Voci e volti della nonviolenza. 360



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 360 del 17 agosto 2009

In questo numero:
1. Anna Bravo: La Shoa' e i Giusti in Italia
2. Anna Bravo: La compassione nella Resistenza
3. Anna Bravo: Resistenza civile (parte prima)
4. Et coetera

1. ANNA BRAVO: LA SHOA' E I GIUSTI IN ITALIA
[Riproponiamo ancora una volta il seguente saggio di Anna Bravo
originariamente pubblicato come voce "Giusti d'Italia", nel Dizionario
dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004, 2007 (edizione italiana curata da
Alberto Cavaglion)]

Poco numerosi, relativamente ben integrati nel tessuto sociale e nelle
istituzioni, concentrati nelle citta', gli ebrei italiani parlavano la
stessa lingua dei loro connazionali e avevano abitudini cosi' simili da
riuscire in pratica indistinguibili. Nonostante la tradizione
dell'antigiudaismo cristiano e la propaganda del regime, non esisteva un
diffuso antiebraismo radicale. L'occupazione tedesca, che dura venti mesi
mentre nel resto dell'Europa si conta in anni, inizia quando i tedeschi sono
manifestamente in difficolta' su tutti i fronti, e la popolazione ha
sperimentato l'incapacita' del regime a garantire minime condizioni
materiali, conosce i disastri militari dell'Italia, e' ostile alla guerra e
potenzialmente solidale con le sue vittime: nell'Italia del '43-'45 chi
protegge gli ebrei puo' sperare, se non nell'appoggio, in una certa
benevolenza dei concittadini. Infine a Roma c'e' il Vaticano, sede del
papato con la sua autorita' internazionale, e centro di una rete fitta di
parrocchie e conventi con una lunga pratica di asilo ai bisognosi.
Gli aspetti favorevoli  allpopera dei soccorritori sono dunque molti. Eppure
8.000 ebrei/e italiani vengono deportati, a volte su delazione o per
l'accanimeto di funzionari statali, piu' spesso perche' non trovano nessuno
disposto a spendersi per loro. E' vero che il rischio e' grande, e che i
nazisti considerano gli italiani una popolazione inferiore e traditrice
contro cui infierire. Resta il fatto che ci si decide a dare aiuto solo
quando e' evidente che per gli ebrei e' questione di vita o di morte, e che
a agire e' una minoranza.
Come in tutta Europa, si tratta di persone diverse fra loro, non
riconducibili a un determinato tipo umano e sociale o a una fede religiosa o
politica, e neppure alla difficilmente verificabile categoria della
"personalita' altruista" o a una condizione di marginalita' sociale che
favorirebbe autonomia di giudizio e scelte trasgressive. Sono differenti
anche le modalita' di azione. C'e' chi si appoggia a forze partigiane, chi
fa riferimento alle reti di resistenza civile che lavorano per mettere in
salvo in Svizzera antifascisti e prigionieri alleati, chi e' in contatto con
la Delasem, l'organizzazione ebraica di soccorso ai perseguitati; altri si
servono dei rapporti fra parrocchie e fra conventi, altri ancora usano la
loro posizione nelle catene ufficiali di comando, come quei capi militari e
alti funzionari delle zone occupate dall'Italia -  Croazia, sud della
Francia, Grecia - che in varia misura e con varie motivazioni ostacolano gli
arresti di ebrei del luogo.
Alla base di moltissime iniziative ci sono networks di tipo familiare,
amicale, di comunita', di vicinato, quasi sempre piccoli o piccolissimi,
spesso costituiti di un individuo con una minima rete di aiutanti; a volte
c'e' una sola persona. Per lo piu' si comincia offrendo occasionalmente
cibo, contatti o ospitalita', per poi passare a un sostegno piu'
continuativo e impegnativo, e si arriva all'illegalita' gradualmente e senza
averlo programmato, ma in tempi rapidi e conoscendone i pericoli.
*
Di questa minoranza i Giusti italiani (325 al gennaio 2003) costituiscono
uno spaccato, non un campione - in quegli anni, per esempio, l'aiuto offerto
da una famiglia veniva accreditato al padrone di casa, anche se l'iniziativa
era stata della moglie, figlia o sorella; il riconoscimento dipende da molte
variabili, compreso il caso. Ma le vicende dei Giusti sono indicatori
preziosi delle dinamiche sociali e delle vie attraverso cui si diventa
salvatori.
