Nonviolenza. Femminile plurale. 240



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 240 del 12 marzo 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "Sul politico" di Chantal Mouffe

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "SUL POLITICO" DI CHANTAL MOUFFE
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Chantal Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazioni dei conflitti,
Bruno Mondadori, Milano 2007 (ed. orig. On the Political, Routledge, London
2005)]

Indice del volume
1. Introduzione; 2. La politica e il politico; 3. Oltre il modello della
lotta tra avversari? 4. Le sfide attuali alla visione postpolitica; 5. Quale
ordine mondiale: cosmopolitico o multipolare? 6. Conclusione; Note; Indice
dei nomi.
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Da pagina 1
Introduzione
In questo libro intendo discutere un'idea che e' diventata "senso comune"
nella maggior parte delle societa' occidentali: la concezione secondo la
quale abbiamo ormai raggiunto uno stadio di sviluppo economico-politico che
costituisce uno straordinario progresso nell'evoluzione dell'umanita' e non
ci resta che esaltare le possibilita' che esso dischiude. I sociologi
affermano che siamo entrati in una "seconda modernita'" nella quale gli
individui, liberati dai vincoli collettivi, possono finalmente dedicarsi a
coltivare una varieta' di stili di vita, non piu' intralciati da costrizioni
sociali divenute antiquate. Il "mondo libero" ha trionfato sul comunismo e,
con l'indebolirsi delle identita' collettive, e' ora possibile un mondo
"senza nemici". I conflitti animati da spirito partigiano appartengono al
passato e il consenso puo' ora essere conseguito attraverso il dialogo.
Grazie alla globalizzazione e all'universalizzazione della democrazia
liberale, siamo in grado di attenderci l'avvento di un cosmopolitismo che
portera' pace, prosperita' e sviluppo dei diritti umani in ogni luogo del
mondo.
Voglio sottoporre a una serrata critica questa visione "postpolitica". Il
mio bersaglio principale e' costituito da quanti nel campo progressista
hanno accettato questa visione ottimistica della globalizzazione e sono
diventati sostenitori di una forma consensuale di democrazia. Esaminando
attentamente alcune delle teorie piu' diffuse sottese allo spirito
postpolitico in una serie di campi - sociologia, teoria politica e relazioni
internazionali - mostrero' come questa impostazione sia profondamente
sbagliata e come, anziche' contribuire a una "democratizzazione della
democrazia", sia all'origine di molti dei problemi che le istituzioni
democratiche si trovano ad affrontare. Nozioni come "democrazia senza parti
pregiudizialmente contrapposte", "democrazia dialogica", "democrazia
cosmopolitica", "buon governo", "societa' civile globale", "sovranita'
cosmopolitica", "democrazia assoluta" - per citare soltanto alcune delle
idee oggi piu' di moda - derivano tutte da una comune visione antipolitica
che rifiuta di riconoscere la dimensione antagonistica costitutiva del
"politico". Il loro scopo e' edificare un mondo "oltre la destra e la
sinistra", "oltre l'egemonia", "oltre la sovranita'" e "oltre
l'antagonismo". Questo orientamento rivela una totale mancanza di
comprensione di cio' che e' in gioco nella politica democratica e delle
dinamiche con cui si costituiscono le identita' politiche; inoltre, come
vedremo, contribuisce a esacerbare il potenziale antagonistico insito nella
societa'.
Una parte cospicua del mio lavoro consistera' nell'esaminare in numerose
aree le conseguenze teoriche e politiche della negazione dell'antagonismo.
La mia obiezione fondamentale e' che rappresentare lo scopo della politica
democratica in termini di consenso e riconciliazione e' non solo
concettualmente errato, ma anche politicamente rischioso. L'aspirazione a un
mondo in cui la demarcazione noi/loro sia superata si basa su premesse false
e coloro che condividono questo modo di vedere rischiano di perdere di vista
il vero compito di una politica democratica.
A ben vedere questo rifiuto dell'antagonismo non e' cosa nuova. La teoria
democratica e' rimasta a lungo ancorata all'idea che la bonta' e l'innocenza
originaria degli esseri umani fossero condizione indispensabile della
possibilita' stessa della democrazia. Alla base del moderno pensiero
politico democratico vi era in generale una visione idealizzata della
socievolezza umana come essenzialmente mossa da empatia e reciprocita'. La
violenza e l'ostilita' sono viste come un fenomeno arcaico, che verra'
eliminato grazie al progredire degli scambi e allo stabilirsi, mediante il
contratto sociale, di una comunicazione trasparente tra i partecipanti
razionali. Coloro che mettevano in dubbio questa visione ottimistica erano
automaticamente considerati nemici della democrazia. Pochi sono stati i
tentativi di elaborare il progetto democratico sulla base di un'antropologia
che riconoscesse il carattere ambivalente dell'associarsi umano e il fatto
che reciprocita' e ostilita' sono inseparabili. E nonostante tutto cio' che
abbiamo imparato da varie discipline, l'antropologia ottimistica va ancor
oggi per la maggiore. Per esempio, dopo piu' di mezzo secolo dalla morte di
Freud, la teoria politica mostra ancora una fortissima resistenza nei
confronti della psicoanalisi e non ne ha ancora assimilato la lezione
sull'impossibilita' di sradicare l'antagonismo.
