Minime. 837



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 837 del 31 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. La parola
2. Annamaria Rivera: Il bivacco
3. Umberto De Giovannangeli intervista Dacia Maraini su Aung San Suu Kyi
4. Marco Aime: Una lettera a Dragan
5. Maria Grazia Campari: Nello spazio pubblico
6. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
7. Marina Forti: Avvoltoi
8. Michele Nani presenta "Storie di anarchici e spie" di Pietro Brunello
9. La "Carta" del Movimento Nonviolento
10. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LA PAROLA

Dipendesse da me, che certo sono un vecchio giacobino o peggio ancora un
filologo accidioso, basterebbe l'uso dell'aggettivo "piccante" (nel senso
non gastronomico ma pornografico) per interdire per sempre qualcuno da tutti
i pubblici uffici. La lingua smaschera l'ideologia. Quella laida frase
ostentata dal presidente del Consiglio dei Ministri lo disvela per persona
indegna non dico di governare un paese, ma di essere ammessa tra persone
decenti.
*
So bene che vi e' di peggio di un linguaggio triviale brandito a cercar di
stornare il sospetto di rapporti impropri e corruttivi finanche con
minorenni (rapporti personali, par di capire che qui s'intenda; poiche'
dell'abissale corruzione morale di massa esercitata attraverso decenni di
infame programmazione televisiva nessuno puo' dubitare): questo e' il
governo del piano piduista, dell'eversione dall'alto, dell'impunita' per i
crimini dei potenti, dell'aggressione alla magistratura ed alla separazione
dei poteri, del tentativo di imporre il regime dell'apartheid, delle
deportazioni e di mille altre nequizie e mille altri delitti. Talche' un
tratto di turpe maschilismo non sembra aggiungere granche'. Ma e' proprio
quel maschilismo, io credo, la decisiva radice di tutto il resto, e' proprio
quel maschilismo che disumanizza, da cui nasce poi anche il razzismo, il
fascismo, la devastazione della natura e delle relazioni umane, la guerra,
il furioso disprezzo e la volonta' tracotante di umiliare e distruggere
tutto cio' che vi e' di bello, di degno, di umano.

2. RIFLESSIONE. ANNAMARIA RIVERA: IL BIVACCO
[Ringraziamo Annamaria Rivera (per contatti: annamariarivera at libero.it) per
averci messo a disposizione il seguente intervento apparso sul quotidiano
"Liberazioneî" del 29 maggio 2009 col titolo "Berlusconi e la miopia
dell'opposizione"]

"Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, potevo
sprangare il Parlamento...". C'e' una certa assonanza di stile, forse anche
d'intenti, fra il personaggio mediocre che condusse l'Italia nel baratro e
l'ometto tronfio, arrogante e incolto, specialista in barzellette
qualunquiste e in battute machiste, corruttore di minorenni e non solo, che
oggi promette di stanare e schiacciare i "grumi eversivi tra le toghe".
E' solo l'ultima delle tante smargiassate, allarmante anche perche' arriva
subito dopo quella sul povero "premier" che non ha nessun potere e sul
Parlamento da ridimensionare con una legge d'iniziativa popolare.
Continuare a minimizzare, perfino a sinistra, mentre la stampa estera e'
sempre piu' allarmata, anche questo e' un sintomo della deriva italiana.
Trastullarsi come se niente fosse, a sinistra e al centro, con frasi fatte,
vecchie liturgie, giochi di potere mediocri, pensando che la cosa piu'
importante sia perpetuarsi come ceti politici; non riuscire a stringere
un'alleanza "tattica" (come si sarebbe detto un tempo) neppure per
fronteggiare il rischio palese dell'eversione della democrazia: anche questi
sono segni dello stato miserevole in cui versa il Paese.
D'altronde, se il berlusconismo ha potuto allignare e infine imporsi - certo
grazie al controllo di gangli decisivi del potere economico e mediatico, ma
anche grazie alla sintonia sentimentale con il ventre qualunquista e
fascistoide del paese - e' perche' poco si e' fatto per sbarrargli la strada
tramite l'iniziativa legislativa e ancora meno per contrastarne l'egemonia
culturale.
Un segno di grave miopia politica e' stata, continua ad essere, la
sottovalutazione del ruolo decisivo che in ogni svolta populistica e
autoritaria giocano il discorso e le politiche sicuritarie e razziste, la
strategia del capro espiatorio. Aver compiaciuto e rilanciato retorica e
pratiche sicuritarie quando si era al governo, continuare oggi a non
comprendere la centralita' strategica della lotta contro il razzismo
istituzionale e per i diritti dei migranti e delle minoranze, aver loro
negato un posto centrale nelle liste e nei programmi elettorali: anche
questi sono errori che si pagano con l'arroganza eversiva di chi
svillaneggia l'"aula sorda e grigia" e il potere giudiziario.
L'abbiamo scritto piu' volte: se il potere berlusconiano - con la sua
cultura e pedagogia di massa - si e' diffuso e radicato e' perche' ha saputo
interpretare e far emergere una delle tendenze che caratterizzano nel
profondo la storia nazionale, la biografia del Paese, il suo immaginario
collettivo: cioe' quell'insieme d'individualismo, cinismo, debolezza del
senso civico, disprezzo dei principi e delle regole, assenza di rigore etico
e intellettuale, sul quale hanno scritto tante penne insigni. Non e' l'unica
tendenza, benche' oggi appaia predominante. Per sollecitare l'altra, ora che
siamo spinti verso l'orlo del baratro, occorrerebbe un sussulto di coerenza,
di rigore, di coraggio politici. Occorrerebbe, insomma, proporsi e agire da
opposizione.

