di scelte commerciali, ha optato questa volta per un romanzo iperletterario, dove la trama, gia' esile, e' avvolta in un bozzolo di pensieri cosi' denso da nasconderne la forma. Detto in altre parole, succede poco, e quel poco non e' chiarissimo. Tuttavia, si avverte lo spessore intellettuale dell'autore, e la qualita' di una scrittura elaborata con cura. I media avrebbero preferito una scelta diversa, come ad esempio quella di una scrittrice di nascita iraniana, Shirin Nezam Mafi, trentenne, che scrive in giapponese. Se l'Akutagawa fosse stato attribuito a lei si sarebbe ripetuto quanto era accaduto l'anno scorso, quando uno dei due premi annuali era andato, con grande clamore, alla cinese (residente in Giappone) Yang Yi. Era la prima volta, negli oltre settant'anni di storia del concorso, che questo ambitissimo riconoscimento veniva assegnato a una scrittrice non di lingua madre giapponese. Il romanzo, che sara' pubblicato in italiano da Fazi con il titolo Un mattino oltre il tempo, narra la storia di un giovane cinese coinvolto nelle lotte studentesche dell'89 a Pechino, stroncate nel massacro di Tiananmen, e del suo esilio in Giappone, dove tenta faticosamente di trovare un equilibrio attraverso la famiglia e l'impegno politico. L'anno scorso, l'assegnazione del premio a Yang Yi rappresento' un segnale di apertura nei confronti di stranieri che scrivono in giapponese. Come Nezam Mafi, Yang Yi era giunta in Giappone a ventitre anni, e aveva imparato la lingua relativamente tardi. I giurati dell'Akutagawa dimostravano, al di la' della loro fiducia nel valore del romanzo di Yang Yi, di riconoscere l'esistenza di un fenomeno ormai globale: il bisogno di esprimersi in una lingua acquisita, bisogno che anche autori e autrici giapponesi hanno manifestato, prima fra tutti Tawada Yoko, che scrive i suoi libri dividendosi fra la propria lingua madre, il giapponese, e quella acquisita, il tedesco. Anche questa estate, nelle librerie giapponesi, sebbene un po' messa in ombra dall'exploit di Murakami, Yoshimoto Banana continua a occupare uno spazio considerevole. Snobbata dai critici piu' seriosi, continua a essere una delle scrittrici piu' popolari e a mantenere un proprio carisma indiscusso. Nonostante l'indifferenza dell'accademia, e' amata da intellettuali eccentrici e geniali come lo psicologo junghiano Kawai Hayao, scomparso di recente, che ha realizzato con lei un libro-dialogo. La apprezzano anche Tsukamoto Shinya, il regista di Tetsuo, che ha diretto a Tokyo la versione teatrale di Presagio triste, e Nara Yoshitomo, illustratore di molti suoi libri. L'ultimo romanzo di Banana, Kanojo ni tsuite (A proposito di lei), uscito da pochi mesi, e' uno dei suoi piu' intensi e toccanti. La storia e' liberamente ispirata a un film di Dario Argento, Trauma, che Banana ama particolarmente. Chi non lo sapesse, avrebbe pero' difficolta' a riconoscere il prototipo in questo romanzo che scava dolorosamente nel rapporto madre-figlia. La giovane protagonista parte per un viaggio a ritroso nel proprio passato, nel tentativo di spiegarsi il processo che ha condotto la propria madre alla follia e all'assassinio. Temi, come al solito, forti, e come sempre trattati con mano leggera e gli occhi sgranati dallo stupore, alla maniera delle eroine dei manga. * Un talento da tradurre Ed e' stata proprio Banana a farmi conoscere, qualche anno fa, Hagio Moto, una delle piu' grandi mangaka giapponesi. "Siamo ai livelli di Dostoevskij", mi disse. Pensavo che scherzasse, ma arrivato alla fine del primo dei dieci volumi della saga Zankoku na kami ga shihai suru (Nelle mani di un dio crudele) ne ero talmente sedotto che ho cominciato a procurarmi tutti i suoi libri (ne ha scritti a dozzine). Incredibilmente non tradotta in Italia, a parte un unico volume esaurito da anni, Hagio Moto e' un genio assoluto per l'ingegno narrativo, la fitta tessitura di citazioni colte all'interno di una forma popolare come il manga, e la bellezza dei disegni. Proprio questa estate Hagio Moto ha festeggiato i suoi quarant'anni