Voci e volti della nonviolenza. 340



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 340 del 9 giugno 2009

In questo numero:
1. Per l'umanita'
2. Guenther Anders: Comandamenti dell'era atomica

1. EDITORIALE. PER L'UMANITA'

Opporsi alla guerra, al militarismo, al riarmo.
Opporsi al razzismo che nega l'umanita' dell'umanita'.
Opporsi alla devastazione della biosfera, che e' l'unica casa comune che
abbiamo.
Opporsi al nucleare, tecnologia nemica dell'umanita' e della biosfera.

2. TESTI. GUENTHER ANDERS: COMANDAMENTI DELL'ERA ATOMICA
[Nuovamente riproponiamo il seguente testo allegato alla lettera 4 (di
Anders a Eatherly, del 2 luglio 1959), precedentemente apparso nella
"Frankfurter Allgemeine Zeitung" del 13 luglio 1957, che estraiamo dalla
corrispondenza tra Guenther Anders e Claude Eatherly, Il pilota di
Hiroshima. Ovvero: la coscienza al bando, Einaudi, Torino 1962, poi Linea
d'ombra, Milano 1992, ivi alle pp. 38-50, nella traduzione di Renato Solmi.
Guenther Anders (pseudonimo di Guenther Stern, "anders" significa "altro" e
fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli chiesero di
non comparire col suo vero cognome) e' nato a Breslavia nel 1902, figlio
dell'illustre psicologo Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureo' in
filosofia nel 1925. Costretto all'esilio dall'avvento del nazismo,
trasferitosi negli Stati Uniti d'America, visse di disparati mestieri.
Tornato in Europa nel 1950, si stabili' a Vienna. E' scomparso nel 1992.
Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente
contro il riarmo atomico, e' uno dei maggiori filosofi contemporanei; e'
stato il pensatore che con piu' rigore e concentrazione e tenacia ha pensato
la condizione dell'umanita' nell'epoca delle armi che mettono in pericolo la
sopravvivenza stessa della civilta' umana; insieme a Hannah Arendt (di cui
fu coniuge), ad Hans Jonas (e ad altre e altri, certo) e' tra gli
ineludibili punti di riferimento del nostro riflettere e del nostro agire.
Opere di Guenther Anders: Essere o non essere, Einaudi, Torino 1961; La
coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly e
di Guenther Anders, Einaudi, Torino 1962, poi Linea d'ombra, Milano 1992
(col titolo: Il pilota di Hiroshima ovvero: la coscienza al bando); L'uomo
e' antiquato, vol. I (sottotitolo: Considerazioni sull'anima nell'era della
seconda rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Milano 1963, poi Bollati
Boringhieri, Torino 2003; L'uomo e' antiquato, vol. II (sottotitolo: Sulla
distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale),
Bollati Boringhieri, Torino 1992, 2003; Discorso sulle tre guerre mondiali,
Linea d'ombra, Milano 1990; Opinioni di un eretico, Theoria, Roma-Napoli
1991; Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995; Stato di necessita' e
legittima difesa, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi)
1997. Si vedano inoltre: Kafka. Pro e contro, Corbo, Ferrara 1989; Uomo
senza mondo, Spazio Libri, Ferrara 1991; Patologia della liberta', Palomar,
Bari 1993; Amare, ieri, Bollati Boringhieri, Torino 2004; L'odio e'
antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2006; Discesa all'Ade, Bollati
Boringhieri, Torino 2008. In rivista testi di Anders sono stati pubblicati
negli ultimi anni su "Comunita'", "Linea d'ombra", "Micromega". Opere su
Guenther Anders: cfr. ora la bella monografia di Pier Paolo Portinaro, Il
principio disperazione. Tre studi su Guenther Anders, Bollati Boringhieri,
Torino 2003; singoli saggi su Anders hanno scritto, tra altri, Norberto
Bobbio, Goffredo Fofi, Umberto Galimberti; tra gli intellettuali italiani
che sono stati in corrispondenza con lui ricordiamo Cesare Cases e Renato
Solmi.