3. DIRITTI UMANI. UMBERTO DE GIOVANNANGELI INTERVISTA DACIA MARAINI SU AUNG
SAN SUU KYI
[Dal sito della Libera' universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente intervista apparsa sul
quotidiano "L'Unita'" del 15 maggio 2009 col titolo "Aung e le altre
coraggiose paladine di liberta'. Intervista a Dacia Maraini di Umberto De
Giovannangeli"]

"Il regime birmano colpisce Aung San Suu Kyi perche' sa di avere di fronte
una donna politica con uno straordinario patrimonio di credibilita'. Per
questo fa paura. E nel colpire lei s'intende anche lanciare un monito a
tutte le donne che incarnano quello spirito di liberta' che vive anche nelle
societa' e nei Paesi piu' chiusi, come, ad esempio, l'Iran". La persecuzione
della premio Nobel per la pace birmana vista con gli occhi di una grande
scrittrice italiana: Dacia Maraini.
*
- Umberto De Giovannangeli: Le autorita' birmane hanno incarcerato Aung San
Suu Kyi. Come leggere questa decisione?
- Dacia Maraini: E' il tipico comportamento di un regime dittatoriale che,
da una parte, non osa eliminare fisicamente una persona divenuta famosa in
tutto il mondo per la sua battaglia di liberta'. Il regime birmano,
sanguinario quanto cinico, sa di non potersi permettere questo assassinio,
pena un isolamento totale dal consesso internazionale. Al tempo stesso,
continuamente tenta di intervenire sulle piccole liberta' che le sono
rimaste. Aung San Suu Kyi e' costretta da anni agli arresti domiciliari. La
sua casa e' stata trasformata in una prigione. Una prigione che puo'
risultare una "conquista" rispetto ad una cella. Questa e' la tortura
psicologica a cui da anni e' sottoposta questa straordinaria donna. Vivere
una condizione atroce che potrebbe pero' divenire ancora piu'
insopportabile. Questo e' il ricatto a cui e' sottoposta Aung San Suu Kyi.
Ho letto che si sono alzate voci nella comunita' internazionale per chiedere
che la premio Nobel per la pace potesse essere visitata da un medico.  Ma la
vicenda di Aung non e' un problema umanitario. E' un grande, enorme problema
politico che interroga le coscienze di ogni cittadina e cittadino
democratico e di ogni governo che si ritenga tale. E' una condizione atroce
togliere ad una persona la possibilita' di avere un qualsiasi rapporto
esterno, impedirle di comunicare, costringerla al silenzio. E oggi Aung e'
portata via dalla "prigione-casa" per essere rinchiusa in una cella...
*
- Umberto De Giovannangeli: Ritiene che la comunita' internazionale abbia
fatto tutto il possibile per ridare liberta' alla leader dell'opposizione
democratica birmana?
- Dacia Maraini: Direi proprio di no. Si poteva, si doveva fare di piu'. Si
puo', si deve fare di piu'. C'e' stato un periodo in cui le tragiche vicende
della Birmania hanno conquistato le prime pagine dei giornali. Poi ' calato
il silenzio. L'"innamoramento" e' finito. E' una vicenda che ha riguardato,
solo per fare un altro esempio, anche il Tibet. Tutti parlano e poi si
dimentica troppo facilmente.
*
- Umberto De Giovannangeli: Perche' le donne sono divenute oggi in tante
parti del mondo il "volto" della liberta' negata?
- Dacia Maraini: Perche' le donne esprimono un desiderio di liberta' che
serpeggia anche nelle societa' piu' chiuse, bloccate. Pensiamo all'Iran. Una
punizione come quella inflitta ad Aung San Suu Kyi ha un valore esemplare
per tutte le donne, anche di altre societa' e Paesi.
*
- Umberto De Giovannangeli: Aung come simbolo...
- Dacia Maraini: Si ha paura della simbolicita' dell'agire di Aung, una
donna politica con una forte, possente credibilita'. E i simboli, nella loro
capacita' di divenire un modello, sono visti come fumo negli occhi dai
regimi dittatoriali. Ed e' proprio la sua credibilita' che ha fatto divenire
Aung un simbolo e poi un modello a cui riferirsi.
*
- Umberto De Giovannangeli: Cosa "racconta" Aung San Suu Kyi, la sua
esperienza, a noi italiani?
- Dacia Maraini: Racconta agli italiani che la politica e' prima di tutto
credibilita'. E dice che una persona che ha l'ambizione di rappresentare gli
altri, deve essere prima di tutto trasparente e ogni sua azione deve essere
chiara e accettabile. Un "racconto" di un'attualita' sconvolgente.

