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Voci e volti della nonviolenza. 353
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 353
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 28 Jul 2009 10:45:58 +0200
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 353 del 28 luglio 2009 In questo numero: 1. Si e' svolto a Viterbo il 27 luglio 2009 un incontro di studio contro la guerra e contro il razzismo 2. Giampaolo Calchi Novati presenta "Il turbante e la corona" di Alberto Negri 3. Stefano Catucci presenta "Classe" di Andrea Cavalletti 4. Vanni Codeluppi presenta alcuni recenti saggi sulla televisione 5. Franca D'Agostini presenta "Addio alla verita'" di Gianni Vattimo 6. Stefano Garzonio presenta "Ottanta poesie" di Osip Mandel'stam 7. Riedizioni: Donya al-Nahi, Nessuno avra' i miei figli 8. Riedizioni: Xinran, La meta' dimenticata 1. INCONTRI. SI E' SVOLTO A VITERBO IL 27 LUGLIO 2009 UN INCONTRO DI STUDIO CONTRO LA GUERRA E CONTRO IL RAZZISMO Presso la sede del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo si e' svolto il 27 luglio 2009 un incontro di studio contro la guerra e contro il razzismo. Nel corso dell'incontro si e' espressa ed argomentata una netta opposizione alla guerra, e si e' formulata la richiesta che l'Italia cessi immediatamente di partecipare alla guerra afgana, partecipazione illegale alla luce dell'art. 11 della Costituzione della Repubblica Italiana. Si e' poi esaminato il cosiddetto "pacchetto sicurezza" e si e' espressa ed argomentata una netta opposizione alle misure razziste e squadriste che esso contiene, e si e' formulata la richiesta al Parlamento di riesaminare quelle misure anticostituzionali ed antigiuridiche e cassarle immediatamente, anche alla luce delle considerazioni contenute nella lettera del Presidente della Repubblica del 15 luglio 2009. 2. LIBRI. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI PRESENTA "IL TURBANTE E LA CORONA" DI ALBERTO NEGRI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 luglio 2009 col titolo "Iran, una modernita' conquistata a fatica" e il sottotitolo "Saggi. Un 'paese difficile' nella lettura di Alberto Negri"] Alberto Negri, Il turbante e la corona, Tropea, pp. 288, euro 16,90. * Ricostruendo la storia dell'ultimo secolo emerge con estrema chiarezza l'importanza della posta al fondo del rapporto fra Iran e Stati Uniti. L'Iran non e' stato colonizzato e il suo ingresso nella modernita' e' avvenuto seguendo un percorso che assomiglia a quello conosciuto dalla Turchia: a un certo punto, scaduti i mezzi di cui si era sempre servita l'Inghilterra per condizionare l'impero e divenuti antagonistici i rapporti con la Russia, la scena e' stata occupata dall'America. Un incontro fervido, con molte contraddizioni ma con grandi opportunita' per l'una parte e per l'altra, non una dominazione e una soggezione. L'epitome di quella reciprocita', e la rivelazione dei rischi che vi erano sottesi, fu la decisione di Carter di recarsi a Teheran per festeggiare con Reza Pahlevi il Capodanno del 1978. A furia di insistere con lo scia', impegnato in un programma di modernizzazione, perche' accelerasse le riforme, il presidente dei diritti umani aveva messo in difficolta' il regime minacciando cosi' gli interessi americani. C'era bisogno di un gesto a effetto per uscire dall'impasse. Ma il brindisi di quella notte fatale assesto' l'ultima "martellata" alla gia' traballante legittimita' della monarchia. La "sindrome americana" non finisce qui. Nel novembre 1979, a circa due anni dal giorno in cui Carter aveva definito l'Iran "un'isola di stabilita'", la rivoluzione islamica subi' una sterzata con l'occupazione dell'ambasciata degli Stati Uniti a Teheran. Per Negri, nel suo Il turbante e la corona, fu quella la vera svolta. Lo strappo era stato provocato da un altro gesto compiuto da Carter nei riguardi dello scia', questa volta quasi postumo perche' Reza Pahlevi, molto malato, aveva lasciato l'Iran per sempre. Fino ad allora la traiettoria della rivoluzione pareva in grado di contemperare le diverse istanze che l'avevano ispirata. L'ospitalita' concessa dall'America allo scia' per curarsi scateno' gli estremisti. Sulle prime, la bravata degli studenti non era piaciuta a Khomeini: voleva prenderli a calci e rimandarli a casa. Si convinse quando vide che le masse si muovevano, e non si lascio' sfuggire l'occasione. Il risultato fu la caduta del governo semi-liberale che si era insediato alla partenza dello scia', l'isolamento internazionale e l'avvio della deriva autoritaria che avrebbe divorato via via in un crescendo delirante gli stessi figli della rivoluzione. E' un destino che in Iran tutte le trasformazioni siano segnate da una drammatica sequenza di massacri. Il disastro iraniano costo' la rielezione a Carter. Adesso, passati Reagan, Clinton e i Bush, tocca a Obama. L'Europa ha qualche carta da giocare ma e' poco probabile che sia Frattini o lo