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Minime. 833
- Subject: Minime. 833
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 27 May 2009 01:06:40 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 833 del 27 maggio 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Nucleare 2. Giulio Vittorangeli: Per un'Europa che rifiuta il razzismo 3. Stefano Rodota': Il diritto alla verita' 4. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento 5. Giulio Giorello ricorda Eugenio Colorni 6. Alcuni estratti da "La pensabilita' del mondo" di Sebastiano Maffettone (parte seconda e conclusiva) 7. Letture: Jolanda Insana, Tutte le poesie (1977-2006) 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. NUCLEARE Che il nucleare - civile e militare - sia una minaccia per l'umanita', tutti lo sanno. Che al nucleare - civile e militare - occorra opporsi, tutti dovrebbero sentirlo come compito proprio e comune. 2. UNA SOLA UMANITA'. GIULIO VITTORANGELI: PER UN'EUROPA CHE RIFIUTA IL RAZZISMO [Ringreaziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento] Con l'avvicinarsi delle prossime elezioni europee si riapre la discussione su quale ruolo avra' l'Unione Europea (strana entita', esistente e pero' sempre da costruire) a livello mondiale e di come il nuovo Parlamento decidera' della nostra vita quotidiana. Certo l'Europa e' stata costruita male, ad iniziare dalla mancanza di un chiaro progetto europeo. Doveva essere uno strumento di pace e oggi si trova corresponsabile di molte tragedie del mondo. Doveva essere un progetto di unione e comune convivenza e oggi si trova ad essere una burocrazia di norme omologanti, sempre piu' lontana dai cittadini, dalle loro culture e dalle loro storie. Ridefinire le finalita' dell'unificazione e' oggi piu' che mai indispensabile. Umberto Allegretti le sintetizza in cinque principali: l'Europa ha per scopi la pace, all'interno di se' e nel mondo; l'integrazione economica e lo sviluppo; la difesa e la crescita della democrazia; l'equita' sociale; infine, un contributo a un maggiore equilibrio nei rapporti tra i popoli nel campo economico, sociale, culturale e, di nuovo, della pace. Si tratta di finalita' che da tutta la storia della costruzione europea emergono come strettamente congiunte tra loro e che si ripresentano in condizione diverse e tuttavia con forte continuita'. "E' la fedelta' e la buona interpretazione di esse che dovremmo esigere dai candidati alle elezioni europee e dai partiti che li presentano, senza di che la rappresentanza italiana al parlamento dell'Unione non sara' degna della fiducia e del mandato che essi ci chiedono" (Umberto Allegretti). Purtroppo nell'Italia odierna, la cultura dei diritti umani e della pace e' stata drammaticamente travolta dalla crisi della politica, dalla crisi della cultura, dalla sfiducia, dallo scetticismo, dalla cieca difesa del tornaconto egoistico, con il dilagare di xenofobia e razzismo, nella frammentazione in individui solitari. Cosi' gli immigrati sono diventati i capri espiatori per tutti i mali che affliggono il nostro paese. Il tutto autorizzato da un razzismo istituzionale strisciante, facile da raccogliere, imitare e riproporre attraverso episodi di violenza che, non a caso, stanno aumentando nelle nostre citta'. Anche questa puo' essere una chiave di lettura del successo berlusconiano, che (non a caso) sfrutta il tema dell'immigrazione come arma elettorale. Ha scritto recentemente Claudio Cagnazzo: "Perche', a fronte della crisi e del precipitarci addosso delle contraddizioni del mondo, un popolo spaurito si rifugia dietro la speranza che qualcuno possa salvarlo. Qualcuno che conosce l'economia al punto da essersene servito e non esserne invece usato. Qualcuno che quel bozzolo sentimentale, futile ma intrigante, che il reality ci mostra, lo apprezza e vuole ricostruirlo con noi. Senza le brutture dei clandestini cattivi, o dei comunisti accidiosi. Senza le paure della crisi che possa entrare nelle case dei suoi piccoli fratellini. Senza l'insidia della feroce realta' quotidiana. Un uomo, un taumaturgo che ci aiuti a sconfiggere i fantasmi". Tutto diventa lecito, con grande consenso sociale e senza (o quasi) opposizione. Si veda l'infame accordo con il regime libico, in virtu' del quale migranti e rifugiati (cittadini eritrei, somali o nigeriani che rischiano la vita per fuggire dalla guerra, dalle persecuzioni e da gravi pericoli) intercettati in mare vengono riconsegnati, senza alcuna eccezione, ai