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Minime. 796
- Subject: Minime. 796
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 20 Apr 2009 00:45:18 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 796 del 20 aprile 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Il golpe razzista in Italia 2. Stragi 3. Giulio Vittorangeli: L'anniversario della Liberazione 4. Per la solidarieta' con la popolazione colpita dal terremoto 5. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento 6. Alessandro Corio presenta "Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari" a cura di Elena Agazzi e Vita Fortunati 7. Isabella Mattazzi presenta "Un uomo che dorme" di Georges Perec 8. Valentina Parisi presenta "Il castello alto" di Stanislaw Lem 9. Gian Antonio Stella presenta "Il cammino della speranza" di Sandro Rinauro 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. IL GOLPE RAZZISTA IN ITALIA Stenta ad emergere nell'opinione pubblica la chiara, piena consapevolezza dell'immensa gravita' di cio' che sta accadendo nel nostro paese: incombe in Italia il regime dell'apartheid. Non siamo di fronte a singoli episodi di razzismo, siamo di fronte alla strategia (una strategia di lungo periodo, in cui un ruolo cruciale ha avuto alla fine del secolo scorso la riapertura dei campi di concentramento con la legge Turco-Napolitano) che mira a introdurre nel nostro paese il regime dell'apartheid; siamo di fronte all'eversione razzista dall'alto; siamo di fronte a un colpo di stato inteso a denegare i principi che inverano il riconoscimento della dignita' e dei diritti di ogni essere umano scritti nella Costituzione della Repubblica Italiana cosi' come nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Non si tratta solo di respingere in Parlamento le proposte razziste piu' aberranti e disumane del cosiddetto "pacchetto sicurezza", si tratta di contrastare il regime della segregazione razzista cosi' come si sta costruendo passo dopo passo con provvedimenti amministrativi a livello locale e nazionale, con condotte discriminatorie e torturatrici attuate dalle istituzioni territoriali e statali. E si tratta di contrastare le organizzazioni razziste e golpiste che impadronitesi dei pubblici poteri per via elettorale li usano per imporre la dittatura e la schiavitu'. Organizzazioni golpiste e razziste come la Lega Nord, punta di lancia del blocco politico e sociale propugnatore del colpo di stato che tende a instaurare il regime dell'apartheid. Resistere e' necessario. In difesa della legalita', in difesa della civilta' giuridica, in difesa dell'ordinamento democratico, in difesa della dignita' e dei diritti di ogni essere umano. Vi e' una sola umanita'. 2. EDITORIALE. STRAGI Stragi, ancora stragi, sempre stragi in Afghanistan - e in Pakistan, pienamente investito dalla guerra afgana (una realta' che infine nessuno nasconde piu'). E in Italia il silenzio, in Italia la complicita', in Italia - non solo, ma anche in Italia - alcuni dei mandanti e manutengoli di quell'orrore. Poiche' quella e' una guerra terrorista e stragista, imperialista e razzista, mafiosa e totalitaria, patriarcale e onnicida. Una guerra che non solo ha distrutto infinite vite umane cola', ma che ha alimentato il terrorismo fondamentalista in tutto il mondo. Il terrorismo fondamentalista delle potenze capitaliste e razziste e neocolonialiste occidentali, ed il terrorismo fondamentalista dei gruppi armati che ad esse potenze si oppongono non per la liberazione dell'umanita', ma per sostituire il proprio dominio fascista e patriarcale all'altrui. Una guerra scellerata come tutte le guerre, come tutte le guerre insensata. Una guerra a cui l'Italia partecipa. A cui l'Italia partecipa in violazione della legalita' costituzionale e del diritto internazionale. La guerra a cui noi italiani che vorremmo non essere assassini dovremmo opporci con tutte le nostre energie, poiche' e' la guerra che anche il nostro stato sta facendo, la guerra in cui sono coinvolte le nostre forze armate, la guerra in cui siamo uno dei paesi e degli eserciti aggressori. La guerra a cui noi italiani che vorremmo non essere assassini dovremmo opporci ancor prima e ancor piu' che ad ogni altra guerra, poiche' e' ipocrita e grottesco ed infine del tutto ininfluente e squallido pretendere di dar lezioni di pace ad altri stati e paesi e popoli mentre le nostre mani grondano di sangue. Solo se ci opponiamo alla guerra che il nostro paese sta conducendo, possiamo chiedere