Voci e volti della nonviolenza. 310



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 310 del 9 marzo 2009

In questo numero:
Alcuni estratti da "Oltre Babele" di Mario Ricca

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "OLTRE BABELE" DI MARIO RICCA
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Mario Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo,
Bari 2008]

Indice del volume
Parte prima. Percorsi generativi della democrazia interculturale. Capitolo
primo. Multiculturale/interculturale. Il motore antropologico; Capitolo
secondo. Immigrazione e cittadinanza. Il motore demografico; Capitolo terzo.
Soggetto multiplo e pluralita' culturale. Il motore psicosociale; Capitolo
quarto. Diritti umani come interfaccia culturale. Il motore ideale; Capitolo
quinto. Fedi e diritto. Il motore religioso; Parte seconda. Codici
interculturali dell'esperienza giuridica. Capitolo sesto.
Interpretare/Contestualizzare gli indici di diversita' culturale; Capitolo
settimo. Tradurre la diversita' culturale; Capitolo ottavo. Percorsi di
integrazione giuridica interculturale; Conclusione; Bibliografia.
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Da pagina 25
Immigrazione e cittadinanza. Il motore demografico
La trasformazione in senso multiculturale delle societa' democratiche
occidentali ha una causa detonante: l'immigrazione. L'ingresso di nuovi
soggetti all'interno dei territori nazionali solleva il problema di regolare
le modalita' di attraversamento delle frontiere; di disciplinare le
modalita' di inserimento sociale dei "nuovi venuti"; di stabilire il grado
di partecipazione di essi alla vita sociale; di determinare se e in quale
misura siano titolari di diritti e doveri. La questione, in breve, e' se e
con quali modalita' gli immigrati siano soggetti di diritto; quindi se e per
quali ragioni debbano essere distinti dai cittadini, che invece usufruiscono
della soggettivita' giuridica in modo pieno. Immigrazione e cittadinanza
rappresentano percio' le "colonne d'Ercole" che traghettano il fenomeno
della multiculturalita' e le sue possibili qualificazioni giuridiche nella
dimensione interculturale.
*
Perche' aprire le frontiere?
Cittadinanza e immigrazione danno vita a un intero arcipelago di questioni
politiche e giuridiche. Iniziero' ad analizzarle proponendo un quesito
pratico. Per quali ragioni uno Stato dovrebbe accettare l'ingresso di
non-cittadini all'interno del proprio territorio? Rispondere a questa
domanda implica la proposizione di un interrogativo ancora piu' generale.
Perche' un gruppo sociale gia' esistente e relativamente consolidato
dovrebbe aprirsi, accogliere al suo interno soggetti esterni ed estranei?
Le ragioni plausibili per adottare strategie politiche di apertura delle
frontiere possono essere di due ordini: rispettivamente interne o esterne al
gruppo. La distinzione tra di esse non e' tuttavia assoluta e d'immediata
evidenza. Richiede percio' qualche specificazione preliminare.
Le ragioni cosiddette interne hanno a che fare con i principi attorno ai
quali il popolo si aggrega; i suoi codici culturali; i suoi valori di fondo.
Le ragioni cosiddette esterne hanno a che fare con le condizioni di
sopravvivenza della comunita' statale. L'ambiente esterno e i suoi elementi
costitutivi (fattori naturali, presenza di altri gruppi, relazioni con essi
e cosi' via) possono rendere necessaria o conveniente l'apertura della
comunita' a soggetti estranei.
Per certi versi, le ragioni cosiddette esterne, cosi' definite, sono
anch'esse interne, almeno in senso lato. In fondo e' sempre l'interesse del
gruppo nazionale o della comunita' statale a determinare la rilevanza di
queste ragioni di confronto o d'integrazione dell'estraneo. Si puo' dire,
tuttavia, che rimangano esterne per la provenienza del loro fattore
scatenante, meglio: per la loro causa efficiente.
*
Le ragioni "interne"
Svolte queste precisazioni, passero' adesso ad analizzare piu' da vicino le
ragioni interne. Al riguardo puo' essere utile porre un ulteriore
interrogativo. Chiedersi, cioe', se sia coerente con i principi di una
democrazia costituzionale escludere la possibilita' di accesso agli
stranieri. Per rispondere e' necessario ricordare che tra questi principi vi
e' la liberta' personale; la liberta' di circolazione; la tutela della
dignita' umana; l'uguaglianza di fronte alla legge a prescindere da
differenze di lingua, razza, credo religioso, opinioni politiche e, quindi,
anche di appartenenza culturale. Alla luce di queste premesse puo' dunque
riproporsi una delle precedenti domande, stavolta in termini negativi: e'
legittimo negare a un non-cittadino l'ingresso all'interno del territorio
dello Stato?
Una lettura in chiave solo formale del concetto di cittadinanza farebbe
pensare alla possibilita' di una risposta positiva. In fondo, potrebbe
dirsi, ogni ordinamento deve poter essere in grado di decidere liberamente,
anzi sovranamente, di ammettere o non ammettere qualcuno sul suo territorio;
oppure a chi riservare la titolarita' della cittadinanza. Negare questa
possibilita' significherebbe negare la sovranita' o comunque due dei suoi
aspetti salienti: il controllo del territorio e dei suoi confini; la
possibilita' di determinare in autonomia a chi e a quali condizioni
attribuire la soggettivita' giuridica.
