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Minime. 755
- Subject: Minime. 755
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 10 Mar 2009 01:10:59 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 755 del 10 marzo 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo: Una bambina sta nascendo 2. Floriana Lipparini: Un'ipotesi alternativa di mondo 3. Gad Lerner: Il catalogo 4. Giulio Vittorangeli: La cattiva politica che corrompe teste e anime 5. L'otto marzo al centro sociale "Valle Faul" a Viterbo contro la violenza sessista e razzista 6. Benito D'Ippolito: Et non inveni 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: UNA BAMBINA STA NASCENDO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione il testo di questa conferenza tenuta l'8 marzo 2009] Da qualche parte, in questo momento, sta nascendo una bambina. Non sa ancora nulla di quel che c'e' intorno a lei, percepisce lo sforzo della madre, le sue emozioni, e percepisce il proprio sforzo e le proprie emozioni. Non c'e' nient'altro, in questo momento, da parte di entrambe, che tensione verso la luce. Molto di quel che sara' dopo, di lei e della madre, dipendera' da dove le due si trovano. Perche' per moltissima parte dei tre miliardi e trecento milioni di donne che abitano sul pianeta Terra parole come guerra, violenza, repressione, isolamento, ignoranza forzata e discriminazione costituiscono la base quotidiana dell'esistenza. E le ricerche e le statistiche internazionali ci ricordano che non c'e' una sola nazione in questo mondo che non abbia i suoi peccati verso le donne. I paesi piu' poveri, ove spesso sono in corso conflitti armati o che si trovano nel periodo post-conflitto, presentano livelli di violenza che rendono terrificanti le vite delle donne; nei paesi piu' ricchi le donne hanno piu' spesso a che fare con la violenza domestica debitamente occultata, legislazioni repressive o discriminatorie e con la tendenza dei governi a "scopare i loro problemi sotto il tappeto". In ogni paese, le donne rifugiate o migranti risultano il gruppo piu' svantaggiato. Le ricerche usano indicatori economici e sociali per stabilire la qualita' delle vite delle donne, e cioe' il tasso di occupazione, quello di alfabetizzazione, la possibilita' di accedere a cure sanitarie, il tasso di mortalita' infantile e materna, e cosi' via. Ma tutto potrebbe tradursi con la dicitura "sbilanciamento di potere". Una parte dell'umanita' ne ha troppo, l'altra parte ne ha troppo poco. E finche' quell'1% delle risorse economiche totali detenuto dalle donne non si alza come percentuale, finche' non si alza la percentuale delle donne nelle stanze dei bottoni, siano esse consigli di amministrazione o parlamenti, finche' i soffitti di vetro restano impenetrabili e i tavoli di negoziazione chiusi al nostro ingresso, la vecchia battuta "ormai comandano dappertutto le donne" piu' che di ignoranza puzza di ipocrisia. Storicamente non abbiamo mai chiesto di prendere il posto dei comandanti e di replicarne le logiche di dominio, abbiamo sempre chiesto di condividere come uguali compagne esistenze, lavoro, cura dei figli, governo delle citta' e dei paesi, e in sintesi di poter intervenire fattivamente in tutte le decisioni che ci riguardano. Se la parola libero arbitrio ha un senso, ha un senso per ambo i sessi, e non solo per uno. Comunque, eccovi brevemente la classifica dei dieci paesi peggiori per nascerci come donna, basata sui dati dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e su quelli delle organizzazioni umanitarie. Ovviamente i luoghi piu' terribili sono quelli dove e' in corso una guerra. Al primo posto sta l'Afghanistan. Una donna afgana ha oggi una speranza di vita di 45 anni, un anno in meno di un uomo afgano. Dopo trent'anni di guerre e di repressione, un impressionante numero di donne e' analfabeta. Piu' della meta' delle spose hanno meno di 16 anni (che sarebbe l'eta' legale per contrarre matrimonio) e la violenza domestica e' cosi' comune che l'87% delle donne ammette di farne esperienza. Piu' di un milione di vedove sono letteralmente per strada, senz'altra possibilita' per sopravvivere e mantenere i figli che prostituirsi. L'Afghanistan e' la sola nazione al mondo in cui il tasso di suicidi e' piu' alto per le donne che per gli uomini. Al secondo posto sta la Repubblica democratica del Congo: la guerra nel paese ha ormai reclamato piu' di tre milioni di vite. Il fronte comune