La domenica della nonviolenza. 227



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 227 del 2 agosto 2009

In questo numero:
1. Paolo Di Stefano intervista Renato Solmi
2. Axel Honneth: Habermas e Marx
3. Giorgio Nebbia presenta "Furore" di John Steinbeck
4. Riletture: Rossana Rossanda, Anche per me
5. Riletture: Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso
6. Riletture: Rossana Rossanda, Le altre
7. Riletture: Rossana Rossanda, Note a margine
8. Riletture: Rossana Rossanda, Un viaggio inutile
9. Riletture: Manuela Fraire e Rossana Rossanda, La perdita
10. Riletture: Filippo Gentiloni, Rossana Rossanda, La vita breve
11. Riletture: Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Appuntamenti di fine secolo
12. Riletture: AA. VV., Classe, consigli, partito
13. Riletture: AA. VV., Potere e opposizione nelle societa'
post-rivoluzionarie

1. MAESTRI. PAOLO DI STEFANO INTERVISTA RENATO SOLMI
[Dal sito del "L'ospite ingrato" (www.ospiteingrato.org) riprendiamo il
testo della seguente intervista a Renato Solmi, preceduta dalla seguente
nota redazionale "Pubblichiamo per gentile concessione di Paolo Di Stefano
la sua intervista a Renato Solmi, realizzata per la pubblicazione di
Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Quodlibet, 2007. Il volume
raccoglie quasi tutti gli interventi e i saggi dispersi di Solmi, studioso e
intellettuale militante, redattore presso Einaudi dal '51 al '63, autore tra
l'altro delle prime traduzioni italiane di Adorno e Benjamin"]

