Minime. 829



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 829 del 23 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Sulle elezioni amministrative
2. Immigrati respinti verso la fame e la morte
3. Franco Astengo: Razzismo e modello politico
4. Maria Serena Palieri intervista Toni Morrison
5. Alcuni estratti da "Un giorno o l'altro" di Franco Fortini (parte prima)
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. SULLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE

Ovunque possibile, ovvero dove vi siano nel campo non berlusconiano liste e
candidati non ripugnanti e non criminali, alle elezioni amministrative di
giugno occorre votare contro il golpe berlusconiano e contro il razzismo.
Gli enti locali possono costituire un fondamentale contrappeso democratico,
un fondamentale soggetto istituzionale di resistenza all'eversione dall'alto
del blocco sociale del neofascismo, del razzismo e della mafia.
Certo, e' sempre piu' difficile trovare liste e candidati non compromessi,
non corrotti, non ignobili. Ma ove ve ne siano, occorre votarli.
Nell'immediato futuro avremo bisogno di tutte le risorse democratiche
disponibili per contrastare il tentativo di introdurre in Italia il regime
dall'apartheid, il regime dell'anomia, il regime del gangsterismo dei
potenti.
Sara' decisivo quindi anche fin l'ultimo consiglio comunale per difendere la
legalita', la Costituzione, i diritti umani. Per contrastare il fascismo, il
razzismo, il potere mafioso.

2. UNA SOLA UMANITA'. IMMIGRATI RESPINTI VERSO LA FAME E LA MORTE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 maggio 2009 col titolo "Immigrati. La
Cei: Respinti verso la fame e la morte"]

I vescovi italiani tornano ad attaccare il governo per la politica dei
respingimenti in mare adottata nei confronti dei clandestini. A farlo e'
stata ieri la Sir, l'agenzia di stampa della conferenza episcopale, che in
un intervento a firma del presidente della Commissione Cei per i problemi
sociali e il lavoro, monsignor Arrigo Miglio, ha parlato degli immigrati
riportati in Libia come di persone costrette a "tornare su strade di fame e
di morte che gia' conoscevano". Uomini, donne e bambini che, al contrario di
quanto affermato nei giorni scorsi dal premier Silvio Berlusconi, sarebbero
tutt'altro che criminali: "Non tutti erano bisognosi di asilo - ha
proseguito monsignor Miglio - non tutti santi, ma poveri lo sono di certo".
Dalla Sir arriva poi anche una dura critica alla proposta, avanzata nelle
scorse settimane dal capogruppo della Lega al consiglio comunale di Milano,
Matteo Salvini, di riservare alcuni vagoni della metropolitana ai milanesi.
Proposta liquidata come "un inedito apartheid da sperimentare a Milano".
Ma le critiche non arrivano solo dal presidente della Commissione Cei per i
problemi sociali. Sull'argomento interviene infatti anche il vescovo di
Milano, monsignor Dionigi Tettamanzi. L'occasione e' la puntata di "Che
tempo che fa" andata in onda ieri sera. Rispondendo alle domande di Fabio
Fazio, monsignor Dionigi Tettamanzi ha infatti ricordato come anche gli
italiani in passato siano stati dalla parte di chi emigrava. Proprio per
questo, ha aggiunto, la politica non puo' farsi prendere dalla paura
dell'immigrazione. "Dobbiamo onorare la memoria del passato - ha detto
monsignor Tettamanzi - non per essere nostalgici, ma per essere piu'
coraggiosi nell'affrontare il futuro che ci vedra', penso, molto piu'
impegnati in un confronto multietnico, interculturale, interreligioso".
Certo, ha poi proseguito Tettamanzi, quello dell'immigrazione e' un fenomeno
che va governato ma "sempre nel rispetto dell'inviolabile dignita' di ogni
persona".
Intanto proprio la decisione di respingere i barconi di immigrati ha
fruttato al ministro degli Interni Roberto Maroni la prima denuncia. A
presentarla sono stati i parlamentari radicali eletti nelle liste del Pd
Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, Donatella Poretti e Marco Perduca,
che assieme agli avvocati Alessandro Gerardi e Giuseppe Rossodivita, membri
dirigenti di Radicali italiani, hanno depositato un esposto presso la
Procura della Repubblica di Roma contro il governo italiano per il
respingimento dei 227 migranti salvati in acque internazionali due settimane
fa. L'esposto, hanno spiegato, "e' volto a verificare la legittimita'
giuridica del respingimento in Libia dei profughi soccorsi in acque non
territoriali, atteso che alcuni di loro erano in possesso dei requisiti per
avanzare richiesta di asilo politico una volta giunti in Italia, come
certificato anche dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati". "Si tratta - sottolineano i radicali - di migranti che vivono in
condizioni fisiche e psicologiche tremende e che il Governo italiano
'riammette' in Libia sapendo il rischio che queste persone corrono una volta
consegnate alle autorita' libiche, cio' in aperto ed evidente contrasto con
il principio di 'non respingimento' previsto da numerosi trattati e
convenzioni internazionali".