a tutti gli attori del conflitto sembra essere il corpo femminile. Gli stupri sono cosi' brutali e sistematici che gli osservatori internazionali li hanno definiti senza precedenti. Le vittime di violenza sessuale sono stimate attorno al mezzo milione. Molte sono morte, moltissime hanno subito danni irreversibili o sono state contagiate dal virus Hiv. Il provvedere cibo ed acqua alle loro famiglie espone le donne ad ogni tipo di violenza: senza denaro, senza trasporti, senza piu' rete sociale, non hanno via di scampo. Al terzo posto c'e' l'Iraq. La guerra ha imprigionato le donne in un inferno di violenze: settarie e non. Il tasso di alfabetizzazione delle donne, che prima della guerra era il piu' alto del mondo arabo, e' ora precipitato ai minimi livelli, perche' le famiglie temono i rapimenti, i lanci di acido e gli stupri, e non mandano piu' le figlie a scuola. Similmente, le donne che ancora avevano un lavoro l'hanno per lo piu' lasciato grazie alle medesime minacce. Un milione di donne irachene sono profughe nel loro stesso paese, e cioe' le loro case, i luoghi in cui vivevano, hanno subito una completa distruzione. Due milioni di donne irachene non hanno il minimo mezzo per procurarsi da mangiare. Nepal al quarto posto: i matrimoni e i parti precoci uccidono le ragazze, gia' malnutrite, cosicche' una su 24 muore durante la gravidanza o il parto. Le bambine che non sono sposate possono essere vendute ai trafficanti di carne umana molto prima di raggiungere solo l'adolescenza. Le vedove soffrono di abusi e discriminazioni, e vengono letteralmente perseguitate come "bokshi", ovvero streghe. La guerra, discontinua in intensita', ma persistente nel tempo, fra governo e ribelli maoisti ha ulteriormente prostrato la popolazione femminile. I sedicenti maoisti, tra l'altro, rapiscono le donne delle campagne per arruolarle di forza nei gruppi di guerriglieri. Sudan al quinto posto: la piaga del Darfur e' piu' che mai aperta. Rapimenti, stupri, rimozione forzata di interi villaggi, hanno gia' ucciso piu' di un milione di donne. Le milizie chiamate janjawid usano infatti lo stupro come arma da guerra. Guatemala, sesto posto. Violenza domestica, violenza sessuale, e il tasso di sieropositive e ammalate di Aids piu' alto dopo l'Africa sub-sahariana. Un'orripilante sequenza di omicidi irrisolti di donne ne ha ormai uccise centinaia: molti cadaveri portavano segni di torture e mutilazioni, su altri sono stati letteralmente intagliati, nella carne, messaggi di odio. Mali, settimo posto. E' uno dei paesi piu' poveri del mondo. Grazie alla pratica diffusa delle mutilazioni genitali, e ai matrimoni precoci, una donna su dieci muore durante la gravidanza o il parto. Pakistan, ottavo posto. Nelle aree tribali di confine del paese le donne subiscono stupri di gruppo quale punizione per crimini commessi da uomini delle loro famiglie. I cosiddetti "delitti d'onore" sono diffusi e la nuova ondata di estremismo religioso ha organizzato attentati contro donne politiche, donne che lavorano nel campo dei diritti umani, e avvocate. Nella valle di Swat, il governo ha ceduto il controllo dell'area a questi personaggi, per cui la proibizione per le donne di andare a scuola e di andare al lavoro e' ormai legge. Arabia Saudita, nono posto. Nel paese le donne hanno lo status di "minori a vita", e cioe' sono sempre sotto tutela legale da parte di un parente maschio. Cosi' non possono guidare un'automobile, o lavorare con colleghi di sesso maschile, uscire senza accompagnatore; possono essere date in mogli a cinque anni, e se sgarrano alle regole del codice di abbigliamento e comportamento previsto la "legge" le punisce a frustate, che sono previste pure per le vittime di violenza sessuale. Somalia, decimo posto. Anche qui, la guerra civile ha trovato un nemico comune, le donne. Tradizionalmente i capisaldi delle famiglie, oggi sono esposte quotidianamente ad aggressioni di gruppi armati e stupri, hanno perso l'accesso alla sanita' pubblica, e muoiono come mosche, di parto, di violenza sessuale, o di fucile. Sapete gia' quali sono i posti migliori per nascerci come donna, e cioe' l'Islanda, la Norvegia, l'Australia, eccetera. L'Italia sta sempre in basso, oscilla in tutte le classifiche attorno alla meta' inferiore della lista. * Naturalmente mettere in fila tutto questo "male", ascoltarlo, vederlo, non solleva gli spiriti. Ma sapete una cosa? In tutti i paesi che vi ho sommariamente