[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La domenica della nonviolenza. 204
- Subject: La domenica della nonviolenza. 204
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 22 Feb 2009 10:06:27 +0100
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 204 del 22 febbraio 2009 In questo numero: Alcuni estratti da "Populismo globale" di Guido Caldiron LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "POPULISMO GLOBALE" DI GUIDO CALDIRON [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Guido Caldiron, Populismo globale. Culture di destra oltre lo Stato-nazione, Manifestolibri, Roma 2008] Indice del volume Introduzione; L'invenzione dell'Occidente; La rivoluzione americana; Il profeta virtuale; L'esercito di Dio; La globalizzazione del razzismo; Il ritorno dell'imperatore; Una destra normale * Da pagina 9 Introduzione "Il complesso di idee di cui ci occuperemo (...), e' stato definito 'nazional-patriottico' in tedesco volkisch, vale a dire inerente al Volk. E' questo uno di quegli sconcertanti vocaboli tedeschi, le cui connotazioni trascendono l'accezione specifica. Volk e' una parola assai piu' pregnante che non 'popolo', dal momento che, per i pensatori tedeschi, fin dall'inizio del romanticismo germanico, sullo scorcio del XVIII secolo, Volk denotava un insieme di individui legati da una 'essenza' trascendente, volta a volta definita 'natura', o 'cosmo' o 'mito', ma in ogni caso tutt'uno con la piu' segreta natura dell'uomo e che costituiva la fonte della sua creativita', dei suoi sentimenti piu' profondi, della sua individualita', della sua comunione con gli altri membri del Volk". Con queste parole lo storico George L. Mosse, tra i maggiori studiosi dei fascismi di tutti i tempi, presentava nel 1964 la sua indagine su Le origini culturali del Terzo Reich (il Saggiatore, 1968). Lo stesso Mosse, che nato a Berlino si rifugio' negli Stati Uniti all'avvento del nazismo, aveva spiegato in L'uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (Laterza, 1982) come "il fascismo riusci' a creare consenso perche' si approprio' di desideri e aspirazioni che avevano caratterizzato diversi movimenti politici e intellettuali del secolo precedente. Come una specie di organismo coprofago, il fascismo raccolse con il mestolo brandelli di romanticismo, di liberalismo, di nuova tecnologia e perfino di socialismo, per non parlare poi di una vasta varieta' di altri movimenti che si trascinarono dal XIX al XX secolo. Ma su tutto cio' esso distese il manto di una comunita' che si pensava condividesse un passato, un presente e un futuro di carattere nazionale: una comunita' che non fosse imposta, bensi' 'naturale', 'genuina', con una sua forza organica e una sua vita, paragonabile a quella della natura". Era la base di quella "nazionalizzazione delle masse", il titolo dell'opera forse piu' nota dello storico, che definiva la costruzione stessa dell'impianto culturale e politico dei fascismi europei degli anni tra le due guerre mondiali: "I miti, che costituivano la base della nuova consapevolezza nazionale di un passato sia tedesco che classico - scriveva Mosse proprio ne La nazionalizzazione delle masse (il Mulino, 1975) - si ponevano al di fuori della corrente contemporanea della storia; avevano come obiettivo quello di unificare nuovamente il mondo e di restaurare, nella nazione ridotta in frantumi, un nuovo senso di comunione". La guerra, la crisi sociale, la perdita di punti di riferimento, il venir progressivamente meno delle chiavi interpretative con cui si e' dato un "senso" alle cose che ci accadono ogni giorno, il ritrovarsi sempre piu' isolati anche in virtu' delle forme moderne di vita collettiva (la metropoli anonima che prende il posto del villaggio dove tutti si conoscono). Lo schema con cui riassumere l'inquietudine che attraversa il Novecento ha molti nomi e tappe. Le immagini talvolta si sovrappongono anche in epoche tra loro lontane, altre volte divergono nettamente. Quello che ha prodotto la genesi delle culture fasciste negli anni Venti e Trenta e' un percorso lento, un sedimentarsi pigro ma inesorabile di tracce e indicazioni. "Quando la societa' e la cultura della Germania e dell'Europa borghese hanno cominciato a sentirsi in pericolo, anni prima dell'avvento del fascismo e del nazismo, dell'internazionale nera, le proliferazioni intellettuali della situazione di crisi hanno raggiunto una finezza e una qualita' stilistica che oggi ci appaiono insuperabili", spiegava lo studioso del mito Furio Jesi in Cultura di destra (Garzanti, 1979). Il nazismo si e' presentato in questo contesto come una "radicalizzazione" di alcuni filoni della vecchia cultura di destra. E "radicalizzazione - sottolineava Jesi - significa in questo caso, un salto di qualita'". Nella Germania del primo dopoguerra quella "cassetta degli attrezzi" culturale fu ampiamente saccheggiata nel pieno della grande crisi che attraversava la societa'. Le condizioni che lo storico americano William Sheridan Allen ha visto prendere corpo in una cittadina tedesca di diecimila abitanti, Thalburg (in realta' Nordheim) da lui scelta per raccontare l'educazione sentimentale alla barbarie dei tedeschi degli anni Trenta, minuziosamente descritta in Come si diventa nazisti (Einaudi, 1968): "L'estremismo di massa, l'intolleranza, il desiderio disperato di un cambiamento radicale - tutti fattori che rendono impossibile una