Nella situazione italiana, i network informali hanno un ruolo di spicco, e
per buone ragioni. L'8 settembre 1943 il paese esce da vent'anni di un
regime che ha frantumato l'opposizione e avviato la fascistizzazione delle
strutture sociali. I partiti antifascisti mancano di radicamento, mezzi, a
volte di consapevolezza. Diversamente che in altri paesi europei, le
associazioni professionali, culturali o di altro tipo e i grandi nomi
dell'intellettualita' non si attivano in alcun modo. I sentimenti civici,
storicamente deboli, sono sbriciolati; la coesione sociale e' scarsa, le
istituzioni statali svuotate.
Al contrario, i legami personali, familiari e comunitari, tradizionalmente
piu' solidi, reggono, ed ecco perche' riescono a realizzare le iniziative
piu' efficaci (ma anche meno visibili alle categorie della politica).
*
Almeno in un caso e' documentato il coinvolgimento di un'intera comunita'. A
Nonantola, un paese dell'Emilia-Romagna, nell'estate '42 sono accolti una
novantina di ragazzi ebrei di vari paesi europei, che il presidente
nazionale della Delasem Vittorio Valobra e' riuscito a trasferire  dalla
Jugoslavia. Sistemati a villa Sacerdoti alla periferia di Nonantola, i
piccoli profughi vivono abbastanza tranquillamente e trovano amici fra gli
abitanti. Rapporti preziosi, perche' dopo l'8 settembre 1943, quando i
tedeschi occupano il paese, i ragazzi saranno nascosti, oltre che nei locali
del Seminario e nell'asilo delle suore, presso famiglie del posto. Nel
frattempo si prepara la loro fuga verso la Svizzera. I due Giusti di
Nonantola, il dottor Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari, riescono a far
preparare carte d'identita' false intestate al comune di Larino, in
provincia di Campobasso, dove si spera sia impossibile fare controlli. Tutto
avviene all'interno della comunita', e solo per facilitare il passaggio in
Svizzera Beccari e Morreali cercano contatti con il neonato movimento
partigiano del centro-nord.
*
Fra quanti decidono e operano da soli o quasi - il gruppo forse piu'
eterogeneo - alcuni hanno una storia di impegno politico. Cosi' il medico
piemontese Carlo Angela, che era stato tra i fondatori del partito
Democrazia sociale nel 1921, e che per il suo antifascismo aveva scontato
vessazioni e ostacoli nella carriera. Nel 1943, Angela dirige la clinica
psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle
valli torinesi. Ha moglie e due figli appena adolescenti, e' di poca salute,
e' lui stesso sotto sorveglianza; il paese e' stato piu' volte rastrellato,
fascisti e tedeschi entrano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti
non mancano i collaborazionisti. Eppure Angela accoglie a Villa Turina varie
famiglie ebree, scrive falsi certificati medici, fronteggia le ispezioni e
gli interrogatori dei fascisti, nel febbraio '44 e' preso in ostaggio e si
salva fortunosamente. Nel caso di Renzo Segre e Nella Morelli, ospitati per
20 mesi facendo passare lui per malato, lei per sua assistente, arriva a
presentarsi al temutissimo presidio fascista torinese per farsi garante
della loro identita' fittizia. Sostenuto soltanto da un piccolissimo nucleo
di dipendenti della clinica, il settantenne Angela opera con piu' efficacia
delle forze della resistenza e del clero locale.
*
34 anni, figlia di commercianti milanesi, corista alla Scala, Liuba Bandini
non ha invece un curriculum politico e ha imparato a detestare i
totalitarismi attraverso l'esperienza dell'ex marito Giorgio Scerbanenco,
profugo dall'Ucraina. Anche lei agisce di propria iniziativa e
sostanzialmente da sola, nascondendo nella sua casa milanese i coniugi
Alberto e Marisa Campelung dal primo dicembre 1943 alla primavera 1945;
l'unico sostegno le viene dalla sorella Ines, che abita nello stesso stabile
e custodisce i bagagli della coppia. Il 14 marzo, avvertiti che i tedeschi
sono sulle loro tracce, i Campelung devono fuggire, e Liuba viene
pesantememente minacciata dalla polizia SS. Non solo tiene testa
all'interrogatorio, lei donna sola e madre di un bimbo di 4 anni, ma per
quanto sorvegliata riesce in seguito a far arrivare qualche aiuto ai suoi ex
ospiti.