descritto, le donne resistono, protestano, chiedono di aprire negoziazioni, chiedono cambiamenti nelle leggi, si organizzano per aiutarsi l'un l'altra, attraversano i confini tracciati dalla guerra o dalla politica e incontrano quelle che dovrebbero essere le loro nemiche, creano reti nazionali e internazionali, e sono decise a continuare a vivere. A vivere, non semplicemente a sopravvivere. Cosi', dove andare a scuola e' proibito, le donne insegnano alle bambine e alle ragazze in scuole segrete. Dove le proibizioni e i castighi vengono fatti risalire a testi sacri, le donne compilano studi accuratissimi dove dimostrano il contrario e li rendono pubblici. Dove gli stati contraddicono se stessi, magari accoppiando ad una Costituzione che attesta l'eguaglianza leggi discriminatorie o sessiste, le donne vanno a chiederne conto nei tribunali con centinaia di migliaia di firme a sostegno delle loro petizioni. E come a Gaza e' ricominciato l'inferno, nessun media ve l'ha raccontato, ne' quelli ufficiali, ne' quelli alternativi, le prime a protestare sono state le donne israeliane e palestinesi. E insieme, cosa che non sembra riuscire agli uomini israeliani e a quelli palestinesi, hanno rilasciato questa dichiarazione: "Noi, donne appartenenti ad organizzazioni pacifiste con il piu' diverso ed ampio spettro di visioni politiche, chiediamo la fine dei bombardamenti e degli altri strumenti di omicidio, e che vi sia immediatamente la deliberazione a parlare di pace, e non a guerreggiare. La danza della distruzione e della morte deve finire. Noi chiediamo che la guerra non sia piu' un'opzione praticabile, ne' la violenza una strategia, ne' l'uccidere un'alternativa. La societa' che desideriamo e' quella in cui ogni individuo puo' condurre la propria vita in sicurezza, personale, economica e sociale. Ci e' chiaro che il prezzo piu' alto viene pagato dalle donne e da chi si situa nelle cosiddette periferie: geografiche, economiche, etniche, sociali e culturali, e che come sempre tutto cio' e' escluso dall'occhio pubblico e dai discorsi dominanti. Noi crediamo che il tempo delle donne sia ora. Noi chiediamo che le parole e le azioni siano condotte in un altro linguaggio". Segue una lista di 23 sigle di associazioni femminili/femministe, che vanno dalle lesbiche palestinesi di Aswat, alle studentesse dell'Universita' di Tel Aviv, passando per centri d'impiego per le donne e coalizioni per la leadership femminile. * Potrei raccontarvi dozzine e dozzine di storie sulle donne in guerra. Anche su quelle che vengono forzate a prendere le armi o che scelgono di prendere le armi, ed entrambe pero' sono decisamente molto molto meno di quelle in cui le donne cercano di farle tacere, le armi, possibilmente per sempre. Ma volevo sceglierne una che riuscisse a tenere insieme il tema che mi e' stato affidato e le cose che voi avete scritto di voi stesse e delle vostre vite. Percio' vi racconto quella che ho intitolato: Come fermare una guerra partendo dal mercato rionale Parla del distretto di Wajir, nel Kenya del nordest, che e' abitato prevalentemente da clan somali. Alla caduta del governo somalo, nel 1989, il distretto si disgrego' ed ebbe inizio una guerra tra clan, con conseguente flusso di rifugiati e di armi. Dekha Ibrahim, la protagonista della nostra storia, ricorda bene la notte del 1993 in cui le sparatorie eruppero accanto a casa sua. Corse a prendere il suo figlio piccolo e si nascose con lui sotto il letto, mentre le pallottole attraversavano la stanza fischiando: di colpo, Dekha ricordo' se stessa bambina, fra le braccia della madre, nella medesima situazione. Al mattino, aveva deciso che questo non doveva piu' accadere. Altre donne del vicinato avevano storie simili da condividere. All'inizio si riunirono in circa una dozzina: "Volevamo semplicemente mettere insieme le nostre teste, capire cosa sapevamo e cosa potevamo fare", racconta Dekha Ibrahim, "Decidemmo che il posto da cui cominciare era il mercato. Il mercato doveva essere sicuro per ogni donna che vendesse o comprasse, di qualsiasi clan facesse parte". Poiche' sono in maggioranza donne ad occuparsi del mercato nel Wajir, la decisione fu subito condivisa e si propago' velocemente. Le donne sorvegliavano il mercato, e se qualche infrazione all'accordo avveniva, il piccolo comitato iniziale era chiamato ad intervenire. A questo punto si diedero un nome: erano l'Associazione di Donne del Wajir per la Pace. Presto