ad altri di fare altrettanto ed aver qualche speranza di essere ascoltati. * Almeno questo foglio non ha mai avuto esitazioni nel chiamare alla resistenza contro la guerra terrorista e stragista che anche l'Italia sta conducendo in Afghanistan. Mentre tanti sedicenti pacifisti "senza se e senza ma" e tanti sedicenti nonviolenti narcotizzati dai loro stessi bizantinismi da anni hanno deciso di prostituirsi a questa guerra, forse perche' a votare per essa quando si trovavano al governo sono stati anche gli stessi partiti che li hanno ammessi al saccheggio del pubblico erario e all'accaparramento delle prebende clientelari. Cosicche' oggi la loro parola non vale piu' nulla: e tutti lo sappiamo. Si viene corrotti una volta per sempre. Sentirli pontificare o sbraitare sguaiatamente contro le guerre altrui ed altrettanto sguaiatamente tacere sulle stragi nostre e' spettacolo non molto dissimile da quello del popolo delle scimmie (ci si consenta l'antica metafora gramsciana) al seguito dell'eversione dall'alto berlusconiana. * Ogni vittima ha il volto di Abele. Tutte le guerre uccidono esseri umani. Ogni esercito e' assassino. Ogni arma e' puntata contro l'umanita' intera. Solo la pace costruisce la giustizia. Solo salvando le vite si inverano i diritti. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 3. VERSO IL 25 APRILE. GIULIO VITTORANGELI: L'ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento] Viviamo in un eterno presente, per molti versi angosciante, senza apparente passato e nemmeno futuro. La memoria, sempre cosi' difficile da tramandare, e' rimossa perche' disturba il presente e mette a disagio. Particolarmente evidente per il 25 aprile o per la Giornata della Memoria. Si e' iniziato con la cosiddetta "memoria divisa", destra e sinistra, fascismo ed antifascismo, che doveva pero' ricomporsi in nome di una par condicio del tutto arbitraria, che poneva sullo stesso piano partigiani e nazifascisti. Abbiamo assistito a spettacoli deprimenti e a dibattiti preconfezionati sulla Resistenza e sul fascismo, dove una volta si' ed una volta no, veniva annunciata la scoperta dell'acqua calda: ovverosia che non tutti i partigiani erano angeli e che non tutti i fascisti erano in fondo cosi' cattivi. Si e' proseguito con uno stillicidio di superficiale revisionismo che intaccava sostanzialmente la memoria resistenziale, mettendo sotto accusa le "responsabilita'" dei partigiani. Decontestualizzando l'azione dalle coordinate reali, difficili e drammatiche, in cui le scelte e le azioni della Resistenza si svolgevano, e offrendo una visione della storia "come presente" nel senso che il passato veniva giudicato con la consapevolezza dell'oggi e facendo finta che esistessero le odierne condizioni per comportamenti, teorici e pratici, diversi. Si e' giunti cosi' ad un vero ribaltamento, per cui, nell'attuale clima politico e sociale, il 25 aprile non e' piu' un problema per la destra italiana, per il suo rapporto con il passato nazionale, per la sua visione del presente e del futuro; ma un rituale passato, che appartiene a tutti gli italiani perche' svuotato dei suoi valori essenziali. Ha scritto lucidamente Alessandro Portelli: "Abbiamo affidato agli eredi di Almirante pure la nostra memoria, pure la Resistenza deve aspettare che sia Fini a rendergli l'onore che non si nega agli sconfitti. Il gesto di omaggio, in parte opportunistico e in parte autentico, reso da Fini alle Fosse Ardeatine all'inizio degli anni '90 si e' trasformato nel suo contrario: nella definitiva appropriazione alla destra di uno dei nostri luoghi di memoria piu' cari. Non si tratta di definitiva accettazione da parte della destra dei valori dell'antifascismo, ma al contrario, della relegazione dell'antifascismo a un passato che ha solo valenza rituale. L'ennesima indecente assimilazione di nazismo e comunismo (di fronte a un luogo dove sono sepolti piu' di cento comunisti ammazzati dai nazisti) e l'ammonimento a non ripetere gli 'errori del passato' (quali, esattamente? Li vogliamo nominare?) servono in ultima analisi a prendere le distanze dalla storia, a relegare nel passato i rischi della nostra civilta', e all'apologia del nostro democratico, bipartitico e governabile presente di ronde, xenofobie, razzismi". Solo che il nostro presente razzismo non indigna minimamente. Abbiamo imparato a conviverci. C'e' una nave turca, la Pinar, cargo mercantile carico di immigrati in fuga da fame e guerre, ferma da giorni al largo di Lampedusa, abbandonata