*
Per quanto riguarda l'opera di preti e religiosi/e, non esiste alcuna
specifica direttiva del papa che la solleciti, e l'impegno nasce per altre
vie.
Alcuni si attivano su richiesta e in accordo con la Delasem, come don
Francesco Repetto, giovane segretario del cardinale di Genova Pietro Boetto,
cui poco dopo l'8 settembre Valobra aveva chiesto di distribuire sussidi
agli ebrei della zona e agli stranieri rifugiati. Dato che molti sono presto
costretti a nascondersi, Repetto si trova a procurare viveri, documenti
falsi, asilo presso conventi e privati, guide per la fuga in Svizzera.
Intanto lavora per mobilitare una quantita' di religiosi nella diocesi
genovese e per sensibilizzare sacerdoti e vescovi dell'Italia
settentrionale. Scoperto nel luglio '44, sara' sostituito da un altro futuro
Giusto, don Carlo Salvi.
Molti religiosi/e agiscono pero' indipendentemente dai canali delle Curie:
in Piemonte, il domenicano padre Girotti, che sara' deportato nell'estate
'44 e ucciso a Dachau, ospita nel suo monastero molti ebrei, pare senza
chiedere e dire nulla ai superiori gerarchici.
A Assisi, dove non ci sono rappresentanti della Delasem, e' invece la chiesa
a prendere l'iniziativa. Nella cittadina era gia' in piedi un comitato per
l'assistenza ai profughi promosso dal vescovo Nicolini e affidato a don Aldo
Brunacci - un organismo perfettamente legale, che colmava il vuoto lasciato
dalla crisi delle istituzioni e che si giovava delle tante strutture di
accoglienza. Quando dopo l'8 settemebre cominciano ad arrivare ebrei
italiani e profughi di altri paesi che non parlano la lingua e hanno bisogno
di tutto, il comitato passa a operare segretamente. Don Brunacci persuade
alcuni impiegati comunali a procurare documenti in bianco e un tipografo a
creare timbri ufficiali di comuni delle zone occupate dagli alleati o
distrutti dai bombardamenti. Nel frattempo si rivolge alle suore di Assisi e
del circondario perche' ospitino nelle loro foresterie le persone senza
mezzi, facendole passare per pellegrini stranieri. Partecipa al lavoro di
assistenza anche padre Rufino Nicacci, superiore del convento di San
Damiano, che fra l'altro sistema molti rifugiati presso il monastero delle
Clarisse di San Quirico, assicurando loro viveri e conforto.
Don Brunacci dira' in seguito che Nicolini  gli aveva confidato di aver
ricevuto una lettera del segretario di stato vaticano Maglione con l'invito
a soccorrere antifascisti e ebrei, e che a ogni vescovo ne era stata mandata
una simile. Ma di nessuna si e' mai trovata traccia. Probabilmente Brunacci
aveva visto una lettera nelle mani del vescovo, che gli aveva lasciato
credere che si trattasse della richiesta papale, e si era convinto che fosse
cosi' perche' lo desiderava e lo trovava naturale; e forse a sua volta ne
aveva fatto cenno ad altri preti, a suore e monaci per guadagnarne
l'appoggio. Certo, come molti altri italiani/e, don Brunacci e padre Nicacci
agiscono spinti dalla pietas cristiana; ma nessun sentimento affiorerebbe in
assenza di quell'immedesimazione con i perseguitati che puo' nascere
dall'incontro con la loro sofferenza e il loro bisogno di protezione, e che
e' il tratto piu' diffuso fra i soccorritori, indipendentemente dalla loro
religione e religiosita'.