stabile democrazia - sono difficili da suscitare. Quando nella comunita' c'e' sicurezza, gli agitatori politici si ritrovano a declamare in sale quasi vuote: e' necessaria una paura ossessiva, l'improvvisa coscienza di pericoli fino a quel momento non sospettati, per riempire le sale di ascoltatori che vedano nell'agitatore colui che li salvera' (...) Ma nel 1930 una paura nuova comincio' ad ossessionare la citta': la depressione mondiale si stava diffondendo e il crollo delle quotazioni alla Borsa di New York si faceva sentire persino in questa valle remota della Germania centrale. Fu la depressione, o meglio, la paura degli effetti prolungati che avrebbe potuto provocare, che contribui' in modo determinante a spingere la popolazione di Thalburg all'estremismo". L'estremismo in questo caso era incarnato da un partito, quello nazionalsocialista, che prometteva ai tedeschi legge e ordine, difesa dei loro interessi sociali - lavoro e "welfare" - e rinascita nazionale e identitaria - la Germania che risorge dopo "l'umiliazione" del Trattato di Versailles con cui si era chiusa la prima guerra mondiale - e cerca le sue "vere" radici. Se lo sfondo necessario era quello dello Stato-nazione, un nuovo Reich da costruire con tutti i tedeschi divisi all'epoca in varie entita' nazionali, il cemento di questo progetto era costituito dall'odio: il mito ariano dell'antisemitismo che portera' dritto a Auschwitz. Quell'odio che Heinrich Mann si rifiutava di considerare come qualcosa di "normale", mentre faceva le fortune dei nazisti emergenti nella societa' tedesca, e che pare oggi merce cosi' comune nel mondo della nostra tarda e contraddittoria globalizzazione. "Occorre essersi lasciati alle spalle parecchie cose prima di darsi decisamente in braccio all'odio - scriveva Mann in L'odio. Scene di vita nazista (il Saggiatore, 1995) -. In circostanze normali, una persona civile incontra nel suo simile solo un odio moderato e molto relativo, e anche egli stesso, con tutto quanto sa della vita, prova grande difficolta' a odiare senza restrizione e riserve (...) L'odio vero, nella sua incommensurabile profondita', non ha nulla a che fare con i nostri difetti, molto pero' con i nostri valori". Ma se Heinrich Mann immaginava che l'odio venisse costruito e alimentato dai nazisti come una sorta di barbaro "sistema di valori" da contrapporre "alla ragione e ai suoi difensori", che dire del sottofondo di rancore che caratterizza questi tempi un po' a tutte le latitudini? In altre parole, come interpretare le forme contemporanee di "valorizzazione dell'odio" che sotto forma di politica, religione o cultura impregnano di se' il vivere quotidiano di buona parte del mondo? E in che modo le culture di destra che hanno spesso fatto da incubatrice ai fascismi nell'epoca di formazione e di stabilizzazione dello Stato-nazione, contribuiscono ad alimentare questi fenomeni, in un tempo segnato invece da un'aperta dialettica tra gli Stati cosi' come li abbiamo conosciuti fin qui, e la globalizzazione di buona parte delle funzioni che essi hanno esercitato in passato? L'emergere di cio' che si puo' definire come un insieme di culture di destra, caratterizzate nel senso della "radicalizzazione" di cui parlava Furio Jesi, e' forse il segno distintivo del mondo globale cresciuto negli ultimi decenni. Si tratta di fenomeni tra loro anche molto diversi: dall'ideologia neoconservatrice statunitense alle idee che muovono il terrorismo jihadista, dalle politiche di segregazione degli immigrati avviate da molti paesi europei - l'Italia tra i primi - alla giudeofobia dilagante nel mondo arabo in virtu' della guerra con Israele, dalla crociata antiabortista che prende la forma di una guerra della "religione" contro le donne, fino all'omofobia. Un catalogo di idee regressive ma profondamente ancorate nella modernita', di cui interpretano la crisi e le trasformazioni sia sul terreno sociale e produttivo che sul piano culturale e identitario. Una sorta di "ritorno al futuro" che inventa gabbie e frontiere in nome di tradizioni ormai completamente mondializzate e re-inventate a partire da condizioni diasporiche o legate ai flussi migratori che attraversano il pianeta. Non percio' l'aggiornamento, piu' o meno tecnologicamente avanzato, delle destre o dei fascismi che furono, quanto piuttosto un populismo globale capace di interpretare in forma transnazionale, che puo' giocare alternativamente a quella locale, la sua sfida alla liberta'. Una parziale, e necessariamente indiziaria, fenomenologia di cio' e' al centro di questo lavoro che muove prima di tutto dal desiderio di richiamare l'attenzione, magari in modo polemico, sui nessi e le evidenti analogie che legano tra loro quelli che ci vengono abitualmente presentati come "avversari irriducibili" quando sono invece le manifestazioni locali, caratterizzate in base al repertorio culturale a cui attingono, della medesima imprenditorialita' dell'odio. Solo denunciare insieme e nello stesso contesto i fenomeni di fondamentalismo, razzismo e costruzione regressiva dell'identita' che ci circondano, puo' infatti offrire strumenti validi a un'offensiva globale in nome dei diritti, della democrazia e della liberta'. Il riferimento al "populismo" e' qui fatto al di fuori di molti degli schemi con cui e' sovente definito questo fenomeno nell'ambito della scienza della politica. Cio' detto, proprio uno dei massimi