di carriera, e a ottobre sara' in Italia per un ciclo di conferenze. Molti sono i suoi libri che meriterebbero di essere tradotti in italiano, dalla sua incantevole versione manga di Les enfants terribles di Cocteau, alla saga vampiresca La famiglia Poe; ma il suo capolavoro resta a mio parere proprio Nelle mani di un dio crudele. Il manga narra una storia che ha piu' incesti, delitti e suicidi di una tragedia elisabettiana. Chi pensa che la cifra stilistica giapponese sia l'austerita' dello zen, tramandata nelle pitture monocrome a inchiostro e reinterpretata da certi ieratici architetti e stilisti contemporanei in forme ancora piu' essenziali, si ricreda. Nei libri di Hagio Moto i segni si affollano, debordano oltre i confini dei riquadri, come le emozioni, sempre estreme, che si scontrano producendo crudelta', dolore, morte, ma anche amori voluttuosamente romantici. C'e' una generosita' e un'ampiezza grafica e affabulatoria, nelle storie di Hagio Moto, da fare apparire gran parte della letteratura contemporanea debole ed esangue. Il suo vigore narrativo fa pensare a Balzac, o Dickens. Perche' l'arte di Hagio Moto, come quella di Murakami, pur espandendo i suoi rami nel postmoderno, affonda le radici nella grande tradizione romanzesca dell'800. * Postilla. Quel che ci aspetta. Autori in arrivo o in corso di traduzione 1Q84 sara' pubblicato in Italia da Einaudi. Presso lo stesso editore, di Murakami e' in uscita L'arte di correre, con la traduzione di Antonietta Pastore. Di Yoshimoto Banana e' in corso di traduzione da Feltrinelli, a cura di Alessandro G. Gerevini, Iruka (Delfini). Il romanzo di Yang Yi, Un mattino oltre il tempo, sara' pubblicato da Fazi nella traduzione di Gianluca Coci. L'unico libro di Tawada Yoko tradotto in italiano e' Il bagno, pubblicato da Ripostes, ma introvabile. Di Hagio Moto e' stato tradotto in italiano solo Siamo in 11! (Star Comics), esaurito da tempo. Hagio Moto sara' ospite del convegno "Wabi sabi cyber 3" che si terra' all'Orientale di Napoli il 2 ottobre, e protagonista di due incontri all'Universita' di Bologna e all'Istituto di cultura giapponese di Roma, rispettivamente il 6 e l'8 ottobre. 2. LETTERATURE. FRANCESCA LAZZARATO: LETTERATURA MESSICANA OGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 agosto 2009 col titolo "Atlante letterario. Faville messicane"] "Fuentes, promotore e sopravvissuto del boom, sparring di Octavio Paz e lobby vivente delle lettere messicane, non e' piu' quello che era... Un propagandista della propria ormai esaurita genialita', con insufficienza cronica di buone idee narrative": cosi' scrive Alvaro Bisama, trentaquattrenne scrittore cileno dei piu' promettenti e critico letterario senza peli sulla lingua, letto e seguito in tutta l'America Latina, a proposito di colui che viene considerato la figura piu' autorevole della letteratura messicana contemporanea, tradotto ovunque e vincitore di tutti i possibili premi (escluso il Nobel, al quale aspira da anni). Un giudizio spietato che, evocando il "Manifiesto del Crack" lanciato nel 1996 da cinque giovani scrittori messicani per far presente l'urgenza di rinnovare la letteratura nazionale, parla esplicitamente della necessaria "uccisione" di un padre ingombrante. Pronto a sfornare quasi un libro l'anno (la sua ultima opera, La voluntad y la fortuna, e' uscita nel 2008 presso Alfaguara) e impegnato in incessanti tournees - l'abbiamo visto l'anno scorso al Festival di Mantova - Fuentes e' in effetti lo scrittore messicano vivente piu' noto e interpellato all'estero, tanto che la sua onnipresenza sembra dare ragione a Jose' Agustin, esponente della cosidetta "Onda", la corrente che negli anni '60 irruppe sulla scena letteraria per sovvertirla brevemente con le nuove istanze giovanili. Pregevole scrittore e antologizzatore, Agustin sostiene che la letteratura messicana viene considerata e apprezzata, "su scala mondiale", solo attraverso alcuni mostri sacri del passato come Octavio Paz, Juan Rulfo o Carlos Fuentes, i cui nomi oscurano non solo