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Voci e volti della nonviolenza. 360
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 360
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 17 Aug 2009 09:36:58 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 360 del 17 agosto 2009 In questo numero: 1. Anna Bravo: La Shoa' e i Giusti in Italia 2. Anna Bravo: La compassione nella Resistenza 3. Anna Bravo: Resistenza civile (parte prima) 4. Et coetera 1. ANNA BRAVO: LA SHOA' E I GIUSTI IN ITALIA [Riproponiamo ancora una volta il seguente saggio di Anna Bravo originariamente pubblicato come voce "Giusti d'Italia", nel Dizionario dell'Olocausto, Einaudi, Torino 2004, 2007 (edizione italiana curata da Alberto Cavaglion)] Poco numerosi, relativamente ben integrati nel tessuto sociale e nelle istituzioni, concentrati nelle citta', gli ebrei italiani parlavano la stessa lingua dei loro connazionali e avevano abitudini cosi' simili da riuscire in pratica indistinguibili. Nonostante la tradizione dell'antigiudaismo cristiano e la propaganda del regime, non esisteva un diffuso antiebraismo radicale. L'occupazione tedesca, che dura venti mesi mentre nel resto dell'Europa si conta in anni, inizia quando i tedeschi sono manifestamente in difficolta' su tutti i fronti, e la popolazione ha sperimentato l'incapacita' del regime a garantire minime condizioni materiali, conosce i disastri militari dell'Italia, e' ostile alla guerra e potenzialmente solidale con le sue vittime: nell'Italia del '43-'45 chi protegge gli ebrei puo' sperare, se non nell'appoggio, in una certa benevolenza dei concittadini. Infine a Roma c'e' il Vaticano, sede del papato con la sua autorita' internazionale, e centro di una rete fitta di parrocchie e conventi con una lunga pratica di asilo ai bisognosi. Gli aspetti favorevoli allpopera dei soccorritori sono dunque molti. Eppure 8.000 ebrei/e italiani vengono deportati, a volte su delazione o per l'accanimeto di funzionari statali, piu' spesso perche' non trovano nessuno disposto a spendersi per loro. E' vero che il rischio e' grande, e che i nazisti considerano gli italiani una popolazione inferiore e traditrice contro cui infierire. Resta il fatto che ci si decide a dare aiuto solo quando e' evidente che per gli ebrei e' questione di vita o di morte, e che a agire e' una minoranza. Come in tutta Europa, si tratta di persone diverse fra loro, non riconducibili a un determinato tipo umano e sociale o a una fede religiosa o politica, e neppure alla difficilmente verificabile categoria della "personalita' altruista" o a una condizione di marginalita' sociale che favorirebbe autonomia di giudizio e scelte trasgressive. Sono differenti anche le modalita' di azione. C'e' chi si appoggia a forze partigiane, chi fa riferimento alle reti di resistenza civile che lavorano per mettere in salvo in Svizzera antifascisti e prigionieri alleati, chi e' in contatto con la Delasem, l'organizzazione ebraica di soccorso ai perseguitati; altri si servono dei rapporti fra parrocchie e fra conventi, altri ancora usano la loro posizione nelle catene ufficiali di comando, come quei capi militari e alti funzionari delle zone occupate dall'Italia - Croazia, sud della Francia, Grecia - che in varia misura e con varie motivazioni ostacolano gli arresti di ebrei del luogo. Alla base di moltissime iniziative ci sono networks di tipo familiare, amicale, di comunita', di vicinato, quasi sempre piccoli o piccolissimi, spesso costituiti di un individuo con una minima rete di aiutanti; a volte c'e' una sola persona. Per lo piu' si comincia offrendo occasionalmente cibo, contatti o ospitalita', per poi passare a un sostegno piu' continuativo e impegnativo, e si arriva all'illegalita' gradualmente e senza averlo programmato, ma in tempi rapidi e conoscendone i pericoli. * Di questa minoranza i Giusti italiani (325 al gennaio 2003) costituiscono uno spaccato, non un campione - in quegli anni, per esempio, l'aiuto offerto da una famiglia veniva accreditato al padrone di casa, anche se l'iniziativa era stata della moglie, figlia o sorella; il riconoscimento dipende da molte variabili, compreso il caso. Ma le vicende dei Giusti sono indicatori preziosi delle dinamiche sociali e delle vie attraverso cui si diventa salvatori. Nella situazione italiana, i network