Di contro io sostengo che la fede nella possibilita' di un consenso
razionale universale ha posto il pensiero democratico su una strada
sbagliata. Il compito dei teorici e dei politici democratici non dovrebbe
essere quello di cercare di progettare istituzioni capaci di conciliare,
attraverso procedure che si vorrebbero "imparziali", tutti gli interessi e i
valori in conflitto fra loro, ma quello di prospettare la creazione di una
sfera pubblica di contesa, fortemente "agonistica", nella quale possano
confrontarsi differenti progetti politici che aspirano all'egemonia. Questa,
nel mio modo di vedere, e' la condizione sine qua non per un effettivo
esercizio della democrazia. Si fa un gran parlare oggi di "dialogo" e di
"deliberazione", ma qual e' il significato di questo genere di termini in
ambito politico, se non si da' alcuna scelta reale e se i partecipanti alla
discussione non possono decidere tra alternative chiaramente differenziate?
Senza dubbio i liberali, che pensano che in politica sia possibile
raggiungere un accordo razionale e che considerano le istituzioni
democratiche come il veicolo per trovare la risposta razionale ai diversi
problemi della societa', tacceranno di "nichilismo" la mia concezione del
politico. E lo stesso faranno coloro che nella sinistra estrema credono
nella possibilita' di una "democrazia assoluta". E' inutile cercare di
convincerli che il mio approccio agonistico deriva da una "vera"
comprensione del "politico". Seguiro' un'altra strada, cercando di mettere
in luce le conseguenze che puo' avere per le politiche democratiche il
rifiuto del "politico", nell'accezione che io do a questo termine. Mostrero'
come l'approccio consensuale, invece di creare le condizioni per una
societa' riconciliata, conduca all'emergere di antagonismi che una
prospettiva agonistica, fornendo a quei conflitti una forma d'espressione
legittima, sarebbe riuscita a evitare. In questo modo spero di dimostrare
che comprendere l'irriducibilita' della dimensione conflittuale nella vita
sociale, lungi dal costituire una minaccia per il progetto democratico, e'
la condizione necessaria per far fronte alla sfida che attende la politica
democratica.
Dato il razionalismo prevalente nel discorso politico liberale, il piu'
delle volte e' tra i teorici conservatori che ho trovato intuizioni
importanti per una comprensione adeguata del politico. Sono loro che
riescono a dare uno scossone ai nostri assunti dogmatici; certo meglio di
quanto facciano gli apologeti liberali. Per questa ragione ho scelto di
condurre la mia critica del pensiero liberale sotto l'egida di un pensatore
controverso come Carl Schmitt. Sono convinta che da lui, che e' stato uno
dei piu' brillanti e intransigenti oppositori del liberalismo, abbiamo molto
da imparare. So che, per via della compromissione di Schmitt con il nazismo,
la mia scelta potra' suscitare ostilita'. Molti la considereranno
inopportuna se non decisamente disdicevole. Tuttavia, io credo che il
criterio determinante per decidere se sia o meno opportuno instaurare un
dialogo con l'opera di un pensatore non vada ricercato nelle sue qualita'
morali, ma nella sua forza intellettuale.
A mio parere il rifiuto di molti teorici democratici di confrontarsi con il
pensiero di Schmitt - un rifiuto basato su remore morali - e' un segno
tipico della deriva moralistica che caratterizza di questi tempi lo spirito
postpolitico. Ebbene, la critica di questa tendenza costituisce uno dei
nuclei della mia riflessione. Una delle tesi centrali di questo libro e'
che, contrariamente a quel che vogliono farci credere i teorici
postpolitici, noi assistiamo in ogni campo non alla sparizione del politico
nella sua dimensione di lotta tra avversari, ma a qualcosa di profondamente
diverso. Quel che succede e' che al giorno d'oggi il politico e' accordato
su un registro morale. In altre parole, esso fa ancora tutt'uno con la
demarcazione noi/loro, ma il noi/loro, invece di essere definito con
categorie politiche, e' ora fondato in termini morali. Al posto di una lotta
tra "destra e sinistra" ci troviamo di fronte a una lotta tra "giusto e
ingiusto".
Traendo esempi dal populismo di destra e dal terrorismo, nel quarto capitolo
prendero' in esame le conseguenze di questo slittamento per la politica
interna dei paesi e per la politica internazionale e mettero' in luce i
rischi che comporta. Il mio argomento e' che quando non sono a disposizione
i canali attraverso i quali i conflitti possono prendere una forma
"agonistica", quegli stessi conflitti tendono a emergere nella modalita'
antagonistica. Ora, quando l'opposizione noi/loro, invece di essere
formulata come confronto politico tra "avversari", e' concepita come un
confronto morale tra il bene e il male, la controparte puo' essere intesa
solo come un nemico da distruggere, e questo non favorisce certo un rapporto
agonistico. Di qui il continuo emergere di antagonismi che mettono in
questione i presupposti stessi dell'ordine esistente.