Tuttavia, negli ordinamenti democratico-costituzionali la cittadinanza e'
un'implicazione, se non pure una proiezione del riconoscimento dei diritti
dell'individuo colto nella sua dimensione antropologica, preistituzionale. I
diritti cioe' precedono la definizione della cittadinanza, le sue
connotazioni. Questo perche' e' la convergenza politica e culturale sui
diritti che da' vita all'ordinamento e quindi alla cittadinanza. Piaccia o
non piaccia, a dispetto di ogni forma di realismo politico, e' cosi' che si
articola la retorica fondativa delle democrazie costituzionali; sono queste
le sue finzioni costitutive. In base ad esse, i diritti umani e/o
fondamentali sono il presupposto cronologico e logico della
concettualizzazione della cittadinanza e dei suoi contenuti.
Se cosi' e', perde allora plausibilita' parlare di un conferimento della
titolarita' dei diritti del tutto subordinato all'attribuzione della
cittadinanza.
Questa considerazione spiega perche' gli ordinamenti democratici fondati sul
riconoscimento dei diritti a livello costituzionale abbiano forti
difficolta' nel legittimare la negazione ai non-cittadini della possibilita'
d'ingresso all'interno del proprio territorio. Piu' analiticamente, liberta'
personale, liberta' di circolazione e soggiorno, liberta' di manifestazione
del pensiero, tutela della dignita' umana, eguaglianza si danno come
prerogative in qualche modo preordinamentali, se non addirittura
prepolitiche. Questo perche' l'ordinamento e la stessa societa' civile si
costituiscono mediante esse e da esse ricevono la loro connotazione
costitutiva. Di la' dalle scansioni positive o dall'esegesi formale delle
disposizioni delle singole costituzioni, di fronte agli ordinamenti
democratico-costituzionali tutti ne godono, dunque anche chi e' straniero.
Il suo diritto di "circolare" preesiste percio' alla creazione dei confini
(statali) e include - almeno in linea teorica - anche la possibilita' di
varcarli.
In breve, colui che chiede di entrare nel territorio di uno stato ha la
liberta' di circolarvi; ha la liberta' personale; ha diritto di essere
trattato nel rispetto della sua dignita'; ha diritto all'eguaglianza di
trattamento: tutto cio' in quanto e' un individuo della specie uomo, e non
subordinatamente al suo essere cittadino. Una comunita' statale, costruita
sul riconoscimento di quei diritti, non puo' dirsi coerentemente sovrana di
negare in assoluto e senza motivazioni l'ingresso a chi si presenti alle sue
frontiere. Il che non significa naturalmente che non possa farlo mai. Potra'
farlo solo a determinate condizioni di coerenza con il suo assetto
costituzionale.
*
Da pagina 97
Diritti umani come interfaccia culturale. Il motore ideale
I diritti umani e/o fondamentali sono un codice che puo' ospitare
innumerevoli versioni della soggettivita' sociale e giuridica. Le
dichiarazioni dei diritti dell'uomo contengono una serie di icone, di forme
della soggettivita'. A ognuna di esse corrisponde un diritto e
l'enunciazione di un diritto. Alla base vi e' un'idea dell'individuo, del
singolo essere umano. Le sue connotazioni principali sono la liberta',
l'uguaglianza, l'autodeterminazione, la dignita'. A queste caratteristiche
ideali fa da contrappeso il dovere di solidarieta'.
Se queste caratteristiche siano naturali, cioe' facciano parte integrante
della natura umana, non e' possibile accertarlo scientificamente. E' cosi'
perche' si tratta di caratteristiche ideali. Esse possono partecipare
dell'esistente, possono darsi nella realta' concreta dell'esperienza
sociale. Ma possono anche mancare o venir meno. Questo pero' non e'
determinante per accertare cosa significhino. In fondo anche il cibo puo'
scarseggiare, ma nessuno pensa per questo che cibarsi non sia un bisogno
naturale. Fruire di quei diritti puo' dunque costituire un bisogno
altrettanto naturale che cibarsi, o dissetarsi. Decisivo e' credere che la
loro fruizione sia una proiezione normale della vita umana; che la loro
negazione sia una menomazione grave, mortificante le potenzialita'
dell'essere umano.
Descrivere i diritti umani come un oggetto di credenza non deve far pensare
tuttavia a un surrettizio tentativo di svalutazione. L'essere umano e' un
animale culturale. La sua esistenza e' affidata alle sue capacita'
simboliche e immaginative. La sua stessa natura lo proietta in un mondo di
possibilita' e non di semplici automatismi predefiniti. La sua dotazione
distintiva rispetto al resto del regno animale e' un linguaggio potente,
idoneo sia a comunicare, sia a rappresentare il mondo, le esperienze. Grazie
a questa dotazione l'uomo puo' progettare, ideare situazioni nuove,
controllare il corso degli eventi, creare condizioni di esistenza non
disponibili nel presente. Per far questo esprime giudizi sul mondo,
attraverso i giudizi crea simboli, manipolando i simboli conosce il suo
ambiente, lo modifica e riposiziona se stesso al suo interno.