stesso Sarkozy l'uomo determinante. L'Iran guarda all'America per essere investito in forma debita delle sue funzioni di superpotenza del Golfo. L'America fa i conti con le due guerre che George W. ha intentato per domare i due paesi che circondano l'Iran e che l'Iran - senza dimenticare il Libano e la Siria - vuole inserire nella sua sfera d'influenza. Paradossalmente quelle guerre gli hanno spianato la strada. Per l'America il rapporto con l'Iran conserva piu' che mai un valore prioritario. Contraddicendo l'ex inquilino della Casa Bianca e il governo israeliano, la soluzione militare non e' la prima scelta di Obama e l'Iran potrebbe esserne consapevole. Che gli Stati Uniti siano l'interlocutore privilegiato dell'Iran lo ha dimostrato anche l'erratico Ahmadinejad, il primo presidente laico dai tempi di Bani Sadr, che ha detto di non considerare gli Usa un nemico ma ha chiesto al governo americano di fare ammenda pubblica delle colpe del passato. L'intreccio tra la dimensione regionale e quella internazionale e' uno dei tanti filoni del libro di Alberto Negri, un libro giornalistico per la sua impostazione ma che trascende il giornalismo nella sua capacita' di scavare in profondita'. Il suo obiettivo e' di svelare l'essenza della societa' che ha portato alla rivoluzione islamica e che la rivoluzione islamica ha rimodellato. Nessun giudizio semplificato su una realta' in cui le durezze e gli abusi del regime convivono con la ricchezza dei giovani, delle donne, di un'elite tecnica e intellettuale di alto profilo. Sarebbe troppo facile dire che per capire l'Iran di oggi basta leggere il libro di Negri, ma l'informazione e l'analisi del saggio rivelano una grande complessita', che non e' un alibi per lasciare tutto in sospeso ma la capacita' di mettere a fuoco i diversi strati in cui si muovono le forze della conservazione e del cambiamento (e Negri e' bravo a scomporre i piani). Alla fine passa un messaggio che non e' tenuto sempre presente nel discorso sull'Iran. Il petrolio pesa piu' dell'islam. La rendita petrolifera, con le sue implicazioni sull'ordine economico e sociale, ostacola (se non addirittura impedisce) una riforma democratica dell'islam tradizionale. Una posizione che Negri attribuisce a uno dei tanti iraniani con cui si confronta in questo suo attraversamento dei tempi e dei luoghi. E' cosi' che i riformisti hanno deluso. Khatami, presidente per due termini, si comportava da capo dell'opposizione piu' che da capo dello Stato in carica. Il potere prevale sulle richieste del popolo e le elezioni appartengono a una sfera che non scalfisce la volonta' del leader supremo. 3. LIBRI. STEFANO CATUCCI PRESENTA "CLASSE" DI ANDREA CAVALLETTI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 luglio 2009 col titolo "Una genealogia del concetto di classe" e il sottotitolo "Saggi. Per Bollati Boringhieri un libro di Andrea Cavalletti] Andrea Cavalletti, Classe, Bollati Boringhieri, pp. 159, euro 9. * Nel confronto con realta' come la folla, la massa, il popolo, la moltitudine, il concetto di classe emerge come segnale di un'entita' distinta, non descrivibile con il linguaggio della quantita' ne' riducibile solo a un soggetto collettivo dotato di una propria identita' biologica e psicologica. Lo aveva scritto con chiarezza Lukacs nel suo fondamentale Storia e coscienza di classe (1923): "la coscienza di classe non e' la coscienza psicologica dei singoli proletari oppure la coscienza della loro totalita' (intesa in termini di psicologica di massa), ma il senso divenuto cosciente della situazione storica della classe stessa". Walter Benjamin, che riprende il testo di Lukacs ma se ne distacca in alcuni snodi decisivi, individua dal canto suo quel che trasforma la compattezza biologica e psicologica della folla e della massa nell'unita' politica della classe: la solidarieta', principio che non rinvia al livello dei buoni sentimenti ma che struttura il dinamismo di un processo nel quale il monolite della massa si differenzia, i suoi vincoli "naturali" si allentano, e viene meno dialetticamente la contrapposizione fra l'individuo e la folla. Oggi che proprio l'idea di classe sembra storicamente tramontata, in misura direttamente proporzionale al venir meno di interessi collettivi capaci di trasformarsi in coscienza politica, un bel libro di Andrea Cavalletti, Classe, prova a ricostruirne la genealogia e a rintracciarne le persistenze nel presente, spesso nascoste sotto un modello di aggregazione che ricalca precisamente gli schemi della biologia e della psicologia: piu' o meno quello che Foucault riuniva nella parola "biopolitica". L'esempio di Benjamin e' il motivo che organizza anche da un punto di vista metodologico un volume apparentemente dispersivo, che alterna analisi sulla sociologia, la psicologia, le scienze sociali in genere e la teoria politica nel passaggio tra Otto e Novecento, con riferimenti che non trascurano ne' Marx ne' Canetti