3. UNA SOLA UMANITA'. FRANCO ASTENGO: RAZZISMO E MODELLO POLITICO
[Dal sito www.sinistra-democratica.it]

L'ondata di razzismo che sta attraversando la societa' italiana, con
venature di vera e propria intolleranza (non mi riferisco soltanto al favore
dell'opinione pubblica verso i cosiddetti "respingimenti", ma, ad esempio,
al caso della preside di Genova che intendeva dichiarare "clandestini"
preventivamente i propri studenti extracomunitari) ha un rapporto diretto,
ed una influenza rispetto al modello politico imperante nel nostro Paese.
Cadono le discussioni sugli "italiani brava gente" e sulla durezza della
crisi economica che, inevitabilmente, porta alle guerre tra poveri: si
tratta di un fenomeno che arriva da piu' lontano ed interessa appunto
l'insieme del modello politico composto dalla realta' dei corpi intermedi,
dal ruolo delle istituzioni, dalle complesse modalita' di cittadinanza
attiva.
Da oltre un decennio, infatti, il modello politico italiano ha mutato segno,
da luogo di forte partecipazione politica e sociale (con l'indicatore della
partecipazione al voto come segnale forte, ma non certo esaustivo di una
evidente vitalita' sociale), a terreno di esclusione, per larghe fette di
popolazione, per una realta' dei soggetti politici cui pare sempre piu' dare
fastidio il dibattito, per una informazione che piu' o meno all'unisono
regge acriticamente le logiche di un sistema separato.
Questi fattori hanno fatto cadere la realta' di una cultura politica forte
che, in settori sociali non secondari, faceva da barriera a determinati
modelli e a determinati meccanismi comportamentali: certo il ventre molle e'
sempre stato presente, ed in dimensioni ragguardevoli.
Una idea inclusiva dell'agire e dell'organizzare la politica svolgeva,
pero', una funzione importante sul piano dell'integrazione.
Il punto di caduta maggiormente negativo, sotto questo aspetto, riguarda la
realta' dei partiti che hanno dismesso, complessivamente, una funzione di
alfabetizzazione (in senso lato, ovviamente) e, da sinistra, la capacita' di
promuovere la riflessione collettiva sulle modalita' di sfruttamento, che
non erano semplicemente quelle delle fabbrica, della bottega, dell'ufficio,
della filanda, ma quelle piu' generali della soggezione a regole imposte
dall'alto nei campi piu' diversi: una riflessione collettiva che portava poi
all'idea del cambiamento, della ribellione, dell'organizzazione.
L'abbiamo scritto gia' tante volte ma non abbiamo paura di ripeterci: aver
esaurito la funzione dei partiti nella mera "governabilita'", li ha fatti
tornare indietro (non abbiamo paura di questa espressione) quali sede della
promozione di un nuovo notabilato, dove ormai le pulsioni personalistiche
paiono prevalere ad ogni livello, non soltanto al livello del capo del
governo e delle sue molteplici avventure.
Egualmente appare fattore di esclusione sociale il ruolo assunto dalle
istituzioni a livello locale, sia sotto l'aspetto della qualita' del
dibattito che vi si sviluppa (fattore non secondario di questa vera e
propria crisi: il ruolo in via di decadimento dei consessi elettivi, la
riduzione delle Giunte al servizio del potere monocratico dell'eletto
direttamente dai cittadini, con la riduzione nelle funzioni delle minoranze
e l'affermarsi di una incauta presunta separatezza tra politica ed
amministrazione) e della conseguente, direttamente conseguente, destinazione
delle scelte in materia di territorio, di ambiente, di servizi sociali.
All'interno di questo quadro, descritto forse sommariamente ma che abbiamo
l'ambizione di credere sufficientemente veritiero, e' pressoche' scomparso
il confronto sul tema dei diritti politici dei nuovi cittadini: ancora un
paio d'anni fa resisteva ancora un barlume di riflessione su questo punto
che, adesso, sembra sparito.
Le delibere di concessione del voto amministrativo ai nuovi cittadini che
pure qualche ente locale aveva tentato di portare avanti sono finite nel
dimenticatoio: pluralita', allargamento, inclusione sociale sono parole che
hanno direttamente a che fare con il modello politico.
Adesso appaiono del tutto desuete ed i risultati si vedono.

4. LIBRI. MARIA SERENA PALIERI INTERVISTA TONI MORRISON
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 22 maggio 2009 col titolo "Toni Morrison: il
mio viaggio alle radici del razzismo" e il sommario "L'incontro. L'America
prima degli Stati Uniti. Lo schiavismo prima del razzismo. Una madre che
regala la figlia per evitarle le catene. La scrittrice premio Nobel nel '93
racconta il suo ultimo libro, Il dono"]

Il dono, il nuovo romanzo di Toni Morrison in libreria per Frassinelli, e'
un libro che ci spalanca le porte su un mondo storicamente esistito, fino a
tre secoli fa, ma, ai piu' di noi lettori, incredibilmente ignoto: il Nord
America prima che nascessero gli Stati Uniti.
Ambientato nel Seicento, tra le torride Barbados, l'enclave cattolica del
Maryland e le terre ghiacciate del Nord, ci racconta la vicenda di una
bambina, Florens, figlia di una schiava giunta dall'Africa, del suo nuovo
padrone, l'anglo-olandese Jacob, e delle altre donne che, con lui, vivono in
una fattoria del Settentrione: sono la moglie Rebekka, sfuggita
all'Inghilterra delle persecuzioni religiose e di una predickensiana
poverta' metropolitana, l'indiana "nativa" Lina, e Sorrow, una ragazzina
arrivata li' dal mare dopo un naufragio, come un miracolo o una sciagura.