scoprirono, pero', che quella vittoria non era abbastanza. Il conflitto continuava ad interessare pesantemente le loro vite. Sedettero insieme di nuovo, e la seconda decisione fu quella di andare a parlare con gli anziani di tutti i clan. Non era una cosa facile, in una societa' altamente patriarcale: "Temevamo che ci rispondessero: Chi sono le donne per venire qui a darci consigli o a fare pressioni? Percio' riflettemmo parecchio su come il sistema degli anziani era strutturato, su quali erano le persone-chiave, su quali connessioni e contatti potevamo utilizzare", dice ancora Dekha. Facendo portare la proposta ai vari clan da uomini che conoscevano, le donne dell'Associazione riuscirono ad organizzare un incontro di tutti gli anziani. Quello che piu' sembrava simpatizzare con le donne apparteneva ad uno dei clan minori e meno coinvolti nella guerra, e divenne di fatto il loro portavoce. "Per quale ragione, in realta', stiamo combattendo?", chiese agli altri, "Chi sta beneficiando della guerra? Non certo le nostre famiglie, che ne sono distrutte". Le sue parole provocarono lunghe discussioni. Tuttavia, al termine dell'assemblea, persino gli anziani che avevano progettato e promosso rappresaglie si dissero d'accordo sul cessare i combattimenti: erano diventati il Consiglio degli Anziani per la Pace. Le donne capirono presto che il passo successivo doveva essere il coinvolgimento del governo, su base locale e nazionale. Sempre con gli anziani al loro fianco, incontrarono deputati e rappresentanti governativi, descrivendo loro cio' a cui avevano dato inizio, e come il processo si sviluppava. Accordandosi sul fatto che il governo sarebbe stato puntualmente informato, le donne ottennero la sua benedizione. La questione, ora, era come coinvolgere direttamente i giovani, perche' erano i giovani a combattere e morire. Un nuovo progetto prese vita, La Gioventu' per la Pace, e le donne sapevano bene che se tramite esso avessero convinto i ragazzi ad abbandonare le armi dovevano essere in grado di fornire loro un'alternativa, qualcosa che occupasse il loro tempo e provvedesse benefici a loro ed alle loro famiglie. A questo punto, mobilitarono la locale comunita' di investitori e costruttori, ed un piano di ricostruzione con conseguenti offerte di lavoro venne messo a punto. Insieme, le donne del mercato, gli anziani, i giovani ex-combattenti, gli uomini d'affari e i leader religiosi locali formarono il Comitato del Wajir per la Pace e lo Sviluppo. Commissioni del Comitato vennero create negli angoli piu' remoti per facilitare il processo di disarmo delle varie fazioni, in collaborazione con i distretti di polizia. Squadre di pronto intervento si formarono, al fine di spegnere ogni piu' piccolo focolaio che avrebbe potuto riattizzare la guerra. Tutto questo e' ancora in moto, perche' ogni conflitto somalo si riflette sulla regione. Ma il Comitato si riunisce regolarmente ed un grande senso di cooperazione vive tra i villaggi, i clan, i funzionari governativi locali. E le donne che fermarono la guerra tengono ancora d'occhio il mercato. * Ho scelto questa storia non solo perche' e' vincente, e piena di speranza, ma perche' dimostra praticamente che l'esilio del femminile dalla comunita' umana depriva l'umanita' di meta' della compassione, della saggezza, della forza e delle benedizioni della vita. Nessuna delle grandi religioni ad esempio celebra la nascita di una bambina, di una salvatrice, di una principessa della pace, per quanto ognuna abbia le sue sante e le sue mistiche. Ma da qualche parte, in questo momento, sta nascendo una bambina. Non sa ancora nulla di quel che c'e' intorno a lei, non sa che c'e' il rischio che non le si dica affatto "benvenuta", che la sua nascita sia maledetta dai suoi stessi parenti perche' e' femmina, che le lacrime di sua madre non siano di fatica e di gioia, ma di dolore. Io oggi voglio immaginare, invece, che la sua venuta sia stata preannunciata: da un angelo, da qualche antica canzone, da una profezia su un rotolo di pergamena, da una poesia o da un calcolo matematico probabilistico. Mi fa lo stesso. Voglio immaginare che uomini e donne si siano messi in moto per portarle dei doni, e che al di sopra del tetto del luogo che la ospita, un tetto di tela, di paglia, di fango, di legno, di cemento, stia brillando una nuova stella. Immagino un'ora di quiete, di silenzio e di attenzione. Stiamo attendendo il suo arrivo. Vegliamo. E