studiosi in materia, il politologo dell'Universita' del Sussex Paul Taggart, ne Il populismo (Citta' Aperta, 2002), sottolinea come "il populismo tende a identificarsi con una versione idealizzata del suo popolo eletto, e a situarlo in un paesaggio similmente idealizzato. Nel far cio', esclude gli elementi che considera alieni, corrotti o degradati, e opera sulla base di una distinzione tra cio' che e' 'sano' e cio' che non lo e', tra cio' che chiamero' lo 'heartland' e i margini". Allo stesso modo Taggart spiega come "l'emergere di una crisi scuote i populisti e fa loro superare la riluttanza, li spinge all'azione politica (...) La difficolta' e' che la crisi puo' essere un qualcosa frutto dell'immaginazione del populista o puo' essere una crisi economica e politica nel vero senso della parola (...) Il populismo emerge quando un ampio processo di transizione da' origine a un sentimento di crisi, almeno all'interno di un gruppo sociale". Per lo studioso inglese si tratta percio' della "patologia delle democrazie rappresentative". Patologia che sembra emergere in una connessione molto stretta con i processi di globalizzazione. "La globalizzazione delle economie ha provocato una crisi del ruolo dello Stato e del quadro nazionale, che ha destabilizzato le forme tradizionali della politica creando uno spazio favorevole alla costituzione di un'alternativa populista - sostengono inoltre Yves Meny e Yves Surel in Populismo e democrazia (il Mulino, 2001) -. La crisi del potere decisionale delle elite tradizionali, la riduzione dei vincoli elettorali e la rivelazione della corruzione nei regimi politici occidentali ha alimentato l'idea di una crisi di legittimita' politica, che e' stata utilizzata dai populisti". Quanto al riferimento al "globale", vuole tener conto di quanti contatti e confronti si siano aperti negli ultimi anni, rendendo ogni fenomeno politico o culturale consapevole dell'esistenza di "altro da se'". Fenomeno osservabile perlomeno, e' questa la tesi sostenuta da Alain Touraine in La globalizzazione e la fine del sociale (il Saggiatore, 2008), nel periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino all'attentato dell'11 settembre a New York, che ha invece aperto la strada a una nuova fase di conflitti e guerra. "Contrariamente a cio' che spesso si afferma ancora oggi, il periodo della globalizzazione - scrive il sociologo francese - e' stato caratterizzato non solo dalla circolazione accelerata dei beni e dei servizi, ma anche da opere, pratiche culturali e perfino da rappresentazioni sociali e politiche. Non e' piu' la logica di un tipo di societa' a imporsi, ma non e' ancora quella di una crociata o di un impero. Il periodo definito della globalizzazione e' stato dominato dal capitale finanziario piu' che dal capitale industriale, e questo ha fatto scoppiare la bolla tecnologica, ma ha anche accelerato un tipo di trasformazione del mondo che era e restava multilaterale". A questa prima fase e' seguita negli ultimi anni la deriva bellica che ha parzialmente interrotto, ma non certo eliminato, i principi di funzionamento della globalizzazione economica. A questo riguardo Carlo Galli, storico delle dottrine politiche dell'Universita' di Bologna, ha scritto - nel volume collettivo Paranoia e politica (Bollati Boringhieri, 2007) - un saggio che mette l'accento su alcuni degli elementi che contribuiscono oggi ad alimentare il "populismo globale" attraverso la modalita' della guerra. "Nella guerra globale il piu' intenso conflitto coesiste con la piu' alta indistinzione fra amico e nemico. La cui identita' e' un enigma; il che comporta che lo sia anche l'identita' dell'amico, cioe' la nostra - scrive Galli -. La creazione dello spazio immaginario dell'Occidente e la furiosa ricerca di 'radici' e di identita' a cui molti si dedicano sono infatti fenomeni reattivi: e' l'ossessiva e vana ricerca di sicurezza che spinge a tracciar confini i quali, con la loro arbitrarieta' escludente e conflittuale, finiscono con il mostrare che nello spazio globale anche le identita' tradizionali diventano fantasmi, tanto piu' inquietanti quanto piu' si vogliono rassicuranti". "Il nemico-fantasma - irrappresentabile al punto che ne e' difficile anche l'iper-rappresentazione (non a caso le propagande contrapposte sono piu' attente alla costruzione virtuale delle identita' dell'amico che non alla raffigurazione del nemico) - e' cosi' l'ultima figura dell'ostilita' - conclude Galli -, la piu' inquietante, perche' e' non diversa e non distante da noi; e anzi e' la nostra ombra, la nostra angoscia, il lato oscuro della nostra stessa identita', resa essa stessa incerta e fantasmatica dal grigio crepuscolo globale". * Da pagina 19 A conclusione di questo itinerario nel rancore, incontriamo un elemento che riconnette quanto detto ora sulla situazione italiana con il significato piu' generale del "populismo globale". E che ci consente di individuare i segni tangibili di un percorso che non ha un solo luogo d'elezione: ha infatti a disposizione il mondo intero. Si tratta dei temi evocati dal sociologo tedesco Hans Magnus Enzensberger ne Il perdente radicale (Einaudi, 2007). Enzensberger segue le tracce di quella scia di sangue che attraversa l'orizzonte contemporaneo e che dalle nostre piccole barbarie domestiche ci conduce fino a incontrare la figura dei terroristi kamikaze. Dal caso degli adolescenti assassini nei