4. UNA SOLA UMANITA'. MARCO AIME: UNA LETTERA A DRAGAN
[Dal supplemento librario "Tuttolibri" del quotidiano "La stampa" del 23
maggio 2009 col titolo "Allarme siam razzisti: paura e vilta'", il sommario
"Lettera aperta di un antropologo a un bambino rom: perche' tanti italiani,
a lungo stranieri nel mondo, respingono l'altro" e la nota redazionale
"Anticipiamo qui alcuni passi dal capitolo finale del libro di Marco Aime,
La macchia della razza, in uscita da Ponte alle Grazie (pp. 96, euro 8): in
forma di lettera aperta a un bambino rom, uno di quelli cui si vogliono
prendere le impronte digitali, spiega come e perche' si e' diffuso nella
nostra societa' il pregiudizio contro gli stranieri. Di Aime, docente di
antropologia culturale all'Universita' di Genova, e' in libreria anche Il
diverso come icona del male, un dialogo con Emanuele Severino (Bollati
Boringhieri, pp. 53, euro 8)]

La solitudine fa crescere la paura, Dragan, e ci inventiamo un nemico comune
per credere di essere uniti e solidali. In realta' siamo solo capaci di un
individualismo collettivo. Piu' ci sentiamo soli e piu' ci aggrappiamo a
idee astratte e vaghe come identita', altra parola divenuta buona per
nascondere tutte le avarizie, tutti gli egoismi. L'identita' la pensiamo, ma
poi non la pratichiamo. La impugnamo come un bastone contro gli altri, ma
non la frequentiamo nemmeno con quelli come noi. Identita' significa
pensarsi uguali a qualcun altro. Ma facciamo di tutto per essere diversi gli
uni dagli altri.
Anche identita' e' una parola ambigua, non ha plurale, si presenta come
portatrice di un'idea solitaria. Eppure il plurale ce l'ha: abbiamo
un'identita' di genere, religiosa, politica, di fede calcistica... siamo
portatori multipli di identita'. Ne possediamo un mazzo e giochiamo di volta
in volta quella che scegliamo o che ci e' concessa. Pero' oggi, quando
pronunciamo la parola identita', pensiamo subito a quella etnica. Oggi,
identita' significa terra e sangue.
Siamo diventati "tribali", ci siamo stretti attorno al totem della nostra
cultura, pronti a difenderlo. In realta' vogliamo difendere i nostri soldi,
la nostra abitudine, non la nostra cultura. Non sapevamo nemmeno di averla,
non lo sappiamo nemmeno ora. Ce lo dicono. Lo fanno per farci credere che
abbiamo qualcosa da perdere e che solo loro possono difenderci. Il sapere,
la cultura sono le uniche ricchezze che possiamo condividere, senza che ci
vengano meno, Dragan. "Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ci scambiamo
le mele, avremo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un'idea e io ho
un'idea, e ci scambiamo le idee, allora avremo entrambi due idee" ha detto
George Bernard Shaw.
Abbiamo preferito tenerci ognuno la nostra idea e siamo diventati sempre
piu' soli. E piu' poveri, di idee e nel linguaggio. Non riusciamo piu' a
guardare lontano, che e' cio' che ha fatto umani gli esseri umani. Animali
stanziali nel pensiero, ecco cosa siamo oggi. Usiamo poche parole, sempre le
stesse, perche' abbiamo poco da dire, ripetiamo sempre le stesse cose.
Aprirsi all'altro e' il motore della cultura. La diversita' offre nuove
scelte, arricchisce il nostro mondo, arricchisce noi, fa entrare aria nuova.
Ma abbiamo preferito chiudere le paratie e respirare l'aria stagnante della
purezza. Piccolo non sempre e' bello, se non sai cosa c'e' fuori. Se non
respiri ossigeno nuovo, che fertilizzi il tuo campicello. E' sempre stato