*
Segue lo stesso impulso il padovano Giorgio Perlasca, il piu' noto e il piu'
singolare fra i salvatori italiani. Fascista, volontario nellle guerre
d'Etiopia e di Spagna, ma ostile alle leggi antiebraiche del '38 e
all'alleanza con la Germania, di mestiere commerciante di carni, Perlasca si
trova a Budapest nell'inverno '44, al momento in cui stanno precipitando
deportazioni e massacri. Si offre di collaborare con l'ambasciata spagnola,
che di concerto con quelle di altri paesi neutrali, ospita gruppi di ebrei
in edifici extraterritoriali e li fornisce di lettere di protezione; alla
partenza del titolare d'ambasciata decide di rimanere per continuare
l'opera, spacciandosi per il nuovo incaricato d'affari spagnolo. Fatta
eccezione per un microgruppo di aiutanti, Perlasca e' solo, con pochi mezzi,
e il suo bluff lo rende vulnerabilissmo; eppure moltiplica le lettere di
protezione, riempie le case, accorre per fronteggiare le aggressioni di SS e
bande naziste, tratta con i capi della polizia e delle Croci frecciate
alternando lusinghe, minacce, promesse di impunita', corruzione. Alla fine,
circa 5.000 persone saranno salve, un risultato reso possibile dalle doti
personali del protagonista, ma, imprevedibilmente, anche dal suo passato: al
momento del congedo dalla guerra di Spagna, Perlasca ha infatti ricevuto
dalle autorita' franchiste un documento che lo legittima a rivolgersi in
caso di necessita' a qualsiasi sede diplomatica spagnola. Nell'Ungheria del
44, che dopo il rovesciamento italiano delle alleanze e' un paese nemico, ha
bisogno di una nuova identita' come cittadino spagnolo per salvarsi e
tornare in Italia, e la ottiene. Diventera' invece un paradossale esempio di
Giusto, che salva gli ebrei nonostante sia (sia stato) fascista, e nello
stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei
fascisti spagnoli.

2. ANNA BRAVO: LA COMPASSIONE NELLA RESISTENZA
[Nuovamente riproponiamo e nuovamente ringraziamo Anna Bravo per averci
messo a disposizione questo suo intervento apparso sul quotidiano "La
repubblica" del 24 aprile 2006]

Sono passati tre anni dalla pubblicazione del Sangue dei vinti di Giampaolo
Pansa, un libro doloroso da leggere (e sicuramente anche da scrivere), che
ha stimolato reazioni le piu' varie. Si e' parlato del tasso aggiuntivo di
violenza tipico delle guerre civili, del mondo di allora, delle stragi
fasciste e naziste. Ma quasi mai si e' puntato a una nuova sacralizzazione
della resistenza simile a quella che negli anni sessanta e settanta aveva
ribaltato il clima di processo ai partigiani del decennio precedente; e alle
generalizzazioni in negativo non si e' risposto con generalizzazione di
segno contrario, come avviene con i temi piu' esposti all'uso pubblico della
storia. Merito di molti fattori, a cominciare dalla caduta di tabu' politici
e storiografici innescata dalla fine della guerra fredda.
Eppure mi sembra resti qualcosa di incompiuto, che non si scioglie
discutendo sul numero delle vittime o ribadendo il (non sempre) diverso
rapporto di partigiani e fascisti con l'idea della morte. Il fatto e' che Il
sangue dei vinti ha comportato, inevitabilmente, una tale concentrazione sul
versante cruento della resistenza da frantumare l'interezza dell'esperienza
partigiana. Con il rischio di ridare legittimita' alla vecchia divisione dei
ruoli che assegnava alle sinistre, in particolare ai comunisti,
l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas -
in versione aggiornata, resistenza in armi versus resistenza senza armi,
tutte e due avvilite dalle semplificazioni. Nei primi anni novanta, per
esempio, Rocco Buttiglione aveva avanzato un'immagine di resistenza centrata
sulla tutela di regole elementari di umanita' e sulla salvaguardia di beni
essenziali, rivendicandola in esclusiva al mondo cattolico: di qui la
dicotomia fra uno stereotipo di combattente politicizzato che trama
nell'ombra preparando la rivoluzione, e il vescovo defensor pacis, nuovo
modello di resistente votato a proteggere tutti i perseguitati senza
distinzioni. Non solo i vescovi, per la verita': ci sono donne che
nascondono gli sbandati dell'8 settembre, e che nei giorni della liberazione
aiutano isolati militari tedeschi, perche' un nemico vinto e in fuga smette
di essere un vero nemico.