Un'altra tesi riguarda la natura delle identita' collettive, che comportano
sempre una discriminazione noi/loro. Esse hanno una posizione centrale in
politica e il compito della politica democratica non e' di superarle
attraverso il consenso, ma di costruirle in una maniera che dia vigore al
confronto democratico. L'errore del razionalismo liberale e' di ignorare la
dimensione affettiva mobilitata dalle identificazioni collettive e di
immaginare che queste "passioni", che si vorrebbero arcaiche, siano
destinate a scomparire con l'avanzare dell'individualismo e il progresso
della razionalita'. Cosi' si spiega come mai la teoria democratica sia cosi'
male attrezzata a cogliere la natura dei movimenti politici "di massa",
nonche' di fenomeni quali il nazionalismo. Proprio in considerazione del
ruolo che spetta alle "passioni" nella vita politica la teoria liberale, se
vuole essere all'altezza del "politico", non si puo' limitare a riconoscere
l'esistenza di una pluralita' di valori e a decantare la tolleranza. La
politica democratica non puo' ridursi all'individuazione di compromessi tra
interessi e valori o a scelte sul bene comune; e' necessario che abbia una
reale presa sui desideri e le fantasie della gente. E per essere in grado di
mobilitare le passioni verso le prospettive democratiche, la politica
democratica deve avere un carattere partigiano. E' questa infatti la
funzione della distinzione destra/sinistra, e non dobbiamo cedere alla
sollecitazione dei teorici postpolitici a pensare "oltre la destra e la
sinistra".
C'e' un'ultima lezione che si puo' ricavare da una riflessione sul
"politico". Se la possibilita' di raggiungere un ordine "al di la'
dell'egemonia" e' preclusa, che implicazioni si debbono trarre per il
progetto cosmopolitico? Potrebbe essere qualcosa di piu' dell'instaurazione
di un'egemonia planetaria da parte di un potere che fosse riuscito a
occultare il suo dominio identificando i propri interessi con quelli
dell'umanita'? Diversamente dai numerosi teorici che vedono la fine del
sistema bipolare come qualcosa che reca con se' la speranza di una
democrazia cosmopolitica, sosterro' che i pericoli insiti nell'attuale
ordine unipolare possono essere evitati solo dando vita a un mondo
multipolare, con un equilibrio tra numerosi poli regionali che rispecchi una
pluralita' di poteri egemonici. Questo e' il solo modo per evitare
l'egemonia di un'unica superpotenza.
In quello che e' il dominio del "politico", e' ancora degna di un'attenta
riflessione un'intuizione fondamentale di Machiavelli: "in ogni citta' si
truovono questi dua umori diversi [...] che il populo desidera non essere
comandato ne' oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare e
opprimere el populo". Cio' che definisce la prospettiva postpolitica e' la
pretesa che siamo entrati in una nuova era nella quale questo potenziale
antagonismo sarebbe scomparso. E proprio per questo la prospettiva
postpolitica potrebbe mettere a repentaglio il futuro della politica
democratica.
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Da pagina 11
Il politico come antagonismo
Il punto di partenza della mia indagine e' l'attuale incapacita' di
affrontare i problemi delle nostre societa' in modo politico. Voglio con
questo dire che le questioni politiche non sono faccende meramente tecniche
che possano essere risolte da esperti. Le questioni squisitamente politiche
comportano sempre decisioni che ci impongono di scegliere tra alternative in
conflitto. Sosterro' che questa incapacita' di pensare politicamente e'
dovuta in larga misura all'incontestata egemonia del liberalismo, e una
parte cospicua della mia riflessione sara' dedicata a esaminare l'impatto
delle idee liberali nelle scienze umane e nella politica. Mi propongo di
evidenziare il principale difetto del liberalismo in campo politico: la
negazione del carattere ineliminabile dell'antagonismo. In questo contesto,
parlando di "liberalismo", mi riferisco a un discorso filosofico che ha
molte varianti, unite non da un'essenza comune, ma, come direbbe
Wittgenstein, da un certo numero di "somiglianze di famiglia". Vi sono -
questo e' certo - molti liberalismi, alcuni piu' progressisti di altri; ma,
salvo rare eccezioni (Isaiah Berlin, Joseph Raz, John Gray, Michael Walzer,
per citarne alcuni), la tendenza dominante nel pensiero liberale e'
caratterizzata da un approccio razionalista e individualista che preclude la
comprensione delle identita' collettive. Questo tipo di liberalismo e'
incapace di cogliere adeguatamente la natura pluralistica del mondo sociale,
con i conflitti che essa comporta - conflitti per i quali non potra' mai
esistere una soluzione razionale. Secondo la tipica concezione liberale del
pluralismo, viviamo in un mondo nel quale vi sono molte prospettive e molti
valori; anche se per ovvie limitazioni empiriche e' impossibile adottarli
tutti, messi insieme costituiscono un complesso armonioso e privo di
conflitti. E' evidente che questo tipo di liberalismo non puo' che negare il
politico nella sua dimensione antagonistica.