cosi', Dragan, gli uomini si sono scambiati merci e idee. Anche colpi di
spada e di fucile, si', e' vero. Si incontravano e si scontravano. Nessuno
e' stato fermo, ancorato alle sue radici.
Quanta differenza possiamo sopportare? Non troppa, lo so, non troppa, ma
molto piu' di quanto crediamo. E lo facciamo, tutti i giorni, ma non ce ne
rendiamo conto. Sai, Dragan, cosa c'era scritto su un manifesto tedesco
degli anni Novanta? "Il tuo Cristo e' ebreo. La tua macchina e' giapponese.
La tua pizza e' italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffe' brasiliano.
La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il
tuo vicino e' uno straniero".
Sopportiamo tutta la differenza del mondo, se ci fa comodo, e nemmeno ce ne
accorgiamo. Consumiamo cibi stranieri, usiamo oggetti di tutto il mondo, ma
difendiamo la nostra terra, le nostre radici, la nostra tradizione, la
nostra identita'.
Fa paura, questo troppo parlare di identita', questo negare la natura
multiforme delle nostre culture, delle nostre esistenze. Italianita', popoli
padani... si sentono voci alle nostre spalle, Dragan, appena accennate, ma
si fanno via via piu' forti. E' una leggenda l'apporto di masse ingenti di
uomini in tempi storici, dice una. Cancelliamo il passato, neghiamo di avere
preso e dato cultura, come tutti i popoli.
"Dobbiamo difendere la nostra cultura" dicono e le voci, le voci, Dragan...
I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono
essere alterati in nessun modo.
Diciamo cultura, ma pensiamo razza. [...]
Sai, Dragan, anch'io avevo pensato che certi atteggiamenti non fossero per
forza razzisti. E lo penso ancora. Molte volte non e' un problema di razza,
ma di gente che lotta per le stesse, poche, scarse risorse. Odi l'altro non
perche' e' altro, ma perche' e' o credi che sia contro di te. Accade spesso
tra chi ha paura e puo' persino essere comprensibile. Ma ora non e' cosi'.
Ora c'e' anche odio fine a se stesso, c'e' un bullismo razziale ignorante e
senza alcuno scopo se non di riempire il vuoto emotivo di certa gente e le
urne di schede per certi politici fomentatori. Il razzismo e' una malattia
sottile, scava nei cuori della gente, cancella pezzi di memoria, deforma lo
sguardo.
Non e' il razzista che mi spaventa, Dragan, sono gli altri a fare paura.
Tutti quelli che sanno, che vedono e tacciono. I complici silenziosi.
Guardano il tuo dito sporco di nero e... Nulla. Qualcuno tace, pensando che
in fondo te lo meriti, ma non ha il coraggio di dirlo apertamente. Zingaro,
ladro, in fondo cosa vuoi da noi? Altri pensano che sia sbagliato, ma
tacciono anche loro. Perche' complicarsi la vita? E poi, cosa ci posso fare
io? [...]
Quando eravamo bambini, si faceva un gioco: se tu fossi il capo del mondo
cosa faresti? E tu dovevi dire cova avresti voluto fare. Cosa farei ora?
Sicuramente prenderei una spugnetta e ti pulirei il ditino, Dragan. E poi?
Vorrei chiederti scusa, spiegarti che non siamo tutti cosi', ma servirebbe?
E a chi? A te? No, cosa te ne fai delle mie scuse. Lo sai benissimo che non
posso fare promesse a nome di altri. A me? Nemmeno, non mi sentirei
migliore. Meglio tenersi ognuno cio' che prova, tu la tua rabbia e io la mia
vergogna. Sono piu' sane di mille ipocrisie.

5. RIFLESSIONE. MARIA GRAZIA CAMPARI: NELLO SPAZIO PUBBLICO
[Dal sito della Libera' universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) col titolo "Doppio sguardo su violenza e
spazio pubblico"]