e con momenti di riflessione su una figurazione di tipo letterario che allinea nomi come quelli di Robert Stevenson, Jules Verne o Raymond Chandler. Cavalletti ricapitola per un verso alcune sue ricerche precedenti, come quelle sulla nascita e lo sviluppo dell'urbanistica o sulla forma dell'esperienza dei campi di concentramento. Per un altro spinge in avanti il senso della ricostruzione genealogica fino a gettare una luce sull'attualita': per esempio sul rapporto fra massa e leader, o sulla progressiva biologizzazione del politico. Il capo che si erge a guida della folla, si legge per esempio con riferimento a un libro di Emil Federer (1940), "non viene propriamente scelto, non supera alcun processo di prova" ma "diviene inaspettatamente il polo di una cristallizzazione", non esprime una inesistente "anima collettiva", ma funge da frangiflutti nei confronti del panico che agita la massa ed e', in questo senso, un semplice "funzionario" di coloro che guida, secondo l'espressione di Hannah Arendt: in fondo, chi guida e' anche guidato, come avrebbe osservato Georg Simmel. Da questo breve excursus sulla figura del leader si nota lo spirito benjaminano del collage che innerva la forma del libro: l'accostamento di autori diversi, provenienti da epoche anche lontane fra loro, ma riuniti dalla volonta' di riflettere su un fenomeno di lunga durata, la cui estensione storica coincide con quella della contemporaneita', produce aperture inaspettate e permette di comprendere come proprio l'espansione di quello strato sociale cui ne' Benjamin ne' Lukacs attribuivano lo statuto di una classe, la piccola borghesia, abbia provocato l'irrigidimento della folla e il suo compattamento in una collettivita' che non propone alcunche' di politico, ma reagisce emotivamente al delinearsi di scenari terrorizzanti. Occorre pero' soffermarsi sui passi che Cavalletti dedica alle forme attuali del "metalavoro", un lavoro prestato nel tentativo di procurarsi un lavoro, al volontariato, alla conseguente confusione tra i ruoli dell'occupato e del disoccupato, per vedere come un'idea di classe continui ad agitarsi al fondo delle strutture sociali senza piu' avere, pero', la nitida riconoscibilita' di quando poteva essere identificata con il proletariato dell'industria, e come tale poteva essere anche sindacalizzata. Bisogna allora pensare la classe come una variabile, e non come un apparato rigidamente codificato, seguendo in questo un'intuizione di Deleuze e Guattari che compare nel libro al modo di un Leitmotiv: "sotto la riproduzione delle masse c'e' sempre la carta variabile della classe". Ed e' appunto questa variabilita' che la ricostruzione genealogica di Cavalletti ci invita a riconoscere e a ripensare in un libro eminentemente politico. 4. LIBRI. VANNI CODELUPPI PRESENTA ALCUNI RECENTI SAGGI SULLA TELEVISIONE [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 luglio 2009 col titolo "Schermi globali" e il sommario "Diversi saggi recenti usciti in Italia e in Francia provano a indagare quale sara', se ci sara', il futuro della televisione al tempo di Internet. E ipotizzano per il cinema una rinnovata centralita'"] Sono in molti oggi a chiedersi se la televisione sia sul punto di morire. In effetti, il suo apparecchio di trasmissione - il televisore - si e' progressivamente ridotto e tra qualche anno sara' niente di piu' che una sottile membrana applicabile ovunque. Ma e' soprattutto nei contenuti trasmessi che sembra essersi sempre piu' indebolita l'identita' della televisione e la sua capacita' di influenza sulla societa'. Sembra cioe' che si siano perse quelle originali caratteristiche che facevano della televisione un mezzo di comunicazione unico nel panorama mediatico. Al momento attuale e' difficile dire se effettivamente la televisione stia morendo, ma alcuni volumi usciti di recente offrono strumenti utili per riflettere sul radicale processo di cambiamento in corso per il mezzo televisivo. * Tra cornice e flusso Nel saggio La fine della televisione (Lupetti - Editori di Comunicazione, pp. 111, euro 13) Jean-Louis Missika ha raccontato con chiarezza che cosa e' accaduto nella recente storia della tv. All'inizio degli anni Ottanta, scrive Missika, ha cominciato a svilupparsi quello che Umberto Eco ha descritto come il passaggio dalla "Paleotelevisione" alla "Neotelevisione", cioe' il passaggio a una nuova fase nella quale la televisione, parlando sempre meno del mondo esterno e sempre piu' di se' e del suo rapporto con il pubblico, tende a inglobare lo spettatore. In sostanza, dunque, la Neotelevisione si disinteressa della qualita' dei programmi trasmessi perche' a contare e' soprattutto la sua capacita' di costruire relazioni sociali. Ne consegue che anche la struttura dei singoli programmi si disgrega e la televisione si trasforma in un enorme flusso senza inizio ne' fine. A dire il vero, la comunicazione di flusso rappresenta una specifica caratteristica