college americani fino all'11 settembre c'e' - suggerisce Enzensberger - un filo di disperazione e di rabbia, di cieca violenza e di studiata esaltazione del rancore che finisce per legare gli assassini di provincia ai killer delle Twin Towers. I primi indicano una tendenza, una possibilita' che si cela nelle contraddizioni manifeste di un modello culturale in crisi, i secondi fanno parte dell'esercito di coloro che socializzano questa crisi e ne fanno la bandiera di una guerra planetaria. In comune, questi due esempi apparentemente cosi' lontani tra loro, hanno il senso della sconfitta, la percezione di una inadeguatezza che si trasforma in furia omicida, in uno sterminato desiderio di morte e di distruzione. In entrambi i casi siamo di fronte a quelli che lo studioso tedesco presenta come "i perdenti radicali". Definizione riferibile non tanto a coloro che si possono percepire come gli sconfitti della globalizzazione o delle trasformazioni culturali insite nella modernita', quanto a quelli che non sono stati o non sono in grado di elaborare un vocabolario del cambiamento, un lessico emozionale con cui rispondere alle modifiche di breve o di lungo corso che attraversano il loro spazio di vita. "In ogni momento - scrive Enzensberger - il perdente puo' esplodere. Questa e' l'unica soluzione del problema che riesce a immaginare: il parossismo del disagio che lo fa soffrire". Il vero problema nasce pero' quando dalla follia individuale si passa a cio' che il sociologo definisce come la "socializzazione del rancore". "Che cosa accade quando il perdente radicale supera il suo isolamento, quando si socializza, quando trova una patria dei perdenti, da cui si ripromette non solo comprensione, ma riconoscimento, un collettivo di simili che lo accoglie a braccia aperte e ha bisogno di lui?", si chiede Enzensberger. E' questo, ad esempio, l'orizzonte nel quale il terrorista kamikaze diventa una figura centrale, il simbolo di una cultura di morte che "progetta il suicidio di un'intera societa'". Qualcosa, conclude lo studioso tedesco, che l'Europa ha gia' conosciuto, proprio in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali: quel vasto movimento all'insegna della frustrazione patriottica e del risentimento dei giovani maschi tornati dal fronte e non piu' esaltati come eroi, che fu lo scenario dell'ascesa del nazismo. * Da pagina 21 L'invenzione dell'Occidente "I grandi crimini nascono spesso dalle grandi idee, e quanto maggiore e' il crimine, tanto piu' fortemente si crede nell'idea. Malgrado quanto si ritiene in genere, la storia non registra delitti commessi in nome del relativismo o della tolleranza, mentre e' costellata di crimini perpetrati in nome della fede incrollabile e dell'unica verita' esistente". Il capitolo de Il disagio della postmodernita' (Bruno Mondadori, 2002) di Zygmunt Bauman da cui e' tratta questa citazione si intitola non a caso "Il sogno della purezza". Una delle "piccole narrazioni" che attraversano l'epoca globale ha infatti a che fare con la re-invenzione di uno spazio occidentale che si dice minacciato dall'esterno come dall'interno nel suo tentativo di mantenere inalterate le proprie caratteristiche. Un tempo era stata la Guerra fredda e la retorica sul "mondo libero", poi e' arrivato l'11 settembre: il "noi" e "loro" ha cosi' trovato una nuova ragion d'essere. Nel cuore dell'Occidente. Terrorismo internazionale, immigrazione, sicurezza e "scontro di culture" compongono il mix esplosivo che serve ad alimentare la verve di polemisti e ideologi che stanno cercando da alcuni anni di definire le coordinate di questa nuova identita' occidentale. * La profezia di Samuel Huntington "L'Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorita' delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorita' nell'uso della violenza organizzata (il potere militare). Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai. (...) Alcuni occidentali hanno sostenuto che l'Occidente non ha alcun problema con l'Islam, ma solo con gli estremisti islamici violenti. Millequattrocento anni di storia dimostrano tuttavia il contrario. I rapporti tra Islam e cristianesimo sono stati spesso burrascosi. Per entrambi, la parte opposta ha sempre rappresentato 'l'Altro' (...) Le cause di questa costante conflittualita' non vanno ricercate in fenomeni transitori quali il fervore cristiano del XII secolo o il fondamentalismo musulmano del XX, bensi' nella natura stessa di queste due religioni e delle civilta' su di esse fondate, nelle loro differenze e nelle loro similitudini". Percio', "una guerra planetaria che coinvolga gli stati guida delle maggiori civilta' del mondo e' altamente improbabile ma non impossibile. Un simile conflitto potrebbe scaturire dall'escalation di una guerra (locale) tra musulmani e non musulmani". Sono passati piu' di dieci anni da quando Samuel Phillips Huntington propose questa lettura delle future relazioni internazionali alla luce di una netta contrapposizione tra cio' che definiva come "Islam" e cio' che definiva come "Occidente". L'11 settembre non c'era ancora stato, l'amministrazione statunitense non aveva ancora dichiarato la "guerra permanente al terrorismo", il dibattito internazionale ruotava in larga misura intorno alle promesse annunciate dal pieno dispiegarsi dei processi di globalizzazione. Eppure, era proprio muovendo da un'analisi del "nuovo" mondo