informali hanno un ruolo di spicco, e per buone ragioni. L'8 settembre 1943 il paese esce da vent'anni di un regime che ha frantumato l'opposizione e avviato la fascistizzazione delle strutture sociali. I partiti antifascisti mancano di radicamento, mezzi, a volte di consapevolezza. Diversamente che in altri paesi europei, le associazioni professionali, culturali o di altro tipo e i grandi nomi dell'intellettualita' non si attivano in alcun modo. I sentimenti civici, storicamente deboli, sono sbriciolati; la coesione sociale e' scarsa, le istituzioni statali svuotate. Al contrario, i legami personali, familiari e comunitari, tradizionalmente piu' solidi, reggono, ed ecco perche' riescono a realizzare le iniziative piu' efficaci (ma anche meno visibili alle categorie della politica). * Almeno in un caso e' documentato il coinvolgimento di un'intera comunita'. A Nonantola, un paese dell'Emilia-Romagna, nell'estate '42 sono accolti una novantina di ragazzi ebrei di vari paesi europei, che il presidente nazionale della Delasem Vittorio Valobra e' riuscito a trasferire dalla Jugoslavia. Sistemati a villa Sacerdoti alla periferia di Nonantola, i piccoli profughi vivono abbastanza tranquillamente e trovano amici fra gli abitanti. Rapporti preziosi, perche' dopo l'8 settembre 1943, quando i tedeschi occupano il paese, i ragazzi saranno nascosti, oltre che nei locali del Seminario e nell'asilo delle suore, presso famiglie del posto. Nel frattempo si prepara la loro fuga verso la Svizzera. I due Giusti di Nonantola, il dottor Giuseppe Morreali e don Arrigo Beccari, riescono a far preparare carte d'identita' false intestate al comune di Larino, in provincia di Campobasso, dove si spera sia impossibile fare controlli. Tutto avviene all'interno della comunita', e solo per facilitare il passaggio in Svizzera Beccari e Morreali cercano contatti con il neonato movimento partigiano del centro-nord. * Fra quanti decidono e operano da soli o quasi - il gruppo forse piu' eterogeneo - alcuni hanno una storia di impegno politico. Cosi' il medico piemontese Carlo Angela, che era stato tra i fondatori del partito Democrazia sociale nel 1921, e che per il suo antifascismo aveva scontato vessazioni e ostacoli nella carriera. Nel 1943, Angela dirige la clinica psichiatrica Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, un paese delle valli torinesi. Ha moglie e due figli appena adolescenti, e' di poca salute, e' lui stesso sotto sorveglianza; il paese e' stato piu' volte rastrellato, fascisti e tedeschi entrano a loro piacere nella clinica, fra i dipendenti non mancano i collaborazionisti. Eppure Angela accoglie a Villa Turina varie famiglie ebree, scrive falsi certificati medici, fronteggia le ispezioni e gli interrogatori dei fascisti, nel febbraio '44 e' preso in ostaggio e si salva fortunosamente. Nel caso di Renzo Segre e Nella Morelli, ospitati per 20 mesi facendo passare lui per malato, lei per sua assistente, arriva a presentarsi al temutissimo presidio fascista torinese per farsi garante della loro identita' fittizia. Sostenuto soltanto da un piccolissimo nucleo di dipendenti della clinica, il settantenne Angela opera con piu' efficacia delle forze della resistenza e del clero locale. * 34 anni, figlia di commercianti milanesi, corista alla Scala, Liuba Bandini non ha invece un curriculum politico e ha imparato a detestare i totalitarismi attraverso l'esperienza dell'ex marito Giorgio Scerbanenco, profugo dall'Ucraina. Anche lei agisce di propria iniziativa e sostanzialmente da sola, nascondendo nella sua casa milanese i coniugi Alberto e Marisa Campelung dal primo dicembre 1943 alla primavera 1945; l'unico sostegno le viene dalla sorella Ines, che abita nello stesso stabile e custodisce i bagagli della coppia. Il 14 marzo, avvertiti che i tedeschi sono sulle loro tracce, i Campelung devono fuggire, e Liuba viene pesantememente minacciata dalla polizia SS. Non solo tiene testa all'interrogatorio, lei donna sola e madre di un bimbo di 4 anni, ma per quanto sorvegliata riesce in seguito a far arrivare qualche aiuto ai suoi ex ospiti. * Per quanto riguarda l'opera di preti e religiosi/e, non esiste alcuna specifica direttiva del papa che la solleciti, e l'impegno nasce per altre vie. Alcuni si attivano su richiesta e in accordo con la Delasem, come don Francesco