Tutte le attivita' adesso descritte compongono la dimensione naturale
dell'uomo, benche' si tratti di attivita' culturali, simboliche. I diritti
umani definiscono alcune modalita' per lo svolgimento delle attivita' umane
all'interno dei contesti sociali. Essi pertengono alla dimensione culturale
dell'essere umano. Nulla di strano dunque che siano oggetto di credenza e
che la loro esistenza sia condizionata dal fatto che le comunita' umane
credano in essi.
Entro certi limiti, d'altronde, anche i fatti accertabili scientificamente
sono veri fintantoche' si crede in essi. In quanto oggetto di conoscenza,
non sono indipendenti dalla conoscenza stessa, dai suoi assunti, dai
procedimenti di acquisizione e di verifica. Mettere in discussione quegli
assunti potrebbe significare porre in dubbio o persino sconfessare
l'esistenza di fatti, di oggetti, di entita' ritenute vere. In fondo anche
le nostre conoscenze sul mondo vengono acquisite per trasmissione culturale.
La maggior parte dei nostri saperi e' oggetto di fede; essi s'impadroniscono
delle nostre menti d'autorita' in quanto trasmessi dal contesto culturale,
dalle persone di cui ci fidiamo. Solo in una percentuale minima ciascun uomo
riesce a sottoporre a verifica sperimentale, o comunque a critica,
l'enciclopedia di saperi acquisita per trasmissione culturale. Dunque, anche
la conoscenza dei fatti, del mondo empirico ha una componente fideistica o
pistica (dal greco pistis, che significa appunto fede) poiche' anch'essa e'
frutto di un'elaborazione culturale.
Proclamare i diritti umani come attinenti alla natura (culturale) dell'uomo
e' una scelta euristica e politica. Essi permettono di farsi un'idea piu'
esatta degli essere umani e delle condizioni necessarie perche' essi possano
vivere insieme senza distruggersi reciprocamente. Acquisire questa
conoscenza serve a stabilire l'asse di legittimazione dei sistemi sociali,
politici e giuridici e le loro condizioni di buon funzionamento. Un assetto
sociale e istituzionale che misconoscesse quei diritti mortificherebbe le
potenzialita' e i bisogni umani oltre la soglia del tollerabile, innescando
cosi' i semi della discordia e della guerra.
*
I diritti umani come prodotto culturale
La storia esibisce un'ampia casistica di societa' e non in tutte i diritti
umani, cosi' come interpretati dal pensiero politico occidentale, hanno
trovato corrispondente riconoscimento. Ma non basta. Nonostante la petizione
di universalita' ad essi soggiacente, i diritti umani sono oggetto di
contestazione da parte di culture diverse da quella occidentale. Entrambe le
circostanze non debbono tuttavia scandalizzare piu' di tanto. Come si e'
detto, i diritti umani sono diritti per antonomasia, sono i diritti
dell'uomo come essere culturale. E la cultura e' un fenomeno in movimento,
cangiante perche' dinamico e' il complesso di saperi e prassi che gli uomini
utilizzano per conoscere il mondo, modificarlo e, insieme ad esso, conoscere
e modificare se stessi. L'uomo e' al tempo stesso padre e figlio della sua
cultura, delle sue acquisizioni culturali. Anche la sua natura e' quindi in
movimento, in costante trasformazione. E' quindi perfettamente
comprensibile, direi normale che i diritti e il diritto siano pensati,
immaginati e percepiti in modo differente in seno a differenti contesti
storici e geografici. Ma a dispetto delle apparenze, tutto cio' non ne
compromette la possibile universalita'.
L'universalita' dei diritti non puo' essere pensata come un attributo, una
connotazione indipendente dai luoghi, dalle condizioni materiali e ideali
che fanno da sfondo a ogni esperienza sociale. In ogni tempo e luogo gli
uomini, le societa' umane hanno sviluppato un'idea dell'uomo e a questa idea
hanno connesso differenti prerogative a carico degli individui.
E' vero, solo l'Occidente moderno ha elaborato la categoria dei Diritti
dell'Uomo, con le lettere maiuscole poste a indicare la loro
indisponibilita', la loro priorita' rispetto a qualsiasi assetto
istituzionale, a qualsiasi potere politico. Ma cio' e' stato possibile ed e'
avvenuto all'interno di un cammino culturale ricco di contingenze, di
situazioni complessive (geografiche, politiche, economiche, scientifiche,
ecc.) peculiari, direi di piu', locali. L'invenzione dei diritti dell'uomo
e' anch'essa un fatto storico germinato su un intero paesaggio di
circostanze storiche. Tra queste, condizioni socio-economiche e politiche
determinate hanno reso salienti alcuni aspetti del patrimonio culturale
esistente. L'Europa del XVII-XVIII secolo e' un luogo fisico e ideale, e' un
ambiente culturale con alcune caratteristiche specifiche: l'idea dei Diritti
dell'Uomo venne generata per valorizzarne alcune e superarne altre. Essa in
un certo senso galleggiava sull'esistente, non e' piovuta dallo spazio, non
si e' affacciata alla coscienza politica per apparizione, come una cometa.