La critica piu' radicale al liberalismo cosi' inteso si trova nell'opera di
Carl Schmitt, di cui in questo mio confronto con i presupposti liberali
riprendero' alcuni argomenti. Nel Concetto di politico, Schmitt dichiara
decisamente che, a rigor di termini, il puro principio del liberalismo non
puo' dare vita a una concezione specificamente politica. A suo parere
infatti un individualismo coerente deve negare il politico, perche' esige
che l'individuo rimanga il punto di riferimento ultimo. Afferma Schmitt: "Il
pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la
politica e si muove invece entro una polarita' tipica e sempre rinnovantesi
di due sfere eterogenee, quelle cioe' di etica ed economia, spirito e
commercio, cultura e proprieta'. La sfiducia critica nei confronti dello
Stato e della politica si spiega facilmente in base ai principi di un
sistema per il quale il singolo deve rimanere terminus a quo e terminus ad
quem". L'individualismo metodologico che caratterizza il pensiero liberale
preclude la comprensione della natura delle identita' collettive. Infatti
per Schmitt il criterio del politico, la sua differentia specifica, e' la
demarcazione amico/nemico. Il politico ha dunque a che fare con la
formazione di un "noi" in quanto contrapposto a un "loro" ed e' sempre
connesso a forme collettive di identificazione; ha a che fare con il
conflitto e l'antagonismo ed e' percio' il regno della decisione, non della
libera discussione. Il politico, secondo quanto afferma il pensatore
tedesco, "puo' essere compreso solo mediante il riferimento alla
possibilita' reale del raggruppamento amico/nemico, prescindendo dalle
conseguenze che ne derivano quanto alla valutazione religiosa, morale,
estetica, economica del 'politico' stesso".
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Da pagina 19
La politica come egemonia
Dopo l'antagonismo, il concetto di egemonia e' la nozione chiave per dare
sostanza alla questione del "politico". Prendere atto della dimensione
antagonistica sempre presente nel "politico" significa fare i conti con
l'assenza di un fondamento ultimo e riconoscere la dimensione di
indecidibilita' che pervade ogni ordinamento. Comporta, in altre parole, che
si riconosca la natura egemonica di ogni tipo di ordine sociale e il fatto
che ogni societa' e' il prodotto di una serie di pratiche tese a istituire
un dato ordine in un contesto di contingenza. Come segnala Ernesto Laclau,
"le due caratteristiche centrali di un intervento egemonico sono la natura
'contingente' delle articolazioni in cui si sostanzia l'egemonia e la loro
natura 'costitutiva', nel senso che esse istituiscono le relazioni sociali
in modo primario, indipendentemente da una qualche razionalita' sociale a
priori". Il politico e' in relazione con gli atti che istituiscono egemonia.
Ed e' in questo senso che occorre differenziare il sociale dal politico. Il
sociale e' il regno di pratiche sedimentate, vale a dire di pratiche che
dissimulano gli atti originari della loro istituzione politica contingente e
che sono date per scontate, come se fossero autofondate. Le pratiche sociali
sedimentate sono parte costitutiva di ogni societa' possibile; non tutti i
legami sociali vengono messi in discussione nello stesso momento. Il sociale
e il politico hanno percio' lo statuto di cio' che Heidegger definiva
esistenziali, e cioe' sono dimensioni necessarie di ogni vita associata. Se
il politico - inteso nel suo senso egemonico - implica la visibilita' degli
atti di istituzione del sociale, e' impossibile determinare a priori che
cosa sia il sociale e che cosa il politico indipendentemente da un qualche
riferimento contestuale. La societa' non deve essere vista come il
dispiegarsi di una logica a essa esterna, qualunque sia la fonte di quella
logica: le forze di produzione, lo sviluppo di cio' che Hegel chiamava
Spirito Assoluto, le leggi della storia e via dicendo. Ogni ordine e'
l'articolazione temporanea e precaria di pratiche contingenti. La frontiera
tra il sociale e il politico e' per essenza instabile e richiede
costantemente nuove dislocazioni e negoziazioni tra gli agenti sociali. Le
cose possono sempre essere altrimenti e percio' ogni assetto e' basato
sull'esclusione di altre possibilita'. In questo senso puo' essere definito
"politico", in quanto e' espressione di una particolare struttura di
rapporti di potere. Il potere e' costitutivo del sociale perche' il sociale
non puo' esistere senza i rapporti di potere dai quali prende forma. Quello
che in un dato momento viene considerato l'ordine "naturale" - insieme al
"senso comune" che lo accompagna - e' il risultato di pratiche sedimentate;
non e' mai la manifestazione di un'oggettivita' piu' profonda esterna alle
pratiche da cui ha origine.
Riepilogando questo punto: ogni ordinamento e' politico ed e' basato su una
qualche forma di esclusione. Vi sono sempre altre possibilita' che sono
state represse e che possono essere riattivate. Le pratiche articolate
mediante le quali viene costituito un determinato ordine e viene fissato il
significato delle istituzioni sociali sono "pratiche egemoniche". Ogni
ordine egemonico e' suscettibile di essere messo alla prova da pratiche
contro-egemoniche, ossia pratiche che cercheranno di disarticolare l'ordine
esistente in modo da insediare un'altra forma di egemonia.
*
Da pagina 22
Quale forma di noi/loro per una politica democratica?