*
Puo' allora essere utile tornare a quell'interezza, se mai usando lo
"scandalo" del Sangue dei vinti per svincolarsi dalle timidezze residue che
ogni studioso sperimenta se ama il suo tema, quale che sia. In parte lo si
e' fatto, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. A me oggi sembra
interessante cercare un sostrato comune alle molte resistenze, che non si
identifichi solo nell'antifascismo (o in un umanitarismo indimostrato), come
e' avvenuto per decenni. E' vero che il ritiro del consenso al regime e'
diffuso; ma sono diffuse anche ragioni ed emozioni complesse e poco visibili
alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra
all'orgoglio individuale o di comunita' - penso a molti episodi di
protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise, all'antifascismo
"esistenziale", che cosi' come nasce dall'aver patito l'oppressione in prima
persona, puo' svanire a democrazia conquistata. Leggere ogni gesto in chiave
politica e' stato una sorta di imperialismo retrospettivo.
Per questo credo sia ancora una buona pratica rubare criteri e categorie da
altre discipline o da altre esperienze. E vedo il bottino migliore nel
concetto di riduzione del danno, che si forma nell'ambito della lotta alla
droga, ma non coltiva l'ambizione di estirparla dalla societa', e punta
invece a prolungare le singole vite; che prende atto dell'esistenza del male
senza lo spirito della crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e
provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza
e per la sua versatilita', che puo' aiutare a rompere la contrapposizione
fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall'altro. Beninteso
senza diluire le differenze tra le varie forme di lotta, che spesso sono
radicali.
Sul piano generale, ogni  movimento di resistenza si muove nella logica
della riduzione del danno: i partigiani combattono sul proprio territorio,
ed e' loro interesse (e speranza) preservare persone e beni; ma la priorita'
e' colpire il nemico, il che puo' portare a esiti drammatici. Ne racconta un
esempio estremo Todorov in Una tragedia vissuta (Garzanti), una vicenda di
rappresaglie e controrappresaglie nella Francia occupata che finisce per
travolgere tutti i protagonisti.
*
Ci sono invece casi in cui iniziative a prima vista separate nei fini e nei
mezzi si rivelano apparentate da quella logica. Che si sia ancora lontani da
una sintesi complessiva importa poco, anche facendo storia bisogna
capitalizzare i piccoli passi.
Un primo filo comune sta nelle persone. Nelia Benissone Costa, una
partigiana intervistata da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La
resistenza taciuta (Bollati Boringhieri), operava in armi ed era
specializzata in sequestri di fascisti e tedeschi da scambiare con
partigiani e ostaggi; nello stesso tempo lavorava con i Gruppi di difesa
della donna, l'organizzazione piu' attiva nel sostenere le proteste contro
la penuria di viveri e gli sfollamenti forzati, nell'assistere i partigiani
e le popolazioni, nel prendersi cura del dolore che avvolgeva le vite. E
Nelia non e' stata certo la sola.
Una seconda linea di incontro viene dalle stesse azioni in armi. Il fatto
piu' noto e' la difesa partigiana degli impianti industriali, ma se ne
contano molti altri. Nelle campagne, quando i fascisti imponevano l'ammasso
del bestiame, succedeva che i partigiani ingaggiassero una scaramuccia per
farlo fallire - e nel '43-'45 la requisizione di una mucca poteva minacciare
la sopravvivenza di una famiglia. Nel biellese, la firma del "contratto
della montagna" nell'industria tessile, con le sue clausole di riequilibrio
economico e di potere, e' stata incoraggiata dai partigiani. A volte si
concordava una tregua per dare respiro alle popolazioni. Sono alcuni assaggi
di un fenomeno che richiederebbe uno scavo su larga scala.
*
Mi chiedo perche' temi come questi siano rimasti quasi sempre fuori dal
dibattito. E mi rispondo cosi': forse a qualcuno sarebbe sembrato di
accampare attenuanti per una responsabilita' che si stentava a attribuire ai
propri compagni. Forse semplicemente non ci si e' pensato, e non e' una
dimenticanza "innocente": solo in parte superata, la pluridecennale
inclinazione guerriera e monosessuale della storiografia ha reso difficile
riconoscere al belligerante anche il registro della mediazione, della cura,
della rinuncia allo scontro per evitare ripercussioni intollerabili. E si'
che la figura del "guerriero compassionevole", teso a conservare anziche' a
distruggere, capace di una pieta' dolorosa e affettuosa verso persone,
animali, piccole cose, verso tutto cio' che e' esposto, indifeso, alla
guerra, e' un topos narrativo potente e insieme una presenza concreta - ne
tratta l'ormai classico Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain (Il Mulino).