loro aguzzini (quello che succedera' nei centri di detenzione libici alle persone respinte non e' certo un problema dell'Italia). Piu' che di rimpatrio, si tratta di deportazione immediata; usando la Libia come esecutore della propria politica di deterrenza e isolazionismo e rinunciando a qualsiasi parvenza di rispetto dei diritti umani piu' elementari. L'opposizione a tutto questo (le norme peggiori del "pacchetto sicurezza" riportano alla mente alcune tra le pagine piu' buie della storia recente, dell'Italia fascista), e' arrivata soprattutto dall'estero: l'Unione Europea, il Vaticano e le Nazioni Unite, che hanno espresso critiche dure all'attuale linea securitaria e xenofoba del nostro governo. Come ha osservato lucidamente Enrico Pugliese, nel nostro Parlamento non c'e' stata adeguata opposizione contro la radicalita' delle iniziative del governo. Anzi, luoghi comuni e artifici retorici, in sostanza anti-immigrati, sono stati usati da esponenti istituzionali del centrosinistra. L'opposizione e' oggi in gran parte fuori del parlamentare. La sola a chiedere una politica sociale a favore degli immigrati, a battersi per i loro diritti ad iniziare dalla dignita' del lavoro, a chiedere di affrontare l'immigrazione in termini di cittadinanza e di convivenza. L'Europa (non solo l'Italia) ha disperato e urgente bisogno di cittadini consapevoli delle proprie grandi responsabilita' storiche, che vogliono lavorare insieme per la costruzione di una Unione Europea interculturale che rifiuta il razzismo in ogni sua forma. 3. RIFLESSIONE. STEFANO RODOTA': IL DIRITTO ALLA VERITA' [Dal quotidiano "La Repubblica" del 26 maggio 2009 col titolo "La menzogna in politica e il diritto alla verita'"] Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono cosi' intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell'era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell'impietosa radiografia mediatica d'ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy e' finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor piu' ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell'uomo pubblico? Quale dev'essere la sua moralita'? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtu'? Puo' il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove puo' giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual e' il rapporto tra verita' e politica nel tempo della comunicazione globale? "La menzogna ci e' familiare fin dagli albori della storia scritta. L'abitudine a dire la verita' non e' mai stata annoverata tra le virtu' politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici". Cosi' Hannah Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralita', ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessita' di mantenere la propria legittimita' nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all'espulsione del mentitore. John Profumo e' costretto a dimettersi perche' ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart e' costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull'esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l'affidabilita' stessa del politico rende inammissibile la menzogna. Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi e' la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimita' di cui nessuno puo' essere espropriato. Ne' il primo, ne' l'ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l'identificazione sua con i destini del paese, non si puo' certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda e' stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Li' si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, e' cosa nota e consolidata che i politici godono di una piu' ridotta "aspettativa di privacy", proprio perche' la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto. Chi, allora, ha "diritto alla verita'"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, e' proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che "nessun uomo ha diritto a una verita' che nuoccia ad altri". Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perche' proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verita' possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si e' sottolineato che le procedure di occultamento della verita' hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l'accesso alla verita' e' sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene. Il diritto alla verita', in questo caso piu' che mai, e' diritto di tutti. E' stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt'altro che pretestuose proprio perche' riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facolta' di non rispondere" di cui giustamente puo' giovarsi l'indagato o l'imputato. "Nemo tenetur se detegere", recita un'antica e civile formula giuridica, che si puo' spiegare con le parole di un vecchio commentatore: "non imporre a nessuno, neppure allo scellerato piu' infame, di rivelare il malfatto". Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada cosi' scivolosa? Una menzogna puo' acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia e' considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non e' il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralita' pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non e' solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verita', sta l'inammissibilita' della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico. 4. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il seguente appello] Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di promozione sociale). Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione. Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235. Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille. Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato, la gratuita', le donazioni. I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi estivi, eccetera). Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della nonviolenza. Grazie. Il Movimento Nonviolento * Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento. Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261 (corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno. * Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 5. MEMORIA. GIULIO GIORELLO RICORDA EUGENIO COLORNI [Dal "Corriere della sera" del 25 maggio 2009 col titolo "Per far crescere la scienza bisogna abbattere gli idoli. Un volume e due convegni celebrano Eugenio Colorni" "Alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c'e' una conquista morale: l'abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima", amava ripetere Eugenio Colorni. Ben strano tipo di filosofo nel panorama italiano della prima meta' del Novecento, Colorni aveva preso le mosse dall'estetica di Croce, si era poi confrontato con quel mirabile inventore di metodi e artista di sistemi che era stato Leibniz: dalla matematica al diritto, dalla logica alla tecnologia. Era stato, pero', il contatto con Umberto Saba, "il poeta libraio di Trieste che parla il gergo della psicanalisi", ad affrancare Eugenio da quel tipo di "malattia" che prende il filosofo quando rende i "bisogni che sorgono in modo oscuro dalle profondita' della sua coscienza" veri e propri feticci cui sacrificare chiarezza e concretezza. Tale "liberazione", che ha reso Colorni autentico filosofo della scienza, e' oggi ricostruita nel volume che raccoglie i suoi scritti filosofici e autobiografici e che reca il titolo La malattia della metafisica, a cura di Geri Cerchiai (Einaudi, pp. XLVIII + 382, euro 24). Si tratta, come nota il curatore, della parabola di "un'intelligenza sempre pronta a rimettersi in discussione". Quel che piu' mi colpisce e' quella che Colorni stesso definiva "acredine iconoclasta", cioe' la capacita' di attaccare qualunque "idolo" blocchi la crescita intellettuale del singolo e il miglioramento della societa'. Il risvolto politico di tale iconoclastia aveva gia' risvegliato l'interesse di Norberto Bobbio (che aveva scritto un'introduzione per una selezione di Scritti di Colorni pubblicata del 1975 dalla Nuova Italia). Ma la lotta politica non risparmia nemmeno l'impresa scientifica: idoli nel senso di Colorni sono stati il geocentrismo dell'astronomia prima di Copernico, il mondo chiuso prima di Bruno o di Galileo, l'idea di un piano della natura prima di Darwin; e lo erano pure lo spazio e il tempo assoluti di Newton prima della relativita' di Einstein, o la nozione di un rigido nesso causale tra gli eventi prima della meccanica quantistica... Lo scienziato, per Colorni, deve dar prova di un occhio chiaro degno di Spinoza: analizzando gli stessi dogmi della ricerca scientifica e sbloccando le categorie in cui pretende di incasellare l'esperienza, riesce a superare quel "cieco amore per se stessi", che altrimenti impedirebbe ogni innovazione sia nella scienza sia nella vita civile. Nell'immergersi nella scienza Colorni, pero', non dimenticava la