Dall'analisi svolta fin qui, emerge che uno dei compiti principali della
politica democratica consiste nel disinnescare il potenziale antagonismo
insito nei rapporti sociali. Se assumiamo che non lo si possa fare
prescindendo dal rapporto noi/loro, ma solo strutturandolo in un modo
diverso, allora si tratta di capire come si potrebbe configurare una forma
"addomesticata" di antagonismo, quale forma di rapporto noi/loro
implicherebbe. Per essere accettato come legittimo, il conflitto deve
assumere una forma che non distrugga l'associazione politica. Cio' significa
che deve esistere tra le parti in lotta qualche genere di vincolo comune, in
modo che gli oppositori non vengano trattati come nemici da annientare in
quanto fautori di posizioni illegittime, che e' esattamente quello che
accade nel rapporto antagonistico amico/nemico. In ogni caso, gli oppositori
non possono essere visti come meri avversari i cui interessi possano essere
trattati mediante un negoziato o composti attraverso la deliberazione,
perche' in questo caso l'elemento antagonistico sarebbe stato semplicemente
eliminato. Se vogliamo riconoscere da un lato il permanere della dimensione
antagonistica del conflitto, e dall'altro ammettere la possibilita' del suo
"addomesticamento", dobbiamo prospettare un terzo tipo di relazione. Si
tratta del tipo di relazione che ho proposto di definire "agonismo". Mentre
l'antagonismo e' una relazione noi/loro nella quale le due parti sono nemici
che non condividono alcun terreno comune, l'agonismo e' una relazione
noi/loro nella quale le parti in conflitto, pur consapevoli che non esiste
una soluzione razionale al loro conflitto, nondimeno riconoscono la
legittimita' dei loro oppositori. Sono "avversari", non nemici. Cio'
significa che, benche' in conflitto, si considerano come appartenenti alla
medesima associazione politica, come parti che condividono uno spazio
simbolico comune entro il quale ha luogo il conflitto. Possiamo affermare
che il compito della democrazia e' di trasformare l'antagonismo in agonismo.
*
Da pagina 28
Dato l'accento particolare che oggi viene posto sul consenso, non sorprende
che la gente sia sempre meno interessata alla politica e che il tasso di
astensionismo sia in crescita. La mobilitazione richiede politicizzazione,
ma la politicizzazione non puo' esistere senza la produzione di una
rappresentazione conflittuale del mondo, con campi opposti in cui la gente
possa identificarsi, permettendo cosi' alle passioni di essere mobilitate
politicamente all'interno dello spettro del processo democratico. Si prenda
per esempio il caso del voto. L'approccio razionalista non e' in grado di
cogliere che cio' che spinge la gente a votare e' molto piu' che la semplice
difesa dei propri interessi. Nel voto e' presente un'importante dimensione
affettiva, entra in gioco una questione di identificazione. Per agire
politicamente gli uomini hanno bisogno di potersi identificare con
un'identita' collettiva che fornisca loro un'idea di se stessi a cui essi
possano dare valore. Il discorso politico deve offrire non soltanto misure
politiche, ma anche identita' che consentano alla gente di dare un senso a
cio' che sta vivendo e che le offrano una speranza per il futuro.
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Da pagina 35
Oltre alle insufficienze dell'approccio liberale, il principale ostacolo
all'attuazione di una politica agonistica, dopo il collasso del modello
sovietico, e' costituito dall'egemonia indiscussa del neoliberalismo, con la
sua pretesa che non vi sia alternativa all'ordine esistente. Questa pretesa
e' stata fatta propria dai partiti socialdemocratici, che con il pretesto
della "modernizzazione" si sono spostati sempre piu' a destra, ridefinendosi
come "centrosinistra". Ben lungi dall'approfittare della crisi del vecchio
antagonista comunista, la socialdemocrazia e' stata trascinata nel suo
collasso. In questo modo la politica democratica ha perso una grossa
opportunita'. Gli avvenimenti del 1989 avrebbero dovuto rappresentare
l'occasione di una ridefinizione della sinistra, ormai liberata dal peso del
sistema comunista. La disintegrazione delle frontiere politiche tradizionali
offriva l'opportunita' di approfondire il progetto democratico tracciandone
di nuove e in forma piu' avanzata. Sfortunatamente questa occasione e' stata
mancata. Invece abbiamo udito affermazioni trionfalistiche sulla scomparsa
dell'antagonismo e l'avvento di una politica senza frontiere, senza un
"loro"; una politica in cui tutti sarebbero stati vincitori, in cui
diventava possibile trovare soluzioni favorevoli a ciascun membro della
societa'.
Per la sinistra e' stato importantissimo fare i conti con il pluralismo e
con le istituzioni politiche liberaldemocratiche; ma questo non avrebbe
dovuto significare la rinuncia a qualsiasi tentativo di trasformare l'ordine
egemonico attuale e l'adesione all'idea che "le societa' liberaldemocratiche
realmente esistenti" rappresentino la fine della storia. Se c'e' una lezione
da trarre dal fallimento del comunismo e' che la lotta democratica non puo'
essere intesa nei termini del rapporto amico/nemico e che la democrazia
liberale non e' il nemico da abbattere. Se assumiamo la "liberta' ed
eguaglianza per tutti" come principi "etico-politici" della democrazia
liberale (cio' che Montesquieu defini' come "le passioni che muovono un
regime"), e' chiaro che il problema delle nostre societa' non sono gli
ideali che esse proclamano, ma il fatto che tali ideali non vengono messi in
pratica. Percio' il compito che spetta alla sinistra non e' quello di
respingerli denunciandone la mistificazione e la reale funzione di schermo
per il dominio capitalistico, ma di lottare per la loro effettiva
realizzazione. E questo non puo' essere fatto senza mettere in discussione
l'attuale forma neoliberale dell'ordinamento capitalistico.