a se stessa, senza soccorsi, al centro dello scontro tra i governi di Malta e Italia su chi deve intervenire. Certo, e' uno scaricabarile vergognoso, ma noi, "uomini comuni", e' come se avessimo voltato lo sguardo ed il volto dall'altra parte. E' stato cosi', per molti versi, anche durante il nazifascismo. Troppo facilmente si e' parlato di "barbarie", "bestialita'", "belva nazista", allontanandole cosi' dal quotidiano; dimenticando che "barbari", "selvaggi" e "bestie" sono capaci di fare cose orrende, ma i campi di sterminio li hanno fatti "uomini comuni" con gli strumenti della "nostra" civilta'. Auschwitz non e' stato un rigurgito barbarico medievale, ma un fenomeno orribilmente contemporaneo, nel doppio aspetto della mobilitazione tecnologica necessaria per realizzare l'eccidio, e della mobilitazione ideologica necessaria per tentare di legittimarle. Solo l'Occidente moderno aveva i mezzi per fare cose simili. Primo Levi ricordava come la responsabilita' dello sterminio spettasse non a un pugno di maniaci, ma ricadesse sul capo di milioni di persone che con il loro comportamento hanno reso possibile che cio' avvenisse. Se i lager li hanno realizzati "uomini comuni", esseri umani come noi, questo vuol dire che il rischio ce l'abbiamo dentro anche noi. Possiamo essere vittime, ma possiamo essere carnefici, o complici silenziosi. Ecco perche' un "errore del passato" da non ripetere e' quello di essere complici delle nostre guerre umanitarie, dei nostri bombardamenti democratici, delle nostre civilizzate torture e delle violenze sempre nuove e sempre uguali verso i piu' deboli. 4. RIFERIMENTI. PER LA SOLIDARIETA' CON LA POPOLAZIONE COLPITA DAL TERREMOTO Per la solidarieta' con la popolazione colpita dal sisma segnaliamo particolarmente il sito della Caritas italiana: www.caritasitaliana.it e il sito della Protezione civile: www.protezionecivile.it, che contengono utili informazioni e proposte. 5. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il seguente appello] Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di promozione sociale). Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione. Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235. Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille. Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato, la gratuita', le donazioni. I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi estivi, eccetera). Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della nonviolenza. Grazie. Il Movimento Nonviolento * Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento. Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261 (corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno. * Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 6. LIBRI. ALESSANDRO CORIO PRESENTA "MEMORIA E SAPERI. PERCORSI TRANSDISCIPLINARI" A CURA DI ELENA AGAZZI E VITA FORTUNATI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 febbraio 2008, col titolo "La vita pubblica bloccata nella carta moschicida del ricordo" e il sommario "Passaggi d'epoca. Un volume collettivo sull'ipertrofia della memoria che paralizza l'analisi delle moderne societa'"] I lettori di Jorge Luis Borges si ricorderanno senz'altro di Funes el memorioso, uno dei personaggi iperbolici delle sue Finzioni, rimasto affetto, dopo esser stato travolto da un cavallo selvaggio, da una "memoria assoluta", da un'incapacita' di dimenticare anche il dettaglio piu' insignificante da lui percepito o sognato. Il prezzo da pagare, per questa sua capacita' "divina" di riprodurre perfettamente il reale nella rappresentazione mnemonica, e' l'impossibilita' di agire, pensare o raccontare, persino di dormire, di costituire insomma una "soggettivita'": e' la "balbuziente grandezza" di Ireneo Funes. Questo personaggio vertiginoso potrebbe essere letto come una metafora dell'ipertrofia della memoria nell'era della digitalizzazione dell'informazione e degli archivi, ma non solo. Funes ci mostra, per assurdo, proprio come il funzionamento processuale e dinamico della rimemorazione necessiti di una componente di oblio e di selezione, di un difetto e di una distanza, e di come non abbia, percio', a che fare con una banale archiviazione mnestica dei dettagli, ma con una processualita' emotiva, sociale, etica ed estetica. La componente critica, dinamica e costruttiva della memoria ed il complesso crinale che la separa dalla dimenticanza, tanto sul piano individuale che su quello, strettamente connesso, della