dimensione tragica dell'esistenza. Tutta la civilta' e tutta la cultura gli apparivano frutto delle nostre inquietudini: "E' il fatto che dobbiamo morire che da' un senso concreto e finito alla nostra attivita', che ci permette di misurare il tempo e di spenderlo come un tesoro non illimitato". Nato da famiglia ebraica (Milano, 22 aprile 1909), educato in ambiente liberale, militante antifascista vicino alla prospettiva del socialismo, gettato in carcere e al confino, Colorni ha saputo far fruttare il "tesoro" che la vita gli aveva concesso. Evaso e passato alla lotta clandestina, doveva venire ferito gravemente da una pattuglia della banda Koch il 28 maggio 1944, per spirare due giorni dopo. Vorrei terminare con una constatazione strettamente personale, essendo nato nel maggio dell'anno successivo, quando la lotta di Liberazione si era appena conclusa: e' anche grazie a uomini come Eugenio Colorni che la mia generazione ha potuto crescere e studiare in un clima di (difficile) liberta'. 6. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "LA PENSABILITA' DEL MONDO" DI SEBASTIANO MAFFETTONE (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Sebastiano Maffettone, La pensabilita' del mondo. Filosofia e governanza globale, il Saggiatore, Milano 2006] Da pagina 33 D'altra parte, non c'e' nulla di sorprendente in quanto m'appresto a sostenere. Una liberta' astratta, se fosse mai possibile, in uno scenario segnato da drammatica poverta' e dalla perdita delle proprie tradizioni, non e' di certo auspicabile. Come del resto non lo e' un'eguaglianza priva di liberta' e dignita' culturale, oppure un culto della tradizione perseguito a danno di liberta' ed eguaglianza. Solo mettendo d'accordo questi tre fattori, si puo' ipotizzare un progetto di "pace perpetua", come avrebbe detto Immanuel Kant, o quantomeno si puo' nutrire la speranza di un futuro accettabile per l'umanita'. Se, in quest'ottica, si guarda alla governanza della globalizzazione, allora diritti e democrazia devono congiungersi a un sistema economico aperto e distributivamente equo, costruito su una rete di istituzioni che tutelino le identita' degli individui e dei gruppi. Ne risulta un modello normativo complesso, il cui esito, in breve, e' che l'integrazione delle parti del pianeta in conflitto potenziale tra loro, nell'eta' attuale della globalizzazione, non dipende dall'imposizione dall'alto di un modello vincente di produzione-distribuzione e di legalita' etico-politica, ma riflette al contrario le esperienze locali e periferiche di soggetti complessi, ricercandone i luoghi di incontro o di scontro reciproci. Si tratta del modello basato - come si e' detto - sulla "integrazione pluralistica dal basso", nozione che sacrifica di certo l'eleganza in cambio, si spera, di una certa chiarezza delle sue intenzioni fondamentali. In merito a questa, si puo' affermare quanto segue: 1) l'allocazione delle risorse via mercato trova, in questo modello, un correttivo nella distribuzione egualitaria a tutela della sostenibilita' del sistema, in maniera specificamente legata alle culture di appartenenza delle popolazioni interessate; 2) allo stesso modo, la ragione pubblica si espande fino a concepire i diritti anche come diritti economico-sociali, e in sintonia con le identita' differenti; 3) Le questioni identitarie, in quanto tali, fanno si' che il modello debba essere proposto in forma "inside-out", cioe' facendo emergere le caratteristiche normative dall'interno delle varie culture. * Da pagina 128 Lo scetticismo filosofico sulla fondazione dei diritti umani e' tradizionale e antico. Da un punto di vista della controversia culturalista, e' curioso quanto ci sia coincidenza, e quanto poco questa coincidenza sia notata, tra critiche tradizionali e critiche recenti al paradigma filosofico dei diritti umani. In realta', le critiche tradizionali, che per esempio i romantici rivolgevano agli illuministi e che spesso gli storicisti riprendevano dai romantici, insistevano sull'omogeneizzazione e il sacrificio delle differenze che una visione illuminista e universalista dei diritti umani comportava. I diritti, in questa prospettiva, rappresentano un improprio livellamento di fertili differenze interindividuali e interculturali. Che cosa fanno i critici postmoderni dei diritti umani se non radicalizzare questo tipo di critica, riproponendola magari - come Derrida - in termini di antilogocentrismo e tutela delle differenze? Quando lo stesso Derrida sostiene