Alle loro si intreccia la vicenda di Scully e Willard, due bianchi che, da
braccianti, vivono anch'essi in condizioni di schiavitu'. E' un'America dove
passeggiano ancora indiani a cavallo ne' selvaggi come nei film ne' - come
nelle riserve - abbrutiti dall'alcool, mentre i fondamentalisti di uno
sciame di sette cristiane si rinserrano nei villaggi esorcizzando il Maligno
che sarebbe responsabile dell'epidemia di vaiolo in corso. Florens e' stata
"donata" a Jacob, uomo dallo sguardo buono, da sua madre che ha voluto
salvarla cosi' dalla brutalita' dei suoi stessi padroni. Ma Florens
impieghera' le 177 pagine del libro a guarire dal suo male, la fame che le
deriva da questo gesto d'amore che ha vissuto come un tradimento. L'amore,
sostanza del vivere che, come l'acqua, s'insinua dappertutto, e' uno dei
grandi temi di Toni Morrison. E Florens e' stata letta come antenata di
un'altra figlia, la Amatissima del romanzo del 1987 che alle soglie della
Guerra Civile la madre, schiava, Sethe uccide perche' in lei non si rinnovi
il suo destino.
Ora Toni Morrison, dolorante alla schiena, passo malcerto, ma sempre
maestosamente bella, a 78 anni fa l'esperienza di un'altra America: sceglie
il tailleur di Armani che vuole regalare alla moglie del figlio Ford,
invitata dagli Obama alla Casa Bianca. Sbracciato? No, troppo a imitazione
della first lady: "Con Michelle 'le braccia sono le nuove gambe', si dice
oggi" ride.
*
- Maria Serena Palieri: Il Nuovo Mondo che racconta e' il contrario di un
paradiso. I vizi capitali ci sono gia' tutti: avidita', brutalita',
ipocrisia e perfino la pedofilia ecclesiastica. Il suo bersaglio era la
presunzione d'innocenza degli americani?
- Toni Morrison: Ho voluto raccontare come queste persone cercassero un
paradiso, senza accorgersi che anche li' erano in agguato vizi di sempre:
l'autoillusione, la debolezza, il dubbio, la paura. Ma anche come
combattessero con coraggio enorme per sopravvivere o cercare di vivere bene
in un mondo selvaggio e pericoloso.
*
- Maria Serena Palieri: Il dono descrive un mercato degli schiavi che - li'
in quel secolo - riguarda tutti: neri, nativi, meticci, europei. La nostra
sorpresa, nel leggere, e' stata giustificata?
- Toni Morrison: Credo che questa parte della storia sia ignota anche negli
Stati Uniti. La nostra storia, per come viene narrata, comincia con il 1776
della dichiarazione d'indipendenza, il prima e' stato cancellato e nascosto.
Mi sono consultata con storici e antropologi per un biennio e ho studiato
materiale sulle traversate atlantiche: chi erano i fuggiaschi a bordo di
quelle navi? Fuggivano dalle persecuzioni religiose, ma erano anche mercanti
e criminali. Diventare tali era facile: bastava istigare una rissa, oppure
prostituirsi o essere una madre nubile. La scelta che veniva proposta era:
il carcere, oppure vai nel Nuovo Mondo. Il contratto che legava servi e
padroni poteva durare una vita e, se il servo moriva prima di adempierlo,
passava ai suoi figli. Schiavi bianchi e neri vivevano e lavoravano insieme
nelle piantagioni. Ora, tutto il mondo ha conosciuto la schiavitu', l'antico
Egitto, i Greci, Roma, l'Europa della servitu' della gleba. Ma la novita' da
noi e' stata l'istituzionalizzazione del razzismo: gli schiavi bianchi da un
certo momento in poi sono saliti di un gradino, sono stati separati dai neri
e hanno ottenuto il diritto, perfino, di ucciderli.
*
- Maria Serena Palieri: E' l'evoluzione della schiavitu' in razzismo - male
ancora attuale - che ha voluto mettere a fuoco?
- Toni Morrison: Volevo essere sicura che gli americani capissero che il
razzismo non e' ne' naturale ne' inevitabile. E' nato solo per permettere ai
proprietari terrieri di mantenere indisturbato il proprio potere, creando
gerarchie tra schiavi.
*
- Maria Serena Palieri: Campeggia nel romanzo la figura di un nero che non
ha mai conosciuto la schiavitu'. E' storicamente plausibile, oppure e' una
licenza narrativa?
- Toni Morrison: Ce n'erano. Avventurieri, marinai, capi arrivati
dall'Africa. Ci sono neri negli Usa oggi che non hanno schiavi nel proprio
albero genealogico. Pochi, ma ci sono. Il Fabbro e' colui che trasmette
amore, amicizia, forza, paura. Perche' e' nero. E' libero. E' competente.
E', del mio libro, il cuore che batte. Ma e' anche colui che intimorisce.
*
- Maria Serena Palieri: Florens se ne innamora. Ma, respinta, lo aggredisce
forse a morte. E' un finale dolce o amaro?
- Toni Morrison: Allarmante, ma promettente. Il libro comincia con Florens
che dice la parola "paura", e finisce con Florens che dice la parola
"libera". In lei c'e' rabbia, c'e' vendetta. Cosa fara' dopo? La strada e'
lunga.