poi ecco che su di noi si riversa la meraviglia. Un miracolo antico si e' ripetuto, lei e' nata. E noi ci alziamo per darle il benvenuto, la guardiamo, tocchiamo il suo viso, prendiamo la sua piccola mano fra le nostre. Immaginate anche voi di vederla. Guardatela. E' splendida da vedere. Non c'e' macchia in lei. Il tempo e' venuto, e lei e' nata, un fiore che sboccera' ancora piu' bello perche' noi ne avremo cura. Ditele che appartiene a questo luogo, e che questo luogo e' in mezzo a noi. Ditele che siete felici che lei sia viva. Circondatela di amore, di sicurezza e di risate. Lei e' la Bimba, nata in tutte le epoche, venuta a portarci salvezza e grazia. E da parte mia, dico: gloria alla Madre di tutti i viventi, e alla sua indomita, limpida, bellissima, libera Figlia. 2. EDITORIALE. FLORIANA LIPPARINI: UN'IPOTESI ALTERNATIVA DI MONDO [Ringraziamo Floriana Lipparini (per contatti: effe.elle at fastwebnet.it) per questo intervento] Non credo che le donne abbiano voglia di "festeggiare" l'otto marzo. E nemmeno che si debba fissare un giorno per denunciare le calamita' che l'universo femminile continua a sopportare, dall'esclusione alle violenze, incluso il fatto che nonostante decenni di femminismo alcune giovani ancora accettino di omologarsi a un umiliante modello di non-persona, generato da un immaginario maschile profondamente malato. Inoltre, lo spettro della poverta' e della disoccupazione - tragedie che come la guerra colpiscono in particolare le donne e la loro condizione - automaticamente rafforza la pesante impronta maschile del sistema di poteri che governa le nostre vite e ne enfatizza gli aspetti piu' regressivi. In Italia ne abbiamo un chiarissimo esempio, con l'emergere di elementi autocratici, razzisti e fascisti in una societa' in larga parte pronta al consenso servile. L'universo femminile, in tali casi, puo' addirittura ritrasformarsi nella riserva di salvifica generosita' su cui sempre la societa' degli uomini si e' basata in tempi difficili. Non basta, infatti, una crisi del capitalismo per modificare la struttura sessista del potere, perche' e' la struttura stessa del potere ad essere intimamente verticista e maschile, e immodificabile fin quando riuscira' a sopravvivere in questa forma. Eppure, non possiamo certo rinunciare al diritto/desiderio di operare trasformazioni che incidano sulla vita di ciascuna di noi e sull'organizzazione delle societa' in cui viviamo. C'e' un'ipotesi alternativa di mondo che resta continuamente fuori della scena pubblica. Per Hannah Arendt una delle caratteristiche dell'eta' moderna e' la perdita del mondo, intesa come perdita della sfera pubblica, ossia quello spazio dove si puo' apparire, dove ci si puo' reciprocamente vedere, dove si puo' discutere e deliberare delle cose pubbliche, dove si puo' vivere la propria cittadinanza attiva mediante il discorso e l'azione. Questo, per Arendt, e' il senso dello stare al mondo. Ma, nei millenni, l'esclusione delle donne dalla costruzione sociale, civile e politica ha configurato lo spazio pubblico come una sfera separata dallo spazio della vita, uno spazio "professionale", burocratico, sempre piu' alienante, dove si consuma a perfezione quella divisione mente/corpo e pubblico/privato che sta alla base di una generale perdita di senso della vita e della possibilita' stessa di pensare il futuro. Come potrebbe essere uno spazio pubblico inteso invece come spazio della parola femminile storicamente negata? Potremmo pensarlo come possibile sintesi fra pensiero e pratiche, come luogo di confronti e trasformazioni, come laboratorio-incubatrice di forme e visioni politiche alternative. Potremmo usarlo per andare oltre le ricorrenti emergenze che ci costringono ad agire sempre di rimessa, come se fossimo senza peso e senza storia. Non e' certo di elaborazione che le donne mancano, e' ricchissima la produzione femminile di pensiero politico critico, ricchissimo il corredo di saperi, esperienze e pratiche costituitosi nel tempo, nel segno della differenza. Purtroppo pero' e' come se questa linfa, questa massa lussureggiante e vitale restasse invisibile e muta. Non si trasforma in parola pubblica e autorevole, nemmeno quando le voci provengono da sedi istituzionali, forse perche' questo tipo di istituzioni e di strutture non ci corrisponde affatto, ma non riusciamo a iniziarne la trasformazione. Manca una dimensione adeguata al modo di intendere e fare politica cui