Renato Solmi e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha
introdotto in Italia opere fondamentali della scuola di Francoforte e del
pensiero critico contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di
generazioni di persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che
attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte
della propria strumentazione intellettuale; e' impegnato nel Movimento
Nonviolento del Piemonte e della Valle d'Aosta. Dal risvolto di copertina
del recente volume in cui sono raccolti taluni dei frutti mggiori del suo
magistero riprendiamo la seguente scheda: "Renato Solmi (Aosta 1927) ha
studiato a Milano, dove si e' laureato in storia greca con una tesi su
Platone in Sicilia. Dopo aver trascorso un anno a Napoli presso l'Istituto
italiano per gli studi storici di Benedetto Croce, ha lavorato dal 1951 al
1963 nella redazione della casa editrice Einaudi. A meta' degli anni '50 ha
passato un periodo di studio a Francoforte per seguire i corsi e
l'insegnamento di Theodor W. Adorno, da lui per primo introdotto e tradotto
in Italia. Dopo l'allontanamento dall'Einaudi, ha insegnato per circa
trent'anni storia e filosofia nei licei di Torino e di Aosta. E' impegnato
da tempo, sul piano teorico, e da un decennio anche su quello della
militanza attiva, nei movimenti nonviolenti e pacifisti torinesi e
nazionali. Ha collaborato a numerosi periodici culturali e politici ("Il
pensiero critico", "Paideia", "Lo Spettatore italiano", "Il Mulino",
"Notiziario Einaudi", "Nuovi Argomenti", "Passato e presente", "Quaderni
rossi", "Quaderni piacentini", "Il manifesto", "L'Indice dei libri del mese"
e altri). Fra le sue traduzioni - oltre a quelle di Adorno, Benjamin, Brecht
(L'abici' della guerra, Einaudi, Torino 1975) e Marcuse (Il "romanzo
dell'artista" nella letteratura tedesca, ivi, 1985), che sono in realta'
edizioni di riferimento - si segnalano: Gyorgy Lukacs, Il significato
attuale del realismo critico (ivi, 1957) e Il giovane Hegel e i problemi
della societa' capitalistica (ivi, 1960); Guenther Anders, Essere o non
essere (ivi, 1961) e La coscienza al bando (ivi, 1962); Max Horkheimer e Th.
W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo (ivi, 1966 e 1980); Seymour Melman,
Capitalismo militare (ivi, 1972); Paul A. Baran, Saggi marxisti (ivi, 1976);
Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918
(Boringhieri, Torino 1976)". Opere di Renato Solmi: segnaliamo
particolarmente la sua recente straordinaria Autobiografia documentaria.
Scritti 1950-2004, Quodlibet, Macerata 2007]

Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo". Poiche' non devi
cominciare un solo giorno nell'illusione che quello che ti circonda sia un
mondo stabile. Quello che ti circonda e' qualcosa che domani potrebbe essere
gia' semplicemente "stato"; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei,
siamo piu' "caduchi" di tutti quelli che finora sono stati considerati tali.
Poiche' la nostra caducita' non significa solo il nostro essere "mortali"; e
neppure che ciascuno di noi puo' essere ucciso. Questo era vero anche in
passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo
essere uccisi come "umanita'". Dove "umanita'" non e' solo l'umanita'
attuale, quella che si estende e si distribuisce attraverso le regioni
terrestri; ma e' anche quella che si estende attraverso le regioni del
tempo: poiche', se l'umanita' attuale sara' uccisa, si estinguera' con lei
anche l'umanita' passata, e anche quella futura. La porta davanti alla quale
ci troviamo reca quindi la scritta: "Nulla sara' stato", e sull'altro verso
le parole: "Il tempo e' stato solo un interludio". Ma, in questo caso, il
tempo non sara' stato un interludio fra due eternita' (come speravano i
nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di cio' che,
nessuno potendolo ricordare, "sara' stato" come se non fosse mai stato, e il
nulla di cio' che non potra' mai essere. E poiche' non ci sara' nessuno per
distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco
quindi la nuova, apocalittica forma di caducita' che e' la nostra, e accanto
alla quale tutto cio' che ha avuto finora questo nome e' diventato
un'inezia. - E perche' questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il
risveglio sia: "Atomo".
*
La possibilita' dell'apocalisse
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: "La possibilita'
dell'apocalisse e' opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo".
No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono
di essa; poiche' anch'essi sono come noi; anch'essi sono noi; anch'essi sono
radicalmente incompetenti. E' vero che questa incompetenza non e' colpa
loro, ma e' piuttosto l'effetto di una circostanza che non si puo'
attribuire a nessuno di loro ne' di noi: la sproporzione continuamente
crescente fra la nostra facolta' produttiva e la nostra facolta'
immaginativa, fra cio' che possiamo produrre e cio' che possiamo immaginare.