quelli di autori piu' giovani, ma anche altri "classici moderni" viventi e non, come Martin Luis Guzman, Mariano Azuela, Juan Jose' Arreola, Vicente Lenero, il geniale e ironico Jorge Ibarguengoitia, la grandissima, misconosciuta Elena Garro, Elena Poniatowska col suo inalterabile impegno politico, l'eccentrico e indimenticabile Salvador Elizondo, il poeta e cuentista Jose' Emilio Pacheco, Sergio Pitol, innovatore formidabile e per lungo tempo uno dei "segreti meglio custoditi" delle lettere messicane, e i messicanizzati Max Aub e Augusto Monterroso, due tra i tanti scrittori che testimoniano dell'ottima accoglienza tradizionalmente riservata dal Messico a innumerevoli intellettuali esuli, dai repubblicani spagnoli ai latinoamericani in fuga dalle dittature dei rispettivi paesi (ma ci sono anche transfughi del tutto volontari, come il peruviano-messicano Mario Bellatin, maestro della metamorfosi e scrittore singolarissimo). * Qualcosa sta cambiando Anche se Agustin ha sostanzialmente ragione, non si puo' negare che negli ultimi anni le cose stianno cambiando, anzi siano gia' cambiate, e che editorie come quella francese e spagnola (proprietaria di buona parte dei marchi editoriali messicani e padrona del mercato locale) attingano ormai con abbondanza a una letteratura che oggi appare come la piu' ricca e stimolante dell'America latina, con una presenza vasta e varia di autori importanti, all'infaticabile ricerca di una "voce propria". Preziosa e' la loro capacita' di scrivere intorno a fatti, eventi e personaggi molto messicani (il narcotraffico, la violenza, la corruzione, il rapporto tra messicani e chicanos, la sanguinante linea di confine con gli Stati Uniti) riuscendo a universalizzarli e a farne un elemento di attrazione per il lettore straniero. Il che non toglie che anche in Messico, come ovunque, esista e prosperi una narrativa che potremmo definire "globalizzata", ossia dappertutto vendibile perche' depurata da elementi prettamente nazionali: una tendenza rappresentata a livello continentale da McOndo, l'antologia-manifesto pubblicata nel '96 dai cileni Sergio Gomez e Alberto Fuguet, e in Messico dal gia' citato "Manifiesto del Crack", nome che non allude alla droga, ma a un rumore di "rottura" simile a quel "boom" che segno' negli anni '70 il successo europeo degli scrittori latinoamericani. Jorge Volpi e Ignacio Padilla, nati negli anni '60, sono i due nomi piu' importanti prodotti dal Crack, tradotti in una ventina di paesi (perfino in Italia!), autori a vocazione cosmopolita e creatori di romanzi ambientati ovunque tranne che in Messico (a essere privilegiata e' piuttosto una mitteleuropa di invenzione). Sia il sovrastimato Volpi che il piu' raffinato e inventivo Padilla sembrano fortemente inclini al pastiche metaletterario e alla citazione ossessiva, e se Padilla finisce per rivelarsi come un ironico "bisnipotino" di Borges che ha letto tutti i libri e visto tutti i film, Volpi scivola in troppo ambiziosi romanzi filosofici, senza dimenticarsi, comunque, di strizzare l'occhio al grande pubblico. Tra gli scrittori nati fra la fine degli anni '50 e quella dei '60, che da tempo si sono lasciati alle spalle il problema dell'identita' cui i loro padri erano cosi' sensibili, ce ne sono pero' altri che meriterebbero un'attenzione maggiore degli ex esponenti del Crack, e a loro e' utile guardare per capire quale rimarchevole polifonia di voci offra oggi la letteratura messicana. Si puo' cominciare da Juan Villoro, classico di domani inesplicabilmente inedito in Italia, se si esclude un libro di viaggi pubblicato anni fa dalla Biblioteca del Vascello, e prodigioso autore di racconti e di alcuni romanzi magistrali come El testigo (Premio Herralde de Novela nel 2004). Tra i suoi temi principali, quello delle ricerca di senso in una societa' che, dopo la perdita del potere da parte del Pri al governo del paese per settant'anni, si misura con un vuoto ora riempito da una violenza cieca e dalla dittatura della cocaina e della televisione, che - come dice Villoro - "intrattengono stretti legami con quanti esercitano il potere". Un umore ancora piu' agro lo manifesta Enrique Serna (l'editore Voland va pubblicando in italiano tutte le sue opere), anche lui autore di racconti e di romanzi neri e tragicamente umoristici, ma anche di incursioni nella narrativa storica (uno dei filoni "forti" della letteratura messicana), al pari di un altro scrittore di tutto rispetto quale Alvaro Uribe, definito "un incrocio tra Borges e Forsyth" per la sua capacita' di coniugare uno stile e una prosa elegantissimi con intrecci appassionanti, come nel suo ultimo romanzo El informe del atentado, da poco tradotto in Francia. Vi si narra di un fallito attentato contro il dittatore Porfirio Diaz, trasformando un episodio nazionale in un apologo sull'esercizio del potere, sulla cultura del timore e del controllo, e sui modi di costruzione di un'immagine istituzionale falsamente "rispettabile" e "onorevole". Anche Cristina Rivera Garza, forse la migliore tra le scrittrici messicane di oggi e certo la piu' originale, ha scelto la via del romanzo storico con il suo magnifico Nadie me vera' llorar ambientato ai primi del secolo nell'immenso manicomio di Citta' del Messico, per poi discostarsene nelle opere successive, l'ultima delle quali, La frontera mas distante riunisce in undici racconti stravaganti e poetici i suoi temi prediletti, dalla follia alla violenza all'erotismo. E la violenza, sempre la violenza, e' il segno distintivo di Guillermo Fadanelli, romanziere bukowskiano, marginale per molti anni e ora arrivato finalmente a un pieno successo con Educar a los topos. Un successo analogo a quello che, grazie al Premio Herralde 2008 ottenuto per il romanzo Casi Nunca, ha raggiunto Daniel Sada, autore appartato e sofisticato, dallo stile audace, pochissimo incline a fare concessioni al grande pubblico. Quanti altri nomi si potrebbero ancora fare? Moltissimi: da Eusebio Ruvalcaba a Fabio Morabito, da Vilma Fuentes a Homero Aridjis, dal rulfiano David Toscana a Alberto Ruy-Sanchez, fino ad arrivare ai giovanissimi nati negli anni '70, accomunati dalla frequentazione costante della rete e dell'assoluto orrore per il "colore locale": per loro Fuentes e' un dinosauro, Rulfo un nonno ancora da ammirare. Scrivono piccole storie metropolitane gelide e crudelissime, come Guadalupe Nettel (Petalos y otras historias incomodas), autentica rivelazione di questi ultimi anni insieme a Socorro Venegas, autrice di racconti (Todas las islas) e di romanzi (Sera' negra y blanca). Producono testi ambiziosi che si rifanno alla lezione del Crak, come il giovanissimo Tryno Maldonado, blogger furioso che a trentadue anni ha pubblicato due raccolte di racconti e due romanzi di un certo successo, Viena roja e Temporada de caza para el leon negro. Scelgono di raccontare nel modo piu' duro, con una prosa scabra e nuda, il Messico della violenza urbana e del narcotraffico: cosi' hanno fatto Yuri Herrera (Trabajos del reino) e Martin Solares (Los minutos negros) con due romanzi che si inscrivono nella tendenza piu' interessante e vitale del momento, quello che si potrebbe definire all'ingrosso e un po' impropriamente della "narconovela". * Gioielli di inizio millennio Herrera e Solares si sono infatti inseriti nella schiera di scrittori che ritraggono senza compiacenze il mondo dei narcos, l'emigrazione clandestina verso gli Stati Uniti, i "femicidios" di Ciudad Juarez. Un filone non nato oggi, ovviamente, ma che sta producendo romanzi, racconti e cronicas di livello sempre piu' alto, che vanno prendendo il posto della declinante novela di testimonianza politica. Alcuni dei migliori scrittore messicani di oggi sono quelli che si usa ormai chiamare "narcoescritores": Elmer Mendoza, autore del sorprendente Balas de Plata e creatore del disincantato detective El Zurdo; Luis Humberto Crosthwaite (Istrucciones para cruzar la frontera, Idos de la mente, Aparta de mi' ese caliz), amato da Javier Cercas che consiglia vivamente i suoi racconti "secchi, duri, ironici, pieni di sentimento e