dei media elettronici. In precedenza infatti i messaggi erano definiti da precisi confini: giornali e manifesti, ad esempio, proponevano una fruizione concentrata e dotata di limiti temporali. Il modello dominante insomma era quello della fruizione dell'opera d'arte collocata all'interno di un'apposita cornice. I media elettronici - prima la radio, poi la televisione e soprattutto Internet - hanno invece introdotto e progressivamente sviluppato un modello di comunicazione basato sul flusso. Un modello, cioe', che prevede una comunicazione attiva senza interruzioni e alla quale l'individuo ha la possibilita' di accedere in qualsiasi momento. La televisione della prima fase - la Paleotelevisione - era ancora in grado di conservare nei suoi programmi una parvenza di struttura, successivamente disgregata dalla Neotelevisione. Pochi anni dopo la comparsa della Neotelevisione, il 17 aprile 1989, a Rai 3 e' nato anche Blob, programma di montaggio di immagini provenienti da trasmissioni televisive gia' trasmesse, che incarnava in maniera esemplare il nuovo modello neotelevisivo. Mostrava infatti chiaramente che parlare di se' era divenuto l'obiettivo primario della tv e intensificava inoltre quella tendenza verso una comunicazione di flusso che e' propria del mezzo televisivo. Blob, pero', pur essendo una trasmissione figlia della Neotelevisione, rappresentava anche un esperimento d'avanguardia, poiche' cercava, portando all'estremo le caratteristiche della Neotelevisione, di modificarne la logica. Come ha sostenuto Pier Aldo Rovatti, nel numero monografico dedicato alla televisione dalla rivista "Aut Aut" (n. 336, ottobre-dicembre 2007), il motore principale del linguaggio di Blob e' sempre stato la ricerca di contrasti tra le immagini: "Il gioco molteplice dei contrasti e' la molla inventiva che mette in vibrazione ogni sequenza dandole una dimensionalita' composita, mai riducibile al semplice dato (a una immagine semplice, unidimensionale)". Questo, nell'interpretazione di Rovatti, consente a Blob di produrre una "distanza", di stabilire cioe' una separazione rispetto al flusso invasivo delle immagini, che tende soltanto a produrre prossimita' e vicinanza. Per ottenere questo risultato Blob accetta la logica del palinsesto, ma si manifesta al suo interno "producendovi cesure e disturbi". Proprio questo pero' fa di Blob un programma dalla natura strutturalmente ambigua, a un tempo interna ed esterna alla logica televisiva. Non e' un caso che Blob possa essere considerato anche un programma morale perche', attraverso i collegamenti logici che stabilisce tra i contenuti dei programmi, tende a ricostruire un proprio ordine nel disordine del flusso televisivo. Nessuna meraviglia allora se da qualche tempo Blob ha visto ridimensionarsi il suo ruolo. Da che cosa deriva questo fatto? Dalla politica che ha voluto censurarlo? In parte, ma soprattutto dalla "blobbizzazione" della televisione, che negli ultimi anni ha man mano ridotto le differenze tra Blob e il normale flusso televisivo. * Onnipresenti telecamere Se le differenze tra Blob e la televisione si sono ridotte, pero', e' anche perche' negli ultimi anni e' comparsa sulla scena sociale Internet. La televisione ha dovuto adeguarsi alla concorrenza esercitata dalla Rete ed e' entrata nella fase della Transtelevisione, una fase nella quale la televisione tende a caratterizzarsi anch'essa per una diffusione "reticolare" nella societa', con il risultato di produrre un effetto "anestetico". Non solo infatti gli schermi si diffondono ovunque, ma si moltiplicano le telecamere che inquadrano quanto essi trasmettono. E' come se tutta la realta' sociale fosse entrata dentro gli schermi appunto perche' inquadrabile dalle telecamere. E la televisione non si presenta soltanto come reale, come reality tv, ma e' la "vera realta'". Non ci puo' essere una dimensione differente: la realta' e' quella che gia' esiste e basta inquadrarla con l'obiettivo di una telecamera per vederla. Cio' avviene perche' la televisione non si limita oggi a creare nuove forme espressive o a trasformare in flusso i suoi contenuti, ma assume un'identità autonoma. Da' vita cioe' a un mondo che sembra vivo e continuamente a portata di mano. Ed e' questa sensazione di prossimita' del mondo televisivo a coinvolgere gli spettatori in profondita'. Ne deriva che gli individui vengono influenzati per quanto riguarda la loro capacita' di attribuire un senso alle relazioni sociali e all'intera realta' che li circonda. Insomma, nonostante l'arrivo della Rete e di nuovi modelli televisivi che sottraggono spazio alla tradizionale tv analogica (digitale satellitare, digitale terrestre, con protocollo Internet, mobile tv e via dicendo), la televisione continua attivamente a operare. Anzi, ancora oggi puo' essere considerata il piu' importante strumento in grado di dettare agli attori sociali i ritmi e i temi primari della vita collettiva. Negli