- Paolo Di Stefano: Che cosa ha rappresentato l'esperienza di "Discussioni"
in un momento in cui fare cultura significava stare all'interno del Partito?
- Renato Solmi: Cio' che caratterizzava l'azione del piccolo gruppo di
intellettuali che si era raccolto intorno al foglio ciclostilato di
"Discussioni" era il tentativo di affrontare e di discutere in una cerchia
ristretta, quasi ai limiti della clandestinita' (cio' che poteva far pensare
a una sorta di "samizdat" interno allo schieramento complessivo della
sinistra), una serie di problemi politici di primaria importanza, senza
tenere conto dei tabu' e degli ostacoli che erano stati eretti
artificialmente dalle logiche contrapposte del periodo piu' acuto e per
molti versi piu' drammatico della guerra fredda. Le ragioni di vita del
foglio sarebbero venute meno, dopo la morte di Stalin e in seguito ai primi
sintomi del disgelo, negli anni immediatamente successivi, in cui la maggior
parte dei suoi collaboratori avrebbe dato vita all'esperienza, per molti
aspetti piu' matura, di "Ragionamenti", a cui l'autore di questo libro,
trasferitosi nel frattempo a Torino, non avrebbe piu' preso direttamente
parte.
*
- Paolo Di Stefano: Perche' l'Einaudi, come lei scrive, "non era e non
poteva essere il surrogato di un partito"?
- Renato Solmi: Si tratta di una constatazione di fatto, che sarebbe stata
confermata, purtroppo, dagli sviluppi successivi di tutta la vicenda. Il
progetto elaborato fin da allora da Franco Fortini, di cui si parla nello
scritto sulla "Settimana Einaudi", si sarebbe scontrato nella resistenza
opposta dalle necessita' intrinseche della logica aziendale e dalla
difficolta' di dare vita a un movimento di massa fra i consumatori e gli
utenti di questo genere tutto particolare di merce.
*
- Paolo Di Stefano: Lei e' d'accordo con il concetto di egemonia culturale
della sinistra riferito agli anni del dopoguerra?
- Renato Solmi: Non credo che si possa parlare di un'egemonia culturale
della sinistra negli anni dell'immediato dopoguerra, nonostante la
proliferazione di una serie di iniziative che si svilupparono, in quel
frattempo (a cominciare dal "Politecnico" di Vittorini), in tutto il paese.
*
- Paolo Di Stefano: Che opinione aveva allora e ha oggi sul ruolo di
Vittorini?
- Renato Solmi: Devo confessare di non aver partecipato, perche' ancora
troppo giovane e relativamente immaturo, all'esperienza del "Politecnico",
nonostante che il suo direttore, e alcuni dei suoi collaboratori,
frequentassero regolarmente la casa di mio padre, con cui intrattenevano da
tempo stretti rapporti di amicizia.
*
- Paolo Di Stefano: So bene che l'ha raccontato molto in dettaglio in un
saggio, ma oggi, a distanza di molti anni, come interpreta la sua
estromissione dall'Einaudi? Quella decisione aveva evidentemente ragioni
politiche.
- Renato Solmi: Vorrei sottolineare, a questo proposito, che la decisione
piu' importante, e piu' gravida di conseguenze potenzialmente negative,
presa in questa occasione, e' stata quella di allontanare dalla casa
editrice Raniero Panzieri, che, con l'azione politica da lui nel frattempo
intrapresa, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo al mantenimento di
normali rapporti di convenienza e di collaborazione fra i suoi dirigenti e
l'establishment industriale e bancario della citta'. I "motivi politici" di
cui Lei parla nella Sua domanda non devono far pensare all'intervento di
questo o quel partito politico, ma semplicemente al fatto che il libro di
Goffredo Fofi, che era all'origine di quella disputa, sarebbe stato
difficilmente digeribile dai dirigenti della Fiat e della "Stampa", e
avrebbe potuto essere interpretato come uno sgarbo fatto da Giulio Einaudi,
e da tutti i suoi collaboratori, ai "padroni" sia pure "liberali" della
citta'. Dico questo anche per sottolineare il fatto che vi e' stata, in
quell'occasione, anche da parte nostra (e intendo dei miei amici), una
sottovalutazione dei pericoli obbiettivamente inerenti al complesso di
questi fattori per la gestione economica e commerciale della casa editrice
nel contesto reale di questi rapporti. Tanto e' vero che il libro,
pubblicato integralmente nella sua versione originaria da Feltrinelli a
Milano, non diede luogo a nessuno scandalo, e fu oggetto, in generale, di
apprezzamenti lusinghieri da parte di tutta la stampa. La precauzione di
scaricarsi di un'incombenza cosi' gravosa affidandola a un'azienda libraria
del tutto indipendente da vincoli di cortesia e di interessi purtroppo
vitali era quindi piu' che legittima, e non avrebbe dato luogo a nessuno
scontro, se fosse stata motivata e giustificata in questi termini. Ci si
puo' chiedere, pero', perche' si dovessero assumere, nei confronti di
scavezzacolli della nostra risma, che non erano stati e davano tutte le
garanzie di non essere, anche in futuro, del tutto inutili all'attivita'
editoriale della casa, misure cosi' drastiche in una circostanza di questo
genere. Forse la crisi finale e' stata dovuta, almeno in parte, a
incomprensioni ed equivoci, ma la sostanza della questione rinvia, in ultima
analisi, a una divergenza di obbiettivi e di ideali politici di cui una
delle parti in causa deve essersi fatta un'idea sbagliata, o, per lo meno,
eccessiva al momento di prendere le sue decisioni.
*
- Paolo Di Stefano: La Scuola di Francoforte come venne accolta all'interno
della casa editrice Einaudi? Lei sentiva solidarieta' e partecipazione nel
suo lavoro di traduzione e divulgazione? Oppure avvertiva delle spinte