puntano le donne impegnate nel femminismo, un modo personale, relazionale, circolare, orizzontale... Un modo ancora in parte da teorizzare e costruire, e una dimensione che non si fermi ai vuoti riti della rappresentanza istituzionale tipici della democrazia formale, logora ricetta di cui ormai abbiamo visto tutti i limiti. Mi piacerebbe molto - e' solo un sogno? - iniziare a mettere in discussione l'idea che le uniche forme di democrazia siano queste, bianche, occidentali e patriarcali. Tutto un sistema costruito sulla presunzione che non esista altro, che non si possano nemmeno immaginare modalita' differenti nel deliberare, legiferare, decidere: in altre parole, nel convivere e fare societa'. Arendt l'aveva perfettamente capito: quando la rappresentanza diviene il sostituto della democrazia diretta, i cittadini possono esercitare il loro potere di agency solo il giorno delle elezioni, "ancora una volta i cittadini non sono ammessi sulla scena pubblica, ancora una volta gli affari di governo sono divenuti privilegio di pochi [...]. Il risultato e' che i cittadini devono o sprofondare in letargo, prodromo di morte della liberta' pubblica, oppure conservare lo spirito di resistenza a qualunque governo abbiano eletto, poiche' l'unico potere che conservano e' il potere estremo della rivoluzione" (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunita', Milano 1983, 1996, pp. 274-275). 3. UNA SOLA UMANITA'. GAD LERNER: IL CATALOGO [Dal quotidiano "La Repubblica" del 7 marzo 2009 col titolo "Il catalogo dei reati etnici"] Per conservare udienza (o meglio: audience), non piu' solo i politici ma anche gli studiosi ormai rischiano di assoggettarsi al "clamore" della cronaca. Cosi' l'inchiesta sul cosiddetto "stupro di San Valentino" nel parco romano della Caffarella ha scatenato un uso capzioso, falsamente oggettivato, della scienza statistica. Lo scopo? Catalogare la criminalita' in base alla sua matrice etnica, nazionale o religiosa nell'Italia descritta grossolanamente come la Mecca del crimine. Lo so bene: chi denuncia la divulgazione strumentale di queste ricerche viene subito accusato di negare l'evidenza al solo scopo di difendere la nefasta ideologia "buonista". O peggio viene tacitato come complice degli stupratori, ottuso al punto di ignorare la sofferenza patita dalle loro vittime innocenti. Eppure bisogna pur dirlo, che si sta passando il limite. In questa elaborazione di dati "politicamente scorretti" - e dunque di gran moda - consegue un notevole successo il professor Luca Ricolfi, che su "La Stampa" non si stanca mai di ribadire la propria assoluta neutralita' di studioso. Da sociologo dotato di competenza tecnica, Ricolfi ha elaborato le percentuali delle violenze sessuali denunciate nel 2007. Per trarne la seguente conclusione: i romeni immigrati hanno una "propensione allo stupro circa 17 volte piu' alta di quella degli italiani". Un divario, per giunta, in crescita. Sempre i romeni risultano a Ricolfi "2 volte piu' pericolosi degli altri stranieri" quanto a rapine, "3-4 volte piu' pericolosi nei furti", mentre sono "leggermente meno pericolosi" nel tentato omicidio e nelle lesioni dolose. Non ho motivo di dubitare dell'esattezza di tali calcoli aritmetici. Semmai fa sorridere che in altri interventi lo stesso (neutrale) Ricolfi raccomandi di evitare l'allarmismo e l'invenzione di emergenze. Ma se questa ha da essere l'ispirazione, mi chiedo se l'autore non dovrebbe in futuro dedicarsi a portare fino in fondo le conseguenze di tale metodologia applicata nella comunicazione pubblica. Non siamo forse interessati ad altre scoperte? Per esempio: pubblicare tutte le liste di propensione reato per reato, magari distinguendo il grado di pericolosita' su basi di reddito e mestiere, oltre che di nazionalita'? Altri magari gradirebbero che s'introduca pure un censimento degli italiani pericolosi regione per regione: perche' no? S'annidano piu' stupratori potenziali in Calabria o in Trentino Alto Adige? In citta' o in campagna? Onde evitare poi spiacevoli discriminazioni, sara' il caso di mettere in guardia l'opinione pubblica riguardo alle illegalita' cui sono piu' dediti gli stessi professori universitari e i giornalisti: suppongo non ne manchino. Naturalmente il sociologo che elabora con cura le sue statistiche (peccato che la grande maggioranza degli stupri non vengano denunciati, inficiando la validita' di quelle cifre suggestive) si dichiara