ultimi anni l'invadente retorica sui new media ha in parte oscurato questo fondamentale ruolo sociale esercitato dalla televisione. Ma e' necessario chiedersi se ha senso continuare a impiegare oggi l'espressione "nuovi media". Nel volume Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali (Liguori, pp. 257, euro 19) Davide Borrelli ha giustamente proposto di prendere congedo da tale espressione, in quanto si tratta di "una specie di termine ombrello dai contorni semantici ormai sempre piu' indeterminati e generici, usato spesso con obiettivi e punti di vista diversi e per definire fenomeni e oggetti alquanto eterogenei se non contrastanti". I media procedono da sempre per integrazione progressiva. Procedono cioe' sovrapponendosi l'uno con l'altro e spesso ibridandosi tra loro. Cosi', i vecchi media non sono scomparsi. Di fronte al sopraggiungere di tecnologie innovative, hanno semplicemente ridimensionato il loro ruolo e inglobato parte dei loro contenuti e delle loro capacita' comunicative all'interno di tali tecnologie. E questo sta accadendo anche alla Neotelevisione. * L'industria del gossip Sembrerebbe che, nonostante l'attuale moltiplicazione di schermi, non sia cambiato molto rispetto al rapporto tra spettatore e schermo che vigeva all'epoca del cinema delle origini. E' questa d'altronde la tesi sostenuta da Gilles Lipovetsky e Jean Serroy in L'ecran global. Culture-medias et cinema a' l'age hypermoderne (Seuil, pp. 366, euro 22). Per Lipovetsky e Serroy, infatti, e' stato il cinema a creare il concetto di schermo, facendo apparire per la prima volta un grande spazio luminoso rettangolare al cui interno magicamente si manifesta la vita riprodotta. Oggi quello del cinema e' pero' solo uno dei tanti schermi della enorme "schermosfera" in cui viviamo. Ma se il cinema ha progressivamente ridotto la sua centralita', questo non comporta che si sia indebolito dal punto di vista della capacita' di esercitare un'influenza culturale. Anzi, la tesi di Lipovetsky e Serroy e' che tale capacita' nel tempo si sia rafforzata: proprio la perdita di egemonia sul piano istituzionale ha consentito al cinema di diventare piu' flessibile, diffondendo il proprio modello agli altri schermi e all'intero immaginario culturale, addirittura imponendo agli individui di guardare la realta' sociale come se fossero davanti allo schermo del cinema. Ma in cosa consiste per Lipovetsky e Serroy questa "cinematografizzazione del mondo"? Innanzitutto, i contenuti di tutti gli schermi sono sempre piu' spesso forniti dal cinema, che, lungi dallo scomparire, appare oggi piu' che mai vitale e capace di rinnovarsi in continuazione: le varie forme espressive (dai telefilm agli spot pubblicitari, dai videoclip ai videogiochi) tendono del resto in misura crescente a riprodurre il modello narrativo del cinema, seppure semplificandolo e accorciandolo. Infine, il cinema oggi diffonde sempre piu' nei media e nell'intera societa' il suo modello estetico, basato sulla spettacolarizzazione, sullo star system e sull'industria del gossip. Sono pero' anche le infinite forme di riproduzione delle esperienze quotidiane consentite dalle nuove tecnologie comunicative ad adottare il modello del cinema. Seguendo l'esempio fornito alle origini dai fratelli Lumiere, la vita umana si ritrova infatti ad essere sempre piu' spesso sotto l'occhio dell'obiettivo. E addirittura il suo valore sociale dipende dall'esistenza di tale riproduzione basata sul modello cinematografico. Strettamente connaturato all'idea di movimento prodotto attraverso uno strumento meccanico, il cinema e' nato come arte della modernita'. Ma sin dall'inizio si e' presentato anche come fascinazione, perche' dotato della magia suscitata dalle immagini in movimento sullo schermo - quella magia che gli consente oggi di essere ipermoderno e di rimanere in sintonia con le nuove tecnologie della comunicazione. Se la tesi di Lipovetsky e Serroy fosse vera, allora l'avvento della Transtelevisione non comporterebbe la scomparsa (da molti temuta) del ruolo svolto sinora dalla televisione come medium di massa in grado di tenere unita la societa' e di consentire quindi lo sviluppo di quel dibattito plurale che sta alla base della vita democratica. Infatti il cinema potrebbe essere un collante capace di attribuire carattere collettivo ai molti e differenti volti assunti dalla Transtelevisione. Ridimensionato come momento di spettacolo con una partecipazione di massa, il cinema potrebbe cioe' continuare a svolgere un ruolo ecumenico collegando attraverso le sue immagini e i suoi contenuti gli infiniti schermi di oggi. 5. LIBRI. FRANCA D'AGOSTINI PRESENTA "ADDIO ALLA VERITA'" DI GIANNI VATTIMO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 luglio 2009 col titolo "La rischiosa impresa di congedarsi dal vero" e il sommario "Saggi. Un pluralismo senza fatti nell'ultimo libro di Vattimo] Gianni Vattimo, Addio alla verita', Meltemi, pp. 