Gli aspetti piu' singolari mi sembrano quelli connessi alla riparazione del
danno sul piano simbolico. Qui spiccano gli sforzi dei Gruppi di difesa per
organizzare le onoranze funebri delle  vittime dei tedeschi, impresa
decisiva per l'autostima di una collettivita'; spiccano quei Cln che  si
fanno un punto d'onore di far trovare agli alleati citta' gia' normalizzate.
Ma quello spirito si puo' esprimere in occasioni e attraverso soggetti
imprevisti, fino a fondersi con una bellicosita' all'apparenza fine a se
stessa.
*
Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, si chiamava
Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo. Dopo aver combattuto con i
partigiani jugoslavi, era tornato al suo paese nel Monferrato, e nel giro di
un anno era diventato comandante di una imponente divisione garibaldina.
Quando doveva trattare con il comando tedesco per uno scambio di prigionieri
o per una richiesta della popolazione, Primo si presentava in modo ancora
piu' pittoresco del solito (e il suo solito era gia' spettacolare);
indossava un giubbotto di pelle, pantaloni corti, stivali, il suo berretto
con una grande stella rossa. E si caricava di armi di tutti i tipi. Ho
sentito le persone piu' disparate ricordarlo con compiacimento mentre
passava il ponte sul fiume Tanaro per andare a discutere "da pari a pari"
con gli occupanti, un ragazzo basso e tarchiato senza divisa ne' gradi, e
alla sponda opposta ufficiali perfetti nelle loro uniformi. Quella
esibizione di mascolinita' superarmata curava una ferita simbolica piu'
diffusa di quanto pensi chi nega in blocco la tesi della morte della patria.
Se si connette l'idea di nazione con l'onore militare, l'8 settembre
colpisce non solo i fascisti, i monarchici, gli alfieri della
rispettabilita' pubblica, ma tanti altri che si sentono legati al destino
dell'esercito e delle istituzioni, e che non potendo o non osando opporsi
agli occupanti, vivono l'umiliazione di sentirsi alla loro merce'.
Primo amava le armi, amava la messa in scena (lo dico senza alcun
significato negativo: la marcia del sale di Gandhi e' stata un grande pezzo
di teatro politico). In piu', con il suo talento di eroe popolare, sapeva
che vedere l'accumulo sul suo corpo delle armi piu' micidiali rincuorava
persino il borghese piccolo piccolo chiuso dietro le finestre di casa, che
con ogni probabilita' temeva la sua leggendaria durezza e diffidava delle
grandi trasformazioni promesse dalla resistenza. Ma nella mortificazione e
nello smarrimento, la visione della violenza "amica" funzionava da riscatto.
Solo, non era il riscatto ordinato, duraturo, pienamente politico, che
avevano in mente i partiti antifascisti.
Se ripensare a un libro sulla violenza partigiana creasse piu' spazio per
storie partigiane di riduzione del danno, sarebbe un felice paradosso.

3. ANNA BRAVO: RESISTENZA CIVILE (PARTE PRIMA)
[Nuovamente riproponiamo il seguente saggio di Anna Bravo (che nuovamente
ringraziamo per avercelo messo a disposizione) originariamente pubblicato
come voce "Resistenza civile", in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano
Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, 2 voll., Einaudi, Torino
2000-2001]

I. Forme di lotta
Con la significativa eccezione delle enclaves di alto prestigio e potere,
non esistono nella resistenza compiti o settori dove non compaiano donne. E'
cosi' nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e
collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni,
nell'organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, la
struttura delegata a sostenere i militanti in difficolta' e le loro
famiglie. Dello schieramento resistenziale fanno parte anche le militanti
dei Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della
liberta', l'organizzazione femminile di massa fondata nell'autunno '43 da
alcune esponenti dei partiti del Cln.
Nell'opera dei Gruppi, e in una certa misura anche delle partigiane,
rientrano molte pratiche tipiche della resistenza civile, un termine oggi
usato per indicare l'area dei comportamenti conflittuali delle popolazioni
che in tutta l'Europa sotto dominio nazista accompagnano, a volte precedono,
la resistenza armata, e che si valgono non delle armi ma di strumenti
immateriali come il coraggio morale, l'inventiva, la duttilita', le tecniche
di aggiramento della violenza, la capacita' di manovrare le situazioni, di
cambiare le carte in tavola ai danni del nemico. Ma le donne attive in
questo campo sono molte di piu' di quelle integrate nella resistenza e
riconosciute come tali.