contrarie? Fino a che punto agiva in tal senso la resistenza di alcuni
intellettuali di primo piano del Pci?
- Renato Solmi: Le spinte contrarie all'introduzione in Italia dei testi
della scuola di Francoforte furono rapidamente superate nel corso degli anni
e dei decenni successivi, facendo del nostro paese, credo, uno dei ricettori
piu' sensibili e piu' attivi delle opere di Adorno e dei suoi collaboratori
nel mondo intero. Ma il merito di questa trasmissione e degli effetti che ha
avuto sulla nostra cultura non spetta piu', nemmeno lontanamente, a me, ma
deve essere riconosciuto esclusivamente a coloro che se ne sono accollati
l'onere e la responsabilita'.
*
- Paolo Di Stefano: Nel resoconto per il "Notiziario Einaudi" di un Viaggio
in Germania del '54, lei osservava che il senso di orrore diffuso in tutta
Europa per il nazismo era ancora estraneo agli intellettuali tedeschi. Come
ha reagito venendo a sapere l'anno scorso dell'adesione di Grass alle SS?
- Renato Solmi: Quale importanza si puo' attribuire alla partecipazione di
ragazzi di diciassette o diciotto anni all'attivita' delle SS in Germania
negli ultimi tempi della guerra? E' chiaro che essi non appartenevano a
famiglie antifasciste che avrebbero potuto proteggerli da questo pericolo e
immunizzarli da questa avventura: ma quale colpa si puo' imputare loro per
questo fatto? Casi di questo genere si sono verificati, come Lei ben sa,
anche nel nostro paese, ma dovrebbe essere fin troppo chiaro, agli occhi di
tutte le persone ragionevoli, che, in ciascuno di essi, non si debba
guardare alla situazione iniziale da cui ha preso le mosse lo sviluppo di
questi giovani, ma piuttosto al modo in cui essi hanno assimilato questa
esperienza e reagito ad essa, prendendone rapidamente le distanze e
diventando in tal modo uomini completi capaci di giudicare delle cose del
mondo al pari di qualsiasi altro esponente della loro generazione.
*
- Paolo Di Stefano: Durante la sua esperienza di lavoro all'Einaudi quali
furono le personalita' con cui si senti' particolarmente affine? E rivide
Giulio Einaudi dopo l'allontanamento?
- Renato Solmi: Credo di avere un profondo debito di riconoscenza nei
confronti di tutti i colleghi che hanno operato al mio fianco nella casa
editrice, quali che potessero essere le mansioni a loro affidate e quali che
siano state le loro reazioni nei confronti della crisi dell'autunno del
l963. Daniele Ponchiroli, Giulio Bollati e Italo Calvino, che, purtroppo, ci
hanno lasciati da parecchi anni, meritano di essere oggetto della mia
ammirazione e del mio rispetto, per le loro qualita' eccezionali anche se
relative a diversi campi ed aspetti dell'attivita' e delle relazioni umane,
a prescindere dall'atteggiamento che hanno tenuto in quell'occasione e delle
conseguenze che ne possono essere scaturite per me. Quante cose ho appreso
da loro, e quale aiuto mi hanno dato in quel periodo della mia vita! Del
resto, come Lei sa, la mia collaborazione con la casa editrice e' continuata
per parecchi anni dopo quei fatti, grazie alla mediazione esercitata dagli
amici e dai compagni che vi erano rimasti, ma anche all'intelligenza e alla
sensibilita' di cui hanno dato prova, in diverse occasioni, le persone di
cui ho parlato. Ho rivisto di rado, in questo periodo, Giulio Einaudi, ma
ricordo di avere avuto un incontro con lui, per una questione che mi stava
particolarmente a cuore, verso la meta' degli anni '90, quando il primo
governo Berlusconi era appena caduto, ma l'ombra del conflitto di interessi
continuava a gravare come uno spettro sulla politica del nostro paese. In
questa occasione, dopo avere discusso brevemente dei problemi del momento,
ci siamo abbracciati in nome di una solidarieta' che era destinata a
sopravvivere a tutti i contrasti. Sono stato contento di averlo fatto, prima
che la morte, pochi anni dopo, troncasse improvvisamente la sua esistenza.
*
- Paolo Di Stefano: Come conobbe Adorno e che impressione le fece la sua
personalita'? Era "evasivo e irritante" come il suo stile?
- Renato Solmi: Non ho avuto con Adorno che rapporti molto occasionali,
nonostante che sia vissuto a Francoforte, seguendo le sue lezioni, per circa
un anno e mezzo fra il 1956 e il 1957. Era, per certi aspetti, un uomo
incantevole, ma, d'altra parte, molto chiuso e difficilmente accessibile.
Cio' che conta, pero', i suoi libri, o almeno alcuni di essi, restano come
esempi di un pensiero cosi' elevato e di una scrittura cosi' limpida e
inimitabile, da meritare, di per se stessi, un sentimento illimitato di
gratitudine.
*
- Paolo Di Stefano: Lei negli anni '70 avrebbe dichiarato il suo progressivo
distacco dalle posizioni filosofiche e politiche adorniane. Su che basi? E
quanto influi' su questo distacco il suo rapporto con Raniero Panzieri e con
il gruppo dei "Quaderni rossi"?
- Renato Solmi: Si', a partire dalla seconda meta' degli anni Sessanta si e'
venuto delineando, a poco a poco, un progressivo distacco del mio spirito
dal cerchio magico del pensiero adorniano. Esso ha avuto luogo, almeno in un
primo tempo, in nome del marxismo, rappresentato, da un lato, dal pensiero
di Lukacs, e, dall'altro, dalla storiografia di tutti coloro che, avendo
assimilato fino in fondo i principi di questa filosofia, hanno saputo farne
uno strumento efficacissimo di intelligenza e di comprensione
dell'evoluzione storica del genere umano. L'esperienza del '68, che era
stata anticipata, se si puo' dir cosi', dall'influenza esercitata su di me
da Raniero Panzieri e dal gruppo dei "Quaderni rossi", ha contribuito a