*
- Maria Serena Palieri: Nel 1993 e' stata la prima scrittrice afroamericana
a ricevere il Nobel. Un anticipo di cio' che il novembre 2008 ha riservato
al suo paese?
- Toni Morrison: Sono cinica. Ho ricevuto troppe delusioni. Non ho mai
pensato che Barack Obama potesse vincere. Ma ecco le coincidenze: ho scritto
questo romanzo sugli anni in cui il razzismo ancora non era stato inventato.
E ora posso sperare che ce l'abbiamo alle spalle.
*
- Maria Serena Palieri: I primi 150 giorni di presidenza l'hanno delusa?
- Toni Morrison: Obama non e' un re. E' un presidente e deve vedersela con
Congresso e Senato. Coi cattivi... Le aspettative sono astronomiche. E gli
americani sono come bambini, vogliono tutto e subito.
*
Postilla. Big mama. Vita e opere da Nobel
1931. Chloe Anthony Wofford, in arte Toni Morrison, nasce a Lorain, Ohio, il
18 febbraio 1931 da una famiglia nera della classe operaia.
1970. Debutta come romanziere con L'occhio piu' azzurro. Seguiranno i
romanzi Sula, Il canto di Salomone e L'isola delle illusioni.
1987. Esce il suo capolavoro, Amatissima, con il quale vince il Booker
Prize. Nel '92 pubblica Jazz.
1993. Riceve il Nobel per la Letteratura. Pubblica poi Paradiso, Amore e
quest'ultimo Il dono. Tutti i suoi libri sono tradotti in Italia da
Frassinelli.

5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "UN GIORNO O L'ALTRO" DI FRANCO FORTINI (PARTE
PRIMA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Franco Fortini, Un giorno o l'altro, Quodlibet, Macerata 2006]

Da pagina IX
Introduzione di Romano Luperini
1. Un giorno o l'altro. Un giorno come l'altro. Ne puoi scegliere uno a
piacere, troverai sempre le stesse domande, le stesse "insistenze". Oppure,
minacciosamente o profeticamente: un giorno o l'altro qualcosa accadra', lo
sperato si adempira'. I due sensi non si contrappongono; convivono
piuttosto, crescono l'uno sull'altro. E' la ripetizione della tenacia nello
sgranarsi del sempre-eguale che puo' far maturare la promessa.
Titoli del genere, con allusioni alla temporalita' e con echi di linguaggio
popolare e sapienziale (qui confermati, per giunta, dal riferimento al
dialetto di Noventa), il lettore di Fortini li conosce gia': per esempio,
Non solo oggi; oppure Memorie per dopodomani. Sempre dall'ieri al domani;
sempre l'oggi in bilico fra passato e futuro, fra memoria e mutamento. La
dissipazione del tempo, dell'eterogeneo e del discreto; e l'arresto del
tempo, la cristallizzazione che conserva l'oggi per il domani: una volta per
sempre, dunque (altro titolo). Il tempo va fronteggiato, la sua rapina
insensata orientata a un fine. E' la fine - e il fine - che spiega l'inizio
e il percorso, dona loro un significato. E' la conclusione del verso che gli
fornisce la cadenza. Di qui il lacerto, il frantume, l'annotazione, il
biografico e l'empirico, la dispersione dei giorni, il diario; ma di qui
anche il bisogno di totalita' e di senso, di una storia che riassorba la
minuzia della cronaca. Il diario e una smembrata autobiografia (non so chi
sono, ci dice piu' volte l'autore in queste pagine) da un lato; i "destini
generali" dall'altro che soli possono spiegarli. "Non so chi sono ma cerco
di sapere chi sono stato, ossia in quale rete di storia e di societa' mi
sono trovato a vivere", si legge a p. 513.
Era gia' cosi', in fondo, in I cani del Sinai o in L'ospite ingrato o in
Attraverso Pasolini. Un genere ibrido, fra diario, autobiografia,
saggistica. Diario in pubblico, lo aveva chiamato Vittorini. Ma Vittorini
era stato assai piu' selettivo; aveva scelto sulla base della pregnanza e
dello stile; Fortini e' inclusivo, sceglie sulla base della rilevanza che
l'universale puo' conferire al particolare piu' disparato: lettere, articoli
di giornali, interviste, saggi, appunti privati, considerazioni
autobiografiche, annotazioni di letture, un film, un quadro, tutto puo'
acquistare senso. A patto di muovere da una fede e da un intento comuni,
pero'. Praestet fides supplementum sensus defectui. Come tollerare
altrimenti l'accanimento di "insistenze", l'ossessione ripetitiva, la
vocazione didattica "col ditino alzato" (come gli rimproverano da parti
opposte Calvino e Pasolini), la mancanza di cordialita' di una scrittura che
si compiace spesso della propria sgradevolezza? O il lettore trova il filo
di questo rigore privato, di questa tensione di Bildung (per se' e per
tutti), oppure non soffiera' sulla polvere accumulata sul manoscritto, non
la pulira' con la manica di seta, e se ne ritrarra' annoiato o sgomento.