143, euro 13. * Un possibile enigma e' perche' il premier di un paese democratico possa rifiutarsi di rispondere alle domande che gli vengono poste da un quotidiano nazionale, ripetutamente, per mesi. Un altro possibile enigma e' perche' lo stesso premier possa fornire, di fronte agli occhi e alle orecchie di tutti, versioni contraddittorie (una delle quali dunque evidentemente falsa) su uno stesso punto. Il vero enigma e': perche' mai la verita' conta cosi' poco? Ma, e' bene notarlo, e' un enigma che ha una risposta abbastanza facile: perche' c'e' troppa mezzaverita' in giro. La mezzaverita' e' quel parziale vero che sta annidato nei discorsi falsi, e che rende irrilevante il vero e il falso. La mezzaverita' e' l'uso del vero per produrre il falso inapparente. Nel suo recente lavoro, Addio alla verita', Gianni Vattimo sostiene che non c'e' piu' verita' nel mondo mediatizzato in cui ci troviamo a vivere, e che chi difenda o pretenda di difendere la verita' e' un dogmatico (qualcuno che vuole imporre la sua verita'), o un ipocrita (qualcuno che sbandiera come vero cio' che non e' vero affatto, e che sa benissimo non essere tale). Non sono d'accordo ne' sulla prima tesi, che (cosi' formulata) e' una versione della vecchia diagnosi situazionista (i media come impostura generalizzata), ne' sulla seconda. Non sono d'accordo, anche se evidentemente c'e' in quel che Vattimo dice qualche buona ragione, che il libro si preoccupa di specificare, combinando Heidegger e Popper, Rorty, Schuermann e Gadamer. Diro' subito che la mia parziale condivisione comporterebbe una modifica radicale del titolo. A mio avviso, infatti, Vattimo avrebbe dovuto scrivere piuttosto Addio alla mezza verita', e con cio' avrebbe evitato una serie di equivoci e sarebbe stato piu' fedele alle sue stesse intenzioni. La prima tesi e' largamente condivisa. Ne troviamo traccia un po' ovunque, dalle tesi del sociologo Zygmunt Bauman sulla natura liquida e pertanto inafferrabile dell'identita' nel mondo ultramediatizzato, al piu' recente film di Jim Jarmush, The Limits of Control, i cui personaggi vanno in giro ripetendo le formule nichiliste: "non c'e' realta'", "tutto e' immaginato". In realta' e' vero che l'operare dei media e' falsificante, e' vero che il cosiddetto spinning, il voltare il vero in falso e viceversa, e' una procedura comune nel dibattito pubblico, ma se questo e' vero, come sappiamo che lo e'? Come mai il potere falsificante dei media non arriva fino al punto di nascondere la propria stessa evidenza? Allo stesso modo, Vattimo ha trovato il vero: che non c'e' verita', che la verita' e' finita. Ma se questo e' vero, non si vede per quali speciali ragioni possa esserlo, visto che non c'e' verita'. Insomma, se vogliamo-dobbiamo dire addio alla verita' deve pur essere vero che dobbiamo-vogliamo farlo, cosi' non si scappa: quando prendiamo congedo dalla verita' ce la ritroviamo davanti. Questo e' un vecchio argomento, ma non bisogna sottovalutarlo, perche' ci ricorda qialcosa che Nietzsche e Heidegger volevano dimenticare: che parole come verita', identita', realta' sono parole speciali, fragili e ubique nello stesso tempo: potrebbero non esserci ne' esserci mai state, spesso sembra che non abbiano alcun senso, ma una volta pensate e pronunciate e' impossibile sbarazzarsene. Invece ecco una proposta per la revisione della prima tesi: se c'e' un problema con la verita' i media non c'entrano affatto, o meglio determinano forse l'intensita' e la vastita' del problema, non la sua natura. In Grecia non c'erano i mass media, e tuttavia c'era gia' il nichilismo come deriva della democrazia. Inoltre, oggi come nell'antica Grecia, la verita' fa problema non perche' non c'e', ma perche' ce n'e' troppa. E' l'eccesso di verita' e non la sua scarsezza a ispirare il nichilista, da sempre, dal giorno stesso in cui la parola verita' e' stata inventata. La situazione per noi non e' molto diversa, salvo che e' piu' evidente: basta considerare il piu' vasto serbatoio di informazioni vere quasivere quasifalse mezzefalse false e falsissime di cui disponiamo, e che e' Internet. Quanto alla seconda tesi, l'obiezione naturale e' che se diciamo addio alla verita' allora tutte le volte che siamo di fronte a un falso palese dovremmo vietarci di denunciarlo, e accettarlo come vero: se qualcuno vuol farci salire su un aereo dopo aver falsificato le quote di rischio dovremmo comunque partire e precipitare; se una casa farmaceutica nasconde gli effetti collaterali di un farmaco dovremmo morire senza un fiato. "Verita'" infatti non e' soltanto o propriamente la sigla dell'"organizzazione totale", come Vattimo ripete, ma anche una potente arma scettica, nelle mani della critica. Eppure, molte delle cose che Vattimo dice nel libro portano verso tutt'altre conclusioni, che lui stesso non trae esplicitamente, perche' troppo legato a Nietzsche, a Heidegger, soprattutto a Rorty, che con le migliori