che puntare sui diritti umani equivale ad abbracciare un'opzione mistica, non fa altro in realta' che ribadire, in versione differenzialistica, l'anatema romantico nei confronti dei diritti umani. Juergen Habermas attribuisce l'esercizio sistematico del sospetto sui diritti umani a due scuole di pensiero, di cui l'una teoretica risale a Heidegger e l'altra politica a Carl Schmitt. Si puo' notare che nella visione postmoderna spesso la critica scettica dal punto di vista teoretico si congiunge con l'opzione politica decisionista. Lo scetticismo filosofico sui diritti umani non e', pero', solo differenzialista e decisionista, romantico, storicista e antilluminista. E' anche reazionario, come nel caso di de Maistre, rivoluzionario, come nel caso di Marx, o iperdemocraticista, come nel caso di Bentham. Tranne l'ultimo caso, che da questo punto di vista e' piu' complesso, a me sembra che romantici, rivoluzionari e reazionari convergano, nel loro essere contro i diritti umani, e che il collante sia costituito da una cultura poco sensibile o addirittura francamente ostile al liberalismo. Questo antiliberalismo e' anche il trait d'union che rende possibile la ricordata congiunzione tra heideggeriani e schmittiani nell'esercitare il sospetto sui diritti umani. Anche in questo caso, e' da notare che i relativisti, come critici dei diritti umani, possono trovare una fonte in Heidegger, laddove i realisti possono cercare ispirazione in Schmitt. Se il collante di visioni cosi' differenti e' l'antiliberalismo, e magari la volonta' non sempre esplicita di giustificare regimi autoritari, non dovrebbe sorprendere che una difesa filosofica dei diritti umani poggi su una visione liberale della giustizia. La diffusione dello scetticismo filosofico sui diritti umani eccede pero' di gran lunga i limiti delle culture tradizionalmente poco sensibili al liberalismo. Hans Kelsen e Benedetto Croce, entrambi liberali ma contrari ai diritti umani, sono un esempio mirabile di cio'. Fatto e' che una fondazione filosofica dei diritti umani rappresenta intrinsecamente un'impresa difficile, per cosi' dire indipendentemente dal tipo di impostazione teoretica preferita. Impresa che, naturalmente, e' resa ancora piu' difficile quando si apre la questione della diversita' culturale. Non e' complicato, fortunatamente, comprendere la ragione concettuale piu' evidente alla base di questa difficolta'. Questa ragione ha a che fare con la natura ambigua, assieme empirica e filosofica, come la si e' chiamata prima, dei diritti umani. I diritti umani sono essenzialmente diritti morali, e quindi indipendenti da ogni ordinamento giuridico e da ogni applicazione in norme concrete. E, in realta', proprio questa loro indipendenza dal piano legale in senso stretto, e questa loro natura morale, li rendono una pietra di paragone e una riserva critica per il diritto positivo. Ciononostante, e' praticamente impossibile pensare ai diritti umani senza tenere conto del fatto che esiste una loro validita' effettiva e un insieme di fonti riconosciute. Il discorso filosofico sulla natura morale dei diritti umani non puo', in altre parole, prescindere dalla loro istituzionalizzazione effettiva. Questo sfondo ha una sua controparte piu' strettamente filosofica. Una fondazione filosofica dei diritti umani puo' assumere o un punto di vista esterno alle pratiche in cui i diritti si affermano, oppure un punto di vista interno a queste pratiche. Nel primo caso, si sottolinea l'aspetto morale dei diritti umani e la fondazione appare forte e significativa nella prospettiva di una critica normativa della prassi esistente. Ma, se si esclude l'ipotesi di un giusnaturalismo classico o comunque della condivisione di una Weltanschauung religiosa, come avviene nella dottrina cristiana del diritto naturale, risulta assai impervia. Nel secondo caso, invece, accade esattamente il contrario. E' piu' plausibile essere d'accordo, ma piu' che fondare una teoria dei diritti umani si cerca spesso la conferma nella teoria di una prassi legale gia' esistente. Con la conseguenza di un indebolimento notevole delle capacita' critiche della propria posizione teorica. C'e' anche chi, come Jacques Maritain, sostiene la compatibilita' di queste due opzioni: bisognerebbe essere, secondo questa visione, fervidamente convinti di una tesi fondazionale specifica, ma al tempo stesso ogni plausibile accordo su reali diritti umani sarebbe basato sulla necessita' di mettere da parte provvisoriamente