Il punto di inizio della resistenza civile italiana sono i giorni successivi
all'8 settembre, quando i tedeschi si sono ormai impadroniti dei 4/5 del
paese e decine di migliaia di soldati si sbandano sul territorio cercando di
sfuggire alla caccia degli occupanti. Ne nascono storie splendide, uscite
dall'anonimato solo di recente. Come quella di M. S., una non piu' giovane
donna torinese di classe operaia, che non esita a accogliere e rivestire in
borghese i primi militari che bussano alla sua porta, ma che subito si rende
conto del carattere di massa dell'emergenza. Fa allora incetta di indumenti
borghesi in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un
istituto di carita', e trasforma la propria casa in un efficientissimo
centro di raccolta dove sull'onda del passaparola gli sbandati si presentano
sempre piu' numerosi. M. S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio
improvvisato nelle cantine, li riveste da capo a piedi, preccupandosi
persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni
travestimento. Poi li accompagna uno per uno alla stazione, dove cerca di
eludere i controlli polizieschi baciandoli e abbracciandoli come fossero
parenti in visita (Bravo-Bruzzone 1995).
Sebbene sia raro incontrare altrettanto spirito imprenditorale e altrettanta
cura per la verosiglianza, in quei giorni un numero imprecisato ma
vastissimo di donne - anche se non solo di donne - si impegna in una
mobilitazione che imprime il suo segno nel paesaggio. Come scrive Luigi
Meneghello, uno dei maggiori protagonisti/interpreti della resistenza, si
vedevano "file praticamente continue di gente (...) tutti abbastanza
giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti
in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio.
Abbondavano i vestiti da prete (...) Pareva che tutta la gioventu' italiana
di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande
pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla
visita di leva" (Meneghello 1986).
E' una gigantesca operazione di salvataggio, forse la piu' grande della
nostra storia (Galli Della Loggia 1991), che viene condotta in assenza di
direttive politiche e in gran parte ad opera di donne cosiddette comuni; un
fenomeno che non si ripetera' piu' con queste caratteristiche e dimensioni.
Ma nei venti mesi successivi, la resistenza civile italiana prende altre
forme. Tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento delle
risorse nazionali perseguito dai nazisti; tentativi di impedire la
distruzione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle
condizioni di vita; isolamento morale del nemico, una pratica decisiva per
minarne la tenuta psicologica; rifiuto da parte di magistrati e altri
dipendenti pubblici di prestare giuramento alla repubblica di Salo'. Spicca
anche, ed e' probabilmente l'aspetto piu' diffuso, la protezione verso chi
e' in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalita' offerta ai prigionieri
alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l'armistizio
(Absalom 1991); l'aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile
in tutta Europa; e, certo non da ultimo, l'appoggio alle formazioni
partigiane attraverso infinite piccole e grandi iniziative - sarebbe dunque
assurdo considerare la resistenza civile come separata e contrapposte a
quella armata, anche perche' almeno in alcuni casi non di rifiuto delle armi
si tratta, ma dell'impossibilita' di procurarsele.
E' vero invece che il termine abbracccia un ventaglio di comportamenti
eterogenei, apparentati essenzialmente dal fatto di essere compiuti senza
armi e ad opera di soggetti a loro volta cosi' diversi che a accomunarli e'
quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso paese: sono uomini di
varia eta', ceto, cultura, posizione professionale, politicizzati e non; a
volte bambine e bambini; religiosi/e; ma soprattutto donne, proletarie e
aristocratiche, contadine e borghesi, spinte all'esterno dalla necessita' di
provvedere a se stesse e alla famiglia e spesso piu' capaci di esporsi,
anche perche' contano, a volte illudendosi, sul minore sospetto che
tradizionalmente desterebbe la figura femminile.
Riflettono questa molteplicita' le motivazioni: contano la fede e le
indicazioni politiche, ma spesso contano di piu' la stanchezza della guerra,
la pietas cristiana, l'odio per tedeschi e fascisti, la solidarieta', a
volte l'orgoglio patriottico, di gruppo, di mestiere, ideali anarchici e
antimilitaristi, spirito di insubordinazione e di avventura. L'8 settembre
per le donne c'e' una sfumatura particolare: gli sbandati sono giovani
uomini in pericolo che si rivolgono loro come a figure forti e salvifiche,
vale a dire materne. E proprio a causa di questa vulnerabilita', le donne li
considerano spesso figli virtuali, e per proteggerli danno vita a un
maternage di massa che rappresenta una delle espressioni specificamente
femminili della resistenza civile italiana.