intenzioni e' stato un grande equivocatore del concetto di verita'. C'e' in particolare un'interessante idea di fondo, difesa in molti luoghi del libro. Il problema e' che quando parliamo diciamo spesso, se non per lo piu', verita' incomplete e i furbi funzionari della falsita' istituita si accampano nel margine di quel che non viene detto per generare il mezzovero spacciato per vero. Provate a guardare da vicino un sistematico falsificatore. Vi accorgerete che bizzarramente, non dice mai il falso, ma sempre e sistematicamente mezziveri. Lavora anzi con il vero parziale per costruire globali, formidabili, oltreche' intoccabili, falsita'. La filosofia e la teoria dell'argomentazione sanno tutto delle procedure di combinazione del vero lacunoso e incompleto per produrre l'effetto-falso. L'analisi di Vattimo si muove a partire da queste consapevolezze e suggerisce la cautela fondamentale: in molti casi, e specie nella sfera pubblica, state attenti perche' quel che appare e vi sembra vero e' un mezzovero, che vi sta nascondendo qualcosa, e il qualcosa che vi nasconde e' la parte piu' importante. Naturalmente, tutto questo non e' affatto un addio alla verita', ma l'inizio di una teoria della verita', che viene sviluppata nel libro con componenti coerentiste e scettiche (nichilistiche), una base heideggeriana (la verita' come apertura), e uno sbocco cristiano-pragmatistico (il vero e' l'opportuno, e cio' che e' sommamente opportuno e' la carita'). Ma perche' mai allora Addio alla verita'? Ci troviamo di fronte a quel che in retorica si chiama antifrasi: cio' che il libro contiene e' l'opposto di quel che il titolo dichiara. 6. LIBRI. STEFANO GARZONIO PRESENTA "OTTANTA POESIE" DI OSIP MANDEL'STAM [Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 luglio 2009 col titolo "Mandel'stam, dettagli intarsiati di segni" e il sottotitolo "Ottanta liriche tradotte da Remo Faccani"] Osip Mandel'stam, Ottanta poesie, a cura di Remo Faccani, Einaudi, pp. 277, euro 15,50. * Mandel'stam e' poeta "difficile". La sua lirica si costruisce sulla trama delle reminiscenze e sulla compresenza di molteplici maschere autoriali, su un rapporto "estremamente fluido" tra le je de la chanson e le moi du poete (per dirla con Zumthor), rapporto che tragicamente si complica negli ultimi versi, specie quelli dell'esilio, frutto della sensibilissima memoria poetica dell'autore. Al piano letterario si combina la rete di rimandi biografici e spirituali, la congerie dei dettagli della quotidianita', la trama delle emozioni. Il verso di Mandel'stam, elastico e pregnante, unico nella sua laconica varieta', dopo una sofferta ricerca della compiutezza espressiva, raggiunge la sua incarnazione in un ideale, unico "libro poetico". Scorrendo i suoi testi si rimane affascinati dalla varieta' dei legami infratestuali e intertestuali, dall'insistenza di reconditi cenni autobiografici. Ne e' derivata una tradizione interpretativa, le cui lezioni risultano talvolta vere e proprie prove di funambolismo esegetico. Questo si riferisce tanto ai primi versi ancora legati al simbolismo, quanto alla stagione acmeista, da Kamen' a Tristia, fino ai nuovi versi apparsi agli inizi degli anni '30, dopo un lungo silenzio, e che trovano definitiva realizzazione nel frammentario e poderoso affresco dei Quaderni di Voronezh. A tutte e tre queste stagioni si volge con una ricca e variegata cernita Remo Faccani nella sua nuova antologia mandel'stamiana che segue una precedente silloge di cinquanta poesie (Einaudi 1998). Una scelta per certi versi impervia che si scontra con la difficolta' di dover render comunque conto di molti dei testi esclusi che vivono e si rifrangono in quelli tradotti. Faccani opera su due piani, quello della resa verbale in italiano e quello del commento esplicativo e della disamina dei collegamenti ipostestuali, un commento che, fondato sulle note di Nadezhda Mandel'stam e di tanti studiosi, da Omry Ronen a Michail Gasparov, svolge il ruolo di trasposizione culturale, di esplicitazione delle numerose stratificazioni semantiche e culturali proprie del linguaggio poetico mandel'stamiano. Particolare attenzione e' rivolta da Faccani, che apre la silloge con una fine introduzione e un'esaustiva presentazione bio-bibliografica, alla resa metrico-ritmica degli originali mandel'stamiani, alla ricerca di consonanze ed equivalenze nella poesia italiana, sia quella antica, anche per la frequentazione che ebbe della nostra letteratura Mandel'stam (si pensi al suo Conversazione su Dante del 1933), sia quella moderna, anche per gli evidenti richiami alla coeva poesia europea. Nella traduzione, che Faccani definisce "sperimentale" in quanto "vorrebbe anche presentarsi come un tentativo di ricreare, reinventare in italiano, per quanto e' possibile, la forma del testo russo", troviamo molteplici riferimenti legati all'intero arco della metrica italiana, dalla rima pseudosiciliana al verso martelliano, a