farmi prendere le distanze dal pensiero della scuola di Francoforte, per
ragioni del tutto analoghe a quelle che spinsero, in Germania, gli studenti
di quella citta' e di altre universita' del paese a fare altrettanto (cio'
che non e' stato sempre foriero di risultati positivi) e a cercare,
comunque, di "andare oltre" le posizioni ereditate dai loro maestri.
*
- Paolo Di Stefano: Oggi che cosa puo' insegnare alle giovani generazioni la
lettura di Adorno?
- Renato Solmi: Credo di avere risposto a questa domanda, anche se in modo
insufficiente e approssimativo, nel breve intervento che ho tenuto nel
convegno su di lui e sulle sue opere che ha avuto luogo al Centro di cultura
di Villa Vigoni nell'aprile 2003, riprodotto nell'ultima parte di questa
raccolta, e con cui mi sembra di avere reso giustizia all'eredita'
intellettuale che ci ha lasciato.
*
- Paolo Di Stefano: Mi piacerebbe che lei parlasse brevemente di quel che ha
rappresentato Guenther Anders per lei.
- Renato Solmi: L'opera di Guenther Anders, di questo grande maestro,
paragonabile, per certi aspetti, a Karl Kraus, dell'uso della lingua tedesca
e di una dialettica cosi' serrata, se si puo' dir cosi', da togliere il
fiato, ha avuto su di me l'effetto, che ha continuato ad esercitarsi fino ad
oggi, di attirare la mia attenzione sulla svolta decisiva operata
dall'invenzione delle armi di distruzione di massa e sulle conseguenze
paradossali che ne scaturiscono in tutti i compartimenti della vita e della
societa' umana. L'incontro con lui ha contribuito, fin dai primi anni '60, a
indirizzarmi sulla via dei movimenti pacifisti e nonviolenti di cui si parla
nel saggio che prende le mosse dai suoi rapporti con Claude Eatherly e che
fa parte della sesta sezione di questo libro. Che Anders, per suo conto, non
abbia aderito alle dottrine nonviolente di stampo gandhiano, e' un paradosso
di cui non si puo' fare a meno di tener conto, ma che non e' evidentemente
il caso di toccare e di approfondire in questa sede.
*
- Paolo Di Stefano: In che modo lei si avvicino' al gruppo dei "Quaderni
piacentini" e a Franco Fortini?
- Renato Solmi: Qui devo precisare che il mio rapporto con Franco Fortini
data fin dai tempi di "Discussioni", e che il mio debito di riconoscenza nei
suoi confronti e' di quelli che non potranno mai essere pareggiati da nessun
omaggio reso alla sua memoria. Un discorso analogo, anche se, naturalmente,
di diversa portata, va fatto, da parte mia, a proposito dei direttori dei
"Quaderni piacentini" (Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, a cui vorrei
aggiungere, pero', anche Goffredo Fofi), senza l'entusiasmo e la tenacia dei
quali la maggior parte dei contributi che ho potuto dare alla conoscenza
degli sviluppi della "nuova sinistra" nella sua versione americana non
avrebbero mai potuto prendere forma e vedere la luce su un organo di stampa.
*
- Paolo Di Stefano: L'anno prossimo ci saranno le celebrazioni del '68:
immagino che sara' l'occasione per ulteriori revisioni storiche... Che cosa
salverebbe lei oggi di quei movimenti?
- Renato Solmi: A questa domanda, che e' una specie di "redde rationem"
posta significativamente al termine della Sua intervista, sarei portato a
rispondere provocatoriamente con la parola "tutto", se non mi rendessi conto
della necessita' di distinguere fra una serie di fasi successive nella
storia del movimento, di cui la prima e' stata certamente qualcosa di
straordinario, un evento quasi senza precedenti nell'evoluzione della
societa' moderna, assistere e partecipare al quale ha costituito
un'esperienza indimenticabile per chiunque abbia avuto la ventura di esservi
direttamente coinvolto, ma che poi, nei suoi sviluppi successivi, ha dato
luogo a fenomeni di ristagno e addirittura di degenerazione di cui tutti
conserviamo il triste e doloroso ricordo. Una parabola di questo genere e'
stata percorsa, in forme e in tempi diversi, in tutti i paesi in cui il
movimento si e' sviluppato, dando luogo cosi' a reazioni e a valutazioni
molto diverse e spesso addirittura incompatibili fra loro. Io credo che si
debba tenere conto, in via preliminare, di quel primo e incomparabile
momento, che si e' protratto, in diversi paesi, fra cui anche il nostro, per
un periodo piu' o meno lungo di tempo, e che ha prodotto, per un effetto di
imitazione o addirittura di contagio (ma, in questo caso, di carattere
eminentemente benefico e positivo), una serie di conseguenze di grande
portata non solo nell'ambito delle istituzioni educative, ma anche in molti
altri settori della vita e dell'organizzazione sociale. Si potrebbero
citare, a questo proposito, numerosi esempi, come ho cercato di fare, verso
la meta' degli anni '80, in occasione di una reviviscenza dell'interesse per
il '68 nelle scuole medie superiori di Torino e di altre citta' (e che vanno
dalla riforma delle strutture sanitarie a quella delle istituzioni sportive
e ricreative, dall'assetto dei mezzi di comunicazione di massa ai problemi
dell'organizzazione dei trasporti, per tacere dell'introduzione delle
liberta' sindacali nell'ambito delle forze armate e della polizia e della
lotta contro le servitu' militari a cui e' sottoposto ancora oggi il nostro
paese). Che la scuola possa tornare ad essere, come allora, la sede di una
presa di coscienza e di una discussione preliminare di tutti questi
problemi, che riguardano la vita di ciascuno di noi e dei nostri cari, e'
l'augurio con cui mi sembra di poter concludere il lungo itinerario di
questa intervista.