Diciamo allora che questa lotta, se anche non deve essere concepita nei
termini di amico/nemico, non puo' essere vista come una mera competizione
tra interessi diversi o in modo "dialogico". E invece e' proprio cosi' che
la maggior parte dei partiti di sinistra rappresenta al giorno d'oggi la
politica democratica. Per poter infondere nuova vita alla democrazia e'
urgente uscire da questa impasse. Sono convinta che l'approccio agonistico
che propongo in queste pagine, di cui l'idea di "avversario" costituisce
parte integrante, potrebbe contribuire al rinnovamento e all'approfondimento
della democrazia. Esso offre inoltre la possibilita' di concepire la
prospettiva della sinistra in termini egemonici. Gli avversari inscrivono il
loro confronto all'interno della cornice democratica, ma questa cornice non
e' vista come qualcosa di immutabile: e' suscettibile di essere ridefinita
attraverso una lotta per l'egemonia. Una concezione agonistica della
democrazia riconosce il carattere contingente delle articolazioni
politico-economiche egemoniche che determinano la configurazione specifica
di una societa' in un dato momento. Esse sono costruzioni precarie e
pragmatiche, e quindi possono essere disarticolate e trasformate come
risultato di una lotta agonistica tra avversari.
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Da pagina 68
Il rinnovamento della socialdemocrazia da parte del New Labour
Troviamo conferma di questa complementarita' tra egemonia neoliberale e
"terza via" se esaminiamo in che modo le proposte di Giddens per il
rinnovamento della socialdemocrazia hanno ispirato la politica del New
Labour. Non intendo fare un'analisi dettagliata del ventaglio delle
politiche del governo Blair: sara' sufficiente indicare il suo orientamento
di fondo. La domanda che voglio porre e': fino a che punto e' radicale la
politica del cosiddetto "centro radicale" e che genere di consenso ha
cercato di far crescere? La risposta e' davvero deprimente. Come ha
affermato Stuart Hall, invece di mettere in discussione l'egemonia
neoliberale sviluppatasi in diciotto anni di potere thatcheriano, il New
Labour ha raccolto il testimone lasciato dal thatcherismo. Blair ha scelto
di adattarsi all'impostazione neoliberale, anche se in maniera originale. Il
suo progetto e' stato di assorbire la socialdemocrazia all'interno del
neoliberalismo. La strategia di lungo termine del New Labour, dice Hall, e'
"la trasformazione della socialdemocrazia in una variante particolare del
neoliberalismo del libero mercato". Alcuni obiettivi socialdemocratici sono
presenti, per esempio quello di raggiungere un certo livello di
redistribuzione e di realizzare migliori servizi pubblici; ma sono
subordinati alla priorita' neoliberale di liberare l'azione del grande
capitale dalle regolamentazioni che i precedenti governi socialdemocratici
avevano istituito per tenere sotto controllo il capitalismo. Il welfare
state e' stato "modernizzato" introducendo al suo interno criteri di mercato
e diffondendo tecniche di gestione atte a promuovere i "valori
imprenditoriali" chiave: efficienza, scelta e selettivita'. Certamente lo
stato non viene visto come un nemico come nella visione neoliberale, ma il
suo ruolo e' stato completamente trasformato. Non e' piu' quello di "dare
appoggio ai meno fortunati e meno influenti in una societa' che
'naturalmente' produce grandi ineguaglianze di condizioni materiali, potere
e opportunita', ma di aiutare gli individui a provvedere da se' a tutti i
loro bisogni sociali - salute, educazione, ambiente, spostamenti,
abitazione, cura dei figli, indennita' di disoccupazione, pensione di
anzianita' ecc.". Questo e' il modo del New Labour di intendere un "governo
attivo".
Anche John Gray sottolinea l'importanza dell'ideologia neoliberale e il
culto del mercato nella formazione intellettuale del New Labour; egli
sostiene che, nel campo delle privatizzazioni, Blair si e' spinto
addirittura oltre quel che avrebbe potuto fare la Thatcher. Cita per esempio
l'introduzione di imprenditori privati mossi da logiche di mercato nel
sistema giudiziario e nei servizi penitenziari; a questo proposito egli
osserva: "In questi casi il mercato e' stato installato al centro stesso
dello stato - si tratta di una misura che ai tempi della Thatcher era
sostenuta soltanto dall'ala destra del suo think-thank". Altre politiche
nelle quali Gray considera che Blair stia spingendosi oltre la Thatcher sono
quelle che contemplano la deregulation delle poste e l'inserimento di
imprenditori privati nel servizio sanitario nazionale.