Repetto, giovane segretario del cardinale di Genova Pietro Boetto, cui poco dopo l'8 settembre Valobra aveva chiesto di distribuire sussidi agli ebrei della zona e agli stranieri rifugiati. Dato che molti sono presto costretti a nascondersi, Repetto si trova a procurare viveri, documenti falsi, asilo presso conventi e privati, guide per la fuga in Svizzera. Intanto lavora per mobilitare una quantita' di religiosi nella diocesi genovese e per sensibilizzare sacerdoti e vescovi dell'Italia settentrionale. Scoperto nel luglio '44, sara' sostituito da un altro futuro Giusto, don Carlo Salvi. Molti religiosi/e agiscono pero' indipendentemente dai canali delle Curie: in Piemonte, il domenicano padre Girotti, che sara' deportato nell'estate '44 e ucciso a Dachau, ospita nel suo monastero molti ebrei, pare senza chiedere e dire nulla ai superiori gerarchici. A Assisi, dove non ci sono rappresentanti della Delasem, e' invece la chiesa a prendere l'iniziativa. Nella cittadina era gia' in piedi un comitato per l'assistenza ai profughi promosso dal vescovo Nicolini e affidato a don Aldo Brunacci - un organismo perfettamente legale, che colmava il vuoto lasciato dalla crisi delle istituzioni e che si giovava delle tante strutture di accoglienza. Quando dopo l'8 settemebre cominciano ad arrivare ebrei italiani e profughi di altri paesi che non parlano la lingua e hanno bisogno di tutto, il comitato passa a operare segretamente. Don Brunacci persuade alcuni impiegati comunali a procurare documenti in bianco e un tipografo a creare timbri ufficiali di comuni delle zone occupate dagli alleati o distrutti dai bombardamenti. Nel frattempo si rivolge alle suore di Assisi e del circondario perche' ospitino nelle loro foresterie le persone senza mezzi, facendole passare per pellegrini stranieri. Partecipa al lavoro di assistenza anche padre Rufino Nicacci, superiore del convento di San Damiano, che fra l'altro sistema molti rifugiati presso il monastero delle Clarisse di San Quirico, assicurando loro viveri e conforto. Don Brunacci dira' in seguito che Nicolini gli aveva confidato di aver ricevuto una lettera del segretario di stato vaticano Maglione con l'invito a soccorrere antifascisti e ebrei, e che a ogni vescovo ne era stata mandata una simile. Ma di nessuna si e' mai trovata traccia. Probabilmente Brunacci aveva visto una lettera nelle mani del vescovo, che gli aveva lasciato credere che si trattasse della richiesta papale, e si era convinto che fosse cosi' perche' lo desiderava e lo trovava naturale; e forse a sua volta ne aveva fatto cenno ad altri preti, a suore e monaci per guadagnarne l'appoggio. Certo, come molti altri italiani/e, don Brunacci e padre Nicacci agiscono spinti dalla pietas cristiana; ma nessun sentimento affiorerebbe in assenza di quell'immedesimazione con i perseguitati che puo' nascere dall'incontro con la loro sofferenza e il loro bisogno di protezione, e che e' il tratto piu' diffuso fra i soccorritori, indipendentemente dalla loro religione e religiosita'. * Segue lo stesso impulso il padovano Giorgio Perlasca, il piu' noto e il piu' singolare fra i salvatori italiani. Fascista, volontario nellle guerre d'Etiopia e di Spagna, ma ostile alle leggi antiebraiche del '38 e all'alleanza con la Germania, di mestiere commerciante di carni, Perlasca si trova a Budapest nell'inverno '44, al momento in cui stanno precipitando deportazioni e massacri. Si offre di collaborare con l'ambasciata spagnola, che di concerto con quelle di altri paesi neutrali, ospita gruppi di ebrei in edifici extraterritoriali e li fornisce di lettere di protezione; alla partenza del titolare d'ambasciata decide di rimanere per continuare l'opera, spacciandosi per il nuovo incaricato d'affari spagnolo. Fatta eccezione per un microgruppo di aiutanti, Perlasca e' solo, con pochi mezzi, e il suo bluff lo rende vulnerabilissmo; eppure moltiplica le lettere di protezione, riempie le case, accorre per fronteggiare le aggressioni di SS e bande naziste, tratta con i capi della polizia e delle Croci frecciate alternando lusinghe, minacce, promesse di impunita', corruzione. Alla fine, circa 5.000 persone saranno salve, un risultato reso possibile dalle doti personali del protagonista, ma, imprevedibilmente, anche dal suo passato: al momento del congedo dalla guerra di Spagna, Perlasca ha infatti ricevuto dalle autorita' franchiste un documento che lo legittima a rivolgersi in caso di necessita' a qualsiasi sede diplomatica spagnola. Nell'Ungheria del 44, che dopo il rovesciamento italiano delle alleanze e' un paese nemico, ha bisogno di una nuova identita' come cittadino spagnolo per salvarsi e tornare in Italia, e la ottiene. Diventera' invece un paradossale esempio di Giusto, che salva gli ebrei nonostante sia (sia stato) fascista, e nello stesso tempo perche' e' (e' stato) un fascista e ha combattuto al fianco dei fascisti spagnoli. 