2. RIFLESSIONE. AXEL HONNETH: HABERMAS E MARX
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 25 luglio 2009 col titolo "In cerca di
radici. La genealogia mimetica di Habermas" e il sommario "La discussa
influenza dell'opera di Karl Marx nell'elaborazione dell autore di Teoria
dell'agire comunicativo. Anticipiamo un testo che apparira' nell'ultimo
numero di 'Reset' dedicato al filosofo tedesco". In un paio di luoghi almeno
sospettiamo refusi o fraintendimenti che non abbiamo corretto, chi legge
sapra' comunque ricostruire il senso (p. s.)]

Nell'incredibile lettera, irritante ancora oggi, scritta cinquant'anni
orsono da Max Horkheimer al suo amico Theodor W. Adorno per tacciare di
inattendibilita' teoretica il giovane collaboratore dell'istituto Juergen
Habermas si parla ripetutamente e con crescente sdegno del di lui "cieco"
legame con il giovane Marx: secondo Horkheimer avrebbe cosi' avuto accesso
all'istituto qualcuno che ha appreso talmente poco dalle esperienze della
storia recente da credere ancora alla realizzazione politica della filosofia
nella rivoluzione. Intanto il passare del tempo ha steso il velo della
dimenticanza su questa testimonianza di un istintivo risentimento e ha fatto
passare in secondo piano lo scandalo dell'espulsione dall'istituto del suo
piu' dotato collaboratore.
La storia della filosofia considera oggi Max Horkheimer a buon diritto il
padre fondatore della teoria critica, il suo spiritus rector e guida, mentre
Juergen Habermas e' ugualmente di diritto visto come il suo unico legittimo
successore. Il suo lavoro negli anni Cinquanta, dopo l'intervento
autoritario di Horkheimer, si e' a tal punto diversificato da un punto di
vista materiale e concettuale che il nucleo centrale marxista degli esordi
non vi e' pressoche' piu' riconoscibile. Nell'occasione dell'ottantesimo
compleanno dell'allora collaboratore dell'istituto, si deve qui brevemente
ricordare che tale nucleo non si e' mai estinto, ma costituisce anzi a
tutt'oggi un fondamento essenziale della sua intera teoria. Alla paradossale
"storia degli effetti" della teoria critica appartiene la visione, oggi
ancora largamente diffusa, secondo cui Juergen Habermas avrebbe, attraverso
la sua svolta in direzione della teoria della comunicazione, liquidato
definitivamente le radici marxiste della tradizione da lui portata avanti o
le avrebbe addirittura, da una prospettiva relativamente "radicale",
tradite.
*
Una fusione spericolata
La lettera di Horkheimer, certo, accusa fin troppo chiaramente di falsita'
questa interpretazione, ma cio' non ha potuto cambiare il fatto che - anche
dopo la sua pubblicazione - in Habermas molti vedano soprattutto l'erede
politicamente moderato, animato da intenzioni riformiste, della Scuola di
Francoforte. Niente e' piu' sbagliato, niente sarebbe piu' ingiusto nei
confronti delle effettive relazioni causali. Pur nel suo abbaglio carico di
risentimento, Horkheimer ha tuttavia intuito una verita': se c'era qualcuno
nell'istituto dotato delle qualita' intellettuali necessarie per riprendere
e portare avanti gli impulsi marxisti della tradizione originaria, quello
era Juergen Habermas. Gia' poco dopo aver conseguito la laurea a Bonn nel
1954 con la cattedra di Erich Rothacker, il giovane filosofo inizio' a
prendere il distacco dai propri esordi sulla scia del pensiero di Heidegger
e a orientarsi maggiormente verso le concezioni teoretiche di Marx.
*
Il confronto con Marx
Il saggio Dialettica della razionalizzazione, cui Horkheimer fa
occasionalmente riferimento nella sua polemica, rappresenta il primo
tentativo di una fusione dei due approcci; nel suo impianto
heideggeriano-marxista sono gia' riconoscibili i primi tratti della
successiva teoria sociale: nella forma di una diagnosi di alienazione
vengono qui infatti illustrati gli effetti negativi che il progresso
tecnologico provoca nel "mondo della vita" sociale, nella Lebenswelt,
favorendo atteggiamenti consumistici attraverso i quali "il mondo delle
cose", la Dingwelt, prima ancora percepita attraverso i sensi, sparisce poco
a poco dall'orizzonte delle esperienze dell'individuo.
Certo, in questa precoce diagnosi storica si trova ancora cio' che, nel
moderno, viene distrutto dalla razionalizzazione strumentale, essenzialmente
determinato con il contributo dell'analisi esistenziale di Heidegger,
tuttavia l'analisi rimane legata al presupposto problematico di una
originaria "mondialita'" di tutte le nostre esperienze: la sistematica
ottimizzazione dell'agire strumentale nella tecnica viene pensata, in
un'originale combinazione di Gehlen e Marx, come l'effettivo filo conduttore
della storia umana, e una crescente alienazione dal mondo e una forma
alienata di oggettivazione vengono, con Heidegger, concepite come sue
conseguenze civilizzatorie. Tuttavia l'immagine che viene cosi' a crearsi
della specifica struttura delle societa' moderne altamente sviluppate
sussiste gia' in modo determinante nell'idea che e' un processo di
razionalizzazione soltanto unilaterale, strumentale, quello che porta a
forme di rigetto sociale o di patologie nei rapporti di vita reali. Habermas
prende subito le distanze dalle premesse di questo precoce, indicativo
saggio non appena si rende conto, con tutta la furia della delusione, della
reale misura del coinvolgimento di Heidegger nel nazionalsocialismo; ora il
quadro normativo dell'analisi esistenziale di Essere e tempo viene
abbandonato, il vuoto creatosi deve essere colmato attraverso un rafforzato
confronto con la "discussione filosofica su Marx e il marxismo". Cio' che
scaturisce da questa fase incisiva nello sviluppo del pensiero di Habermas
sono due principi teoretici su cui d'ora in avanti si fondera' il successivo
percorso dell'elaborazione della sua teoria sociale; essi costituiscono nel
loro insieme un quadro di orientamento che, sotto forma di un ormai quasi
istintivo senso della direzione, ha superato con successo tutte le
successive fasi della diversificazione e dell'estensione e che ancora oggi
serve da riferimento alla teoria. Benche' Horkheimer non fosse disposto ad
ammetterlo, fu proprio l'attualizzazione di Marx quella che poi avrebbe
spianato la strada, all'interno dell'istituto, all'unico approccio teorico
in grado di elevarsi a un rinnovamento delle vecchie aspettative della
teoria critica.