singoli modelli di Dante, Leopardi, Pavese, Montale... Certo in alcuni casi il lettore potra' essere indirizzato verso reminiscenze metriche e testuali difficilmente riscontrabili nell'originale e che si sono materializzate piuttosto nella sensibilita' poetica del traduttore. Rimarra' comunque affascinato dalla complicita' poetica adottata da Faccani nella sua traduzione-riscrittura. Sul piano sintagmatico la resa e' pienamente condivisibile, anche se talvolta si dissolve la lapidaria intransigenza dell'originale; sul piano paradigmatico le annotazioni riescono quasi sempre a seguire l'organicita' del messaggio di Mandel'stam che si costruisce sull'indivisibilita' del ciclo testuale e sull'irrinunciabile individualita' del libro poetico ricercata dal poeta con sofferenza, come mostrano le continue modifiche apportate alla composizione dei suoi libri poetici. La complicita', quasi coautorialita' del traduttore, si manifesta nella circolarita' compositiva della raccolta. La prima breve lirica e' un frammento che sembra riproporre con il fragore del cadere di un frutto il quadro di uno stagno di un haiku del poeta giapponese Basho, la poesia di chiusura, Io mi porto questo verde alle labbra, si realizza con una analoga quartina che riecheggia le voci delle rane in uno stagno i cui vapori paiono mutarsi nella via lattea. Tra questi due quadri impersonali, in un coerente itinerario interpretativo, si snoda l'esperienza lirica di Mandel'stam nella ricezione di Faccani. Il lettore vi trovera' i primi esempi, testimonianza della nascita della voce del poeta e dell'universo, e poi tutta la fase di concreto approccio alla parola come oggetto, strumento, per l'edificazione quasi architettonica del testo poetico. La scelta proposta da Faccani comprende la maggior parte dei versi filosofeggianti, molti dei testi di chiara ispirazione classica, quelli del "ciclo greco", legati alla mitopoietica ricezione dei segni del mondo antico nella morente Pietroburgo e nella Tauride, terra dell'esilio. I grandi sconvolgimenti, la guerra mondiale, le rivoluzioni, la guerra civile, costituiscono lo sfondo di questo affresco che caratterizza l'esperienza creativa del Mandel'stam acmeista nelle varie redazioni di Pietra e poi nella struggente nostalgia universale di Tristia. Profondamente estraneo alla nuova realta' sovietica, Mandel'stam raccolse tra tante difficolta' i suoi testi poetici in una raccolta, Poesie, del 1928. Poi seguirono i tentativi dei Nuovi versi fino alle fatidiche strofe contro Stalin che nel 1934 ne segnarono il destino (curioso che Faccani nella traduzione del brano riferito a Stalin presenti una variante diversa da quella riportata nel testo russo a fronte: "Se la ridono i suoi occhiacci da blatta" e "se la ridono i suoi mustacchi da scarafaggio"). Poi l'esilio a Cerdyn' e Voronezh e infine la morte in un campo di transito verso l'inferno della Kolyma. Faccani propone un proprio punto di osservazione di questo percorso, sceglie con tutte le difficolta' e i rischi singole tappe e nel commento approfondisce le implicazioni biografiche e l'aura delle consonanze letterarie e culturali (anche a posteriori con i riferimenti alle traduzioni tedesche di Celan e le rifrazioni di Venclova!), il sostrato biblico ed evangelico, i classici antichi, la poesia tedesca, quella italiana, la profonda russita' del respiro puskiniano, la dipendenza dai compagni di cammino, Blok, Belyj, Cvetaeva, Achmatova, gli altri modernisti russi. Il lettore e' chiamato a un continuo approfondimento, a una partecipazione empatica, a una vera e propria affannata ricerca che e' quella del poeta e del suo traduttore. Un'esperienza irripetibile, che si impossessa del lettore fin dai primi versi. 7. RIEDIZIONI. DONYA AL-NAHI: NESSUNO AVRA' I MIEI FIGLI Donya al-Nahi con Eugene Costello, Nessuno avra' i miei figli, Piemme, Casale Monferrato 2007, Rba Italia, Milano 2009, pp. XVIII + 182, euro 7.99. Nata nel 1965 in Gran Bretagna da genitori scozzesi col nome di Donna Topen, convertitasi giovanissima all'islam e mutato il nome in Donya al-Nahi, l'autrice del libro vi descrive il suo impegno per ricongiungere alle madri i bambini dai padri ad esse rapiti, e la sua personale drammatica vicenda. Una viva testimonianza e un appello all'impegno contro la violenza patriarcale. 8. RIEDIZIONI. XINRAN: LA META' DIMENTICATA Xinran, La meta' dimenticata, Sperling & Kupfer, Milano 2002, Rba Italia, Milano 2009, pp. XXII + 248, euro 7,99. Una giornalista e scrittrice cinese, autrice e conduttrice di una trasmissione radiofonica molto seguita, raccoglie e racconta molte storie di vita di donne nella Cina di oggi. Vittime di una violenta, persistente, crescente oppressione maschilista. Con una prefazione di Renata Pisu. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 353 del 28 luglio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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