Poiche', nel corso dell'epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia
e azione si e' rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati,
considerare la fantasia "esorbitante", esuberante, eccessiva, e cioe' tale
che superava e trascendeva l'ambito del reale, oggi i poteri della nostra
fantasia (e i limiti della nostra sensibilita' e della nostra
responsabilita') sono inferiori a quelli della nostra prassi; per cui si
puo' dire che oggi la nostra fantasia non e' all'altezza degli effetti che
possiamo produrre. Non e' solo la nostra ragione a essere kantianamente
limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e - a maggior ragione -
la nostra sensibilita'. Possiamo pentirci, tutt'al piu', dell'uccisione di
un uomo: e' tutto cio' che si puo' chiedere alla nostra sensibilita';
possiamo rappresentarci, tutt'al piu', l'uccisione di dieci uomini: e' tutto
cio' che si puo' chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila
persone non presenta piu' alcuna difficolta'. E cio' non solo per ragioni
tecniche; e non solo perche' l'azione si e' ridotta a semplice
collaborazione e partecipazione, a un "azionare" che rende invisibile
l'effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioe'
perche' la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni
che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire
sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita
dall'immaginazione o dai sentimenti. - Le tue verita' successive dovrebbero
quindi essere queste: "L'inibizione diminuisce progressivamente con
l'ingrandirsi oltre misura dell'azione"; e "L'uomo e' minore (piu' piccolo)
di se stesso". Questa e' la formula della nostra attuale schizofrenia, e
cioe' del fatto che le nostre varie facolta' operano separatamente, come
entita' isolate e prive di coordinazione che hanno perso il contatto fra
loro.
Ma non e' per formulare nozioni definitive e fatalmente disfattistiche su
noi stessi che devi formulare queste verita': ma, al contrario, per
inorridire della finitezza e per vedere in essa uno scandalo; per sciogliere
e allentare quei limiti irrigiditi e trasformarli in barriere da superare;
per revocare e abolire la schizofrenia. Naturalmente, finche' ti e' concesso
di sopravvivere, puoi anche metterti a sedere, rinunciare ad ogni speranza e
rassegnarti alla tua schizofrenia. Ma se non sei disposto a questo, devi
cercare di raggiungere te stesso, di portarti alla tua propria altezza. E
cio' significa (questo e' il tuo compito) che devi cercare di colmare
l'abisso fra le due facolta': la facolta' produttiva e la facolta'
riproduttiva; che devi livellare la differenza di altezza che le separa; o,
in altri termini, che devi sforzarti di allargare l'ambito limitato della
tua immaginazione (e quello ancora piu' ristretto del tuo sentimento),
finche' sentimento ed immaginazione arrivino ad apprendere e a concepire
l'enormita' che sei stato in grado di produrre; finche' tu possa accettare o
respingere cio' che hai inteso. Insomma, il tuo compito consiste
nell'allargare la tua fantasia morale.
*
Non aver paura di aver paura
Il tuo compito successivo e' quello di allargare il tuo senso del tempo.
Poiche' decisivo per la nostra situazione attuale non e' solo (cio' che
ormai sanno tutti) che lo spazio terrestre si e' contratto, e che tutti i
luoghi che si potevano considerare lontani fino a ieri sono ormai localita'
viciniori; ma che anche lo spazio temporale si e' contratto, e che tutti i
punti del nostro sistema temporale si sono avvicinati; che i futuri che
potevano sembrare fino a ieri a distanza irraggiungibile, confinano ormai
direttamente col nostro presente; che li abbiamo trasformati in comunita'
attigue. Cio' vale sia per il mondo orientale che per quello occidentale.