Le scadenze elettorali italiane ed europee sollecitano qualche pensiero
sullo spazio pubblico la cui pratica ha molto a che fare con la violenza
sessista.
Il pensiero e' anche sostenuto da notizie di stampa e rilevazioni
statistiche. "Il Sole 24 Ore"  (19 maggio 2009) titola "L'Europa corre dove
la donna conta" e annota miglioramenti legislativi in tema di sanita',
ambiente, welfare la' dove la presenza politica femminile nei ruoli
decisionali e' piu' elevata, circostanza che, per un circolo virtuoso, puo'
anche favorire una maggiore presenza femminile in economia.
Anche "La Repubblica" ("Spunta il valore D cosi' l'azienda crea le sue Mrs
manager", 18 maggio 2009) mette in evidenza come le donne al comando
migliorino le performance delle imprese che elevano, sotto la loro
leadership, gli indicatori di redditivita', tanto che quattordici grandi
aziende (come Fiat, Microsoft, Intesa San Paolo, Ikea, ecc.) hanno elaborato
un progetto detto "valore D" volto a stimolare la crescita della
rappresentanza femminile nei luoghi decisionali.
Allo stato, i dati sulla presenza femminile mettono l'Italia agli ultimi
posti nell'Unione Europea: vige il monopolio maschile sullo spazio pubblico.
Secondo rilevazioni Eurostat le donne rappresentano solo il 4% dei dirigenti
apicali nelle aziende e nel Parlamento europeo sono solo il 20% fra gli
eletti italiani, contro il minimo previsto del 33%.
Contemporaneamente viene denunciato (non dalla sinistra, ma da una
fondazione assai prossima a partiti di destra) il fenomeno del "velinismo",
cioe' l'utilizzo che, ai fini di una falsa immagine di rinnovamento degli
eleggibili, i massimi preposti alla politica nazionale fanno di uno
"stereotipo femminile mortificante" producendo candidature alla
rappresentanza istituzionale di giovanette avvenenti gradite al potente di
turno.
Ad un primo sguardo il fenomeno appalesa lo svuotamento della democrazia
attraverso l'uso distorto e l'appropriazione personale delle istituzioni su
cui essa si regge, la cui mancanza la fa collassare come una casa mal
costruita alla prima debole scossa di terremoto.
*
Un secondo sguardo ci porta piu' in la' e provoca una riflessione sulla
violenza implicita nella esclusione delle donne dallo spazio pubblico, come
condizione predisponente di ogni violenza manifesta: una rapina preventiva
di democrazia partecipata, quindi di democrazia, una privazione di spazi
essenziali di liberta' per la meta' del genere umano, quindi per il genere
umano nel suo complesso.
Si tratta di una scelta metagiuridica, posta a monte di tutte le scelte che
governano lo spazio pubblico, una scelta non dichiarata ma operante con
grande forza fattuale che incide negativamente e in profondita' nel tessuto
dei diritti fondamentali.
Possiamo trovare la controprova nel vissuto quotidiano: come abbiamo spesso
ricordato l'ordine patriarcale del discorso e della politica, precludendo lo
spazio pubblico, impedisce la compartecipazione ai livelli decisionali alti
della polis e determina pesanti ricadute sulla integrita' e sulla vita
stessa delle donne, autorizzando gesti quotidiani di disvalore fino alla
persecuzione violenta di quelle che osano compiere gesti di autonomia non
previsti nella gerarchia maschio-femmina.
Rispetto a questo ordine unilaterale e monosessuato si rendono, quindi,
necessarie rotture profonde. Si pone essenzialmente un problema di liberta'
che riguarda il corpo/mente delle donne.
Ma, come chiarisce Judith Butler (La violenza e la politica) "io rivendico
autonomia decisionale sul mio corpo, ma non posso dimenticare che esso e'
inserito in un contesto sociale, esso e' socialmente strutturato nella sfera
pubblica, porta in se' la tracce degli altri", quindi "essenzialmente per il