La contingenza dell'esperienza storica domina questo scenario. Ma, ancora,
essa non toglie nulla alla potenziale universalita', all'umanita'
dell'invenzione di quei diritti.
Il diritto e' un metodo di organizzazione delle relazioni sociali per mezzo
di regole e secondo valori condivisi a livello comunitario. In questa
accezione esso e' riscontrabile presso tutti i popoli, presso tutte le
esperienze culturali. Con diversi accenti, posti ora sull'individuo, ora
sulla collettivita'; sui doveri, piuttosto che sui diritti; sulla liberta'
piuttosto che sulla solidarieta', esso e' sempre umano. Al tempo stesso e'
ed e' sempre stato umano, nel senso che ha immancabilmente disegnato un'area
di azioni permesse contrapposta a un'area di azioni vietate. In tutte le
societa' o comunita' organizzate dal diritto, gli oggetti, i beni tutelati
giuridicamente sono stati circondati da un'aura di intangibilita', se non
pure di sacralita'. Storicamente la loro sottrazione alle dinamiche
dell'esistente e la loro attrazione nella sfera dell'intangibile, del sacro
costituiva un requisito necessario all'ordine sociale e, in ultima istanza,
alla sopravvivenza stessa della comunita'. Sul rispetto di quei beni, di
quei valori si fondava l'autorita' delle istituzioni. Sulla fedelta', anzi
sulla fede in quei valori poggiava la possibilita' di una convivenza
pacifica all'interno del corpo sociale. Sotto questa luce si puo' dire
quindi che tutto il diritto e' sempre stato umano, quantomeno nella sua
dimensione ideale. E nello stesso senso sono umani i diritti umani di oggi.
Ma come e' possibile - si chiedera' qualcuno - che i diritti umani siano al
tempo stesso universali e locali, storicamente e culturalmente condizionati?
La risposta al quesito e' insieme semplice e complessa. E' semplice perche'
basterebbe dire che ogni popolo, ogni comunita' in ogni diversa fase
storica, e in ogni diversa situazione geografica, legge l'universalita'
secondo le lenti che gli fornisce il suo tempo presente. E' complessa
perche', per rispondere in modo adeguato e soddisfacente, bisognerebbe
chiarire le ragioni che spingono a porsi questa domanda.
Accade oggi che i rappresentanti di culture diverse da quella occidentale
contestino l'universalita' dei Diritti dell'Uomo. Lo fanno, sostengono,
perche' i diritti dell'uomo sono lo specchio, il riflesso della illegittima
autouniversalizzazione del soggetto occidentale. Il tentativo di imporre
quei diritti come codice giuridico dell'umanita', la loro esportazione
forzata oltre i confini geo-politici dell'occidente sono dunque bollati come
atti di imperialismo culturale, di etnocentrismo ai danni degli altri
popoli, delle altre culture presenti sul pianeta. Come tentero' di mostrare,
in queste critiche c'e' molto di vero, benche' sostanzialmente falso sia il
bersaglio sul quale si dirigono, e cioe' l'idea che possano aversi Diritti
Universali dell'Uomo. Rendere conto di questa posizione teorica richiede un
percorso argomentativo piuttosto lungo e complesso, che interseca pero' i
nodi centrali del diritto interculturale. Procedero' per gradi.
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Da pagina 177
Fedi e diritto. Il motore religioso
L'inizio del terzo millennio coincide con il prepotente riaffacciarsi delle
religioni nella sfera pubblica. Nei rapporti internazionali, cosi' come
nelle dinamiche politiche interne, la religione ha acquisito una visibilita'
che aveva perduto da molto tempo. La modernita' aveva visto il progressivo
arretrare della religione, del suo peso nell'ambito politico e sociale.
L'astro della democrazia aveva portato con se', lungo la sua ascesa, gli
alfieri della secolarizzazione e della laicita'. Lungo l'arco di quasi
quattro secoli il linguaggio pubblico aveva cementato l'erigersi di poderosi
confini tra sfera politica e sfera religiosa, tra fede e ragione, tra stato
e chiesa, tra diritto e teologia. Questo scenario popolato da distinzioni ha
accompagnato le dinamiche sociali dell'Occidente moderno. Nel caso dei
domini coloniali, protrattisi fino agli anni piu' recenti, e' stato anche
esportato nei paesi extra-occidentali, spesso alterando profondamente gli
antichi equilibri sociali e i rapporti ivi sussistenti tra sfera pubblica e
religione.
Adesso la trasformazione in senso multiculturale delle societa' statali si
accompagna a un rigurgito delle identita' religiose. Anzi, i conflitti
imbastiti a partire dalle differenze culturali tendono a trasformarsi in
conflitti religiosi. Perche' accade questo? Perche' il confronto tra culture
si tramuta o comunque da' vita a confronti interreligiosi, spesso
conflittuali?