Per il mondo orientale, poiche' il futuro vi e' pianificato in una misura
senza precedenti; e il futuro pianificato non e' piu' un futuro "in grembo
agli dei", ma un prodotto in fabbricazione: che, per il fatto di essere
previsto, e' gia' visto come parte integrante dello spazio in cui ci si
trova. In altri termini: poiche' tutto cio' che si fa, lo si fa per quel
prodotto futuro, esso getta gia' la sua ombra sul presente, appartiene gia',
in un senso pragmatico, al presente stesso. E cio' vale, in secondo luogo
(ed e' il caso che ci riguarda), per gli uomini del mondo occidentale
attuale; poiche' questo, anche senza proporselo direttamente, opera gia' sui
futuri piu' remoti: decidendo, ad esempio, della salute o della
degenerazione, e forse dell'esistenza o dell'inesistenza dei suoi nipoti. E
non importa che esso, o, piuttosto, che noi, si miri consapevolmente a
questo risultato: poiche' cio' che conta, da un punto di vista morale, e'
soltanto il fatto. E dal momento che il fatto - l'"azione a distanza" non
pianificata - ci e' noto, continuando ad agire come se non sapessimo quello
che facciamo commettiamo un delitto colposo.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia: "Non esser vile, abbi il
coraggio di aver paura! Astringiti a fornire quel tanto di paura che
corrisponde alla grandezza del pericolo apocalittico!" Anche e proprio la
paura fa parte dei sentimenti che siamo incapaci o riluttanti a fornire; e
dire che abbiamo gia' paura, che ne abbiamo anche troppa, e che viviamo,
anzi, nell'"epoca della paura", e' una frase priva di senso, che, se non e'
diffusa ad arte col preciso intento di ingannare, e' pur sempre uno
strumento ideale per impedire l'avvento di una paura veramente adeguata
all'enormita' del pericolo, e per renderci indolenti e passivi. - E' vero
piuttosto il contrario: che viviamo in un'epoca refrattaria all'angoscia e
assistiamo quindi passivamente all'evoluzione in corso. Percio' vi e' tutta
una serie di ragioni (a prescindere dai limiti della nostra capacita' di
sentire), che non e' possibile enumerare qui (1). Ma non possiamo fare a
meno di menzionarne una, a cui gli eventi del recente passato conferiscono
un'attualita' e un'importanza particolare. Si tratta della mania delle
competenze, e cioe' della persuasione, inculcata in noi dalla divisione del
lavoro, che ogni problema rientri in un determinato ambito giuridico in cui
non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Cosi', per
esempio, il problema atomico rientra nella competenza dei politici e dei
militari. E questo "non aver diritto" si trasforma subito e automaticamente
in "non aver bisogno". In altri termini: non c'e' bisogno che mi occupi dei
problemi di cui non sono tenuto e autorizzato ad occuparmi. E posso fare a
meno di aver paura, poiche' la paura stessa viene "sbrigata" in un altro
ressort. Percio' ripeti dopo il tuo risveglio: "Res nostra agitur". Il che
significa due cose: 1) che la cosa ci riguarda perche' ci puo' colpire; e 2)
che la pretesa di alcuni a una competenza di carattere esclusivo e'
infondata, perche' siamo tutti, in quanto uomini, ugualmente incompetenti.
Credere che in puncto "fine del mondo" possa aver luogo una competenza
maggiore o minore, e che quelli che (in seguito a una divisione casuale del
lavoro, delle responsabilita' e dei compiti) sono diventati politici o
militari, e che si occupano della fabbricazione e dell'"impiego" della bomba
piu' attivamente o piu' direttamente di noi, siano percio' piu' "competenti"
di noi, e' una follia pura e semplice. Chi cerca di farcelo credere (che si
tratti di questi pretesi competenti o di altri) dimostra solo la sua
incompetenza morale. Ma la nostra situazione morale finisce per diventare
intollerabile quando quei pretesi competenti (che sono incapaci di vedere i
problemi se non in termini tattici) pretendono di insegnarci che non abbiamo
nemmeno il diritto di aver paura, e tanto meno di porci problemi morali: dal
momento che la coscienza morale implica una responsabilita', e la
responsabilita' e' affar loro, affare dei competenti; con la nostra paura,
con la nostra angoscia morale, invaderemmo - secondo loro - un campo di loro
competenza. In conclusione: devi rifiutarti di riconoscere un ceto
privilegiato, un "clero dell'apocalisse": un gruppo che si arroghi una
competenza esclusiva per la catastrofe che sarebbe la catastrofe di tutti.
Se ci e' lecito variare il detto rankiano ("ugualmente vicini a Dio"),
potremmo dire che "ognuno di noi e' ugualmente vicino alla fine possibile".
E percio' ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare
ad alta voce il suo monito. A cominciare da te.