Un segno molto chiaro della rinuncia del New Labour alla sua identita' di
sinistra e' che esso ha abbandonato la lotta per l'uguaglianza. Lo slogan
del partito e' diventato che si deve dare una "possibilita' di scegliere",
una chance. Le classi sono scomparse, le parole chiave adesso sono
"inclusione" ed "esclusione". La societa' e' vista come composta
fondamentalmente da ceti medi; le uniche eccezioni sono una piccola elite di
gente molto ricca da una parte, e quelli che sono "esclusi", dall'altra. Una
simile visione della struttura sociale fornisce le basi di quel "consenso al
centro" di cui il New Labour e' fautore, in armonia con il principio che la
struttura delle societa' "post tradizionali" non e' piu' caratterizzata
dalla disuguaglianza nei rapporti di potere. Se si ridefiniscono le
disuguaglianze strutturali prodotte sistematicamente dal mercato in termini
di "esclusione", si puo' fare a meno di sottoporre a un'analisi strutturale
le loro cause, evitando quindi di porsi la questione di fondo: quali siano i
cambiamenti nei rapporti di potere necessari per affrontarle. Solo in questo
modo una socialdemocrazia "modernizzata" puo' prendere le distanze
dall'identita' tradizionale della sinistra e situarsi "al di la' della
sinistra e della destra".
Una delle strade proposte da Giddens per superare la vecchia divisione tra
sinistra e destra e' l'istituzione di forme di collaborazione tra lo stato e
la societa' civile; questa idea e' stata adottata con entusiasmo dal New
Labour con la creazione delle societa' pubblico-private - le "public-private
partnerships" (PPP) - che hanno prodotto risultati rovinosi nei servizi
pubblici. Non c'e' bisogno di entrare nei dettagli della disastrosa storia
delle ferrovie. Il fallimento del tentativo di affidare a imprese private la
gestione di una parte tanto vitale del sistema dei trasporti e' stato cosi'
clamoroso che lo stato ha dovuto fare marcia indietro. Eppure, questo non
sembra avere intaccato il fervore del New Labour per le PPP, visto che e'
ancora vivo il tentativo di imporle in altre aree. La strategia delle PPP e'
peraltro paradigmatica della terza via: ne' lo stato (sinistra) ne' il
settore privato (destra), ma la loro armoniosa cooperazione, con lo stato
che mette i soldi per gli investimenti e gli imprenditori che mietono i
profitti - e da ultimo i cittadini (i consumatori, per dirla con il New
Labour) che ne subiscono le conseguenze!
In questo modo il preteso rinnovamento della socialdemocrazia ha prodotto
una "variante socialdemocratica del neoliberalismo", per dirla con Hall. Il
caso del New Labour chiarisce bene come, non riconoscendo che la societa' e'
sempre costituita in maniera egemonica attraverso una determinata struttura
di rapporti di potere, si finisca inevitabilmente per accettare l'egemonia
esistente e per restare intrappolati all'interno della sua configurazione
dei rapporti di forza. E' questo l'esito necessario del "consenso al
centro", che sostiene di aver superato il modello degli avversari. Invece di
essere il terreno in cui ha luogo un dibattito agonistico tra le soluzioni
della sinistra e della destra, la politica e' ridotta a "manipolazione".
Visto che non vi sono differenze di fondo tra loro, i partiti cercheranno di
vendere i loro prodotti con un abile marketing affidato alle agenzie
pubblicitarie. La conseguenza, che e' gia' sotto gli occhi di tutti, e' una
crescente disaffezione verso la politica e una drastica caduta nella
partecipazione elettorale. Quanto tempo ci vorra' perche' i cittadini
perdano completamente la fiducia nel processo democratico?
*
Da pagina 132
Verso un ordine mondiale multipolare
Come ho sostenuto nel capitolo 4, proprio il fatto che stiamo vivendo in un
mondo unipolare, nel quale non ci sono canali legittimi per opporsi
all'egemonia degli Stati Uniti, e' all'origine dell'esplosione di nuovi
antagonismi, i quali a loro volta, se non siamo capaci di coglierne la
natura, potrebbero davvero condurre all'annunciato "scontro delle civilta'".
La via per evitare una tale prospettiva e' di prendere sul serio il
pluralismo invece di cercare di imporre un unico modello al mondo intero,
anche se si tratta di un modello cosmopolitico pieno di buone intenzioni. E'
percio' urgente abbandonare l'illusione di un mondo unificato e operare per
istituire un mondo multipolare. Oggi si sente molto parlare della necessita'
di un effettivo "multilateralismo". Ma il multilateralismo in un mondo
unipolare sara' sempre un'illusione. Fino a che esiste un unico potere
egemonico, esso sara' sempre il solo a decidere se prendere in
considerazione l'opinione di altre nazioni o agire per conto proprio. Un
vero multilateralismo richiede che esista una pluralita' di centri di
decisione e una qualche forma di equilibrio - anche se si tratta soltanto di
un equilibrio relativo - tra diversi poteri.