*
2. Un giorno o l'altro. Diversi anni fa. Ricordo il gesto con cui Ruth
Leiser mi consegno' il plico; ricordo la prima impressione e, subito, i
dubbi. Quasi cinquecento pagine fitte di appunti: i frammenti, i documenti,
le ossessioni, le passioni politiche culturali e letterarie di una vita
passata in pubblico. Mentre scorrevo quelle pagine che attraversavano anche
la mia esistenza di intellettuale e di militante, e vi cercavo riscontri,
verifiche, conferme e smentite, mi chiedevo chi potesse, nelle generazioni
successive alla mia, riconoscersi ancora in quella vicenda. Se infatti il
libro avesse solo un valore storico-filologico (e certo questo valore lo
ha), avrebbe senso pubblicarlo? Non per questo era stato pensato. Per
Fortini destinatari del libro sono coloro "che una passione muove o rode non
troppo diversa da quella dell'autore" (p. 536): solo cosi' avrebbero potuto
"colmare gli spazi vuoti" segnati dalle voci dei compagni di percorso, degli
avversari, degli scomparsi e ritrasformare in storia una cronaca. Ma dove
sono finiti gli eredi di quei compagni? Chi e' mosso o morso ancora da
quelle passioni? Chi da una fede e da un intento comuni? Le passioni - la
fede, l'intento - di Fortini sono quelle di un figlio della Terza
Internazionale, di un intellettuale marxista il cui primum e' politico e che
avverte il bisogno urgente, in qualsiasi momento della propria vita, di
"fare il punto sulla situazione", di individuare gli amici e i nemici di un
conflitto in atto, di indicare le contraddizioni, la tattica, la strategia
di una battaglia in cui ci sono schieramenti netti, scelte drastiche e
urgenti. Che vuole interpretare religiosamente "i segni dei tempi", ma per
modificarli materialmente (il Vecchio Testamento e i Vangeli, Hegel, Marx e
Lenin, la teologia e la politica hanno per Fortini, come per l'ultimo
Benjamin, un lato comune).
Si aggiungano poi, ad accrescere le difficolta' del lettore d'oggi,
l'ambiguita' del genere (e dunque della strategia di lettura che la
strategia di scrittura implicita in un genere di per se' suggerisce), la
riluttanza o la desuetudine di fronte a una autobiografia che non e' ne'
affondata nelle miserie dell'inconscio e del privato ne' costruita
sull'ordine di un orgoglioso cursus honorum e/o di una sapienza
retrospettiva (le forme oggi dominanti del gusto autobiografico), ma
immaginata come "controversia con se stesso", opera incessante di controllo
tanto sugli altri quanto su se', il carattere stesso non finito dell'opera
che richiede un supplemento di interpretazione, la mancata funzione
rassicurante degli autocommenti posteriori, d'altronde sempre piu' radi a
mano a mano che si procede nella lettura, in quanto essi stessi implicati
nella ricerca, parti in causa della controversia, tanto che l'autore
dichiara infine di non essere piu' capace di capire "quale delle due parti
fosse il testo e quale il commento".
*
3. Ma non e' solo questione di assenza di un destinatario. E' un intero
contesto storico che si e' collassato e dissolto. Fortini rappresenta una
tipologia ormai scomparsa d'intellettuale capace: a) di leggere
politicamente il mondo interpretandolo nella globalita' e nella
interrelazione dei suoi aspetti (e' l'esperienza, la lezione ermeneutica,
direi, della Terza Internazionale, quale si ritrova per esempio nello
storico Hobsbawm, alla cui autobiografia, Anni interessanti, mi e' capitato
spesso di pensare leggendo queste pagine) e b), in quanto scrittore, di
praticare la poesia come la narrativa, la saggistica come l'oratoria, il
verso lirico, epico o epigrammatico come la sceneggiatura di un film, la
traduzione in versi e in prosa, la canzone e l'articolo come il comizio, di
muoversi fra la cultura dell'Occidente e dell'Oriente, fra letteratura,
teatro, pittura, cinema, filosofia, sociologia del lavoro e delle
comunicazioni di massa, organizzazione industriale e storia del movimento
operaio, psicologia, storia delle religioni, antropologia, cinema, scuola,
sindacato, editoria. Un intellettuale complessivo: che puo' citare
Chateaubriand come Gramsci, Freud come Goethe, Lenin come Manzoni, Lu Xun
come de Martino, Rilke come Simone Weil, scrivere una pagina su Manet e
sulla ricorrenza di una rima e scriverne una sulla guerriglia o
sull'organizzazione del lavoro in fabbrica. Che conosce gli specialismi, ma
non li pratica nella loro separatezza, convogliandoli piuttosto, e
superandoli, in una ambizione di totalita'. Lontanissimo dunque dalla
parcellizzazione, dalla separazione e distinzione dei ruoli oggi imperante.
La sua e' una figura d'intellettuale che nel trentennio successivo alla
guerra aveva ancora un certo corso (in cio' Pasolini, naturalmente, e' il
piu' vicino a Fortini, ma si possono aggiungere Volponi, Sciascia, Calvino e
Leonetti, e magari, malgre' lui, forse, Sanguineti, ultimo esemplare, in
fondo, di una specie in via d'estinzione).