*
Un peccato originale
Il primo principio, che Habermas elabora affrontando l'eredita' marxista,
consiste in una visione materialistica della storia umana in cui questa
viene interpretata come una catena di impenetrabili relazioni di potere e di
repressione che e' possibile spezzare solo attraverso un impegno di tipo
razionale pratico. Gia' nella sua tesi il laureando Habermas aveva alla fine
approfondito le conseguenze storico-filosofiche derivate, secondo Marx,
dall'idea di Schelling di una contraddizione di Dio per il proprio progetto
materialistico: i rapporti sociali del presente, intesi come un peccato
originale di interpretazione secolare, possono essere interpretati come una
condizione corrotta che va superata attraverso un processo di emancipazione
in cui il genere umano, sotto forma di federazione di produttori, si libera
del dominio della materia. Non che Habermas abbia mai adottato, nel contesto
della propria teoria, questo schema storico-filosofico di una risoluzione
rivoluzionaria del dominio che invariabilmente si riproduce secondo natura
nella storia umana; ma l'idea a esso associata per cui possiamo accertarci
della pessima qualita' o della patologia del nostro stato presente soltanto
alla luce del ricordo riflessivo di una storia finora imperscrutabile di
trame da noi stessi provocate, informa il suo pensiero a tal punto che egli,
in forma ridotta, la mantiene pur attraverso tutte le successive
trasformazioni.
Anche nella piu' matura teoria della ragione di Habermas si ritrovano
altrettante tracce storico-filosofiche, come quelle insite nell'idea di Marx
della necessita' di una eliminazione razionale pratica del dominio straniero
che continua ad agire impenetrabile nella storia della nostra civilta'. La
teoria della ragione infatti deve essere interpretata come l'organo critico
di articolazione di un bisogno di razionalita' che, sotto la crosta
plasmante di una forza di razionalita' strumentale che resta inaccessibile
nei suoi effetti naturali, e' fondato nelle strutture comunicative della
Lebenswelt.
*
La colonizzazione della vita
Il secondo principio che Habermas elabora nel suo confronto con l'eredita'
di Marx, e che non abbandonera' piu', consiste nella ripresa del verso
teorico scritto da Marx sul carattere sociale dei rapporti di potere che,
incomprensibili, ci sovrastano. Fin dall'inizio del suo approfondimento su
Marx il giovane filosofo si appropria, nonostante la cauta critica, della
sua idea secondo cui le patologie sociali delle societa' moderne devono
essere conseguenza dell'imposizione da parte dell'economia di mercato
dell'incremento di rendita e profitto economici: cio' che nel menzionato
saggio sulla Dialettica della razionalizzazione viene gia' indicato come
dominanza di mentalita' strumentali e viene successivamente concepito con la
formula della "colonizzazione della Lebenswelt", deve essere provocato
nell'ambito di tutte le altre sfere d'azione attraverso l'infiltrazione di
calcoli economici utilitaristici. Nella successiva elaborazione della sua
teoria Habermas riformulera' poi a fondo in modo empirico e precisera' dal
punto di vista dell'analisi linguistica le tradizioni di pensiero per lui
inizialmente costitutive dell'antropologia filosofica, della storia della
filosofia e del marxismo: non si allontanera' piu' dalla tesi marxista di un
processo di autonomizzazione delle tendenze d'azione economiche; seppure con
discrezione, essa impronta a tutt'oggi la sua teoria sociale con assidua
ricorrenza.
Tale teoria e' stata, si', nel corso degli anni prodotta attraverso
l'esercizio costante di nuovi approcci teorici, di una differenziazione
incessante di intuizioni originarie e di conseguenza di una complessita'
sempre crescente del programma complessivo; ma del resto cosa sarebbe oggi
questo complesso teorico sistematico senza la spinta morale derivata dai
primi anni di appropriazione dell'opera di Marx? Habermas rimane ancora
invariabilmente animato, nei suoi sforzi teorici, dalla missione di
rifiutare il progressivo affrancamento degli obblighi di sfruttamento
capitalistici che minacciano, come imperscrutabili forze della natura, le
capacita' comunicative della nostra Lebenswelt. È come se Horkheimer avesse
allora intuito che una tale vivificazione del pensiero di Marx da parte di
un giovane collaboratore potesse finire per mettere in luce il carattere
invece meramente retorico, privo di conseguenze pratiche del proprio modo di
richiamarsi a Marx. Come per autodifesa, per evitare di essere in tal modo
compromesso, ha quindi pregato Adorno nella sua lettera, ha insistito,
affinche' si lasciasse andare l'allievo appena acquisito.
Nella carriera e nell'azione del pensiero teoretico di Habermas questo
intervento non ha dato luogo ad alcuna interruzione; quando ormai non poteva
piu' sperare in alcun futuro presso l'Institut fuer Sozialforschung, egli ha
trovato subito un nuovo mentore nel marxista genuino Wolfgang Abendroth. Ma
le ragioni della giustizia storico-teorica impongono forse, in occasione
dell'ottantesimo compleanno del collaboratore di un tempo, di ricordare che
le cose andarono diversamente rispetto a cio' che ancora oggi alcune voci
non siano disposte ad ammettere.
*
Postilla. L'ultimo numero di "Reset" dedicato a Habermas
Il testo anticipato in queste pagine fa parte dell'ultimo numero della
rivista "Reset" dedicato interamente a Juergen Habermas e in libreria nei
prossimi giorni. L'articolo interviene nella piu' che ventennale discussione
sul'influenza di Marx nell'opera di Habermas. Per alcuni studiosi, l'autore
di Teoria dell'agire comunicativo e' un marxista mimetico, mentre per altri
la sua presa di distanza dal marxismo e' rintraccibile gia' negli scritti
degli anni Settanta. Piu' sfumata la posizione di Axel Honneth, che delinea
in questo scritto continuita' e discontinuita' della riflessione
habermasiana. Honneth e' docente all'Universita' di Francoforte. Tra i suoi
libri: Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento
(Meltemi), Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia
politico-filosofica (con Nancy Fraser, Meltemi), Il dolore
dell'indeterminato. Un'attualizzazione della filosofia politica di Hegel
(Manifestolibri), Critica del potere. La teoria della societa' in Adorno,
Foucault e Habermas (Dedalo).