2. ANNA BRAVO: LA COMPASSIONE NELLA RESISTENZA [Nuovamente riproponiamo e nuovamente ringraziamo Anna Bravo per averci messo a disposizione questo suo intervento apparso sul quotidiano "La repubblica" del 24 aprile 2006] Sono passati tre anni dalla pubblicazione del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, un libro doloroso da leggere (e sicuramente anche da scrivere), che ha stimolato reazioni le piu' varie. Si e' parlato del tasso aggiuntivo di violenza tipico delle guerre civili, del mondo di allora, delle stragi fasciste e naziste. Ma quasi mai si e' puntato a una nuova sacralizzazione della resistenza simile a quella che negli anni sessanta e settanta aveva ribaltato il clima di processo ai partigiani del decennio precedente; e alle generalizzazioni in negativo non si e' risposto con generalizzazione di segno contrario, come avviene con i temi piu' esposti all'uso pubblico della storia. Merito di molti fattori, a cominciare dalla caduta di tabu' politici e storiografici innescata dalla fine della guerra fredda. Eppure mi sembra resti qualcosa di incompiuto, che non si scioglie discutendo sul numero delle vittime o ribadendo il (non sempre) diverso rapporto di partigiani e fascisti con l'idea della morte. Il fatto e' che Il sangue dei vinti ha comportato, inevitabilmente, una tale concentrazione sul versante cruento della resistenza da frantumare l'interezza dell'esperienza partigiana. Con il rischio di ridare legittimita' alla vecchia divisione dei ruoli che assegnava alle sinistre, in particolare ai comunisti, l'organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneita' e la pietas - in versione aggiornata, resistenza in armi versus resistenza senza armi, tutte e due avvilite dalle semplificazioni. Nei primi anni novanta, per esempio, Rocco Buttiglione aveva avanzato un'immagine di resistenza centrata sulla tutela di regole elementari di umanita' e sulla salvaguardia di beni essenziali, rivendicandola in esclusiva al mondo cattolico: di qui la dicotomia fra uno stereotipo di combattente politicizzato che trama nell'ombra preparando la rivoluzione, e il vescovo defensor pacis, nuovo modello di resistente votato a proteggere tutti i perseguitati senza distinzioni. Non solo i vescovi, per la verita': ci sono donne che nascondono gli sbandati dell'8 settembre, e che nei giorni della liberazione aiutano isolati militari tedeschi, perche' un nemico vinto e in fuga smette di essere un vero nemico. * Puo' allora essere utile tornare a quell'interezza, se mai usando lo "scandalo" del Sangue dei vinti per svincolarsi dalle timidezze residue che ogni studioso sperimenta se ama il suo tema, quale che sia. In parte lo si e' fatto, ciascuno secondo le proprie inclinazioni. A me oggi sembra interessante cercare un sostrato comune alle molte resistenze, che non si identifichi solo nell'antifascismo (o in un umanitarismo indimostrato), come e' avvenuto per decenni. E' vero che il ritiro del consenso al regime e' diffuso; ma sono diffuse anche ragioni ed emozioni complesse e poco visibili alle categorie della politica, dal maternage alla stanchezza della guerra all'orgoglio individuale o di comunita' - penso a molti episodi di protezione degli ebrei, a ribellioni improvvise, all'antifascismo "esistenziale", che cosi' come nasce dall'aver patito l'oppressione in prima persona, puo' svanire a democrazia conquistata. Leggere ogni gesto in chiave politica e' stato una sorta di imperialismo retrospettivo. Per questo credo sia ancora una buona pratica rubare criteri e categorie da altre discipline o da altre esperienze. E vedo il bottino migliore nel concetto di riduzione del danno, che si forma nell'ambito della lotta alla droga, ma non coltiva l'ambizione di estirparla dalla societa', e