Questo diario in pubblico mostra bene come allora fosse ben viva e operante
una societa' letteraria; fra i membri della quale scriversi una lettera era
impresa intellettuale e cerimoniale non meno impegnativa che elaborare un
saggio per una rivista o un capitolo per un libro. Una societa' in cui i
dissidi erano profondi, ma gli avversari finivano comunque per legittimarsi
a vicenda come interlocutori interni alla stessa civilta' (cio' vale anche
nel caso delle contraddizioni piu' radicali come quelle che dividevano, per
esempio, Pasolini o Fortini da Bo o, su un altro fronte, da Sanguineti o,
piu' tardi, Sanguineti da Zanzotto).
Interlocutori di queste pagine sono Vittorini, Sereni, Pasolini, Luzi, della
Volpe, Baldacci, Cases, Calvino, Giudici. Ma anche Alicata, Salinari (e,
dietro, naturalmente, Togliatti), Nenni, Panzieri, Rossanda, persino Mussi.
Non c'era solo una societa' letteraria, dunque, ma una comunita' civile, in
cui fra il politico e l'uomo di cultura s'intrecciavano discussioni e
rapporti e in cui la reciproca distanza e separazione non erano abissali.
Mentre oggi il politico fa il politico di mestiere, come lo scrittore fa lo
scrittore di mestiere, ognuno chiuso nel proprio particolare.
Di questa societa' civile oggi si sta perdendo persino la memoria. Questo
diario puo' aiutarci a ricostruirne il reticolo, i rapporti fra i gruppi, le
redazioni, i partiti, le case editrici, e anche a ricordarne e magari a
criticarne significati e simboli (l'accenno e il rinvio a un ordine
superiore di valori essendo in genere deviato - non in Fortini, pero' - in
privilegio e in rituale di casta).
*
4. Sara' comunque utile assumere Un giorno o l'altro come documento di una
situazione storica dell'Occidente nel trentennio successivo alla seconda
guerra mondiale, di una rete di relazioni dell'ambiente culturale e
letterario italiano ma anche di una o due generazioni di intellettuali
europei. L'opera a cui Fortini lavoro' negli ultimi anni della sua vita
senza portarla a termine voleva essere anche questo: "contributo" - scrive
l'autore - "alla conoscenza di un periodo" (p. 535). E infatti Fortini
conduce il lettore dagli anni del "Politecnico" a quelli del compromesso
storico, sempre cercando di non farsi travolgere dagli avvenimenti, ma di
capirne in anticipo il senso e lo sviluppo, di ricondurli a un controllo e a
una ragione possibili. L'autore individua immediatamente i momenti di svolta
(il 1956, il 1968, il 1972-73), vive in piena consapevolezza i "dieci
inverni" della guerra fredda, registra la nascita, lo sviluppo e le
conseguenze (nel costume, nella editoria, nel ceto intellettuale) del
miracolo economico e del neocapitalismo, denuncia i rischi di involuzione
prodotti dal crollo di quello stalinismo che lui pure aveva denunciato e
combattuto in anni non sospetti, poi accompagna con passione (ma lucida, mai
arresa alla facile demagogia di quegli anni) le speranze della contestazione
operaia e studentesca, infine riflette (con amarezza, ma mai rassegnata) la
tragedia degli anni di piombo, la realta' del riflusso, del ritorno al
privato, della "crisi delle ideologie" e del marxismo. Il lettore passa
attraverso le riviste che hanno fatto la cultura di quegli anni (allora
anche le riviste, come gli intellettuali, avevano un ruolo e una funzione
civile che nel frattempo sono andati perduti): "Il Politecnico",
"Discussioni", "Ragionamenti", "Officina", "Quaderni rossi", "Quaderni
piacentini". E ovviamente chi conosce Dieci inverni, Verifica dei poteri,
Questioni di frontiera (ma anche le raccolte di poesie) trovera' riscontri,
conferme, sviluppi di ragionamenti avviati o gia' illustrati in questi
libri.
Il rapporto di combustione fra intellettuale e storia e' cosi' intenso che
capita a volte al lettore di imbattersi in intuizioni e anticipazioni che
alimentano nell'autore l'orgoglio di "avere 'annunciato'" (p. 420).
Controllando le date, fatta salva qualche alterazione dovuta a disguidi
della memoria o a raggruppamenti per tema (con slittamenti in avanti o
indietro), c'e' in effetti da sbalordire: le prese di posizione
antistaliniste da sinistra e i dubbi radicali sulla politica e sul ruolo
dell'Unione Sovietica risalgono gia' al 1945-46; di poco successiva e' la
rivendicazione del diritto di "mettere in dubbio la societa' socialista"
avanzata da chi pure socialista si dichiara; la coscienza che il centro del
potere si sta spostando, "almeno in parte", in "campo sovrastrutturale" e'
del 1959 (p. 244); degli stessi anni e' la consapevolezza che una
letteratura d'opposizione - cosi' come l'aveva concepita il movimento
operaio nell'ultimo secolo - non e' piu' possibile essendo anch'essa
riassorbita nelle strategie editoriali e nella logica del consumo; del 1954
(non del 1952, anno sotto cui e' rubricata) - quando ancora non erano usciti
i pur prossimi Laborinthus e Le ceneri di Gramsci - e' la denuncia della
crisi del genere lirico e dell'anacronismo dell'antologia di
Anceschi-Antonielli, tutta giocata ancora sulla centralita' dell'ermetismo,
della "poesia pura" e del postsimbolismo, e la proposta di capovolgere
l'angolo visuale passando dalla poesia dei limiti (ossia della
incomunicabilita' profonda delle anime) a quella che coglie i limiti della
poesia, e cioe' i confini e la consunzione del tradizionale genere lirico, e
di "far occupare da Saba il luogo di Campana, da Montale quello di
Ungaretti, da Luzi quello di Quasimodo" (p. 115) (che anticipa di oltre un
ventennio le scelte antologiche di Mengaldo); e' del 1960 la polemica contro
la tendenza alla gnosi (particolarmente contro la gnosi laica, piu'
pericolosa ai suoi occhi di quella cattolica), "pura inverificabilita' che
rifiuta le opere [...] sviluppando dentro la comunita' laica i sogni eterni
di una societa' di eletti, di puri, di separati, la cui elezione traluce
solo agli occhi del conoscitore", per cui "lo snob, l'asceta,
l'intellettuale, il beneducato e il conoscitore (di anime, di stampe, di
vini) tendono a coincidere in un'unica figura e in un medesimo personaggio"
(p. 298) (ove, riflettendo sulla continuita' Bo-Citati, si percepisce in
anticipo il rischio di mode culturali largamente diffuse nel quindicennio
1975-1990, fra angelologia, pensiero debole, heideggerismo e nichilismo
morbido). [...]