costruzione conflittuale di una memoria collettiva, sono alcuni dei punti focali che emergono dagli interventi presentati nel corposo volume curato da Elena Agazzi e Vita Fortunati, Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari (Meltemi, euro 35). Si tratta del risultato finale di un progetto europeo di rete tematica sulla memoria culturale, Acume, coordinato da Vita Fortunati del Dipartimento di Lingue dell'Universita' di Bologna, che ha coinvolto, in tre anni, ben 78 universita' europee e di cui e' gia' stata avviata una seconda fase, che si concentrera' sullo studio transdisciplinare delle memorie traumatiche. Sulla scia di alcuni studi fondamentali sulla memoria - da Benjamin, Adorno, Blanchot e Warburg ad Agamben e Ricoeur, da Pierre Nora ad Aleida Assmann agli studi di Alessandro Portelli sulla storia orale - i ricercatori e gli studiosi hanno cercato di costruire una griglia epistemologica che rendesse possibile ed efficace un approccio transdisciplinare, retto dalla combinazione ragionata e dinamica di alcune macroaree disciplinari (scienze sociali e biomediche, cultura visuale, media, scienze umane e studi letterari, studi religiosi) con l'attenzione ad una serie di temi comuni, quali la soggettivita', le emozioni, il contesto, la temporalita', la tensione tra memoria e oblio, i differenti mediatori della memoria, la sua componente dinamica e costruttiva. Un assunto di base di queste ricerche e' la constatazione di una attuale ipertrofia della memoria, tanto sul piano politico "ufficiale" e commemorativo che su quello intellettuale, una vera ossessione per il passato e un'impossibilita' di dimenticare, sempre doppiata da rimozioni e censure, che sembra caratterizzare la nostra epoca, oltre a costituire una potente spinta che alimenta collassi sociali catastrofici, si pensi solamente ai Balcani, alla Palestina o al Rwanda. Di qui la necessita' di un'analisi dei rapporti tra memoria e saperi che intenda rimettere seriamente in discussione le forme di appropriazione egemonica della memoria, in vista di una sua "monumentalizzazione" non negoziabile o al servizio di un'identita' etnica o nazionale radicata su un territorio. Un approccio critico di questo tipo deve saper rendere conto della conflittualita' delle contro-memorie minoritarie e subalterne, di genere e postcoloniali, che cercano di recuperare al tempo storico i passati traumatici rimossi e non nominati: una ri-scrittura che si configura come atto individuale e politico. Quella che si e' soliti nominare come la crisi, o il paradosso, della testimonianza, per cui il testimone integrale costruito da Levi e Agamben, il "mussulmano" dei campi di concentramento, figura emblematica della "nuda vita", e' anche colui che non puo' testimoniare e che risulta percio' non-recuperabile ed irrappresentabile, non puo' essere risolta in una sacralizzazione di una memoria ufficiale e celebrativa; essa ci chiama ad un'etica della testimonianza che consideri seriamente le tensioni che attraversano i "luoghi della memoria", materiali, simbolici o funzionali, bacini di sedimentazione di memorie controverse e conflittuali. 7. LIBRI. ISABELLA MATTAZZI PRESENTA "UN UOMO CHE DORME" DI GEORGES PEREC [Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 aprile 2009 col titolo "Un apologeta dell'indifferenza se ne va dalla vita e poi torna" e il sottotitolo "Classici. La riproposizione di Un uomo che dorme"] Georges Perec, Un uomo che dorme, traduzione di Jean Talon, postfazione di Gianni Celati, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 170, euro 12,50. * Un uomo che dorme e' la storia di un commiato. Un commiato dal mondo, dai suoi oggetti, dalle persone che lo abitano. Un commiato da tutte le vie di Parigi, dalle fontane, dalle statue equestri, dai cinema, dalle case e da quello che contengono, dalle bacinelle rosa di plastica, dalle tazze di Nescafe' appoggiate su una mensola, dai pacchetti di sigarette aperti, dalle mosche, dai lavandini, dalle crepe sui muri. Un commiato privo di violenza, quasi gentile. Nessun incidente, nessuna morte improvvisa. Soltanto una progressiva perdita di interesse per le cose. E' bastato un minimo scarto nella vita piuttosto ordinaria del protagonista, la decisione un mattino di non alzarsi, di non prendere l'autobus per la Sorbona, di non sostenere la prima prova scritta dell'esame di Sociologia Generale, per mettere in moto il meccanismo, per avviare il ticchettio della macchina, per far si' che il suo corpo, la