punta invece a prolungare le singole vite; che prende atto dell'esistenza del male senza lo spirito della crociata, che sa capitalizzare i risultati parziali e provvisori. Un concetto prezioso per la sua focalizzazione sulla sofferenza e per la sua versatilita', che puo' aiutare a rompere la contrapposizione fra sangue e morte da un lato, salvezza e angelismo dall'altro. Beninteso senza diluire le differenze tra le varie forme di lotta, che spesso sono radicali. Sul piano generale, ogni movimento di resistenza si muove nella logica della riduzione del danno: i partigiani combattono sul proprio territorio, ed e' loro interesse (e speranza) preservare persone e beni; ma la priorita' e' colpire il nemico, il che puo' portare a esiti drammatici. Ne racconta un esempio estremo Todorov in Una tragedia vissuta (Garzanti), una vicenda di rappresaglie e controrappresaglie nella Francia occupata che finisce per travolgere tutti i protagonisti. * Ci sono invece casi in cui iniziative a prima vista separate nei fini e nei mezzi si rivelano apparentate da quella logica. Che si sia ancora lontani da una sintesi complessiva importa poco, anche facendo storia bisogna capitalizzare i piccoli passi. Un primo filo comune sta nelle persone. Nelia Benissone Costa, una partigiana intervistata da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta (Bollati Boringhieri), operava in armi ed era specializzata in sequestri di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani e ostaggi; nello stesso tempo lavorava con i Gruppi di difesa della donna, l'organizzazione piu' attiva nel sostenere le proteste contro la penuria di viveri e gli sfollamenti forzati, nell'assistere i partigiani e le popolazioni, nel prendersi cura del dolore che avvolgeva le vite. E Nelia non e' stata certo la sola. Una seconda linea di incontro viene dalle stesse azioni in armi. Il fatto piu' noto e' la difesa partigiana degli impianti industriali, ma se ne contano molti altri. Nelle campagne, quando i fascisti imponevano l'ammasso del bestiame, succedeva che i partigiani ingaggiassero una scaramuccia per farlo fallire - e nel '43-'45 la requisizione di una mucca poteva minacciare la sopravvivenza di una famiglia. Nel biellese, la firma del "contratto della montagna" nell'industria tessile, con le sue clausole di riequilibrio economico e di potere, e' stata incoraggiata dai partigiani. A volte si concordava una tregua per dare respiro alle popolazioni. Sono alcuni assaggi di un fenomeno che richiederebbe uno scavo su larga scala. * Mi chiedo perche' temi come questi siano rimasti quasi sempre fuori dal dibattito. E mi rispondo cosi': forse a qualcuno sarebbe sembrato di accampare attenuanti per una responsabilita' che si stentava a attribuire ai propri compagni. Forse semplicemente non ci si e' pensato, e non e' una dimenticanza "innocente": solo in parte superata, la pluridecennale inclinazione guerriera e monosessuale della storiografia ha reso difficile riconoscere al belligerante anche il registro della mediazione, della cura, della rinuncia allo scontro per evitare ripercussioni intollerabili. E si' che la figura del "guerriero compassionevole", teso a conservare anziche' a distruggere, capace di una pieta' dolorosa e affettuosa verso persone, animali, piccole cose, verso tutto cio' che e' esposto, indifeso, alla guerra, e' un topos narrativo potente e insieme una presenza concreta - ne tratta l'ormai classico Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain (Il Mulino). Gli aspetti piu' singolari mi sembrano quelli connessi alla riparazione del danno sul piano simbolico. Qui spiccano gli sforzi dei Gruppi di difesa per organizzare le onoranze funebri delle vittime dei tedeschi, impresa decisiva per l'autostima di una collettivita'; spiccano quei Cln che si fanno un punto d'onore di far trovare agli alleati citta' gia' normalizzate. Ma quello spirito si puo' esprimere in occasioni e attraverso soggetti imprevisti, fino a fondersi con una bellicosita' all'apparenza fine a se stessa. * Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, si chiamava Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo. Dopo aver combattuto con i partigiani jugoslavi, era tornato al suo paese nel Monferrato, e nel giro di un anno era diventato comandante di una imponente divisione garibaldina. Quando