nostro bene, le forme dominanti di rappresentazione devono essere infrante
in uno spazio pubblico in grado di aprirsi ad un dibattito libero da
intimidazioni e censure affinche' qualcosa che ha a che fare con la
precarieta' delle vite abbia agio di esprimersi e possa essere compreso".
Se non riusciremo a sottrarci alla esclusiva maschile sulla polis saremo
incapaci di un uso pubblico efficace del nostro pensiero, destinate ad una
tutela perenne: "veline" del pensiero altrui. Ma lo scacco non si fermera'
qui perche' riguardera' tutti, come si comprende dagli attuali gravi segni
premonitori: sara' la sconfitta della democrazia, sovrastata dalla menzogna.
*
Si puo' forse tentare una via di uscita. Come primo passo si puo' modificare
il percorso, spezzare l'interdizione, alimentare la partecipazione di una
pluralita' di soggetti, ristrutturare lo spazio pubblico, occupandosi delle
realta' in cui si giocano le nostre esperienze esistenziali.
Questo appare il proposito di due liste che partecipano alla competizione
elettorale nei Comuni di Firenze e Bologna.
La lista fiorentina "Perunaltracitta'" presenta come candidata sindaca
Ornella De Zordo, gia' consigliera comunale di opposizione nella precedente
amministrazione, che vanta una esperienza nata nella pratica politica sul
territorio dei Comitati ambientalisti toscani e nel laboratorio fiorentino
dei professori animato da Paul Ginsborg e dalla stessa De Zordo.
Il suo programma si costituisce sulle proposte nate nei laboratori politici
di base operanti nei vari quartieri della citta', prevede percorsi
partecipativi attraverso siti internet e materiale cartaceo, assemblee e
riunioni decentrate sul territorio.
Cio' che piu' vale e' la pratica politica perseguita nella precedente
amministrazione: una pratica di contrasto alle decisioni piu' negative e
verticistiche della precedente giunta, resa possibile dall'informazione e
dal dialogo con gli esponenti della cittadinanza attiva. Tant'e' che le
liste dei candidati formate per quartieri, contengono esponenti di quella
esperienza, in gran parte donne.
Il tentativo bolognese e' meno noto, anche perche' iniziale. Si tratta di
una lista (Altracitta') di candidate a sindaca e consigliere comunali tutte
donne, che si propongono un piano partecipativo contro l'emarginazione, i
pregiudizi e la violenza sessista, omofoba e razzista, l'adozione del
bilancio comunale di genere, la lotta alla privatizzazione degli spazi e
delle risorse primarie.
Sorge la domanda se si tratti di percorsi immediatamente femministi e la
risposta al quesito non puo' che essere negativa. Va pero' considerato che
si tratta, appunto, di percorsi sui quali sembra opportuno ragionare senza
steccati mentali.
In primo luogo la citta' viene trattata come bene comune, primo passo per
una cittadinanza flessibile a contrasto di razzismo e sessismo, nella
direzione di una pratica critica verso l'unicita' del soggetto ed il
conseguente apparato verticistico del potere decisionale sulla sfera
pubblica.
Inoltre, il percorso (quello fiorentino, particolarmente) fa leva su
organismi associativi di base che molte donne animano delle loro esperienze
e dei loro progetti esistenziali. La partecipazione femminile puo' condurre
a passi essenziali verso la riarticolazione degli interessi che si esprimono
nella sfera pubblica, per la verifica dei valori che si vogliono introdurre
nella societa'.
Una modalita' per darvi efficacia sarebbe quella di intrecciare la pratica
politica associativa e istituzionale con la pratica del confronto fra donne
in luoghi della politica femminista ove analizzare in presenza le esperienze
vissute socialmente per elaborare pensiero originale capace di ridare
qualita' alla societa' in cui viviamo.

6. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

7. MONDO. MARINA FORTI: AVVOLTOI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 maggio 2009 col titolo "Avvoltoi al
ristorante"]

Si chiama "vulture restaurant", ristorante degli avvoltoi. Ha aperto la
settimana scorsa a Nagarparkar, villaggio della provincia del Sind, Pakistan
meridionale: e' iniziativa della Dhartee Development Society, associazione
ambientalista pakistana, in collaborazione con il programma Onu per
l'ambiente (Undp). Al "vernissage" si sono presentati quasi tutti i 42
avvoltoi Gyps censiti nella zona, ai bordi del deserto del Thar. Non fosse
per il loro caratteristico piumaggio bianco e nero e la testa "calva", a
piumette rade, quando saltellano sul terreno assomiglierebbero un po' a
grossi tacchini (ma forse il paragone sembra irrispettoso...).
In cosa consista un ritorante per avvoltoi non e' difficile immaginare: la
specialita' della casa sono carcasse di animali, lasciate sul terreno in
modo che gli uccelli possano servirsi. Infatti gli avvoltoi si cibano di
animali morti - di solito gia' morti, ma a volte uccidono quelli malati e
allo stremo, e per questo hanno un'immagine negativa nell'immaginario
occidentale (nella mitologia indu', al contrario, ci sono ben due semidei
avvoltoio a cui il Ramayana attribuisce nobili gesta). A torto pero' sono
disprezzati: gli avvoltoi hanno un'importante funzione ecologica,
ripuliscono carcasse che altrimenti resterebbero a decomporsi all'aperto
diventando fonte di malattie.
In Asia meridionale dominano tre specie di avvoltoi Gyps (il bengalensis,
l'indicus e il tenuirostris), e fino a non molti anni fa erano una vista
normale nelle zone rurali. Non piu': gli avvoltoi sono in declino un po'
ovunque nel mondo, e tra India e Pakistan si stima che la popolazione
naturale sia diminuita del 95%: quasi estinti. La Iucn, Unione mondiale per
la conservazione della natura, li ha messi nella sua lista di specie
gravemente minacciate. L'allarme e' multiplo: con gli avvoltoi viene meno
uno spazzino naturale, e non solo. E' minacciata anche una delle tradizioni
umane di questo subcontinente: per la comunita' parsi (di religione
zoroastriana), numerosa soprattutto a Bombay, e' usanza lasciare i corpi dei
defunti al sole, in cima a una speciale torre (la "torre del silenzio"),
dove saranno consumati dai raggi e dagli avvoltoi. Ma questo processo ormai
puo' richiedere mesi, in mancanza di avvoltoi: e negli ultimi anni la Bombay
Parsi Punchayet (la comunita' parsi di Mumbai) ha avviato programmi
naturalistici per importare e far riprodurre gli uccelli.
Che la si veda in termini di tradizione, di equilibrio ecologico o di salute
pubblica, la scomparsa degli avvoltoi fa suonare un allarme. Anche perche'
il motivo e' subdolo: la ragione principale dell'estinzione qui e'
l'avvelenamento da diclofenac, un diffuso farmaco anti-infiammatorio (e'
noto con vari nomi commerciali tra cui Voltaren). Il diclofenac e' usato
anche in veterinaria: permette agli animali di sopportare il dolore e
continuare a lavorare piu' a lungo. Ma il farmaco si accumula nei tessuti
dell'animale; cosi', quando l'avvoltoio ne divorera' la carcassa se ne fara'
una "overdose" che gli attacca i reni e lo uccide. Il diclofenac e' ormai da
qualche anno vietato sia in India che in Pakistan, ma resta ampiamente
usato. Ecco perche' qualcuno ha avuto l'idea dei "istoranti per avvoltoi",
dove sono "servite" carcasse prima analizzate per assicurarsi che non
contengano residui di diclofenac. Quello di Thaparnagar e' il primo in
Pakistan (mentre ce ne sono un paio in India e uno in Nepal), e oltre a
procurare agli avvoltoi cibo controllato, fara' un'opera di educazione
popolare perche' gli agricoltori della zona smettano di usare il diclofenac.