La risposta a simili quesiti va ricercata muovendosi su piu' registri di
analisi. Il rapporto tra religione e cultura e' quello principale; molto
pero' influisce anche il codice ideale della democrazia moderna e la sua
affermazione storica in antitesi alle societa' di antico regime dominate
dalla legittimazione politica su base religiosa.
Ogni cultura - si e' detto piu' volte - costituisce un'enciclopedia di
saperi e prassi orientati a fornire agli individui schemi di azione e di
posizionamento nel mondo. Il sapere e l'agire sono ordinati percio' in ogni
circuito culturale alla costruzione di un cosmo materiale e simbolico. La
realizzazione di questa costruzione immaginaria e' un atto sociale. Essa ha
dunque le sue coordinate, le sue mete, i suoi orizzonti di senso. I
parametri normativi di ogni cultura sono i suoi valori, cioe' gli obiettivi
che e' bene perseguire. Come ogni obiettivo o fine essi sono oggetto di
credenza, di fede. Nessun valore esiste naturalisticamente, cioe' come dato
di fatto indipendente dall'azione umana, diversamente non sarebbe un valore.
Anche gli oggetti naturali che funzionano da ancoraggi per i valori vengono
assunti come fini o come dati esistenziali bisognosi di un'azione umana che
li qualifichi, li conservi, li modifichi, ne assicuri la sussistenza, ecc.
Senza valori non esisterebbe alcuna cultura, alcun sapere culturale. Cultura
e societa' sono cioe' entita' immaginarie, nel senso che la loro
realizzazione transita attraverso le loro proiezioni immaginarie. Cultura e
credenza, cultura e fede sono percio' intimamente legate.
Il legame tra cultura e fede spiega perche' le cifre di senso di ogni
circuito culturale siano strettamente intrecciate con le corrispondenti
tradizioni religiose. Gli oggetti di fede, in qualita' di saperi culturali,
sono trasmessi attraverso le generazioni sotto forma di abiti, di imperativi
pratici, di schemi di interpretazione e categorizzazione del mondo. E'
inevitabile dunque che ogni cultura si autocomprenda attraverso i suoi
modelli di credenze. E reagisca quando la loro stabilita' viene messa in
pericolo o semplicemente in discussione.
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Fede, culture ed esperienza giuridica
Il contatto tra culture e ancor di piu' la convivenza forzata e
l'interdipendenza prodotte dalle societa' multiculturali pongono in una
condizione di stress gli automatismi dei comportamenti e la fede nei saperi
socialmente acquisiti. Ogni individuo cosi' si trova a doversi confrontare
con mondi immaginari nuovi, inconsueti; con schemi di comportamento inusuali
che sono appunto proiezione di quei contesti immaginari; infine con modelli
di categorizzazione della realta' che fatica a comprendere e a fare propri.
Nelle situazioni di incertezza il bisogno di ancorarsi a oggetti di fede si
fa piu' forte, direi quasi vitale. Il sottofondo di credenze, persino
l'atteggiamento mentale di tipo fideistico soggiacente a ogni enciclopedia
culturale si pone allora in primo piano, invadendo la scena della coscienza.
Sulla base di queste indicazioni non e' difficile comprendere la ragione del
tendenziale commutarsi dei conflitti culturali in conflitti religiosi.
Soggettivita' e credenza, percezione e affermazione del Se' sociale, indici
normativi della cultura sono strettamente connessi. Il linguaggio esprime a
un primo, basilare livello di normativita' gli schemi di credenza nei quali
si inscrive la soggettivita'. Ogni linguaggio contiene in se' una
descrizione del mondo, che in quanto condivisa da una comunita' di parlanti
e' normativa. La condivisione e' l'altra faccia dell'oggettivazione sociale
dell'Io e del cosmo che ospita le sue proiezioni pratiche e ideali. La
stabilita' delle credenze che sorreggono le categorizzazioni linguistiche e'
percio' l'ipoteca che garantisce l'esistenza personale, il rispecchiarsi del
Se' nel suo orizzonte sociale.
Vi e' una spinta psicologica primaria a irrigidire i patrimoni di credenze,
creando magari enclavi, circuiti privilegiati dentro i quali preservarne la
stabilita'. Niente di strano allora che i confronti culturali si articolino
spesso come scontri tra diversi "credo". Scontri che tendono a investire
tutti gli aspetti dell'esistenza, anche quelli piu' riposti nelle pieghe
della quotidianita', della vita personale. Sono questi i luoghi dove si
costruisce e si alimenta l'identita' personale, un po' le banche dove viene
mantenuta salda, al sicuro, la realta' immaginaria dell'Io.
La religione occupa in ogni enciclopedia culturale la casella dei
fondamenti, delle matrici di produzione di senso. Ogni sapere religioso
tende a disegnare gli orizzonti ultimi di interpretazione del mondo, a
definire le coordinate che danno ordine all'esistenza. Poco conta che si sia
concretamente fedeli oppure atei. La funzione della religione - intesa in
senso antropologico come agenzia di produzione di senso - cementa la
solidarieta' sociale e il linguaggio comunitario. Essa si trova soluta negli
abiti linguistici e di comportamento. Sotto questo aspetto puo' persino
parlarsi di una religiosita' laica, cognitiva che corrisponde agli oggetti
di credenza e quindi ai valori sottratti alla negoziazione interindividuale,
contingente, momentanea.