*
Contro la discussione di carattere tattico
Non solo la nostra immaginazione, la nostra sensibilita' e la nostra
responsabilita' vengono meno di fronte alla "cosa": ma non siamo neppure in
grado di pensarla. Poiche' sotto qualunque categoria cercassimo di
sussumerla, la penseremmo in modo sbagliato: per il semplice fatto di
ridurla sotto una determinata categoria o classe di concetti, ne faremmo un
oggetto fra gli altri e la minimizzeremmo. Anche se puo' esistere in molti
esemplari, e' unica nel suo genere, non appartiene a nessuna specie: e',
quindi, un monstrum. Disgraziatamente e' proprio questa ("mostruosa")
inclassificabilita' a portarci a trascurare la cosa, o a dimenticarla
addirittura. Tendiamo a considerare come inesistente tutto cio' che non
siamo in grado di classificare. Ma nella misura in cui si parla della cosa
(cio' che peraltro non avviene ancora nella conversazione quotidiana fra gli
uomini), tendiamo a classificarla (poiche' e' la soluzione piu' comoda e
meno inquietante) come un'arma, o piu' in generale come un mezzo. Ma essa
non e' un mezzo, poiche' e' essenziale alla natura del mezzo risolversi
nello scopo raggiunto e scomparire, come la via nella meta. Il che non
accade in questo caso. Poiche' anzi l'effetto inevitabile (e perfino
l'effetto consapevolmente ricercato) della cosa e' maggiore di ogni scopo
pensabile; poiche' questo, per forza di cose, scompare e si annulla
nell'effetto. Scompare e si annulla insieme al mondo in cui c'erano ancora
"fini e mezzi". Ed e' chiaro che una cosa che distrugge, con la sua sola
esistenza, lo schema "fini e mezzi", non puo' essere un mezzo. Percio' la
tua massima successiva sia: "Nessuno mi fara' credere che la bomba sia un
mezzo". E dal momento che non e' un mezzo come i milioni di mezzi che
compongono il nostro mondo, non puoi tollerare che sia prodotta come se si
trattasse di un frigorifero, di un dentifricio e nemmeno di una pistola, per
costruire la quale nessuno ci interpella. - E come non devi credere a quelli
che la chiamano un "mezzo", non devi credere nemmeno ai persuasori piu'
sottili che sostengono che la cosa serve esclusivamente alla "dissuasione",
ed e' prodotta, cioe', solo allo scopo di non essere usata. Poiche' non si
sono mai visti oggetti il cui impiego si esaurisse nel loro non essere
usati; o, tutt'al piu', vi sono stati oggetti che, in determinati casi, non
furono usati (e cioe' quando la minaccia del loro uso, spesso gia' avvenuto,
si era gia' rivelata sufficiente). Del resto, non dobbiamo mai dimenticare
che la cosa e' gia' stata "usata" realmente (e senza giustificazione
adeguata) a Hiroshima e Nagasaki. Infine, non dovresti permettere che
l'oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo
falso con un'etichetta sciocca e minimizzante. Quando l'esplosione di una
bomba H e' definita ufficialmente "azione Opa" o "azione nonnino", non e'
solo una manifestazione di cattivo gusto, ma anche un inganno consapevole.
Inoltre devi opporti e ribellarti tutte le volte che la cosa (la cui
semplice presenza e' gia' una forma di uso) e' discussa da un punto di vista
puramente "tattico". Questo tipo di discussione e' assolutamente inadeguato,
poiche' l'idea di potersi servire tatticamente delle armi atomiche
presuppone l'esistenza di una situazione politica indipendente dal fatto
stesso della loro esistenza. Ma questa e' una supposizione affatto irreale,
poiche' la situazione politica (l'espressione "era atomica" e' perfettamente
giustificata) e' definita dal fatto delle armi atomiche. Non sono le armi
atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli
avvenimenti politici a svolgersi all'interno della situazione atomica; e la
maggior parte delle azioni politiche sono passi intrapresi all'interno di
questa situazione. I tentativi di utilizzare la possibilita' della fine del
mondo come una pedina sullo scacchiere della politica internazionale,
indipendentemente o meno dalla loro astuzia, sono segni di accecamento.