8. LIBRI. MICHELE NANI PRESENTA "STORIE DI ANARCHICI E SPIE" DI PIETRO
BRUNELLO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 maggio 2009 col titolo "Dissenso e
controllo nell'Italia dell'800"]

Pietro Brunello, Storie di anarchici e spie, Donzelli, euro 25.
*
Cinquanta lire per la consegna di un manifesto o una circolare, altrettante
per la notizia di un futuro congresso e circa la stessa cifra per una
lettera privata, una lista di nomi o un rapporto su un incontro: e' quel che
guadagnano gli informatori di polizia attorno al 1880. Erano l'equivalente,
grosso modo, di quindici giornate di lavoro da scrivano, figurarsi
l'equivalente per un muratore o un bracciante. Lo si apprende leggendo
Storie di anarchici e spie, l'ultima fatica di Pietro Brunello, da poco
uscita per Donzelli. L'autore insegna storia sociale a Venezia ed e' noto
per i suoi studi sulle classi subalterne, dal classico Ribelli, questuanti e
banditi (Marsilio 1981), sulla protesta contadina nel primo Ottocento, al
piu' recente Pionieri, sull'emigrazione italiana in Brasile (Donzelli 1994),
mentre per la Manifestolibri ha curato nel 1996 L'urbanistica del disprezzo,
sui campi rom in Italia.
Negli ultimi anni Brunello si e' immerso nelle carte di polizia dei primi
decenni postunitari, per comprendere gli atteggiamenti e le strategie messe
in opera dinanzi al pericolo rivoluzionario, ovvero, piu' prosaicamente, al
dissenso politico. La prospettiva scelta non e' la visione che si puo'
cogliere dal centro, dalla direzione romana della "pubblica sicurezza",
bensi' la costruzione del controllo dalla periferia, dai commissariati
locali che ricostruiscono le attivita' dei "sovversivi", sulla base di
inchieste, della raccolta sistematica delle informazioni, ma anche della
circolazione delle voci, della reputazione pubblica dei sorvegliati e del
ruolo di numerose e ben retribuite spie. Da questa massa di materiali si
legge in filigrana il faticoso radicamento della prima organizzazione
socialista: e Brunello incrocia sapientemente le fonti (dati anagrafici,
giornali e altre pubblicazioni) per farcela vedere anche al di la' dello
sguardo delle questure. Pur denso di riferimenti d'archivio e bibliografici,
il libro si legge come un romanzo, a volte giallo, altre a chiave, altre
ancora bozzetto d'ambiente, ora scapigliato, ora verista: la capacita'
narrativa di Brunello emerge anche negli "intermezzi", nei quali mette in
scena i dialoghi fra l'Autore e una Lettrice che lo sollecita con domande
impegnative, evidenziando i dubbi ma anche le prese di posizione dello
studioso.
In mancanza di una vera organizzazione di massa, i nostri primi
internazionalisti non erano in grado, negli anni Settanta ed Ottanta
dell'Ottocento di incidere realmente sulle scelte politiche e sul tessuto
sociale. L'allarme suscitato era invece proporzionale alle ansie e alle
paure delle classi dirigenti, costrette a misurarsi con i primi barlumi di
dissidenza intellettuale non inquadrabile negli schemi nazionali del
Risorgimento e con gli esordi di un'organizzazione delle classi subalterne
indipendente dalla tutela borghese o notabilare.
La percezione del "pericolo rosso" derivava dall'insicurezza e dal vero e
proprio incubo delineato dalla Comune parigina, piu' che da reali o
realistici progetti cospirativi e insurrezionali: tuttavia la sorveglianza
esercitata incise pesantemente sulle vite - e non solo sulla militanza - dei
presunti "malfattori". La centralizzazione degli schedari biografici e
l'istituzione di una rete di informazioni all'estero (per prolungare la
sorveglianza anche nell'esilio), ad esempio, comincio' proprio in questi
anni ed era strettamente funzionale ad una criminalizzazione del dissenso
che avrebbe trovato poi un ulteriore rilancio negli anni di Crispi e con la
prima guerra mondiale. Il perfezionamento dell'apparato culmino' nella ben
nota proliferazione del controllo istituita dal regime fascista, anche
attraverso il dilagare delle delazioni. Questa storia non fini' certo nel
1945: Brunello opportunamente sottolinea, in chiave comparata (ad esempio
con la Svizzera), la peculiarita' di lungo periodo della situazione
italiana, contraddistinta dall'ossessione per il controllo, dal massiccio
ricorso a infiltrati e provocatori, dagli abusi della polizia. Una vicenda
ancora aperta, basti ricordare il macello di Genova nel 2001, sfogliare gli
studi piu' avvertiti (come quelli di Salvatore Palidda) o prestare
attenzione alla cronaca, si tratti dei nuovi lager per i migranti o dei
pestaggi quotidiani, come quello che nel 2005 ha portato alla morte di un
ragazzo ferrarese, Federico Aldrovandi, alla cui memoria e' dedicato il
libro.
Le Storie di Brunello si aprono proprio a Ferrara, ricostruendo l'ambiente e
la vita quotidiana dei primi internazionalisti locali. Sfortunatamente, uno
dei contatti dei giovani e talora ingenui compagni ferraresi era il torinese
Terzaghi, la cui condotta aveva suscitato piu' di una perplessita' nella sua
citta' e nelle reti internazionali. Riparato a Ginevra, di li' a poco
sarebbe stato smascherato come spia, ma continuo' a essere difeso, in totale
buona fede, da molti militanti - gli stessi che spesso funzionavano, del
tutto inconsapevolmente, da informatori (i piu' preziosi agli occhi della
polizia, perche' - a differenza delle spie prezzolate - disinteressati).
Infiltrati a parte, oltre che con Engels e Cafiero, i ferraresi erano in
contatto anche con i confratelli lombardi ("La Plebe") e veneti. A Venezia i
socialisti erano al centro dei primi scioperi e dell'organizzazione dei
lavoratori e la locale questura non perdeva tempo: chiudeva giornali,
convocava gli organizzatori e assoldava "confidenti", che informavano con
solerzia sugli sviluppi dell'"Internazionale" e dunque anche su quanto
succedeva nelle altre province e oltre il Po. Di li' l'arresto, nel 1878, in
occasione di un congresso regionale, di Carlo Monticelli: tre mesi e passa
di galera per un reato riconosciuto come inesistente dalla Corte d'Appello
lo consacrarono a figura di rilievo del panorama internazionalista italiano.
Pur senza condanna, sconto' altri mesi "preventivi" ancora nel 1881: la sua
scarcerazione ha rappresentato a lungo un punto oscuro, che ha fatto pesare
sul suo conto non pochi sospetti. Con un paziente lavoro di scavo e
deduzione, Brunello scagiona Monticelli e dimostra che il gioco incrociato
di poliziotti e informatori puo' anche produrre qualche smagliatura.
Convinti di manovrare a piacimento le pedine, a volte si intralciano o si
confondono, altre vengono giocati. La chiusa del libro, consegnata ancora a
un "sipario" in forma di dialogo, rammenta, per voce della Lettrice, che
"nessun apparato riesce a controllare tutte le informazioni" e, soprattutto,
che "bisognerebbe imparare da quei personaggi del libro, gente che sa di
essere sorvegliata, eppure continua a fare le cose in cui crede".

9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

10. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 837 del 31 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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