globalizzato, che questo docente di Harvard - stimato specialista di studi strategici e direttore del John T. Olin Institute for Strategic Studies - aveva pubblicato, gia' nel 1993, sulla rivista da lui fondata, "Foreign Affairs", un articolo intitolato "The Clash of Civilizations?" che sarebbe poi stato sviluppato nell'omonimo saggio del 1996, edito dall'importante editore Simon and Schuster e tradotto in tutto il mondo (in Italia la prima edizione e' del 1997, Lo scontro delle civilta' e il nuovo ordine mondiale, Garzanti). Da allora, le tesi di Huntington che annunciavano come possibile, prossimo e in qualche misura inevitabile lo "scontro di civilta'" tra gli occidentali e i musulmani - i primi rappresentati come i depositari della filosofia dei diritti dell'uomo e i secondi piu' o meno come dei "barbari" - hanno non solo caratterizzato il dibattito politico e culturale internazionale, ma, come una sorta di terribile profezia, sono apparse come il drammatico annuncio di quanto poi si sarebbe concretamente verificato. Questo almeno in apparenza. In realta', Lo scontro delle civilta' e' diventato la bandiera dietro la quale buona parte delle culture di destra dell'Occidente hanno ridefinito la propria identita'. Dalla dottrina neoconservatrice sbarcata alla Casa Bianca fin dalla prima elezione di George W. Bush alla guida degli Stati Uniti nel 2000, ai tanti paladini dell'identita' occidentale apparsi negli ultimi anni in Europa, da Orfana Fallaci a Pym Fortuyn, solo per citare due esempi, tutti sembrano aver fatto proprie le parole di Huntington. Cosi', come sottolinea Mondher Kilani, docente di antropologia culturale dell'Universita' di Losanna, in Niente sara' piu' come prima (Medusa, 2002): "Sono parecchi i commentatori occidentali che, dopo l'11 settembre, hanno tenuto a ricordare l'origine occidentale dei diritti dell'uomo, contribuendo cosi' (...) a sostenere la profezia autorealizzantesi della tesi di Huntington sullo 'scontro di civilta''. Una tesi che, come e' noto, ha la particolarita' di scambiare la conseguenza (i conflitti e le contraddizioni che risultano da rapporti di forza storici e congiunturali) con la causa (una irriducibilita' di valori tra l''Occidente cristiano' e il 'mondo arabo-musulmano')". Le tesi di Huntington, un conservatore vicino ma non assimilabile tout court all'ambiente neocon americano, hanno cosi' finito per assumere il significato di una via d'uscita da destra di fronte alla crisi dello Stato-nazione e all'avvento dell'era globale. "La mia ipotesi - spiegava infatti l'autore di Lo scontro delle civilta' - e' che la fonte di conflitto fondamentale nel mondo in cui viviamo non sara' sostanzialmente ne' ideologica ne' economica. Le grandi divisioni dell'umanita' saranno legate alla cultura (...) I conflitti piu' importanti avranno luogo tra gruppi di diverse civilta'". "Questo perche' - aggiungeva Huntington - nel mondo post-Guerra fredda, la cultura e' una forza al contempo disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall'ideologia ma culturalmente omogenee vengono a unificarsi, come hanno fatto le due Germanie (...) Societa' unite dall'ideologia o da circostanze storiche ma appartenenti a differenti civilta' finiscono viceversa con lo sgretolarsi, com'e' accaduto all'Unione Sovietica". La rinascita identitaria, le tendenze comunitaristiche, "la rivincita di Dio" - come lo stesso Huntington definiva il prepotente ritorno della religione nella politica e nella sfera pubblica di molte societa' - piu' che essere presentate come altrettante possibili derive assunte dall'umanita' in una condizione di crisi, diventavano "la risposta" alle trasformazioni introdotte dalla globalizzazione. Al punto che lo scienziato politico di Harvard annunciava gia' all'epoca quelli che sarebbero stati i temi delle sue riflessioni successive, raccolti nel 2004 in La nuova America. Le sfide della societa' multiculturale (Garzanti, 2005), un violento manifesto contro il modello di melting pot statunitense e in particolare contro l'emergere della presenza degli immigrati "latinos" negli Usa. "La cultura occidentale - si poteva leggere in Lo scontro delle civilta' - e' minacciata da gruppi operanti all'interno delle stesse societa' occidentali. Una di queste minacce e' costituita dagli immigrati provenienti da altre civilta' che rifiutano l'assimilazione e continuano a praticare e propagare valori, usanze e culture delle proprie societa' d'origine. Questo fenomeno prevale soprattutto tra i musulmani in Europa, che sono, comunque, una piccola minoranza, ma e' presente anche, in minor misura, tra gli ispanici degli Stati Uniti, che invece sono una minoranza molto nutrita". Le "civilta'" poste da Huntington al centro della sua riflessione rappresentano percio' entita' definite, stabili e connotate secondo criteri pressoche' "etnici", al punto che la frontiera che lui stesso fa correre tra occidentali e musulmani conosce poi il suo doppio all'interno di ogni societa' tra gli "autoctoni" e gli "stranieri". "Il politologo di Harvard - spiega a questo riguardo Annamaria Rivera, etnologa dell'Universita' di Bari e autrice di La guerra dei simboli (Dedalo, 2005) - propone, attraverso nozioni totalizzanti come quella di civilta', una configurazione dei rapporti di forza internazionali basata su rigide linee di frattura culturalreligiose. Nella 'cattiva antropologia' di Huntington, le 'civilta'' sono