sua parola, la sua volonta' di giovane venticinquenne squattrinato lentamente si allontanassero dal flusso indistinto del quotidiano. Da li', da quel non-gesto, da quell'atto volutamente mancato, e' cominciato tutto. Saltare sistematicamente gli appuntamenti con gli amici. Ascoltare, immobile, i loro passi nel corridoio, i timidi colpi bussati alla porta, il fruscio dei bigliettini fatti scivolare per terra e mai aperti. Non caricare piu' l'orologio. Non desiderare nulla, non sperare in nulla. Girovagare senza meta per i quartieri di Parigi, enumerando all'infinito i pomelli delle porte, le panchine di legno verde dei giardinetti, i cartelli stradali, non certo per ricordare, per farsi trapassare gli occhi dalla luce delle immagini, ma per azzerare tutto, per dimenticare, "ombra torbida, duro nocciolo di indifferenza, sguardo neutro che sfugge gli altrui sguardi". Scritto nel 1967 da un Perec appena trentenne non ancora interamente catturato dal demone enigmistico dei palindromi e degli acrostici, Un uomo che dorme (riproposto oggi da Quodlibet nella traduzione di Jean Talon e con una bella postfazione di Gianni Celati) sembra essere il controcanto ipnotico, il risvolto nero della passione cumulativa, tipicamente perecchiana, per gli oggetti, per l'eterogeneita' stipata del quotidiano. Pubblicato due anni dopo Le cose, Un uomo che dorme e' ancora una volta un romanzo saturo di materiali, di luoghi, di tracce di realta'. E' una Parigi insistentemente presente quella che si srotola sotto lo sguardo muto del protagonista, fatta di vetrine, ristoranti russi, fotografie, monetine e guanti persi in un rigagnolo. Una Parigi che avrebbe certamente fatto la gioia di Baudelaire o dei surrealisti, ma che in questo caso sembra essere del tutto inutile nella sua estenuante profferta di immagini. Nessuna bellezza nei passi senza meta dello studente (ex-studente) di Perec, nessuna "ebbrezza anamnestica", come avrebbe detto Benjamin, nel suo girovagare per le sale silenziose del Louvre. Nessun significato nascosto, nessun lampo improvviso intravisto tra le lettere mancanti di un vecchio cartellone pubblicitario, nessuna imperfezione del selciato di quelle che avrebbero fatto trasalire Breton o Apollinaire, nessuna passante chiusa nel piombo scuro del suo vestito a lutto, dolorosa e fiera tra la folla di un marciapiede stracolmo. Il commiato, la dipartita di un uomo dalla vita che lo circonda e lo contiene, non ha nulla a che fare con la sparizione degli oggetti del mondo, ma con la loro indifferenziazione. Di fronte agli occhi appannati dal sonno della coscienza non esiste gradazione o gerarchia estetica; tutti i cibi hanno lo stesso sapore, tutti i vestiti sono uguali, tutte le notizie sulle pagine di "Le Monde" vanno lette da cima a fondo compresi i necrologi, le previsioni del tempo, le quotazioni di borsa, le visite guidate, i programmi alla radio, le lauree, i ringraziamenti e la vendita di appartamenti di lusso. Ritirarsi dalla vita non significa coprirsi il volto di fronte al reale, ma semplicemente non operare alcuna scelta. "L'indifferente non ignora il mondo, ne' nutre nei suoi confronti ostilita'. Quello che ti proponi non e' di riscoprire le sane gioie dell'analfabetismo, bensi' di leggere senza dare alle tue letture nessuna importanza particolare. Quello che ti proponi non e' di andare nudo, bensi' di vestirti senza che cio' debba implicare ricercatezza o trascuratezza; quello che ti proponi non e' di lasciarti morire di fame, bensi' di unicamente nutrirti". Da qui la lenta discesa agli inferi del silenzio, i giorni e le notti passate nella soffitta di rue Saint-Honore' aspettando che il tempo scorra, che la cosa finisca li', che tutto si chiuda una volta per sempre. E gli incubi mostruosi e l'infelicita' di estenuanti partite a flipper, intervallate dalla certezza febbrile di essere completamente libero, di non aver bisogno di nessuno, intoccabile e vittorioso come quei "vecchi istitutori che vorrebbero riformare l'ortografia, e i pensionati che credono di aver messo a punto un sistema infallibile per recuperare le cartacce". Poi, improvvisamente, cosi' come era cominciato tutto, la fine. Non una fine alla Bartleby, una lenta consunzione di fronte al muro di mattoni del proprio imperativo nevrotico. No, un improvviso riprendere dell'interesse per il mondo, misterioso e inaspettato nella sua venuta cosi' come era stato un tempo misterioso e inaspettato il passo dell'indifferenza. Un progressivo riaffiorare