L'epoca delle astuzie e' finita. Percio' devi farti un principio di sabotare
tutte le analisi in cui i tuoi contemporanei cercano di esaminare il fatto
del pericolo atomico da un punto di vista puramente tattico, e di portare la
discussione sul punto essenziale: sulla minaccia che pesa sull'umanita' di
un'apocalisse provocata da lei stessa; e fallo anche a costo di essere
deriso come persona priva di realismo politico. In realta', ad essere poco
realisti, sono proprio i puri tattici, che vedono le armi atomiche solo come
mezzi, e che non capiscono che i fini che cercano o pretendono di
raggiungere mediante la loro tattica, sono completamente svuotati di
significato dall'uso (anzi, dalla semplice possibilita' dell'uso) di questi
mezzi.
*
La decisione e' gia' stata presa
Non lasciarti ingannare da chi sostiene che ci troveremmo ancora (e ci
troveremo forse sempre) nello stadio sperimentale, nello stadio delle
esperienze di laboratorio. Poiche' questa e' solo una frase. E non solo
perche' abbiamo gia' gettato delle bombe (cio' che molti stranamente
dimenticano), e l'epoca "in cui si fa sul serio" e' quindi gia' cominciata
da un pezzo; ma anche perche' (ed e' la ragione piu' importante) non e'
possibile parlare, in questo caso, di esperimenti. La tua ultima massima
sara', quindi, questa: "Per quanto felice possa essere l'esito degli
esperimenti, e' lo sperimentare stesso che fallisce". E fallisce perche' si
puo' parlare di esperimenti solo dove l'evento sperimentale non esce e non
spezza l'ambito isolato e circoscritto del laboratorio; condizione che non
si ritrova in questo caso. Poiche' fa proprio parte dell'essenza della cosa,
e dell'effetto ricercato della maggior parte degli esperimenti attuali,
accrescere il piu' possibile la forza esplosiva e il fall-out radioattivo
dell'arma; e cioe', per quanto contraddittoria possa essere la formula,
provare fino a che punto si possa superare ogni limite sperimentale. Cio'
che e' prodotto dai cosiddetti "esperimenti" non rientra piu', quindi, nella
classe degli effetti sperimentali, ma nello spazio reale, nell'ambito della
storia (dove si trovano, ad esempio, i pescatori giapponesi contagiati dal
fall-out) e perfino della storia futura, poiche' e' il futuro stesso ad
essere investito (ad esempio la salute delle prossime generazioni), e si
puo' quindi dire che il futuro, secondo la formula filosofica del libro di
Jungk, "e' gia' cominciato". E'  quindi del tutto illusoria e ingannevole
l'affermazione a cui si ricorre cosi' volentieri, che l'impiego della cosa
non e' stato ancora deciso. - E' vero, invece, che la decisione e' gia'
avvenuta attraverso i cosiddetti esperimenti. Fa quindi parte dei tuoi
doveri denunciare e distruggere l'apparenza che noi si viva ancora nella
"preistoria" atomica: e chiamare per nome cio' che e'.
*
Siamo manipolati dai nostri apparecchi
Ma tutti questi postulati e questi divieti si possono condensare in un solo
comandamento: "Abbi solo quelle cose le cui massime potrebbero diventare le
tue massime e quindi le massime di una legislazione universale".
E' un postulato che puo' lasciare interdetti: l'espressione "massime delle
cose" puo' sembrare, a tutta prima, paradossale. Ma solo perche' strano e
paradossale e' il fatto stesso designato dall'espressione. Cio' che vogliamo
dire e' solo che, vivendo in un mondo di apparecchi, siamo soggetti al
trattamento dei nostri apparecchi (e sempre in un modo determinato dalla
natura degli apparecchi). Ma poiche', d'altra parte, siamo gli utenti di
questi apparecchi, e trattiamo il nostro prossimo per mezzo di essi, finiamo
per trattare il nostro prossimo, anziche' secondo i nostri principi, secondo
i modi di operare degli apparecchi, e cioe', in certo qual modo, secondo le
loro massime. Il postulato esige che ci rendiamo conto di queste massime
come se fossero le nostre (dal momento che lo sono effettivamente e di
fatto); che la nostra coscienza morale, anziche' dedicarsi all'esame di se
stessa (che e' ormai un lusso privo di conseguenze), si dedichi a quello
degli "impulsi nascosti" e dei "principi" dei nostri apparecchi. Esaminando
scrupolosamente la propria anima alla maniera tradizionale, un ministro
atomico non vi troverebbe, probabilmente, nulla di particolarmente
peccaminoso; ma esaminando la "vita intima" dei suoi aggeggi, vi troverebbe
niente meno che l'erostratismo, e un erostratismo su scala cosmica; poiche'
erostratico e' il modo in cui le armi atomiche trattano l'umanita'. Solo
quando ci saremo abituati a questa nuova forma di azione morale ("l'analisi
del cuore degli apparecchi"), avremo qualche motivo di sperare che, dovendo
decidere del nostro essere o non-essere, sapremo decidere per la
conservazione del nostro essere.