la disputa sui fondamenti. Credo che la maggior parte delle critiche alla fondazione filosofica dei diritti umani non sfugga al quesito posto da questa impasse. Come vedremo piu' avanti, quando si discute di diritti umani e diversita' culturale, le due opzioni principali, cioe' il relativismo morale e l'universalismo monistico, oscillano anche esse tra queste due polarita'. Tipicamente, il relativismo appare una fondazione dei diritti umani troppo interna rispetto al loro rapporto con una cultura, mentre l'universalismo risulta troppo esterno. La mia tesi, in proposito, e' semplicemente che questo e' un buon motivo per andare alla ricerca di una soluzione terza rispetto all'universalismo e al relativismo, in modo da sfuggire al dilemma che questi estremi pongono. L'idea alla base di questa terza soluzione consiste innanzitutto nel distinguere opportunamente tra fondazione e giustificazione. Dove la fondazione vera e propria risulta improbabile, non e' detto che una giustificazione sia impossibile. Qualsiasi sia il tipo di giustificazione favorito - dialogico, contrattualista, fenomenologico ecc. - la giustificazione, come contrapposta alla fondazione, ha sempre la caratteristica di attribuire significato parzialmente normativo ad alcuni elementi del contesto effettuale. Il costruttivismo, come contrapposto, per esempio, all'intuizionismo, puo' costituire una base filosofica per la giustificazione. Nell'ambito di un processo generale giustificativo, a mio avviso, e' poi opportuno distinguere qui tra giustificazione e legittimazione. In un'ottica liberaldemocratica, entrambe dipendono dal consenso dei cittadini, ma come gia' detto altrove, la legittimazione e' procedurale ed empirica e la giustificazione trascendentale o virtuale. Cio' vuol dire che la legittimazione ha sullo sfondo il consenso empirico oppure la correttezza de ll'iter procedurale, mentre la giustificazione il consenso ipotetico in condizioni ideali opportunamente definite. Nel prosieguo cerchero' di applicare questa distinzione tra giustificazione e legittimazione alla questione del rapporto tra universalita' dei diritti umani e tutela della diversita' culturale. * Da pagina 178 Sviluppo sostenibile e filosofia politica Sviluppo sostenibile: alle origini di un'idea Negli anni in cui studiavo all'Universita' di Napoli, verso la fine degli anni Sessanta, esisteva una convinzione diffusa in Europa occidentale secondo la quale il capitalismo versava in una crisi profonda e irreversibile. La ragione di questa crisi aveva molto a che fare con una vicenda centrale nella parabola di quello che due economisti marxisti, molto popolari a quel tempo, Baran e Sweezy, chiamavano il "capitale monopolistico". La crescita economica capitalistica, a sentire questi autori, era vincolata a una sorta di coazione a ripetere, il cui imperativo principale consisteva nella necessita' di stimolare continuamente domanda e consumo. Questa stessa necessita' rendeva cieca e non controllabile la crescita dell'economia capitalistica. E indirettamente offriva il verso alla critica di tutti coloro che, ispirandosi a personaggi piu' fantasiosi degli economisti sopra ricordati, quale per esempio il filosofo tedesco Herbert Marcuse, ritenevano la "dimensione" capitalistica non compatibile con una decente qualita' della vita. La critica neomarxista dell'economia si congiungeva cosi' con l'ansia libertaria per comporre quel cocktail creativo comunemente chiamato "Sessantotto". In maniera strana, ma sicuramente originale, l'impossibilita' di una riconciliazione tra capitale e lavoro nell'ambito dell'economia neoclassica, che era parte importante del progetto comunque industrialista e modernizzatore di Marx, finiva per incontrare la resistenza tardoromantica e neoschilleriana all'impero della tecnica e della produzione, questa invece sostanzialmente antimodernizzatrice e antindustrialista. Una resistenza che evocava anche ritualisticamente la qualita' contro la quantita', l'autenticita' in vece dell'omologazione, la fantasia al posto della coazione a ripetere, l'umano piuttosto che la tecnica, lo sviluppo in luogo della mera crescita e cosi' via. Come dicevo, la miscela sessantottarda di marxismo e neoromanticismo era anomala, per cosi' dire, intrinsecamente. Non stupisce cosi' che abbia fallito i suoi obiettivi piu' significativi. Quando si fa un'analisi delle ragioni di quel fallimento si sottolineano di solito gli aspetti eccessivamente utopici del progetto etico-politico