doveva trattare con il comando tedesco per uno scambio di prigionieri o per una richiesta della popolazione, Primo si presentava in modo ancora piu' pittoresco del solito (e il suo solito era gia' spettacolare); indossava un giubbotto di pelle, pantaloni corti, stivali, il suo berretto con una grande stella rossa. E si caricava di armi di tutti i tipi. Ho sentito le persone piu' disparate ricordarlo con compiacimento mentre passava il ponte sul fiume Tanaro per andare a discutere "da pari a pari" con gli occupanti, un ragazzo basso e tarchiato senza divisa ne' gradi, e alla sponda opposta ufficiali perfetti nelle loro uniformi. Quella esibizione di mascolinita' superarmata curava una ferita simbolica piu' diffusa di quanto pensi chi nega in blocco la tesi della morte della patria. Se si connette l'idea di nazione con l'onore militare, l'8 settembre colpisce non solo i fascisti, i monarchici, gli alfieri della rispettabilita' pubblica, ma tanti altri che si sentono legati al destino dell'esercito e delle istituzioni, e che non potendo o non osando opporsi agli occupanti, vivono l'umiliazione di sentirsi alla loro merce'. Primo amava le armi, amava la messa in scena (lo dico senza alcun significato negativo: la marcia del sale di Gandhi e' stata un grande pezzo di teatro politico). In piu', con il suo talento di eroe popolare, sapeva che vedere l'accumulo sul suo corpo delle armi piu' micidiali rincuorava persino il borghese piccolo piccolo chiuso dietro le finestre di casa, che con ogni probabilita' temeva la sua leggendaria durezza e diffidava delle grandi trasformazioni promesse dalla resistenza. Ma nella mortificazione e nello smarrimento, la visione della violenza "amica" funzionava da riscatto. Solo, non era il riscatto ordinato, duraturo, pienamente politico, che avevano in mente i partiti antifascisti. Se ripensare a un libro sulla violenza partigiana creasse piu' spazio per storie partigiane di riduzione del danno, sarebbe un felice paradosso. 3. ANNA BRAVO: RESISTENZA CIVILE (PARTE PRIMA) [Nuovamente riproponiamo il seguente saggio di Anna Bravo (che nuovamente ringraziamo per avercelo messo a disposizione) originariamente pubblicato come voce "Resistenza civile", in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, 2 voll., Einaudi, Torino 2000-2001] I. Forme di lotta Con la significativa eccezione delle enclaves di alto prestigio e potere, non esistono nella resistenza compiti o settori dove non compaiano donne. E' cosi' nello scontro armato, nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell'organizzazione sanitaria e ospedaliera, nel Soccorso rosso, la struttura delegata a sostenere i militanti in difficolta' e le loro famiglie. Dello schieramento resistenziale fanno parte anche le militanti dei Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti della liberta', l'organizzazione femminile di massa fondata nell'autunno '43 da alcune esponenti dei partiti del Cln. Nell'opera dei Gruppi, e in una certa misura anche delle partigiane, rientrano molte pratiche tipiche della resistenza civile, un termine oggi usato per indicare l'area dei comportamenti conflittuali delle popolazioni che in tutta l'Europa sotto dominio nazista accompagnano, a volte precedono, la resistenza armata, e che si valgono non delle armi ma di strumenti immateriali come il coraggio morale, l'inventiva, la duttilita', le tecniche di aggiramento della violenza, la capacita' di manovrare le situazioni, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico. Ma le donne attive in questo campo sono molte di piu' di quelle integrate nella resistenza e riconosciute come tali. Il punto di inizio della resistenza civile italiana sono i giorni successivi all'8 settembre, quando i tedeschi si sono ormai impadroniti dei 4/5 del paese e decine di migliaia di soldati si sbandano sul territorio cercando di sfuggire alla caccia degli occupanti. Ne nascono storie splendide, uscite dall'anonimato solo di recente. Come quella di M. S., una non piu' giovane donna torinese di classe operaia, che non esita a accogliere e rivestire in borghese i primi militari che bussano alla sua porta, ma che subito si rende conto del carattere di massa dell'emergenza. Fa allora incetta di indumenti borghesi in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un istituto di carita', e