*
Impossibilita' di non-potere
Il tuo principio successivo sia: "Non credere che quando saremo riusciti a
compiere il primo passo, la cessazione dei cosiddetti esperimenti, il
pericolo si possa considerare passato, e che noi si possa dormire sugli
allori". Poiche' la fine degli esperimenti non significa ancora quella della
produzione di bombe e tanto meno la distruzione delle bombe e dei tipi che
sono gia' stati sperimentati e che sono pronti per l'uso. Vi possono essere
varie ragioni per una cessazione degli esperimenti: uno stato vi si puo'
risolvere, ad esempio, perche' ogni ulteriore esperimento sarebbe superfluo,
dal momento che la produzione dei tipi sperimentati o la riserva di bombe
esistenti bastano gia' per ogni eventualita'; insomma, perche' sarebbe
assurdo e antieconomico uccidere l'umanita' piu' di una volta.
Non credere nemmeno che avremmo diritto di stare tranquilli una volta che
fossimo riusciti ad eseguire il secondo passo (l'arresto della produzione di
bombe A e H), o che potremmo metterci a sedere dopo il terzo passo (la
distruzione di tutte le riserve). Anche in un mondo completamente "pulito"
(e cioe' in un mondo dove non ci fossero piu' bombe A o H, e dove quindi,
apparentemente, non "avremmo" bombe), continueremmo, tuttavia, ad averle,
poiche' sapremmo come fare per produrle. Nella nostra epoca contrassegnata
dalla riproduzione meccanica non si puo' dire che un oggetto possibile non
esista, poiche' cio' che conta non sono gli oggetti fisici reali, ma i loro
tipi, i loro "modelli". Anche dopo aver eliminato tutti gli oggetti fisici
che hanno a che fare con la produzione delle bombe A o H, l'umanita'
potrebbe cadere vittima dei loro disegni. Si potrebbe concludere, allora,
che bisogna distruggere questi ultimi. Ma anche questo e' impossibile,
poiche' i modelli sono indistruttibili come le idee di Platone; in un certo
senso sono addirittura la loro realizzazione diabolica. Insomma, anche se ci
riuscisse di distruggere fisicamente i fatali apparecchi e i loro "modelli",
e di salvare cosi' la nostra generazione: anche questa sarebbe solo una
pausa, sarebbe solo una dilazione. La produzione potrebbe essere ripresa
ogni giorno, il terrore rimane, e dovrebbe restare, quindi, anche la tua
paura. D'ora in poi l'umanita' dovra' vivere, per tutta l'eternita', sotto
l'ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia
eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie
indefinita di atti quotidiani. Dobbiamo comprendere, insomma (e questa
comprensione finisce di mostrarci il carattere fatale della nostra
situazione), che la nostra lotta contro la permanenza fisica degli ordigni e
la loro costruzione, sperimentazione ed accumulazione rimane, in definitiva,
insufficiente. Poiche' la meta che dobbiamo raggiungere non puo' consistere
nel non-avere la cosa, ma solo nel non adoperarla mai, anche se non possiamo
fare in modo di non averla; nel non adoperarla mai, anche se non ci sara'
mai un giorno in cui non potremmo adoperarla.
Ecco quindi il tuo compito: far capire all'umanita' che nessuna misura
fisica, nessuna distruzione di oggetti materiali potra' mai rappresentare
una garanzia assoluta e definitiva, e che dobbiamo, invece, essere
fermamente decisi a non compiere mai quel passo, anche se sara', in un certo
senso, sempre possibile. Se non riusciamo - si', tu, tu ed io - a infondere
questa coscienza e questa convinzione nell'umanita', siamo perduti.
*
Note
1. Cfr. Guenther Anders, Die Antiquierheit des Menschen, C. H. Beksche
Verlagsbuchhandlung, pp. 264 sgg.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
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Numero 340 del 9 giugno 2009

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