Come ho suggerito nel capitolo 4, possiamo trovare importanti intuizioni
negli scritti di Schmitt degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta dove
egli ragionava sulla possibilita' di un nuovo Nomos della Terra che fosse in
grado di prendere il posto dello Jus Publicum Europaeum. In un articolo del
1952, in cui esaminava come potesse evolvere il dualismo creato dalla guerra
fredda e dalla polarizzazione tra capitalismo e comunismo, immagino'
numerosi scenari possibili. Era scettico riguardo l'idea che quel dualismo
fosse soltanto il preludio all'unificazione finale del mondo, che sarebbe
risultata dalla vittoria totale di uno degli antagonisti, in grado infine di
imporre il suo sistema e la sua ideologia a livello mondiale. La fine del
bipolarismo avrebbe piu' verosimilmente portato a un nuovo equilibrio
garantito dagli Stati Uniti e sotto la sua egemonia. Schmitt prospettava
anche la possibilita' di una terza forma di evoluzione che sarebbe
consistita nell'apertura di una dinamica di pluralizzazione, l'esito della
quale avrebbe potuto essere l'istituzione di un nuovo ordine globale basato
sull'esistenza di piu' blocchi regionali autonomi. Questo assetto avrebbe
posto le condizioni per un equilibrio di forze tra diverse ampie aree,
stabilendo tra loro un nuovo sistema di diritto internazionale. Un
equilibrio di questo genere avrebbe presentato somiglianze con il vecchio
Jus Publicum Europaeum, salvo che in questo caso esso sarebbe stato
autenticamente globale e non solo eurocentrico. Questa era la soluzione che
preferiva poiche' egli riteneva che, istituendo un "vero pluralismo", un
ordine multipolare di questo genere avrebbe dato vita alle istituzioni
necessarie a governare i conflitti, evitando le conseguenze negative
risultanti dallo pseudouniversalismo prodotto dalla generalizzazione di un
unico sistema. Egli era consapevole, tuttavia, che quello
pseudouniversalismo era un esito molto piu' verosimile del pluralismo che
egli sosteneva. E sfortunatamente dopo il crollo del comunismo i suoi timori
sono stati confermati.
Le riflessioni di Schmitt traevano certamente origine da preoccupazioni ben
diverse dalle mie, ma penso che la sua visione sia particolarmente
interessante nella nostra congiuntura attuale. La sinistra dovrebbe
riconoscere il carattere pluralista del mondo e adottare la prospettiva
multipolare. Cio' significa, come ha sostenuto Massimo Cacciari, lavorare
per stabilire un sistema giuridico internazionale basato sull'idea di poli
regionali e identita' culturali federate tra loro nel riconoscimento della
loro piena autonomia. Cacciari riconosce il carattere pluralista del mondo
e, esaminando la questione del rapporto con il mondo islamico, mette in
guardia dal pensare che la modernizzazione dell'Islam debba avvenire
attraverso la sua occidentalizzazione. Il tentativo di imporre il nostro
modello, dice, puo' moltiplicare i conflitti locali e le forme di resistenza
che fomentano il terrorismo globale. Egli suggerisce un modello di
globalizzazione modulato intorno a un certo numero di grandi entita'
geografiche e di autentici poli culturali e sottolinea che il nuovo ordine
del mondo deve essere un ordine multipolare.
Chiaramente, data l'incontestabile supremazia degli Stati Uniti, molti
diranno che il progetto di un mondo multipolare e' completamente
irrealistico. Ma non e' certo piu' irrealistico della visione cosmopolitica.
Di fatto, l'emergere della Cina come superpotenza prova che una tale
dinamica di pluralizzazione, lungi dall'essere irrealistica, e' gia'
operante. E questo non e' l'unico segno che si stiano formando dei blocchi
regionali che mirano a raggiungere una certa autonomia e capacita' di
negoziato. Questa e' per esempio chiaramente la direzione che stanno
prendendo numerosi stati dell'America Latina sotto l'egemonia del Brasile e
dell'Argentina con il loro tentativo di rafforzare il Mercosur (una
struttura economica comune nel Sudamerica); una dinamica paragonabile e'
all'opera nell'associarsi di numerosi stati dell'Estremo Oriente nell'Asean,
e la capacita' di attrazione di un modello di questo tipo e' verosimilmente
in crescita.
Non voglio minimizzare gli ostacoli che devono essere superati, ma, per lo
meno nel caso della creazione di un ordine multipolare, questi ostacoli sono
soltanto di natura empirica, mentre il progetto cosmopolitico e' anche
basato su premesse teoriche traballanti. Il sogno di un ordine mondiale che
non sia strutturato su rapporti di potere si basa sul rifiuto di fare i
conti con la natura egemonica di ogni ordine. Una volta che si sia
riconosciuto che non c'e' un bel niente "oltre l'egemonia", l'unica
strategia concepibile per superare la dipendenza del mondo da un'unica
potenza e' trovare le strade per "rendere plurale" l'egemonia. E questo puo'
essere fatto soltanto attraverso il riconoscimento di una molteplicita' di
potenze regionali. Solo un simile contesto fara' si' che nessun attore
nell'ordine internazionale si possa considerare, per via del suo potere, al
di sopra della legge, arrogandosi il ruolo di sovrano. Inoltre, come ha
chiarito Danilo Zolo, "un equilibrio multipolare e' la condizione necessaria
perche' il diritto internazionale possa esercitare almeno la sua minima
funzione, che consiste nel contenere le conseguenze piu' distruttive della
guerra moderna".

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 240 del 12 marzo 2009

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