trasforma la propria casa in un efficientissimo centro di raccolta dove sull'onda del passaparola gli sbandati si presentano sempre piu' numerosi. M. S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio improvvisato nelle cantine, li riveste da capo a piedi, preccupandosi persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni travestimento. Poi li accompagna uno per uno alla stazione, dove cerca di eludere i controlli polizieschi baciandoli e abbracciandoli come fossero parenti in visita (Bravo-Bruzzone 1995). Sebbene sia raro incontrare altrettanto spirito imprenditorale e altrettanta cura per la verosiglianza, in quei giorni un numero imprecisato ma vastissimo di donne - anche se non solo di donne - si impegna in una mobilitazione che imprime il suo segno nel paesaggio. Come scrive Luigi Meneghello, uno dei maggiori protagonisti/interpreti della resistenza, si vedevano "file praticamente continue di gente (...) tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete (...) Pareva che tutta la gioventu' italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva" (Meneghello 1986). E' una gigantesca operazione di salvataggio, forse la piu' grande della nostra storia (Galli Della Loggia 1991), che viene condotta in assenza di direttive politiche e in gran parte ad opera di donne cosiddette comuni; un fenomeno che non si ripetera' piu' con queste caratteristiche e dimensioni. Ma nei venti mesi successivi, la resistenza civile italiana prende altre forme. Tra queste, sabotaggi e scioperi per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali perseguito dai nazisti; tentativi di impedire la distruzione di cose e beni essenziali per il dopo; lotte in difesa delle condizioni di vita; isolamento morale del nemico, una pratica decisiva per minarne la tenuta psicologica; rifiuto da parte di magistrati e altri dipendenti pubblici di prestare giuramento alla repubblica di Salo'. Spicca anche, ed e' probabilmente l'aspetto piu' diffuso, la protezione verso chi e' in pericolo: basta ricordare la lunga ospitalita' offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l'armistizio (Absalom 1991); l'aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile in tutta Europa; e, certo non da ultimo, l'appoggio alle formazioni partigiane attraverso infinite piccole e grandi iniziative - sarebbe dunque assurdo considerare la resistenza civile come separata e contrapposte a quella armata, anche perche' almeno in alcuni casi non di rifiuto delle armi si tratta, ma dell'impossibilita' di procurarsele. E' vero invece che il termine abbracccia un ventaglio di comportamenti eterogenei, apparentati essenzialmente dal fatto di essere compiuti senza armi e ad opera di soggetti a loro volta cosi' diversi che a accomunarli e' quasi solo la condizione di cittadini di uno stesso paese: sono uomini di varia eta', ceto, cultura, posizione professionale, politicizzati e non; a volte bambine e bambini; religiosi/e; ma soprattutto donne, proletarie e aristocratiche, contadine e borghesi, spinte all'esterno dalla necessita' di provvedere a se stesse e alla famiglia e spesso piu' capaci di esporsi, anche perche' contano, a volte illudendosi, sul minore sospetto che tradizionalmente desterebbe la figura femminile. Riflettono questa molteplicita' le motivazioni: contano la fede e le indicazioni politiche, ma spesso contano di piu' la stanchezza della guerra, la pietas cristiana, l'odio per tedeschi e fascisti, la solidarieta', a volte l'orgoglio patriottico, di gruppo, di mestiere, ideali anarchici e antimilitaristi, spirito di insubordinazione e di avventura. L'8 settembre per le donne c'e' una sfumatura particolare: gli sbandati sono giovani uomini in pericolo che si rivolgono loro come a figure forti e salvifiche, vale a dire materne. E proprio a causa di questa vulnerabilita', le donne li considerano spesso figli virtuali, e per proteggerli danno vita a un maternage di massa che rappresenta una delle espressioni specificamente femminili della resistenza civile italiana. Al suo interno spicca l'azione individuale. C'e' chi opera in modo estemporaneo, come la parrucchiera che durante una retata nasconde un partigiano fra le clienti. Chi in modo continuativo, come la diciottenne impiegata di uno stabilimento ausiliario che va regolarmente al comando tedesco a