3. LIBRI. GIORGIO NEBBIA PRESENTA "FURORE" DI JOHN STEINBECK
[Ringraziamo Giorgio Nebbia (per contatti: nebbia at quipo.it) per averci messo
a disposizione il seguente articolo dal titolo "Attenti al 'Furore' dei
poveri disperati" apparso su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 21 luglio
2009]

Esattamente settant'anni fa, nel 1939, appariva, come romanzo ecologico e
politico, Furore, dello scrittore americano John Steinbeck (premio Nobel
1962), immediatamente tradotto in Italia da Bompiani nel 1940; dal libro fu
tratto, nello stesso 1940, un celebre film di John Ford, interpretato, fra
l'altro, da un eccezionale Henry Fonda giovane.
Il romanzo e' ambientato negli anni Trenta del Novecento, comincia
nell'Oklahoma, uno degli stati agricoli degli Stati Uniti centrali; nei
molti decenni precedenti gli immigrati, sbarcando sulla costa atlantica del
Nord America, avevano cercato terre fertili spingendosi verso ovest, nel
selvaggio West, dove avevano trovato grandi praterie in delicato equilibrio
ecologico; la coltivazione a grano e mais ha trasformato il fragile terreno
dei pascoli in un suolo esposto all'erosione del vento e delle piogge e ben
presto le pianure si sono trasformate in una terra arida, in una "scodella
di polvere". Centinaia di migliaia di famiglie di contadini a poco a poco
hanno visto sfumare il povero reddito e, non potendo pagare i debiti e i
mutui alle banche, sono stati sfrattati e sono diventati, ancora una volta
emigranti.
Una di queste famiglie, quella di Tom Joad, giovani e anziani, decide di
caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a
ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti e di acque, e'
possibile trovare occupazione in agricoltura. Dopo un lungo terribile
viaggio la California, terra promessa, si rivela pero' subito ostile; ci
sono troppi immigrati, non c'e' lavoro per tutti e le paghe sono basse al
punto che e' in atto uno sciopero; i padroni, attraverso "caporali"
organizzati dalla criminalita', sono disposti ad assumere i nuovi arrivati
come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero,
poveri contro poveri.
Uno spiraglio e' offerto da un campo di accoglienza statale della
"Resettlement Administration", l'agenzia creata da F. D. Roosevelt
(1882-1945), divenuto presidente degli Stati Uniti nel marzo 1933, e
affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso
di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei
diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell'agenzia gli immigrati con
poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i
bambini; l'agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe
dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna
piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Naturalmente i
padroni degli operai in sciopero usano la criminalita' locale, con la
complicita' della polizia, per cercare di smantellare i campi di accoglienza
con la scusa che sono fonte di disordini.
Il libro finisce con una pagina di commovente solidarieta'; proprio quando
sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la piu' giovane dei Joad,
perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un
vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era
destinato al bambino morto.
Furore e' una parabola di quanto e' sotto i nostri occhi di questi tempi.
Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente,
crisi ambientali. Oggi la siccita' e le inondazioni spingono persone e
popoli dall'Africa e dall'Asia verso l'Europa, alla ricerca di condizioni
migliori di vita per se e per i propri figli. Anche da noi, come nella
California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch'essi, li
respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi:
"muoiono di fame perche' noi si possa mangiare", oggi come nel 1938 quando
Edith Lowry scrisse il suo celebre libro, lavorano in fabbriche inquinanti e
pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato
e alla criminalita'.
Come nella California dei Joad la nostra societa' assiste impassibile, anzi
con odio, ai viaggi disperati dalle terre d'origine all'Italia, lascia
marcire degli immigrati in rifugi in cui neanche i cani abiterebbero - ne
abbiamo avuto testimonianze anche in recenti servizi della televisione di
stato - e assiste indifferente al loro dolore: dolore per la lontananza dai
loro cari, per la difficolta' della lingua; solo poche strutture di
assistenza, spesso volontarie, li aiutano a superare i cavilli burocratici e
li aiutano a spedire i magri risparmi alle lontane famiglie. Con la promessa
di "sicurezza" per i bianchi padani e con una campagna di odio sobillata da
molta parte della stampa, l'attuale maggioranza parlamentare respinge gli
immigrati piu' indifesi, li rimanda alla loro miseria.
Eppure non siamo sempre stati cosi'. Dopo la Liberazione, negli anni
Cinquanta, il "Comitato amministrativo di soccorso ai senzatetto",
l'Unrra-Casas, col sostegno del "Movimento di Comunita'" di Adriano Olivetti
(1901-1960), assicuro' una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini
meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche
allora che un intervento statale di costruzione di alloggi e di assistenza
civile puo' alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della
speculazione, della illegalita' e della criminalita'.
San Paolo nella Lettera agli Ebrei (cap. 13) ricorda che "alcuni praticando
l'ospitalita' hanno accolto degli angeli senza saperlo". Centinaia di
migliaia di famiglie italiane hanno trovato nelle badanti straniere un
angelo che assiste gli anziani...
Ma Furore e' anche una parabola di speranza: che un giorno si possa avere
un'Italia governata da persone della statura politica e morale di Roosevelt
e di Tugwell, capace di praticare l'accoglienza e assicurare giusti salari e
dare decenti abitazioni agli immigrati che contribuiscono alla nostra
ricchezza, liberandoli dallo sfruttamento per miseri giacigli ad alto
prezzo. Se non lo si vuol fare per amore cristiano, lo si faccia almeno
ricordando che la paura di un popolo che non ha casa e non ha meta, genera,
come ha raccontato Steinbeck, furore.