Al suo interno spicca l'azione individuale. C'e' chi opera in modo
estemporaneo, come la parrucchiera che durante una retata nasconde un
partigiano fra le clienti. Chi in modo continuativo, come la diciottenne
impiegata di uno stabilimento ausiliario che va regolarmente al comando
tedesco a chiedere i lasciapassare per gli operai, e regolarmente inserisce
nell'elenco partigiani e qualche ebreo; se la sua collaborazione con il Cln
resta informale, in altri casi il medesimo incarico puo' portare
all'inserimento negli organici, a dimostrazione di quanto sia difficile in
quell'orizzonte concitato e frammentato applicare criteri omogenei.
Frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le
lotte collettive sono per lo piu' non violente, ma non sempre: lo
testimoniano gli assalti ai magazzini viveri e a treni carichi di derrate o
combustibili e alcune aggressioni contro esponenti e favoreggiatori di
Salo' - in quest'ultimo caso pero' e' difficile distinguere tra i fatti, le
dicerie, le versioni amplificate.
Variano di molto le modalita' organizzative. La mobilitazione puo'
riecheggiare le parole d'ordine dei partiti antifascisti o dei Gruppi di
difesa, puo' esserne il risultato diretto, puo' valersi dei loro canali;
altre volte - e' il caso di M. S. - nasce da forme di concertazione
informale lontane dal circuito politico e fondate su un tessuto sociale di
paese, di quartiere, di parrocchia, su reti parentali, di colleganza, di
amicizia.
Variano anche i risultati: si salvano persone e si vanificano i piani
nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di
sfollamento totale emanati nel luglio '44 per garantire alle truppe tedesche
una via di ritirata attraverso territori sgombri (Commissione pari
opportunita' Massa-Carrara 1994); si strappano miglioramenti delle
condizioni di vita e si delegittimano le istituzioni di Salo'. Ma l'azione
e' in ogni caso frutto di una decisione personale non meno difficile della
scelta partigiana. Cosi' come solo una minoranza prende le armi, solo una
minoranza si impegna infatti nella lotta senza armi, e sarebbe ingiusto
usarla per accreditare il mito di un'unanime mobilitazione antifascista e
antinazista - vale invece la pena sottolineare che da noi la solidarieta'
verso gli ebrei scatta nel momento in cui e' chiaro che e' la loro vita a
essere in pericolo, ma anche che la Germania ha ormai perso la guerra.
Su questo sfondo, il significato della resistenza civile trova ancora piu'
risalto. Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e
trasformazione dell'esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul
piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli
occupanti; di un rifiuto di sottomettersi le cui conseguenze possono andare
dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca
documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di
Salo' del 9 ottobre 1943, dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne
faciliti la fuga. Alcune donne di Carrara vengono arrestate; alcune/i
soccorritori dei prigionieri di guerra sono uccisi. La piemontese
quindicenne Natalina Bianco, "colpevole" di aver portato viveri ai fratelli
partigiani, finira' a Ravensbruck; cosi' la studentessa padovana Milena
Zambon, attiva in una rete che fa passare in Svizzera i prigionieri alleati
(Gios 1987). Del resto, nell'ordine senza diritto imposto dall'occupazione,
basta un rifiuto occasionale di obbedienza a innescare ritorsioni gravi.
L'impegno nella resistenza civile puo' dunque contare e costare quanto
quello nella resistenza armata. Ma dei suoi protagonisti e del loro destino
sappiamo ancora poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avviene nel
'98 con la storia dell'agente di custodia di san Vittore Andrea Schivo,
deportato e ucciso a Flossemburg per aver "agevolato i detenuti politici
ebrei coi loro bambini (...) soccorrendoli con delle uova, marmellata,
frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile" (Laudi 1998).
*
(parte prima - segue)

4. ET COETERA

Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della
verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli,
Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991;
(con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della
deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone),
In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995,
2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999;
(con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne
nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra
Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna
2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 360 del 17 agosto 2009

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