privi di sentimentalismo"; Eduardo Antonio Parra (Tierra da nadie), cuentista d'eccezione che scrive racconti nerissimi e terribili, ottimo critico, vincitore del Premio Juan Rulfo... Sarebbe impossibile inquadrarli semplicemente nei folti ranghi della novela negra messicana (conosciuta all'estero soprattutto per via dei romanzi modesti eppure gradevoli dello spagnolo-messicano Paco Ignacio Taibo II) ed e' ormai chiaro che sono loro la voce del Messico di oggi, scrittori di frontiera quasi tutti nati e residenti nel nord del paese invece che nell'immensa capitale, accompagnati dalla colonna sonora dei narcorridos dei Tucanos de Tijuana o dei Los Tigres del Norte (non a caso ospiti, con Perez Reverte e Mendoza, all'ultima Feria del Libro di Guadalajara), narratori della "caceria de migrantes" praticata vicino alle frontiere. Autori da tradurre e da leggere, oscuri gioielli in quella caverna del tesoro che e' la letteratura messicana di inizio millennio. * Postilla. Il mercato. Lo stato e' il miglior cliente degli editori privati Sono molte le case editrici messicane sostenute in parte o per intero dai finanziamenti pubblici, come il Fondo de Cultura Economica, che vanta un catalogo di quasi diecimila titoli. Inoltre lo Stato e' il miglior cliente degli editori "privati", che proprio a lui vendono il 31% della loro produzione. Le case editrici non statali sono 229, e molte di esse appartengono a grandi gruppi spagnoli o internazionali, come Santillana, Planeta o Random House-Mondadori, ma non mancano editori indipendenti come Siglo XXI o Sexto Piso, e una miriade di piccole editrici in parte riunite in associazioni come l'Alianza Editoriales Mexicanas Independientes. Il mercato conta su 1.500 punti vendita ma solo 500 sono librerie vere e proprie. Nel 2008 e' stata approvata una legge che oltre a introdurre il prezzo unico impone il codice a barre, la menzione dell'editore, del luogo e della data di stampa, nel tentativo di combattere la pirateria. 3. LETTERATURE. ISABELLA MATTAZZI: LETTERATURA FRANCESE OGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 agosto 2009 col titolo "Atlante letterario. Vertigini francesi" e il sommario "La realta' afferrata con un gesto di impotenza. L'ultima produzione letteraria francese esibisce diverse variazioni sul tema del rapporto con la paura. Ne e' un esempio Les Onze, meravigliosa macchina finzionale di uno scrittore molto dotato, Pierre Michon. Tra i testi piu' significativi degli ultimi anni, Zone de combat di Hugues Jallon, che si svolge fra citta' sventrate e scene di panico in un supermercato. E l'ultimo libro di Carrere, D'autres vies que la mienne, in cui viene proposto il legame fra morte pubblica e privata, fra tragedia sociale e intimismo"] Non molto tempo fa, su questo stesso giornale, Tommaso Pincio ha raccontato di uno squalo. Uno squalo tigre, per la precisione. Grosso pescione imbalsamato, messo sotto vetro da Damien Hirst negli anni '90, e in seguito venduto al collezionista di arte contemporanea Steve Cohen per dodici milioni di dollari. Una delle somme piu' alte mai pagate per l'opera di un artista ancora in vita. Che il prezzo di questo squalo non corrispondesse affatto all'oggetto in se', e' cosa ovvia. Certamente non in quanto pesce. E neppure in quanto preciso risarcimento per il numero di ore impiegate da Hirst nel suo minuzioso lavoro di tassidermista. Come scrive giustamente Pincio, in questa compravendita non si trattava infatti di valutare lo squalo come manufatto artistico nel senso piu' tecnico del termine, ma di individuare il prezzo, di quantificare una cosa ben piu' impalpabile e ben piu' essenziale per la vita, oggi come oggi, di un'opera d'arte. Il suo brand. La sua aura. Ovvero quel qualcosa che rende un oggetto piu' "artistico", piu' sexy di un altro, amplificando la sua densita' semantica ben al di la' del proprio corpo reale e tangibile. Quel qualcosa frutto di tutta una serie di operazioni di marketing e di promozione di cui noi fruitori possiamo intravedere solo il riflesso sbiadito, ma