Lo stato di latenza della consapevolezza fideistica non ha bisogno di
etichette quando lo spazio vitale di una cultura e' chiuso, definito da
confini, in qualche misura autarchico. Ma il discorso cambia notevolmente
allorche' quei confini divengono promiscui, labili, porosi. La situazione di
multiculturalita' si rivela allora come una condizione di latente
interculturalita'. I saperi culturali si intrecciano, si imbastardiscono, si
corrompono lungo gli itinerari che segnano la realizzazione degli scopi
pratici, della vita quotidiana. Il bisogno di identificare, di riconoscere,
di etichettare i propri saperi e quindi di distinguerli, diviene in queste
situazioni estremamente importante. La religione cosi', nella sua dimensione
confessionale o istituzionale, assume una valenza identificante, direi quasi
che si fa garante ideale della sopravvivenza personale.
Colta nella sua funzione di matrice culturale la religione ha un significato
antropologico, che puo' anche prescindere dalle sue dimensioni
istituzionali. Essa confina con un atteggiamento cognitivo. Sacerdoti,
scritture sacre, articolazioni confessionali ne sono la conseguenza, piu'
che il presupposto. Nei momenti di crisi, di fondazione o rifondazione dei
circuiti sociali la dimensione istituzionale, esplicitamente sacrale,
rituale, liturgica diviene invece essenziale. Essa contribuisce a fissare lo
zenit dell'azione sociale, la stella polare di orientamento delle norme di
convivenza, l'asse di trascendentalizzazione dei circuiti attorno ai quali
si materializza l'identita' soggettiva. E' questo il momento della creazione
degli orizzonti di senso, racchiusi in enunciazioni dal carattere
universale, cosmologico, i testi sacri. Come piattaforma di codificazione
dei significati sociali essi saranno poi soggetti a interpretazione e
reificazione. Le loro proiezioni si incarneranno negli abiti vitali. La loro
significazione diverra' dunque situata in senso sociale. Le modalita' e le
fasi di reificazione seguiranno l'evoluzione delle diverse compagini sociali
che le ospitano. Il circuito fondativo o rifondativo potra' quindi
reiterarsi a seconda delle necessita' e dell'intensita' delle metamorfosi
vissute dalla societa'.
Quando il mondo muta, le religioni vengono chiamate all'appello.
Riaffacciandosi sull'arena pubblica nella loro espressione istituzionale o
confessionale sono tuttavia destinatarie di richieste, di petizioni di senso
d'ordine antropologico. La dimensione istituzionale serve soltanto a
conferire una connotazione identitaria al loro rientro in scena. E' per
questa ragione che se esse non riescono a produrre nuove matrici di senso,
finiscono, come e' sovente accaduto nella storia, per collassare su se
stesse.
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Da pagina 195
La secolarizzazione coloniale: un errore storico e culturale
La capacita' di adattarsi ai mutamenti, persino alla concorrenza di altre
fedi, in qualche modo ha caratterizzato sia le religioni dell'estremo
oriente (induismo, buddismo, taoismo, confucianesimo, shintoismo, ecc.),
sia, seppure in minor misura, la stessa religione islamica. La dogmatica
dell'infedele, e cioe' le derive fondamentaliste, sono apparse in forma
endemica in quelle culture proprio in concomitanza all'importazione forzata
e al confronto antagonistico con i processi di secolarizzazione di matrice
occidentale. Il colonialismo prima e il postcolonialismo poi hanno
sostanzialmente imposto a quelle culture la ricetta della secolarizzazione,
sottovalutando talvolta maliziosamente le connotazioni profondamente
cristiane che essa reca con se'. In molti casi secolarizzare e' equivalso a
cristianizzare quelle societa' o se non altro ad assimilarne le categorie
organizzative a quelle proprie della tradizione cristiana: a partire
dall'idea di una separazione netta tra sfera spirituale e sfera temporale,
tra sfera religiosa e sfera etica, sino alla sovrapposizione alle dinamiche
sociali locali di una struttura organizzativa e giuridica di tipo
sistematico e gerarchico.
L'influenza occidentale ha assunto i toni della colonizzazione culturale non
solo durante il periodo di dominazione da parte delle potenze occidentali,
ma anche successivamente alla conquista dell'indipendenza politica da parte
dei paesi precedentemente sottomessi. Cio' e' accaduto perche' la retorica
dell'indipendenza era imperniata sull'ideale della liberta' dei popoli e si
coniugava quasi implicitamente con l'autodeterminazione su base democratica.