estraneo all'uso distorto che ne fanno i mass media; cui peraltro ha strizzato l'occhio sostenendo che "l'Italia e' diventata la Mecca del crimine". Definizione, quest'ultima, non proprio scientifica e peraltro contraddetta dai dati del Viminale. Ma che importa? Giungeranno comunque applausi scroscianti, e pazienza se fra gli estimatori c'e' chi lucra politicamente e finanziariamente dalla diffusione di falsita' grossolane. Ormai il senso comune e' plasmato dalla disinformazione. Molti cittadini in buona fede sono convinti che nel nostro paese la piu' parte degli stupri siano commessi da immigrati stranieri. In tv passa frequentemente la falsa notizia che gli stranieri costituirebbero l'80% della popolazione carceraria. Nel novembre 2007, dopo l'omicidio della signora Reggiani a Tor di Quinto, circolo' sui giornali la notizia che fossero di nazionalita' romena addirittura il 75% delle persone arrestate nella capitale dall'inizio dell'anno. Marzio Barbagli la defini' "un'ondata di panico morale". Con la scusa di controbattere un'inesistente rimozione (figuriamoci!) del pericolo rappresentato dalla criminalita' straniera, quell'ondata di panico morale si e' cronicizzata sotto forma di isteria collettiva. Fino a condizionare la serenita' delle indagini di polizia, oltre che le scelte del governo. Legittimando l'emotivita' della folla, o peggio mettendosi al servizio della politica, gia' in passato la scienza si ritrovo' a giustificare pregiudizi e a certificare la necessita' di discriminazioni. Magari senza accorgersene. Vi furono sociologi che, esibendo cifre all'apparenza inoppugnabili, additarono la "sproporzione" con cui talune categorie occupavano posti di potere e altri delinquevano in eccesso. Siamo sicuri che tale pericolo non si ripresenti? Nessuno chiede di sottacere i problemi, ne' di censurare la ricerca sulla devianza. Ma la propaganda degli indici di pericolosita' etnici, nazionali o religiosi e' robaccia contro cui le societa' piu' evolute della nostra hanno gia' da tempo preso delle contromisure. Le persone responsabili hanno il dovere di non rifugiarsi dietro alla falsa neutralita' delle cifre, oltretutto elaborate con criteri parziali e soggette a deformazione. 4. UNA SOLA UMANITA'. GIULIO VITTORANGELI: LA CATTIVA POLITICA CHE CORROMPE TESTE E ANIME [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento] Viviamo in una situazione estremamente delicata, stretti tra crisi economica ed emergenze (come quella sullo stupro) ed allarmi (come quello sulla sicurezza), piu' o meno presunti, che veicolano un sentimento diffuso di precarieta' e paura, indirizzato verso facili, deboli e fragili, capri espiatori. Cosi' per "paura" dei romeni, dello straniero, dello sconosciuto, si ricorre alla pericolosa scorciatoia della giustizia "fai da te" e si finisce con l'incendiari corpi, negozi, sentimenti e tutto quello che abbia a che fare con l'immigrazione. E' cattiva politica, quella che corrompe teste e anime, e purtroppo non sta solo a destra. Dire che "la sicurezza non e' ne' di destra ne' di sinistra" e', insieme, una banalita' e una sciocchezza, quando non un consapevole inganno. L'aspirazione alla sicurezza, o meglio ad una vita serena, e' certamente comune a tutti i cittadini, ma bisogna definire la politica migliore per soddisfare tale aspirazione. Anche la salute, l'ambiente, la giustizia, sono aspirazioni universali ma, per perseguirle, si confrontano e scontrano politiche diverse e talora contrapposte. E' questo il terreno su cui si distinguono destra e sinistra, conservatori e progressisti. Invece, in tema di sicurezza, prevale un pensiero unico (semplice e rassicurante) che la ricollega essenzialmente alla microcriminalita'. La parola d'ordine, a destra come a sinistra, e' che nell'espansione della microcriminalita' sta la causa dell'insicurezza, rimovendo i fattori sociali. La societa' e' insicura perche' l'ambiente in cui vive e' insicuro, perche' i legami sociali si sono indeboliti, perche' le citta' sono diventate spesso invivibili e sempre meno vissute, perche' il territorio si e' degradato, perche' le persone si sentono vulnerabili e isolate, perche' la politica, invece di offrire certezze, insegue e moltiplica l'insicurezza. * Ha scritto Mihai Mircea Butcovan: "Vedo in questi giorni alcuni cittadini italiani inclini a ronde, pronti a farsi giustizia da soli, propensi ai linciaggi in strada. Forse c'e' la percezione di una giustizia