degli oggetti e dei luoghi alla superficie dello sguardo. Una rinascita insomma. "Un uomo che dorme tiene intorno a se' in cerchio il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi" scriveva Proust nella Recherche, osservatore silenzioso del sonno di Marcel. Un uomo che dorme, un uomo che sogna, scrive Perec, non tiene intorno a se' che i fili aggrovigliati della propria illusione. "Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l'indifferenza non insegna niente (...) No. Non sei piu' il padrone del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva venire la notte. Non sei piu' l'inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti, in Place Clichy, che la pioggia cessi di cadere". 8. LIBRI. VALENTINA PARISI PRESENTA "IL CASTELLO ALTO" DI STANISLAW LEM [Dal quotidiano "Il manifesto" del 22 agosto 2008 col titolo "Un piccolo mostro cresciuto a Leopoli prima della guerra" e il sommario "Ricordi. Uno spaccato di vita polacca nella autobiografia impersonale di Stanislaw Lem, tradotta da Bollati Boringhieri con il titolo Il castello alto"] Nel 1966 Stanislaw Lem, gia' acclamato autore di Solaris, decise inaspettatamente di trasferire la propria inesausta curiosita' gnoseologica dall'ottica futuristica della fantascienza a quella per eccellenza retrospettiva del genere autobiografico. Non piu' ampiezze interstellari avrebbero fatto da sfondo alle complesse stratificazioni delle realta' virtuali predilette dallo scrittore, bensi' la Leopoli mitizzata della sua infanzia. Un universo familiare talmente remoto e sfumato nel ricordo da indurre il bambino di un tempo a dubitare della sua stessa esistenza. E, insieme, il luogo ideale per dimostrare come a ogni punto su una mappa non corrisponda necessariamente un solo paesaggio. O, ancora, come per quel mentitore inveterato che e' lo scrittore diventi sempre piu' difficile, col trascorrere degli anni, distinguere tra le varianti apocrife e quelle autentiche della sua storia personale. * Il tempo non perduto E' da questo intreccio di persistenza e oblio, ricerca di oggettivita' e invenzione sfrenata che nasce il pregevole testo del Castello alto, ora proposto da Bollati Boringhieri per la prima volta in italiano nella traduzione di Laura Rescio. Lem insegue qui l'ideale utopico di una "autobiografia impersonale", un flusso verbale in cui sia la memoria stessa a parlare, "come se non si trattasse affatto di me". Chiedendo a Mnemosine di sostituirlo nell'imbarazzante compito di "rilasciare dichiarazioni" sul bambino che fu, lo scrittore polacco sembra dunque associarsi al noto imperativo di Nabokov "Speak, memory". A differenza che in Proust, non si tratta infatti di recuperare il proprio passato attraverso gli automatismi della memoria involontaria, bensi' di ricostruire razionalmente quel che Lem chiama "il tempo non perduto", evitando di assoggettare i propri ricordi a un ordine fittizio e ingannevole. L'autore tenta di contrastare, qui, l'insopprimibile principio teleologico che presiede a ogni creazione: appena evocati, i frammenti della propria storia finiscono infatti per disporsi lungo un vettore temporale che, come una freccia, conduce il lettore fino all'io presente di chi scrive. Come un detective sospettoso, Lem si chiede dunque se le proprie reminiscenze non siano gia' una versione "letteraria" della realta', una rielaborazione narrativa irrimediabilmente tendenziosa. Ma, per fortuna, all'opposto di quanto avvenuto nel giallo L'indagine del tenente Gregory, Lem non si lascia paralizzare da questa impasse teorica. Dubitando dell'effettiva necessita' di distinguere tra varianti autentiche e apocrife, l'autore si rifiuta di correggere a distanza le percezioni distorte di se stesso bambino, preferisce non separare i miti familiari dagli eventi reali, perche' il suo compito e' quello di restituire cio' che la memoria ha conservato in quanto "importante". Il risultato e' un testo sfolgorante che restituisce in maniera vivida, ma nel contempo pudica, la Leopoli polacca d'anteguerra. Lem ritrae se stesso come un piccolo mostro goloso e tirannico, impegnato a distruggere soprammobili e giocattoli e a terrorizzare gli abitanti della casa con i suoi capricci. Autore precoce di una cosmologia elementare ma scrupolosa, situa l'anima in un punto indeterminato tra naso e occhi. Il "domani" invece abita sopra l'appartamento dei suoi genitori e, calando furtivo nel cuore della notte, si trasforma in "oggi" e poi in "ieri". Ma sono soprattutto gli oggetti