che sottostava al movimento del Sessantotto. E bisogna riconoscere che c'e' molto di vero in questa critica retrospettiva. Analisi del genere, pero', non mettono in rilievo adeguatamente due altri aspetti della questione, aspetti peraltro che a me sembrano fondamentali. Intendo riferirmi da un lato a quanto c'era di buono in quella miscela del Sessantotto, e che potremmo considerare anche oggi attuale e interessante, e dall'altro lato a quanto di nuovo e significativo si e' prodotto da allora a oggi nel mondo delle idee etico-politiche che, in un certo senso, potrebbe rivitalizzare la parte migliore di quel progetto esaurito. A mio avviso, non e' pero' troppo difficile azzardare un'ipotesi interpretativa in proposito. Il meglio del progetto del Sessantotto ha a che fare con la sua capacita' di riunire, in un unico paradigma, la ricerca della qualita' della vita con la questione economico-sociale, sarebbe a dire con il modo di produzione capitalistico e l'ingiustizia sociale che ne deriva. Le piu' significative proposte etico-politiche, che si sono affacciate sul mercato delle idee da allora a oggi, riguardano gli sviluppi del paradigma della giustizia distributiva da John Rawls ad Amartya Sen. Naturalmente, tutto cio' visto dopo il 1989 acquista una luce diversa. Perche' possiamo affermare che i nostri interessi morali, politici, ma anche estetici, per una difesa della qualita' della vita contro una concezione puramente quantitativa della crescita economica sono ancora simili a quelli che si nutrivano quasi quarant'anni fa, come e' tra l'altro testimoniato dall'affermarsi progressivo di movimenti ecologisti e di strumenti economici qualitativi da allora a oggi. Quello che, invece, e' diventato piu' difficile e' credere nella componente neomarxista della miscela 1968, perlomeno se presa alla lettera, come risposta alle domande poste dalla questione economico-sociale. Se si accetta questa impostazione del problema, allora diventa immediato chiedersi se quello che ho chiamato il paradigma delle teorie della giustizia distributiva possa sostituire l'anello mancante, cioe' la lettura marxista della questione economico-sociale. Il ragionamento sottostante una proposta del genere e' infatti chiaro: se la miscela del 1968 aveva di buono l'unione di difesa della qualita' della vita e questione economico-sociale, o se volete il rendere compatibili le cause di miseria e degrado (non solo materiale); se la questione economico-sociale non puo' piu' essere riproposta come allora in termini di neomarxismo; se le teorie della giustizia da Rawls a Sen costituiscono un modo innovativo e interessante per discutere la questione economico-sociale; allora si puo' tentare di riproporre la difesa della qualita' della vita nell'ottica di una teoria della giustizia distributiva. Quanto detto finora costituisce la premessa motivazionale da cui dipende questo capitolo su sviluppo sostenibile e filosofia politica. La tesi principale, sostenuta qui, verte su un'interpretazione filosofica dello sviluppo sostenibile. Secondo questa interpretazione, proprio una teoria dello sviluppo sostenibile permette quella congiunzione di difesa della qualita' della vita e questione economico-sociale, di cui il Sessantotto si fece portavoce. Se vogliamo, sto sostenendo che la questione della tutela del capitale naturale (contrapposto a capitale artificiale), che sta sotto l'idea di sostenibilita', non puo' essere scissa da quella dell'equita' distributiva. Se, pero', nel 1968 difendere il capitale naturale e promuovere l'equita' sociale poteva coincidere con il progettare la rivoluzione comunista, oggi non e' piu' cosi'. La filosofia politica dello sviluppo sostenibile, che qui propongo, assume che sia possibile una conciliazione liberal e socialdemocratica di produzione via mercato, distribuzione equa e tutela del capitale naturale. Per difendere questa tesi, nel prossimo paragrafo cerchero' di delineare al meglio l'ambito di una filosofia dello sviluppo sostenibile. Non e' questo un compito facile, date le difficolta' teoriche e pratiche implicite nell'idea di sviluppo sostenibile, e l'ulteriore complessita' che e' dovuta al voler riproporre tale idea in termini di giustizia distributiva. La proposta generale di questo capitolo consiste nell'includere la questione dell'eguaglianza economico-sociale all'interno del grande tema dello sviluppo sostenibile, trattando pero' quest'ultimo nei modi in cui si discute di solito di giustizia distributiva. Nel