che inesorabilmente e in maniera del tutto automatica fa si' che al posto di un pesce, o di un qualsiasi altro manufatto artistico ci appaia ogni volta un nome, un autore-marchio e con lui un universo intero, uno stile, una vita. * Tra l'opera e il mercato Un discorso analogo si potrebbe fare per la letteratura. Con cifre diverse naturalmente, ben piu' esigue, ma con un meccanismo di relazione tra opera e pubblico del tutto simile. Il libro in quanto puro "oggetto testuale" oggi non esiste piu'. Impossibile anche per il lettore piu' scafato (o per il piu' ingenuo) disgiungere lo squalo-Gomorra dal "caso Saviano". Impossibile disgiungere lo squalo-Manituana dal "caso Wu Ming", cosi' come e' impossibile disgiungere un qualsiasi testo dal mercato che lo sostiene, dal fumo della sua promozione con la bagarre dei premi letterari e le parole grosse sui giornali, scritte non tanto per amor di polemica, ma per far coincidere sempre piu', o meglio, per far sparire il corpo dell'opera dietro il nome dell'autore. Per far si' che i suoi denti, le sue pinne, l'eventuale eleganza del suo movimento da pesce di carta non servano a stabilirne il valore, il prezzo, ma siano semplicemente un qualcosa di accessorio, di irrilevante quasi, nella sua valutazione. L'unica salvezza sembra, allora, quella di rivolgersi alle letterature dei paesi stranieri. Oggi prendiamo la Francia, ad esempio. Tra lo Strega e il Goncourt non c'e' gran differenza e le strategie di marketing della cultura sono dappertutto piu' o meno le stesse. Semplicemente, in questo caso, e' il nostro sguardo a cambiare le carte in tavola. E' la miopia implicita che appartiene alla nostra condizione di lettori lontani, quell'ignoranza meravigliosa e la vertigine che sembrano prenderci ogni volta che entriamo in una libreria di Parigi o di Marsiglia. Non sappiamo nulla. Nessun nome ci e' familiare. Nessun autore-marchio, nessun "caso letterario" ci precede sulla porta o ci aspetta sugli scaffali. Solo oggetti. Cose dotate di una presenza reale. Creature pericolosissime nell'assoluta novita', per noi, della loro livrea editoriale. Naturalmente il gioco vale fino a un certo limite. Autori francofoni come Ben Jelloun, Pennac, Houellebecq, Nothomb, Vargas, Echenoz, Littell sono entrati a tutti gli effetti nel circuito della produzione culturale italiana, andando ben al di la' di un territorio editoriale riservato a pochi timidi lettori e vietandoci di fatto ogni consumazione ingenua dei loro testi (e la stessa cosa fara' probabilmente a breve Atiqu Rahimi, vincitore del Goncourt 2008, con Syngue' sabour. Pierre de patience in uscita da Einaudi ai primi di settembre). Al di la' di questi autori, nomi, casi letterari ancor prima che artigiani del linguaggio, esiste pero' la possibilita' di uno sguardo sulla produzione contemporanea francese, libero da compromessi editoriali. Uno sguardo straniato, forzatamente concentrato sul testo e del tutto ignaro dei procedimenti che oltralpe sono stati innescati per sponsorizzare questo o quel libro. Uno sguardo un po' da cavallo come avrebbe detto Viktor Sklovskij in onore di Cholstomer, quadrupede saccente, che in un racconto di Tolstoj descrive il mondo degli uomini attraverso i suoi occhi animali. Un mondo assurdo, infatti, quello dell'editoria straniera non ancora tradotta, impossibile a cogliersi nei meccanismi serrati delle sue leggi interne, eppure inspiegabilmente evidente. Un mondo in vitro, tolto dall'alveo della societa' e dell'economia che lo hanno prodotto, spossessato della propria aura e improvvisamente nudo. Mostrato semplicemente per "quello che e'". * Facciamo qualche esempio La sensazione che sembra inizialmente prendere il lettore di fronte a Zone de combat di Hugues Jallon (Verticales, 2008, pp. 138, euro 13,90), uno dei testi piu' significativi usciti in Francia negli ultimi due anni, potrebbe somigliare in effetti allo spaesamento di un cavallo piombato in mezzo a un universo sconosciuto. Appena aperto il libro, il buio. Il nulla. La totale mancanza di ogni punto di