ad attirare l'attenzione di Stanislaw che, ignorando la loro funzione utilitaria, si sofferma trasognato sulla forma degli strumenti medici di suo padre o di un orologio da tasca. Con preoccupazione non simulata, l'autore si chiede come mai il ricordo della realta' materiale di quell'epoca sia cosi' nitido nella sua mente, a differenza dei volti che la memoria non e' riuscita a fissare, "impotente come una pellicola fotografica dinanzi a un oggetto in movimento". E, in effetti, dalle pagine del Castello alto si leva una folla di cose che da li' a poco spariranno nel caos della guerra - quasi a reclamare imperiose che l'autore testimoni la loro passata esistenza. Come, ad esempio, gli imponenti banchi scolastici di legno, probabilmente simili a quelli utilizzati da Tadeusz Kantor per mettere in scena La classe morta. * Antimondi nati dalla fantasia Ma la parte piu' significativa del libro e' senz'altro quella in cui Lem descrive il passaggio dalla frenesia distruttrice che lo spingeva a demolire i propri giocattoli all'aspirazione quasi prometeica di creare dal nulla oggetti nuovi. La futura vocazione letteraria dell'autore trova a posteriori la sua origine in questo inesauribile apprendistato alla forma che nel tempo assume le connotazioni piu' svariate: dalla preparazione di conserve e confetture nella cucina di casa alla fabbricazione di improbabili bevande alcoliche con cui irretire la propria insegnante privata di francese; dagli assemblaggi che ricordano le "macchine inutili" di Bruno Munari fino all'elaborazione di quel metamondo burocratico che e' il "Regno dei Certificati". Al ginnasio infatti Stanislaw realizzera' di nascosto i documenti di un reame inesistente cui conferira' il nome ironico di "Castello inconcepibilmente alto", a integrazione delle rovine dell'antico castello che domina la citta', meta di fughe collettive da parte degli studenti. Un'oasi di liberta' che ben presto verra' cancellata dalla graduale pressione esercitata sui liceali, gia' dal 1935 impegnati in esercitazioni militari tanto asfissianti quanto inutili: "Per tre anni non senti' menzionare neanche una volta l'esistenza dei carri armati. La sensazione era che volessero prepararci alla guerra franco-prussiana del 1870". Di fronte alla scomparsa irrevocabile di quella realta' materiale che sola avrebbe potuto innescare i meccanismi della memoria involontaria, Lem reagisce recuperando gli "antimondi" creati dalla fantasia infantile e adolescenziale, eversivi nella loro sfrenata inventiva, anche linguistica. Purtroppo questo estro non si riflette nella traduzione italiana che, eccessivamente legata alla sintassi polacca, appare a volte ingessata e macchinosa. 9. LIBRI. GIAN ANTONIO STELLA PRESENTA "IL CAMMINO DELLA SPERANZA" DI SANDRO RINAURO [Dal "Corriere della sera" del 16 aprile 2009 col titolo "Quando i clandestini erano italiani: il passato rimosso come una colpa" e il sommario "L'emigrazione del dopoguerra verso l'Europa: gli irregolari erano il 90 per cento. Un reportage storico di Sandro Rinauro. Famiglie decimate dagli 'scafisti delle Alpi'. Abbiamo dimenticato tutto, rimosso tutto. Anche quelle copertine della 'Domenica del Corriere' che raccontavano le tragedie di chi non ce l'aveva fatta. Come una donna che 'sorpresa dalla tempesta di neve vide il suo bambino spirarle tra le braccia, prosegui' per qualche tratto e infine cadde esausta con l'altro figlio: i tre corpi furono trovati due giorni dopo'"] Quando gli emigranti eravamo noi, non tanto tempo fa, il comune di Giaglione, in Val di Susa, arrivo' a chiedere aiuto alla prefettura di Torino "non avendo piu' risorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell'impresa disperata di valicare le Alpi". Ogni notte, scriveva il "Bollettino quindicinale dell'emigrazione" nel 1948, passavano da li' in Francia, illegalmente, "molto piu' di cento emigranti". Erano in tanti, a lasciarci la pelle. "Due o tre al mese, almeno" dice il rapporto di un agente del Sim, soltanto su quelle montagne dalle quali si scendeva verso Modane. Al punto che il sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprimo, fu costretto ad affiggere un manifesto per invitare le guide alpine (gli "scafisti" della montagna) a essere meno ciniche: "Anche se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore (...) scegliendo altresi' condizioni di clima che non siano proibitive e non abbandonando i disgraziati emigranti a meta' percorso". E' uscito un libro, su quella nostra