viste come universi compatti, autonomi, irriducibili, potenzialmente o effettivamente ostili l'uno all'altro; i rapporti del cosiddetto Occidente con altre aree, paesi e culture sono rappresentati nei termini dell'opposizione fra the West and the Rest". Sono "mondi chiusi", impenetrabili, quelli che, secondo Huntington, sono destinati ad incrociarsi solo per l'inevitabile clash. In questo quadro, si puo' leggere ancora ne Lo scontro delle civilta', "il vero problema per l'Occidente non e' il fondamentalismo islamico, ma l'Islam in quanto tale, una civilta' diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorita' della propria cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. Il problema dell'Islam non e' la Cia o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma l'Occidente (...) Sono questi gli ingredienti di base che alimentano la conflittualita' tra Islam e Occidente". Percio', come suggerisce il sociologo afro-britannico Paul Gilroy nel suo Dopo l'impero (Meltemi, 2006) "vecchie questioni coloniali tornano in gioco quando i conflitti geopolitici vengono declinati come una battaglia tra civilta' omogenee". Gilroy paragona il libro di Huntington al Saggio sull'ineguaglianza delle razze pubblicato a meta' dell'Ottocento dal conte de Gobineau e considerato come il testo fondante il razzismo moderno. "Nonostante le molte differenze - spiega il sociologo -, entrambi gli autori condividono la preoccupazione per le dinamiche di mutua repulsione delle civilta' e le disastrose conseguenze dei tentativi di incrocio. Gobineau identifico' il pericolo mortale per le civilta' in ogni deviazione dalla 'omogeneita' necessaria alla loro vita' (...) Huntington specifica lo stesso tipo di problema, geopolitico e scientifico-razziale, sotto forma aforistica, nell'idioma contemporaneo del multiculturalismo e della globalita'". * Da pagina 73 Il profeta virtuale New York e Washington, 11 settembre 2001. Madrid, 11 marzo 2004. Londra, 7 luglio 2005. E poi ancora Bali, Casablanca, Sharm al Sheykh... migliaia di morti in nome di un'idea della religione musulmana che e' in realta' tutta politica, che con la fede ha davvero poco a che fare. E che prima di scendere in guerra contro cio' che considera come i simboli dell'Occidente ha ucciso migliaia di musulmani in Algeria, Afghanistan, Sudan, Egitto, Indonesia, Filippine... * Jihad, le radici totalitarie della violenza "Ecco dunque l'Occidente: dopo aver seminato l'inguistizia, l'asservimento e la tirannia, e' perplesso e si dibatte nelle sue contraddizioni; basta che una potente mano orientale si tenda, all'ombra dello stendardo di Dio sul quale sventolera' il gagliardetto del Corano, uno stendardo tenuto alto dall'armata della fede, potente e solida; e il mondo sotto la bandiera dell'Islam ritrovera' la calma e la pace". "La condizione di ignoranza in cui si trovano le societa' contemporanee non e' di natura diversa da quella in cui versava l'antica Arabia prima del sorgere dell'Islam (...). L'umanita' vive oggi in un grande bordello. Basta dare un'occhiata alla stampa, al cinema, alle sfilate di moda o ai concorsi di bellezza, alla sale da ballo, ai bar e alle trasmissioni radiotelevisive. O osservare la sua folle brama di corpi nudi, posizioni provocanti o affermazioni allusive in letteratura, nell'arte e nei mass-media. A cio' si aggiunge il sistema dell'usura che alimenta l'avidita' dell'uomo per il denaro, per il quale l'uomo e' disposto a ricorrere a mezzi spregevoli per accumularlo e investirlo". Da quale comunicato di Al Qaeda, o di una qualunque delle altre sigle che popolano il franchising internazionale del terrorismo fondamentalista, sono tratte le due frasi che precedono? Si tratta forse di citazioni dell'opera piu' importante di Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano considerato l'ideologo dell'organizzazione fondata da Osama Bin Laden, quel Cavalieri sotto la bandiera del profeta nelle cui pagine i membri di Al Qaeda sono paragonati ai primi combattenti dell'Islam, riuniti intorno al Profeta? Niente di tutto cio'. La prima citazione, che annuncia la sconfitta di un Occidente in declino e l'avvento dei combattenti in nome del Corano, e' estratta da un documento che nel 1946 Hasan al Banna, fondatore del movimento dei Fratelli Musulmani in Egittto, invio' a diversi capi di stato dei paesi musulmani. La seconda, che Sayyid Qutb, l'uomo che rimpiazzo' al Banna alla testa dell'organizzazione politico-religiosa egiziana, inseri' in uno dei trenta volumi di cui si compone la sua All'ombra del Corano, gigantesca opera di esegesi del libro sacro dell'Islam pubblicata tra il 1958 e il 1966, e' probabilmente frutto delle riflessioni che l'autore elaboro' al proprio ritorno in Egitto nel 1951 dopo aver passato un lungo periodo di studio negli Stati Uniti all'University of Northern Colorado. Se svelare i meccanismi di funzionamento del network terrorista guidato dal miliardario saudita, o cosa d'altro si possa celare oggi dietro alla sigla di Al Qaeda, appare pressoche' impossibile perfino per i servizi di sicurezza di tutto il mondo, la genesi delle idee su cui si e' costruita l'identita' culturale della jihad globalizzata e dei suoi animatori non rappresenta un segreto per nessuno. Eppure, spesso, non si dedica sufficiente attenzione a quell'elemento ideologico di fondo che mostra con evidenza come il terrorismo fondamentalista