All'indomani della conquista dell'indipendenza la realizzazione del progetto
democratico si dimostro' in molti paesi una chimera. Facevano da ostacolo
sia condizioni economiche non in grado di supportare l'organizzazione
democratica della societa', sia una situazione complessiva di impreparazione
culturale ad assorbire, adattando alle proprie tradizioni, i principi della
democrazia occidentale. Costituzionalismo e liberalismo vennero e sono ancor
oggi avvertiti come corpi estranei: vettori di una cultura straniera, quella
occidentale appunto, imposta agli usi e alle dinamiche sociali come una
sovrastruttura di potere funzionale all'interesse di alcune classi emergenti
o direttamente dei gruppi di pressione foraggiati e sostenuti dai potentati
economici euro-americani.
A causa del dominio coloniale le culture locali sono state sostanzialmente
atrofizzate nel proprio cammino di evoluzione. Esse non hanno potuto
maturare un'evoluzione interna che le conducesse a sviluppare autonomamente
modelli di organizzazione economico-sociale in grado di assorbire, fare
proprio e adattare il sistema di organizzazione democratica. All'indomani
dell'indipendenza in molti contesti si innesco' cosi' una reazione di
rigetto delle strutture di ispirazione democratica da parte delle
popolazioni. E, poiche' l'esperienza sociale precoloniale era connotata da
una forte continuita' tra immaginario pubblico e tradizione religiosa, il
risultato finale fu inevitabile. La religione divenne un feticcio della
lotta politica. Circostanza ulteriormente fomentata dal fatto che il
pensiero democratico e liberale si autorappresentava come intimamente,
strutturalmente secolarizzato, quindi orientato a escludere la religione e
il sapere religioso dalla sfera pubblica.
Il vento della democrazia e del costituzionalismo dei diritti importava o
tentava di importare in realta' anche modelli della soggettivita' e
categorie giuridiche di ispirazione occidentale. Modelli in molti casi
dotati di forte continuita' con quelli imposti con la forza durante il
periodo di dominazione coloniale.
E' potuto accadere cosi' che l'importazione dell'etica della
secolarizzazione e del suo plafond culturale di matrice
cristiano-occidentale abbia innescato in quei paesi derive fondamentaliste
su base religiosa, tradizionalmente invece estranee alla loro tradizione.
La responsabilita' del prodursi di questi fenomeni non va ricercata nella
secolarizzazione in se' e forse nemmeno, o comunque non esclusivamente,
nell'utilizzo strumentale degli ideali democratici e umanitari da parte
delle multinazionali del guadagno al fine di garantirsi il controllo dei
mercati (e non solo) dei paesi ex-coloniali. Alla base dell'antagonismo
politico, prodotto dai tentativi di secolarizzazione democratica, va
riconosciuta probabilmente la continuita' tra le forme istituzionali ed
etiche coestensiva ai modelli di secolarizzazione della vita pubblica e la
tradizione culturale cristiano-occidentale.
Attraverso le sue autonarrazioni di marca laicista la modernita' occidentale
ha spesso occultato i propri debiti con la tradizione etica cristiana. Ora,
questa mancanza di consapevolezza e' relativamente innocua finche' rimane
confinata in un contesto che e' comunque interno a quella tradizione.
Diviene il detonatore di conflitti radicali, invece, quando investe altri
contesti culturali estranei. Gli Altri, proprio per la loro differenza di
mentalita', sono assai piu' sensibili nel cogliere la relativita' culturale
e i nessi di derivazione religiosa di opzioni istituzionali invece reputati
razionali, naturali, ovvi all'occhio della ragione e quindi persino
universali almeno dagli appartenenti al mondo occidentale. Le
strumentalizzazioni politiche, la ricerca nella religione di una fonte di
legittimazione alternativa all'etica secolarizzata della democrazia, le
lotte per il potere economico e il tentativo di controllo sociale per mezzo
di slogan e modelli di appartenenza communitaria hanno fatto il resto. Il
parto della combinazione di questi fattori e' stato il fondamentalismo e le
sue ben note implicazioni sul piano delle relazioni internazionali.
Non credo sia un paradosso affermare che l'esportazione della
secolarizzazione ha sollecitato la conversione dei conflitti politici e
culturali in conflitti religiosi, in guerre di religione a sfondo etnico.
*
Da pagina 357
Conclusione
La metamorfosi in senso multiculturale delle societa' democratiche
occidentali ha modificato profondamente il loro plafond culturale
tradizionale. Molte delle categorie e dei dualismi generati dal pensiero
moderno rischiano di vacillare, di smarrire il loro contesto di significato
a fronte di un simile mutamento epocale. Questo perche' il linguaggio
sociale si sta trasformando e in parte si e' gia' trasformato. I luoghi
fisici e immaginari di dislocazione e manifestazione della soggettivita'
hanno di conseguenza smarrito i propri confini storici. Gli argini, le linee
divisorie tra i domini della religione, della politica, della liberta' e
dell'autorita', dell'area pubblica e di quella privata, della cittadinanza e
della coscienza sono sottoposti a un processo di erosione profonda, se non
di vera e propria frantumazione.
E' il cantiere delle democrazie multiculturali contemporanee. Un luogo dove
all'ombra delle fastose vestigia del passato prossimo, prima fra tutte
quella del benessere economico, e' incessante il lavorio, l'avanzare
implacabile del nuovo. Molti parlano di post-modernita', di crisi imminente,
se non gia' flagrante, della razionalita' politica occidentale, degli ideali
del liberalismo e del costituzionalismo democratico.