riferimento. La vertigine della piu' completa incomprensione. Il testo stesso, d'altra parte, non aiuta. Forma ibrida tra prosa e poesia, Zone de combat e' una sequenza di frasi spezzate, di parole ripetute allo spasimo, frammenti di un discorso ossessivo, continuo, infinito. Un gorgogliare di frasi borbottate da una voce senza soggetto. O meglio, da un soggetto in perenne oscillazione. Un noi, senza volto, senza ombra. Poi un voi. Poi loro. Poi di nuovo noi. "Prendere posizione", "essere realisti", "avanzare, avanzare sempre", "respirare profondamente" sono consigli, ordini, impartiti senza tregua da non si sa bene chi (forse i terapeuti di un gruppo di auto-aiuto, forse gli esperti di una rivista dedicata al benessere fisico e psicologico dell'uomo moderno, forse lo stesso noi, soggetto paranoico intento a sgranare ossessivamente il rosario della propria strategia salvifica, la propria personalissima tattica vincente per far fronte alla catastrofe). Ma per far fronte a quale catastrofe? * Due storie parallele Frammenti di citta' sventrate, scene di panico in un supermercato, schegge ripetute di un bambino che sta per cadere da un balcone sono le immagini sovrapposte di una paura liquida, di un terrore viscerale insieme interno ed esterno al soggetto. Attentati terroristici, lutti familiari, tentativi di sopravvivenza post-atomica, crisi di coppia colano tra le pagine di Zone de combat nella piena di un unico flusso verbale. L'ideologia della paura, cosi' come l'ideologia del controllo della paura o l'ideologia della cura si nutrono infatti di slogan, di luoghi comuni, ossature linguistiche applicabili in ogni situazione. Se la paura e' una, affidata ogni volta allo strazio della singola esperienza, la sua "ideologia" invece e' universale, reversibile, perfettamente adattabile a ogni (luttuosa) evenienza. E' curioso, del resto, che nell'ultimo libro di Emmanuel Carrere (D'autres vies que la mienne, P.o.l., 2009, pp. 310, euro 23), con tutt'altra forma, tutt'altro intento e purtroppo con ben minore incisivita', si ripresenti identico questo legame tra morte pubblica e privata, fra tragedia sociale e intimita' del dolore. Testo dichiaratamente autobiografico, D'autres vies que la mienne e' un romanzo diviso in due. Due parti del tutto slegate l'una dall'altra. Due storie diverse. Due paure. Due lutti. Il primo, una bambina figlia di amici, travolta in Sri Lanka dalle onde dello tsunami nel dicembre del 2004. Il secondo, la cognata, giudice integerrimo del dipartimento dell'Isere, morta di cancro nel 2005. A unire questi due eventi, lo sguardo dell'autore, presente sulla spiaggia di Medaketiya e nell'ospedale di Matara dove venivano scaricati a migliaia corpi di donne e uomini gonfi d'acqua e di fango, presente ancora una volta un anno dopo al dolore privato di una famiglia mangiata dalla malattia. Che poi Carrere ne ricavi alla fine del libro la solita lezioncina sull'amore e su quanto sia essenziale godere delle piccole gioie della vita, non e' di molta importanza. La cosa interessante sembra essere invece nel testo l'accostamento apparentemente incongruo tra evento catastrofico e dolore intimo, come se un terremoto, un'inondazione, un attentato o un cancro fossero elementi socialmente intercambiabili. Come se la paura e l'impotenza che colgono l'uomo di fronte a una tragedia di proporzioni bibliche fossero ormai, nella nostra societa' post 11 settembre, all'ordine del giorno tanto quanto il dolore e l'impotenza che ci colgono di fronte all'annuncio di una malattia senza speranza. Anche Et mon coeur transparent di Veronique Ovalde' parla di morte (L'Olivier, 2008, pp. 234, euro 18). In questo caso un incidente di macchina in cui un'amatissima moglie lascia solo al mondo un marito affranto e decisamente instabile. E ancora una volta l'oscillazione tra accadimento banale (un incidente) e decesso per "causa eccezionale" e' il fulcro del racconto. Attraverso una piccola serie di eventi (il marito scopre tra le ricette di cucina della defunta le annotazioni sulle "dosi