sia tutt'altro che un fenomeno recente, almeno dal punto di vista delle radici culturali e del "senso" di cui si nutre, o frutto esclusivo di una replica tragica ad altre violenze e sopraffazioni. Gia' nel 1993, nell'introduzione a Il fondamentalismo islamico (Il Mulino), un volume dello storico libanese Youssef M. Choueiri, uno dei piu' noti studiosi italiani dell'Islam politico, il sociologo Enzo Pace, metteva in evidenza questo elemento. "Chi avesse modo di leggere i testi, che i leader del Fronte Islamico di Salvezza algerino hanno prodotto in questi ultimi anni, troverebbe frequentemente un interessante 'gioco degli specchi' linguistico - spiegava Pace, aggiungendo -: cio' che dice o scrive Abbassi Madani (leader del Fis) e' lo specchio fedele di cio' che ha detto o scritto Sayyd Qutb (prestigioso leader dei Fratelli Musulmani, morto nel 1966), il cui pensiero, a sua volta, rappresenta il riflesso speculare di una linea dottrinaria che rimonta al teologo riformatore sunnita Ibn Taymiyya (morto nel 728, secondo il calendario musulmano, nel 1328 secondo il nostro). Dunque una filiera di lunga durata". "Questa semplice constatazione - concludeva il sociologo dell'Universita' di Padova - dovrebbe renderci piu' accorti nei nostri giudizi sommari sui movimenti religiosi e politici di ispirazione integrista. Tutti questi movimenti non nascono dal nulla o senza radici culturali e storiche". * Da pagina 77 Il mondo sognato da Osama Bin Laden "Nello scontro in atto oggi ci sono due parti: la Crociata mondiale in alleanza con i Giudei sionisti capeggiata dall'America, la Gran Bretagna e Israele, e dall'altra parte il Mondo Islamico". Chi potrebbe riconoscersi in queste poche parole pronunciate piu' volte, con infinite sfumature ma senza variazioni di rilievo, da parte di Osama Bin Laden? La scoperta - fatta sia all'indomani della strage di Madrid dell'11 marzo 2004 che di quella di Londra del 7 luglio del 2005 - che dei cittadini musulmani immigrati in Europa erano legati al circuito internazionale di al Qaeda, alcuni molto giovani appena arrivati e altri residenti da tempo, in particolare nel Regno Unito e pienamente integrati nella societa' britannica, indica come la risposta a questa domanda sia tutt'altro che scontata. La rete terroristica sembra infatti in grado di sedurre i diseredati delle bidonville come le classi medie del Cairo o di Algeri e anche alcuni settori dell'emigrazione islamica in Occidente. Un quadro che suggerisce percio', nel tentativo di comprendere la fisionomia del terrorismo jihadista, di volgersi piu' verso la proposta ideologica offerta da Bin Laden che non al contesto sociale - che non potrebbe essere infatti piu' vario e talvolta anche esplicitamente contraddittorio, da caso a caso - nel quale si muovono coloro che vengono presentati come suoi adepti. Perche' se e' ormai evidente che quello di al Qaeda e' poco piu' che un "logo" che ciascuno puo' usare a proprio piacimento, anche senza alcuna diretta filiazione organizzativa con la casa madre, la visione del mondo di Bin Laden e' condivisa da gran parte di coloro che decidono di passare all'azione. Gia', ma quale idea di futuro, di societa', di vita si puo' immaginare stia alla base di chi decide di uccidere o di immolarsi per la jihad del terrorismo? Alcune ricerche pubblicate anche nel nostro paese offrono spunti importanti per capire su quali basi si sia costruito quello che e' ormai diventato un fenomeno globale e di massa. In Messaggi al mondo (Fandango, 2007), la piu' estesa analisi delle dichiarazioni multimediali (videomessaggi, interviste, testi spediti alla stampa) di Osama Bin Laden, il docente di Storia delle religioni della Duke University del North Carolina Bruce Lawrence traccia il profilo della "proposta" jihadista. Premesso che "gli Stati Uniti a causa della loro subordinazione ai Giudei" sono il nemico numero uno dei musulmani nel mondo, Bin Laden definisce, con un testo redatto gia' nel febbraio del 1998, l'orizzonte di un autoproclamato "Fronte islamico mondiale". "Combattere gli Americani e i loro alleati, civili e militari, e' un obbligo individuale per ogni Musulmano che abbia la possibilita' di farlo, in qualunque paese ne abbia la possibilita' - spiega lo sceicco di al Qaeda -. Col permesso di Dio esortiamo ogni musulmano che crede in Dio e desidera comportarsi conformemente agli ordini di Dio, a combattere gli Americani e requisire i loro soldi in qualunque posto si trovino e in qualunque momento gli sia possibile; ed esortiamo anche gli studiosi musulmani, i capi, i giovani, i soldati a sferrare attacchi contro i soldati del Diavolo Americano e dei suoi alleati, scagnozzi di Satana". In questa battaglia, che prevede anche il sacrificio supremo della propria vita, il futuro puo' essere concentrato in un solo attimo. Come spiega la "guida spirituale" redatta dai kamikaze dell'11 settembre, un documento scritto in arabo su fogli spillati che l'Fbi ha ritrovato all'indomani dell'attentato alle Twin Towers - un'edizione integrale e commentata si trova nel volume Terrore al servizio di dio (Quodlibet, 2007). "Purifica il tuo cuore, eliminane le macchie e dimenticati e ignora qualunque cosa che abbia nome di 'mondo'. Il tempo del gioco e' passato, e' giunto il vero appuntamento (...) Sii sereno, perche' tra te e le tue nozze mancano solo pochi istanti e cosi' comincera' la vita beata, gradita a Dio, e la