4. RILETTURE. ROSSANA ROSSANDA: ANCHE PER ME
Rossana Rossanda, Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986,
Feltrinelli, Milano 1987, pp. 208. Forse la piu' bella - e commovente -
raccolta di articoli e saggi dell'autrice.

5. RILETTURE. ROSSANA ROSSANDA: LA RAGAZZA DEL SECOLO SCORSO
Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005, pp.
388. Una preziosa autobiografia di una delle nostre maestre maggiori (con le
cui posizioni sono piu' di trent'anni che chi stende queste note collutta,
sovente fin aspramente dissentendo, sovente tuttavia apprezzando, talora fin
ammirando).

6. RILETTURE. ROSSANA ROSSANDA: LE ALTRE
Rossana Rossanda, Le altre, Bompiani, Milano 1979, pp. 240. Una raccolta di
conversazioni radiofoniche a piu' voci su cruciali, ineludibili questioni,
aperta da un ampio saggio in forma di "redde rationem" con se stessa.

7. RILETTURE. ROSSANA ROSSANDA: NOTE A MARGINE
Rossana Rossanda, Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. X +
238. Una scelta degli articoli apparsi nella rubrica settimanale eponima sul
quotidiano "Il manifesto" tra 1994 e '95.

8. RILETTURE. ROSSANA ROSSANDA: UN VIAGGIO INUTILE
Rossana Rossanda, Un viaggio inutile, o della politica come educazione
sentimentale, Bompiani, Milano 1981, pp. 144. Dapprima apparse a puntate sul
"Manifesto" nell'estate del 1980 (e scritte una puntata al giorno, nei modi
e coi ritmi del lavoro giornalistico) queste memorie di una missione della
Rossanda nella Spagna franchista del 1962 per contattare clandestinamente
personalita' e gruppi antifascisti costituiscono una lettura ancora
formativa.

9. RILETTURE. MANUELA FRAIRE E ROSSANA ROSSANDA: LA PERDITA
Manuela Fraire e Rossana Rossanda, La perdita, Bollati Boringhieri, Torino
2008, pp. 82. Un colloquio primieramente apparso nella "Rivista di
psicologia analitica" nel 2004; in questo volume a cura di Lea Melandri che
vi aggiunge un'ampia postfazione.

10. RILETTURE. FILIPPO GENTILONI, ROSSANA ROSSANDA: LA VITA BREVE
Filippo Gentiloni, Rossana Rossanda, La vita breve. Morte, resurrezione,
immortalita', Pratiche, Parma 1996, pp. 96. Nato dalle conversazioni
promosse a Monte Giovi dai padri camaldolesi, ed in particolare dalla
riflessione dell'estate del 1992 su "morte, paura e dolore" e su "morte,
resurrezione, immortalita'", questo volume reca due testi per ciascuno dei
due autori; il secondo dei testi della Rossanda (che ne racconta nel primo
la genesi) e' scritto in forma narrativa come "favola".

11. RILETTURE. PIETRO INGRAO, ROSSANA ROSSANDA: APPUNTAMENTI DI FINE SECOLO
Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Appuntamenti di fine secolo,
Manifestolibri, Roma 1995, pp. 288. Una perspicua riflessione, che ancora
lumeggia rilevanti tratti della situazione presente. Con contributi di Marco
Revelli, Isidoro D. Mortellaro, K. S. Karol.

12. RILETTURE. AA. VV.: CLASSE, CONSIGLI, PARTITO
AA. VV., Classe, consigli, partito, Alfani, Roma 1974, pp. 224. Una raccolta
di testi precedentemente apparsi sul "Manifesto" rivista nel '69 e nel '70 e
su altre riviste ancora ("Problemi del socialismo", "Critica marxista", "New
Left Review") negli anni '60; con saggi di Lucio Magri, Filippo Maone,
Rossana Rossanda, e una intervista a Jean-Paul Sartre. Il saggio della
Rossanda, che introduce l'intervista a Sartre, e' il celebre - per noi ormai
vecchi barbogi che appassionatamente lo leggemmo allora - "Da Marx a Marx").

13. RILETTURE. AA. VV.: POTERE E OPPOSIZIONE NELLE SOCIETA'
POST-RIVOLUZIONARIE
AA. VV., Potere e opposizione nelle societa' post-rivoluzionarie. Una
discussione nella sinistra, Alfani, Roma 1978, pp. 304. Gli atti del
convegno che si svolse a Venezia dall'11 al 13 novembre 1977, in cui la
Rossanda tenne la fondamentale relazione e le conclusioni. Quel convegno fu
una straordinaria occasione di incontro, di riflessione comune e di concreta
solidarieta' con i dissidenti che da sinistra, e subendo terribili
persecuzioni, si battevano contro il totalitarismo nei paesi del cosiddetto
"socialismo reale".

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 227 del 2 agosto 2009

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