giuste" per costruire una molotov o una bomba al cloro, strane visite di sedicenti parenti, case improvvisamente saltate in aria), il passato di una vita perfetta e senza incrinature viene lentamente devastato dall'emergere della verita' di una moglie terrorista votata alla causa di un gruppo di ecologisti oltranzisti. L'incidente di macchina e' stato casuale allora, o si e' trattato di un omicidio politico? Probabilmente tutte e due le cose, e non e' neppure troppo importante saperlo, dal momento che il mondo intero sembra muoversi sul lago ghiacciato, lastra sottilissima, di una continua incertezza. Stessa angoscia per Mon coeur a' l'etroit di Marie Ndiaye (Gallimard, 2007, uscito adesso in italiano con il titolo Una stretta al cuore, Giunti, pp. 320, euro 14,50), in cui una coppia modello, due insegnanti di Bordeaux, da un giorno all'altro si trova a essere l'oggetto di un rifiuto sociale di massa senza apparente motivo, senza alcuna relazione di causa-effetto. Stessa inquietudine senza nome per Paris-Brest di Tanguy Viel (Minuit, 2009, pp. 190, euro 16,50), storia di un furto, storia di un segreto, storia della lenta distruzione di una famiglia a causa del gelo terrificante di una madre. * Quel che c'e' dietro un quadro Fare pero' del panico il tema dominante dell'ultima produzione letteraria francese e' forse eccessivo. O meglio, vari sono gli atteggiamenti di fronte al terrore che la Francia letteraria sembra aver portato sulla scena in questi ultimi anni. Non da ultimo quello di Pierre Michon, sicuramente, tra tutti, lo scrittore piu' dotato, lo squalo piu' maestoso. Il suo ultimo libro, Les Onze (Verdier, pp. 144, 12,80 euro) e' la storia di un quadro che un pittore misconosciuto, Francois-Elie Corentin, avrebbe dipinto nel 1794 a rappresentare gli undici membri del Comitato di salute pubblica, quegli undici cittadini-rivoluzionari fautori di uno degli snodi politici piu' complessi e contradditori della storia di Francia: "Il Terrore". Carnot, Saint-Just, Barres, Robespierre, inchiodati in una sala del Louvre su una tela di quattro metri per tre sembrano fissare il lettore dalle altezze siderali di un universo indeformabile. Sono la rappresentazione storica della paura, il congelamento del destino di centinaia di uomini nelle mani di un gruppo di pochi. Eppure il romanzo di Michon racconta di un quadro mai dipinto. Descrive una sala del Louvre mai allestita per l'occasione. Ricostruisce la vita di un pittore mai nato. Meditazione sull'arte, sul potere, sulla Storia, Les Onze e' anche una meravigliosa macchina finzionale. Quale distanza c'e' infatti tra la paura e la sua rappresentazione? Qual e' lo scarto possibile tra il terrore e la sua parola? Probabilmente e' questo, piu' che la paura in se', piu' che il disperato bisogno di tenere a bada l'angoscia, uno degli interrogativi piu' spinosi della nostra societa' contemporanea. * Postilla. Cambio di stagione. I protagonisti della rentree letteraria Hanno destato preoccupazioni (non troppe, in verita'), i numeri della prossima rentree letteraria: non calano le traduzioni, le pubblicazioni sono 659 in tutto, ma nuovi autori francesi destinati a durare o capaci di segnare il passo con scelte tematiche e stilistiche non scontate e' difficile vederne. Chi non ha aspettato la rentree per pubblicare il suo libro e' stato Pierre Michon, autore non propriamente "giovane" e non certo "parigino": al pari di Pierre Bergounioux, infatti, Michon incarna l'anima provinciale della letteratura d'Oltralpe, nel solco di Gracq. Molta attesa ha destato anche un altro romanzo non propriamente "francese": Trois femmes puissantes (Gallimard) di Marie Ndiaye, ispirato alla storia del padre senegalese. Ma, come commentava Raphaelle Rerolle sull'ultimo supplemento libri di "Le Monde", la Ndiaye e' sola: non ci sono scuole o "generazioni" alle quali ascriverla. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 373 del 9 settembre 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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