terzo paragrafo discuto le basi morali e psicologiche di questa visione, presentando un'ipotesi psicologico-sociale basata sul concetto di limite. Nel quarto, cerco di estendere il paradigma alla globalizzazione economica in atto, tentando anche di riformulare l'ipotesi sul limite in termini di mutamenti della struttura economica. E nel quinto, traggo alcune conclusioni dal percorso intellettuale qui proposto, con la consapevolezza che piu' che un teorema etico-politico ho esposto un'idea in nuce, la possibilita' di un legame che riguarda fenomeni significativi che caratterizzano il nostro tempo. * Da pagina 206 E' il capitalismo moralmente accettabile? Capitalismo e morale Per molti studiosi, e spesso anche per l'uomo della strada, la democrazia politica e' un regime in crisi. Al contrario, il capitalismo sembra, al colto come all'inclita, florido piu' che mai. Il problema che mi sono posto nasce da qualche dubbio in proposito. Se guardato, infatti, in una prospettiva globale, il capitalismo puo' essere considerato parzialmente inefficiente e soprattutto causa di profonda ingiustizia. Questo capitolo nasce proprio dalla constatazione che spesso l'operare del mercato capitalistico contrasta - in primo luogo per l'ineguaglianza e la miseria che genera - con il nostro senso di giustizia. Il titolo del capitolo consiste in una domanda alquanto brutale: "E' il capitalismo moralmente accettabile?". La risposta immediata che io do' a questa domanda: "No, non e' moralmente accettabile", almeno se per accettabile si intende "in grado di superare il test di una giustificazione filosofica". Nell'affermarlo, sono ben consapevole che il termine capitalismo e' vago, tanto da costituire per molti un punto di partenza inadeguato. Tuttavia, in questo caso "capitalismo" basta, a mio avviso, a catturare un'intuizione comune, e a me non serve piu' di tanto. Evidenti sono anche i limiti della prospettiva teorica che contraddistingue il mio argomento. Da un punto di vista analitico, infatti, la mia risposta alla domanda assai generica posta dal titolo del capitolo adopera gli strumenti dell'etica degli affari, vista nell'ottica della filosofia politica. Ed e' ovvio che il problema qui posto puo' essere posto anche in un'ottica diversa e piu' generale. Comunque sia, la conclusione cui pervengo e' che, dati questi strumenti teorici, non e' possibile trovare una giustificazione etica del mercato capitalistico. Questa tesi, pero', non equivale a un rifiuto radicale ne' dell'etica degli affari ne' tantomeno del mercato capitalistico. Anzi, nel prosieguo sostengo che, su queste basi, e' possibile reperire un'ulteriore legittimazione del mercato capitalistico, oltre a quelle strettamente legate all'efficienza economica. Si puo' anche dire che un capitalismo moralmente decente, e quindi legittimato, e' il presupposto di ogni giustificazione etica del capitalismo. E' anche opportuno aggiungere che la stessa prospettiva analitica prescelta esclude, in quanto tale, il ricorso a forme di giustificazione critica del capitalismo piu' radicali, in cui non sussista un meccanismo di selezione dell'informazione del tipo del mercato. Ma, per comprendere il senso di queste affermazioni, bisogna necessariamente fare un passo indietro, cominciando con l'esaminare natura e problemi dell'etica degli affari. 7. LETTURE. JOLANDA INSANA: TUTTE LE POESIE (1977-2006) Jolanda Insana, Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti, Milano 2007, pp. 664, euro 19,50. Il libro raccoglie versi gia' apparsi in vari volumi del periodo considerato, e in coda un'antologia della critica. Leggere i versi di Jolanda Insana e' una sfida: la realta' piu' cruda vi e' ostesa travestita da carnevale, il ribollire insensato e infernale della lingua vi e' raggelato in favola di fantasime, onomaturgia e glossolalia occultano e quindi disvelano sofisticatissime mescidazioni barocche di basso e sublime, di sermo plebeius e creaturale che cozza con ogni aulica tradizione e si frange in mille iridescenze. "E' una poesia - diceva iersera Annibale Scarpante - che a me non piace, giurabacco, proprio no, per quanto ha di incontrollato e di sofistico a un tempo, di eruttivo e di ipercalittico, ma corpo di mille fulmini e' pur poesia"; Annibale nostro e' fatto cosi', chi ci capisce e' bravo. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 833 del 27 maggio 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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