A dispetto delle possibili apparenze e di eventuali giudizi a pelle l'intera
trattazione qui presentata e' un tentativo di non smarrire l'eredita', direi
anche il patrimonio ideale del liberalismo. Perche' cio' sia possibile
tuttavia bisogna guardare in faccia il mutamento, accettarlo per poterlo
controllare. Questo significa che per mantenere la direzione e' necessario
acconsentire a cambiare percorso. E se il liberalismo e' la stella polare,
la meta in vista, penso che la creazione di una soggettivita' interculturale
nei diversi circuiti comunicativi, compreso quello giuridico, sia il
percorso alternativo.
*
Mongolfiere e gattopardi
L'approdo a questa conclusione e' l'esito di un processo di distanziamento
dalle coordinate, dagli abiti culturali della tradizione occidentale, gli
stessi che hanno ospitato indubbiamente e sino a oggi le manifestazioni
salienti dell'esperienza democratica. Esse sono espressione di un dialetto
culturale, di un idioma storicamente e geograficamente collocato e
delimitato. Di questa relativita' e della connessa limitatezza e' necessario
prendere atto e cognizione proprio attraverso il confronto con l'Altro, con
chi preme alle frontiere e con chi le ha gia' varcate.
Gli ideali democratici e il linguaggio dei diritti non possono essere
considerati un patrimonio geloso, da preservare dalle contaminazioni. Il
loro universalismo, la petizione di universalita' ad essi sottesa, e che li
anima, sono intimamente votati all'apertura culturale, alla contaminazione,
all'inclusione di chiunque sia altro rispetto a chiunque se ne faccia
assertore.
Acquisire consapevolezza della relativita' dei nostri abiti culturali, a
fronte dell'universalismo potenziale degli ideali democratici e del
linguaggio dei diritti, equivale un po' a imparare a guardarsi dall'alto.
Distanziarsi da se', dagli schemi usuali di autocomprensione per riuscire a
collocarsi nello spazio proprio, effettivo, dell'esperienza storica: e'
questo il compito preliminare che spetta alla coscienza occidentale. Un
compito che va affrontato in silenzio, senza grandi proclami politici, ma
piuttosto attraverso un lavoro capillare volto a svelare la propria
relativita' culturale attraverso l'esame degli abiti di comportamento, delle
formae mentis che accompagnano le scansioni della soggettivita' nel suo
manifestarsi quotidiano. Un po', per usare una metafora, come salire in
mongolfiera, allontanandosi da terra sommessamente, praticamente silenti per
osservare dall'alto senza essere visti, senza alterare almeno in prima
battuta gli equilibri dell'esistente.
Si tratta di un invito rivolto sia a chi e' giurista o si prepara ad
esserlo, sia a chi giurista non e'. Ed e' qui formulato nel convincimento
che la multiculturalita' non puo' trovar spazio nel contesto delle societa'
democratiche, e quindi anche in quella italiana, eludendo il confronto con
l'esperienza giuridica o illudendosi di non intercettarne la forza
conformativa, il potere coercitivo.
La proposta di creare un lessico giuridico interculturale e' immediatamente
consequenziale a quella presa di distanza ed e' orientata a fornire un
vocabolario per il confronto politico in grado di gestire e integrare
democraticamente la diversita' culturale. La definizione di una
soggettivita' interculturale, anche sul piano giuridico, e' a mio giudizio
l'unico modo per far salva la possibilita' di elaborare una risposta
democratica alla multiculturalita'. Una risposta che non neghi in linea di
principio la sussistenza e l'effettivita' sociale di una grammatica
giuridica dell'uguaglianza, contraltare e mezzo indispensabile a garantire
il pluralismo democratico e la stabilita' delle sue dinamiche di
manifestazione e sviluppo.
Certamente, elaborare un lessico giuridico interculturale e' operazione
complessa, di poderosa difficolta' e dai confini indeterminati e forse
indeterminabili. Ma e' appunto un tentativo di cambiare percorso, mantenendo
salda la direzione del liberalismo democratico. Un gesto da gattopardi, per
usare un'altra metafora, questa volta letteraria; un modo di cambiare per
rimanere se stessi, in altri termini una scelta di adattamento.
Adattarsi d'altronde e' un modo di manifestare l'intelligenza della realta'.
E l'adattamento, la capacita' di normalizzare il mutamento integrandolo, e'
una delle cifre cognitive del processo democratico, dell'idea di
partecipazione integrata alle decisioni da parte di soggetti sempre
mutevoli, ma potenzialmente destinatari di esse.
Le linee guida presentate nel corso della trattazione costituiscono solo
possibili rotte di navigazione, sequenze di segnavia verso la ricerca
giuridica interculturale vera e propria. Piu' tecnicamente ho tentato di
prospettare una griglia metodologica rivolta a definire i prerequisiti
teorici e costituzionali del lavoro da svolgere.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 310 del 9 marzo 2009

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