disperata epopea. Si intitola Il cammino della speranza (come il film di Pietro Germi ispirato a una copertina della "Domenica del Corriere"), l'ha scritto Sandro Rinauro (Einaudi, pp. 442, euro 35) e parla dell'"emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra". Come andasse "prima" un po' si sapeva. Basta ricordare uno studio di Adriana Lotto secondo cui nel 1905 su quattro italiani al lavoro nell'Impero tedesco solo uno era registrato e gli altri tre erano "clandestini in senso stretto". O la relazione di Stefano Jacini jr alla Camera nel 1922: "Alla frontiera del colle di Tenda ogni notte decine e decine di lavoratori, per non dire centinaia, passano clandestinamente la frontiera". Il libro di Rinauro toglie il fiato. E spazza via definitivamente (sventagliando 258 note bibliografiche per il solo capitolo terzo) uno dei luoghi comuni intorno alla differenza "fra noi e loro". Ha detto Carlo Sgorlon: "Gli immigrati italiani, e quelli friulani in particolare, non erano mai clandestini. In genere erano grandi lavoratori, rispettavano le leggi locali, raramente protestavano, non si ribellavano mai. Subivano quarantene, vaccinazioni, controlli di ogni genere". Non e' cosi'. Meglio: era "anche" cosi', ma non solo. Accanto a quella "assistita" che "prevedeva il reclutamento degli emigranti da parte degli Stati d'esodo e di destinazione mediante accordo bilaterale" e radunava quanti volevano andarsene (aspirazione che per un sondaggio Doxa del 1952 animava perfino il 56% dei giovani lombardi) nei centri di smistamento dove c'era "la selezione medica e professionale", c'era infatti l'"altra" emigrazione: illegale. Ed erano soprattutto lombardi, veneti, piemontesi, friulani. Certo, ci sono un mucchio di differenze tra l'emigrazione di allora e di oggi. Il mondo intero era diverso. Al punto che Charles de Gaulle, che amava come nessun altro la Francia ma sapeva quanto avessero contato nella storia patria il ligure Leon Gambetta, il piemontese Paul Cezanne (Paolo Cesana) o il veneto Emile Zola, si spinse a incoraggiare l'immigrazione "al fine di mettere al mondo i dodici milioni di bei bambini di cui necessita la Francia in dieci anni". Chiudeva un occhio, Parigi, in certi anni, sui clandestini. Come lo chiudevano i governi tedeschi, belgi... Perche', certo, le ripetute sanatorie urtavano l'Italia che cercava, attraverso gli accordi, di arginare lo sfruttamento dei suoi emigranti. Ma l'economia reale badava al sodo e, spiega Rinauro, l'immigrazione illegale era "il meccanismo di elasticita' che permetteva alla rigida politica ufficiale dell'immigrazione di adeguarsi a qualunque congiuntura". Pochi esempi. In Germania "nel 1959 entrarono mediante la selezione ufficiale 24.000 lavoratori italiani a fronte di 25.000 emigranti 'spontanei'". In Lussemburgo si inserirono illegalmente oltre un quarto degli immigrati tricolori del 1958. Il Belgio era pieno di italiani clandestini espatriati "per il 50%" dalla Francia. E perfino la Svizzera, stando a un rapporto del Ministero del Lavoro del 1954, era cosi' permeabile che i "reclutamenti irregolari da parte delle ditte elvetiche" erano "il piu' alto contingente del movimento migratorio italiano per la Svizzera". Ma come: piu' irregolari che regolari? Si'. "Considerando che tra il '46 e il '61 la media delle entrate annue degli italiani ufficialmente registrate si aggirava sulle 75.000 - scrive Rinauro - si puo' avere un'idea sia pure imprecisa della grande entita' dell'afflusso illegale". Ma a gelare il sangue sono i dati francesi: "Del campione degli italiani giunti dal '45 nella regione parigina intervistati nel 1951-'52 dalla famosa inchiesta dell'Institut national d'etudes demographiques sull'immigrazione italiana e polacca in Francia, ben l'80% era entrato senza contratto di lavoro, cioe' clandestinamente o da 'turista'". Per non dire di chi lavorava nell'agricoltura. "Secondo il direttore della Manodopera straniera del Ministero del Lavoro, Alfred Rosier, alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino". Quanto ai familiari, "emigro' illegalmente" addirittura "il 90%". Solcando le Alpi, ad esempio, al di la' della Val d'Isere fino a Bourg-Saint-Maurice dove nel settembre 1946 "ne arrivavano mediamente 300 al giorno, ma toccarono addirittura le 526 unita' in una sola giornata". 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 796 del 20 aprile 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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