*
Da pagina 3
Appunti per una prefazione
Questo libro e' anche una raccolta di documenti o di informazioni; ma da
usare, come dicono gli storici, solo con "grandissima prudenza". Non e' un
archivio. Non vuole esserlo. Vorrebbe essere letto e "usato" altrimenti.
Come una autobiografia. Quindi con la fiducia e la diffidenza che accompagna
ogni autobiografia.
Ho lavorato, dove potevo, sulla scrittura e sulle dimensioni; ma la
tendenziosita' e' gia' nella scelta e nel montaggio. Due i limiti seri. Ho
dovuto ridurre a poco, per evidenti motivi, i testi epistolari dei
corrispondenti e, quanto ai miei, solo attingendo a quella parte, minore, di
cui ho copia. E poi ho quasi sempre dovuto, per motivi non meno evidenti,
rinunciare a rinviare a quanto pubblicato in volume. Di cui spesso queste
pagine sono appunti, abbozzi, discussioni.
Immagino che si neghera', da parte di qualcuno, la datazione di alcune
pagine. Io stesso, qualche volta, non riuscivo a credere a certe
anticipazioni. Ma cosi' e'. Altri dira' che c'e' una volontaria o
involontaria accentuazione di questo o quell'elemento al fine di sbiadire
una o altra ombra sgradevole, di illuminarsi vantaggiosamente. Ai primi,
come ai secondi, non posso che chiedere di verificare quanto, anno per anno,
sono venuto pubblicando: vi si troveranno le verita' come gli errori.
Quanto a me, siccome in questo libro prevale la discussione teorica e
politica, vorrei che fosse un itinerario di verita' e di errori, di
ripetizioni e di correzioni non private. Mi basti ricordare pero' che esso
non si rivolge ad un common reader ne' accetta senza qualche ironia le norme
della cosiddetta repubblica intellettuale. Le accetta, va da se', perche'
stampa per chiunque. Ma con ironia perche' a quelle norme vorrebbe saper
sempre applicare i medesimi criteri sociostorici con cui cerca di intendere
le sue condizioni di esistenza.
Non vuole parlare, ripeto, a chiunque. E' persuaso di avere intenzionalmente
introdotto nelle proprie scritture (non in tutte ma certo in quelle che piu'
riconosce "utili") qualcosa che separa e sceglie e induce il lettore a
separare e scegliere. In questo - e ancora una volta spera di non
illudersi - e' la non estesa ma tenace superficie di contatto fra i propri
versi e le sue scritture di altro genere letterario. Naturalmente tutti gli
autori di versi - almeno quelli del nostro secolo - pretendono, nel medesimo
tempo, di essere "per tutti", di non richiedere altra competenza che quella
del linguaggio ma anche di separare una dozzina o una centuria di "pochi"
ossia dei disposti a giocare una parte capitale di se stessi in quelle
parole ritmate e nella loro ambiguita' irriducibile.
Ambiguita' o pluralita' di significati penetrano anche scritture ragionative
e descrittive come quelle di cui e' fatto questo libro. Sono stato e sono
avverso pero' ai procedimenti di sovrainterpretazione che sospendono o
sminuiscono il primo o i primi livelli di significato, quello che si propone
sulla pagina in una non irragionevole fiducia nella comunicazione dialogica.
Piuttosto che subire l'ingiuria di chi, per non ascoltarne le ragioni, ha
talvolta di alcune mie scritture lodato la d'altronde misteriosa "qualita'
letteraria", preferisco non essere letto. E, insomma, ho abbastanza orecchio
per sapere che la quasi totalita' di questo libro accetta senza troppe moine
di essere stato redatto nell'informe gergo del giornalismo,
dell'immediatezza epistolare o dell'appunto di diario.
Pero' non dimentico di aver scritto e creduto fermamente ad una formula che,
a suo tempo, ossia trent'anni fa, pote' parere troppo esibita, irta di
troppa oltranza, e che invece - cosi' oggi mi lusingo - e' stata confermata
dai tempi, soprattutto dai peggiori. Potrebbe suonare come un programma
ancora valido per altri, per gli altri che sempre esistono e che devono solo
riconoscersi e unirsi. Un programma che e' di superbia e di modestia insieme
(sempre la superbia e la modestia vanno insieme), come si conviene a chi
cita se stesso.