chiedere i lasciapassare per gli operai, e regolarmente inserisce nell'elenco partigiani e qualche ebreo; se la sua collaborazione con il Cln resta informale, in altri casi il medesimo incarico puo' portare all'inserimento negli organici, a dimostrazione di quanto sia difficile in quell'orizzonte concitato e frammentato applicare criteri omogenei. Frutto ora di una tessitura minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte collettive sono per lo piu' non violente, ma non sempre: lo testimoniano gli assalti ai magazzini viveri e a treni carichi di derrate o combustibili e alcune aggressioni contro esponenti e favoreggiatori di Salo' - in quest'ultimo caso pero' e' difficile distinguere tra i fatti, le dicerie, le versioni amplificate. Variano di molto le modalita' organizzative. La mobilitazione puo' riecheggiare le parole d'ordine dei partiti antifascisti o dei Gruppi di difesa, puo' esserne il risultato diretto, puo' valersi dei loro canali; altre volte - e' il caso di M. S. - nasce da forme di concertazione informale lontane dal circuito politico e fondate su un tessuto sociale di paese, di quartiere, di parrocchia, su reti parentali, di colleganza, di amicizia. Variano anche i risultati: si salvano persone e si vanificano i piani nazisti, come quando le donne di Carrara resistono agli ordini di sfollamento totale emanati nel luglio '44 per garantire alle truppe tedesche una via di ritirata attraverso territori sgombri (Commissione pari opportunita' Massa-Carrara 1994); si strappano miglioramenti delle condizioni di vita e si delegittimano le istituzioni di Salo'. Ma l'azione e' in ogni caso frutto di una decisione personale non meno difficile della scelta partigiana. Cosi' come solo una minoranza prende le armi, solo una minoranza si impegna infatti nella lotta senza armi, e sarebbe ingiusto usarla per accreditare il mito di un'unanime mobilitazione antifascista e antinazista - vale invece la pena sottolineare che da noi la solidarieta' verso gli ebrei scatta nel momento in cui e' chiaro che e' la loro vita a essere in pericolo, ma anche che la Germania ha ormai perso la guerra. Su questo sfondo, il significato della resistenza civile trova ancora piu' risalto. Si tratta nel suo insieme di un enorme lavoro di tutela e trasformazione dell'esistente, vite, rapporti, cose, che si contrappone sul piano sia materiale sia simbolico alla terra bruciata perseguita dagli occupanti; di un rifiuto di sottomettersi le cui conseguenze possono andare dalla denuncia alla deportazione e alla pena di morte per chi fornisca documenti falsi ai ricercati, dia aiuto a partigiani o, recita un decreto di Salo' del 9 ottobre 1943, dia rifugio a prigionieri e militari alleati o ne faciliti la fuga. Alcune donne di Carrara vengono arrestate; alcune/i soccorritori dei prigionieri di guerra sono uccisi. La piemontese quindicenne Natalina Bianco, "colpevole" di aver portato viveri ai fratelli partigiani, finira' a Ravensbruck; cosi' la studentessa padovana Milena Zambon, attiva in una rete che fa passare in Svizzera i prigionieri alleati (Gios 1987). Del resto, nell'ordine senza diritto imposto dall'occupazione, basta un rifiuto occasionale di obbedienza a innescare ritorsioni gravi. L'impegno nella resistenza civile puo' dunque contare e costare quanto quello nella resistenza armata. Ma dei suoi protagonisti e del loro destino sappiamo ancora poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avviene nel '98 con la storia dell'agente di custodia di san Vittore Andrea Schivo, deportato e ucciso a Flossemburg per aver "agevolato i detenuti politici ebrei coi loro bambini (...) soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile" (Laudi 1998). * (parte prima - segue) 4. ET COETERA Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli, Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991; (con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia, Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone), In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, 2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999; (con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna 2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 360 del 17 agosto 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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