che non funziona? In Italia non e' poi cosi' infrequente vedere altri cittadini impedire alla polizia di eseguire il mandato d'arresto nei confronti di mafiosi o altri criminali. Forse c'e' la percezione di una giustizia che non deve funzionare? Nel paese c'e' un problema sicurezza? Questo e' legato in modo indissolubile agli immigrati e ai romeni? Penso che anche Roberto Saviano abbia un 'problema di sicurezza'. C'entrano gli immigrati? C'entrano i romeni? Anche certi giudici, tutori della legalita', che si chiamavano Falcone e Borsellino, avevano un problema di sicurezza. Anche i loro agenti di scorta avevano un problema di sicurezza. Senza paura sono saltati per aria insieme ai giudici che proteggevano. Uccisi non certo dagli immigrati. Hanno piu' di un problema di sicurezza i lavoratori e le lavoratrici senza tutele che s'infortunano o muoiono sul luogo di lavoro, quel lavoro che fonda la repubblica democratica e che scompare sempre piu' nelle fauci di una crisi annunciata. Gli immigrati: quando sono vittime si dimentica la nazionalita', quando sono carnefici la loro provenienza viene enfatizzata in modo strumentale. Di questo modo di fare informazione dovremmo avere paura. E reagire con la conoscenza reciproca, che richiede sforzo, spazi editoriali, vetrine e finestre aperte sull'altro. A partire dalle finestre aperte sulla nostra storia. Per non essere costretti a subirla nuovamente, nei suoi aspetti piu' drammatici. E per non farci piu' la guerra. Di questa ultima dovremmo invece avere paura. Gli ultimi provvedimenti "in chiave sicurezza" minacciano, questo si', i valori fondamentali della Costituzione italiana. Non l'abbiamo ancora applicata per intero. Si muore ancora, con o senza scorta, per difendere i valori e gia' li vogliono cambiare. Di questa ultima prospettiva dovremmo aver molto paura". 5. INIZIATIVE. L'8 MARZO AL CENTRO SOCIALE "VALLE FAUL" A VITERBO CONTRO LA VIOLENZA SESSISTA E RAZZISTA Presso il centro sociale autogestito "Valle Faul" di Viterbo domenica 8 marzo, nella giornata internazionale della lotta di liberazione delle donne, si e' svolta una iniziativa contro la violenza sessista e razzista, per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani. * La giornata antirazzista ed antimaschilista e' iniziata con un momento di socializzazione e convivialita'. Sono poi seguite alcune testimonianze di impegno contro la violenza razzista, fascista, maschilista e patriarcale. Tra gli interventi particolarmente acuto ed appassionato quello della dottoressa Antonella Litta, medico, rappresentante a Viterbo della prestigiosa Associazione medici per l'ambiente (International Society of Doctors for the Environment - Italia), impegnata anche come medico volontario in Africa. Nel corso delle testimonianze sono state ricordate esperienze di solidarieta' condotte dal Centro sociale fin dalla sua nascita, ed e' stato commemorato Claudio Dian, deceduto alcuni anni fa, che del Centro sociale e del suo impegno per i diritti umani e' stato uno degli animatori. E' stato anche ricordato che l'articolo 10 della Costituzione italiana afferma che "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica". I provvedimenti razzisti del cosiddetto "pacchetto sicurezza" sono incostituzionali e criminali, scandalosamente disumani. Infine un concerto dello storico e prestigioso ensemble ethno-jazz tedesco "Embryo", che ha costituito una straordinaria occasione di fruizione di musica colta di altissima qualita'. 6. LE PAROLE E LE COSE. BENITO D'IPPOLITO: ET NON INVENI I. Il crudo sasso e l'ultimo sigillo lo scudo fatto d'ombra e il grave pondo e' questo nero il mondo in cui s'asconde l'intima paura della sventura? O non e' fiamma e spade ed erbe e vento e nubi e l'infinito nel deserto perdersi? O tutto si fa ciarla e si fa roggia? O e' la morte l'unica speranza? Provo disgusto della folle danza e provo orrore dell'immoto stare. Potessi non essere mai nato non avessi conosciuto questo mare. II. La maschera che uccide se la indossi la pioggia che dilava e tutto stinge la voce che si perde tra le foglie e le infinite voglie sempre morte. E questa sfinge, e queste chiuse porte. Nessuna nel cielo stella nessuna legge nel cuore. Solo dolore lama di specchio sirocchia e rubella. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 755 del 10 marzo 2009 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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