Scrivevo nel 1962: "Ma bastera' rammentare come si siano ricevute,
all'inizio della vita e ancora ieri, le parole che ci hanno insegnato in
quale direzione cercare i propri compagni. Allora in quello che scrivo o che
altri scrivera', ci potra' essere, come la lima fine d'acciaio nascosta
nella pagnotta dell'ergastolano, una parte metallica. Che possa
appropriarsene solo chi l'abbia chiesta e per questo meritata.
Contrabbandata sotto specie in che tutti, anche i nemici, possano
comunicare: ma solo a lui e a quelli come lui destinata".
*
Da pagina 5
1945
Una sveglia militare
La tromba suonava nel gelo. Quelli che dormivano dentro la chiesa,
sconsacrata e in rovina come tante di quei paesi, con le larve di due santi
in gesso ai lati della porta e una pittura quasi cancellata sul timpano,
eppure ancora chiesa per la croce di ferro che rimaneva in cima e per
l'altra che sul sagrato d'erba bruciata, accompagnata dei simboli della
passione, stava, anch'essa di ferro, sui tre cocuzzoli di pietra del
Calvario; quelli che dormivano vicino alla porta, e avevano ammucchiato
contro lo stipite mantelle, giberne, zaini a difesa dal rovaio che filava
dalle spaccature della porta, la udivano terribile come una pugnalata
percuoterli, infilare tra la paglia e gli aliti dei sonni la colonna del
freddo e non avevamo fatto a tempo ad accogliere i due o tre suoni rauchi e
flebili che il trombettiere insonnolito provava dentro lo strumento che gia'
infuriavano nel cervello di tutti gli squilli del motivo, e subito voci
robuste rompevano la notte, scarpe e ferri scricchiolavano sui sassi, una
porta si apriva e con quella la notte, come un vuoto, succhiava gli odori
del sonno. Gli altri, che dormivano nelle stanze della canonica e nel
convento, udivano piu' tenue la voce della sveglia, ma in quell'attimo i
pensieri erano i medesimi. Ecco, adesso i panni freddi addosso e fuori,
nella stretta del gelo, a cominciare la giornata. Nelle case piu' distanti
si vestivano gli ufficiali, guardando le bottiglie di vino aspro vuotate la
sera. Qualcuno usciva e si dirigeva verso lo spiazzale dell'adunata,
infilandosi a tracolla il moschetto, stringendo il cinturone. Al lume di una
lampada elettrica, gli uomini facevano la coda per il caffe', accostavano le
labbra ai gavettini roventi, andavano, venivano, riempivano le scale del
fragore delle scarpe ferrate, delle cassette di legno e ferro. Intanto un
vento improvviso strappava il vapore dalla superficie delle caldaie del
caffe'. Cominciava il crepuscolo a mostrar l'erba fra le case; l'aria
portava i grugniti dei maiali negli stabbi e il raspare delle capre.
*
Firenze 1945
Questa citta' ruota su di una convenzione di vita. In nessuna altra citta'
come questa possono sembrare, se ci si abbandoni alla sua illusione, vani e
strani i simboli della falce e del martello sui manifesti elettorali. E'
citta' di numerose riviste letterarie, di moderati propositi, del "Maggio
Musicale", di concerti squisiti. L'universita' e' popolata di qualunquisti,
i teatri si riempiono, per mediocri riprese di opere pucciniane, di una
folla ne' convinta ne' persuasa; tutta la citta' sembra rassegnata ad
aspettare un proprio destino non si sa da dove. Quando, in piazza
dell'Unita' Italiana, davanti ad un albergo occupato dagli americani, si fa,
il sabato sera, il reclutamento delle "signorine" da trasportare sui camion
alleati per la serata dei G.I. di Livorno e di Pisa, il coro dei commenti
della piccola folla non e' ne' di pieta' ne' di sarcasmo, ma di ironia.
Somma civilta' nostra, dira' qualcuno. Ma a che cosa serve questa civilta',
l'inutile scatto della Cupola, il sorriso della pietra serena? Uno sguardo
alle statistiche comunali, alle percentuali di impiegati, di artigiani, di
pensionati, di professionisti, ci potrebbe dare un'altra sbrigativa
risposta. Si cammina in mezzo ad una morte piu' sottile e crudele di quella
delle "citta' morte". Eppure questo popolo ha saputo battersi contro i
fascisti e i tedeschi. E la citta' ha subito una delle piu' dure prove della
guerra. Ma ora? La vecchia aristocrazia locale ha ripreso imperterrita le
proprie conversazioni in inglese. Gli studenti affollano come una volta
certe vie, sostano a certi angoli, annunciano i loro balli goliardici. La
stampa cittadina si assopisce con gentilezza. Citta' legata ad una
condizione sociale che e' della illusione della liberta' intellettuale e del
non-condizionamento economico, cioe' alla piccola borghesia; sul sorriso
delle sue grazie ormai per noi si sovrappongono le immagini dei campi
pugliesi o delle officine di Milano. "Retorica", direbbero i fiorentini;
nella quale tuttavia cerchiamo una salvezza, per non morire di serenita'.
(Parte prima - segue)

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 829 del 23 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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