grazia eterna con i profeti, i giusti, i martiri e i devoti". Eppure un modello di societa' emerge anche dalle parole dei combattenti della jihad globale, di cui il capo di al Qaeda si considera un'avanguardia. In un'intervista rilasciata a Jalalabad in Afghanistan - paese in cui viveva protetto dal regime dei Talebani - a Peter Arnett della Cnn nel marzo del 1997, lo stesso Bin Laden parlava "dell'orgoglio e della speranza che la rivelazione di Muhammad sia riportata a essere Legge". La societa' intera dovrebbe percio' essere regolata dal Libro, dalla parola di Dio trasmessa agli uomini dal suo Profeta. "Noi siamo una Umma e abbiamo una lunga storia, grazie a Dio - aggiungeva Bin Laden nell'intervista -. Siamo ora nel quindicesimo secolo di questa grande Religione, la cui completa ed esaustiva metodologia ha reso chiaro il comportamento fra gli individui, gli obblighi dei Credenti verso Dio e le relazioni dei paesi musulmani con gli altri paesi in tempo di pace e di guerra. Se guardiamo indietro alla nostra storia, troveremo molti comportamenti diversi fra la Nazione Islamica e le altre nazioni in tempo di pace o di guerra, inclusi trattati e affari di tipo commerciale. Quindi non dobbiamo creare niente di nuovo. Tutto esiste gia'". * Da pagina 99 Il cuore sacro della globalizzazione "Credo vi sia un grande malinteso sulla nozione di identita', nel senso che le persone sembrano convinte che l'identita' sia qualcosa di permanente, di fisso, ma non e' assolutamente vero. L'identita' e' qualcosa di dinamico, in costante evoluzione, che si arricchisce in continuazione. Si tratta di qualcosa di molto complesso: si potrebbe dire, ricorrendo a un gioco di parole, che l'identita' non e' mai identica a se stessa". A partire dal ruolo che la religione e l'appartenenza comunitaria hanno assunto gia' nella fase della decolonizzazione sia in Europa che nei paesi della sponda sud del Mediterraneo, uno dei maggiori sociologi europei, Albert Memmi, ha definito cosi', in Portrait du decolonise' (Gallimard, 2004), uno dei concetti intorno a cui ruota buona parte del dibattito politico e culturale internazionale. Le sue parole acquistano un significato particolare a fronte di cio' che e' avvenuto in tutto il mondo nel corso degli ultimi decenni, vale a dire la profonda ri-sacralizzazione dello spazio pubblico che ha accompagnato il pieno dispiegarsi dei processi di globalizzazione economica, politica, culturale. Basti pensare alla capacita' dimostrata dalla Chiesa cattolica, a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II, di intervenire con efficacia presso la nuova opinione pubblica globale. Un intervento che, al pari di quello compiuto dall'interno di altre confessioni religiose, si pensi a quanto accaduto nel mondo musulmano - piu' difficile da riassumere in un solo esempio, vista l'assenza in questo caso di un'istituzione paragonabile alla Chiesa di Roma -, si e' posto l'obiettivo di tentare di colmare con una nuova presenza della fede, sempre piu' sociale e comunitaria, i tanti vuoti simbolici e di senso che la globalizzazione ha portato con se'. E' in questo ritrovato interesse per le religioni che i segni e le parole della fede hanno acquisito un nuovo significato che e' stato spesso utilizzato dai fondamentalisti di ogni sponda, mentre l'imposizione e la violenza divenivano per questi ultimi la strada per imporre dogmi e divieti solo in apparenza frutto di "tradizioni religiose" ma in realta' costruiti per forme tutte moderne di controllo delle anime, e per questa via dei corpi, dei "fedeli". Come ha chiarito Elie Barnavi in Religioni assassine (Bompiani, 2007), si deve pero' prima di tutto "smettere di considerare le religioni come degli insiemi coerenti, cosa che esse non sono. I sistemi religiosi possono essere tanto numerosi quanto i sistemi di idee e, all'interno di ciascun sistema religioso, vi sono tanti sistemi di idee quante possono essere le sue confessioni e le sue correnti. Infatti questa sfera evolve non solo temporalmente, come tutte le istituzioni umane, ma anche in funzione dell'ambiente sociale e culturale". "Religione", sintetizza Barnavi, e' "una parola valigia": puo' contenere quasi qualunque cosa e ognuno puo' infilarci cio' che vuole. Saper maneggiare, senza cedimenti o timori reverenziali, questa materia, diviene percio' l'unico modo possibile per sviluppare un'idea di cittadinanza globale che sappia ricondurre i simboli della fede al loro carattere di rappresentazione, privandoli invece della terribile arma dell'identita' della quale oggi sono sempre piu' spesso i detentori. * Da pagina 105 The Passion sembra stare alle trasposizioni cinematografiche di ogni fede, come i sermoni in cassetta o via internet degli integralisti stanno a ciascuna comunita' religiosa. Segnando il definitivo affermarsi dell'era della globalizzazione fondamentalista. Del resto, durante i mesi di lavorazione del film negli stabilimenti di Cinecitta', Gibson ha voluto che ogni giorno fosse celebrata una messa per chi era impegnato sul set. Non una messa qualunque, ma secondo il rito tridentino, dal Concilio di Trento, detta anche messa di San Pio V, officiata da due sacerdoti francesi: Jean Charles-Roux, della congregazione dei rosminiani e Michel Debourges dell'Istituto di Cristo Re di Gricigliano, Firenze, vicino alle posizioni della Fraternita' San Pio X, il raggruppamento tradizionalista fondato da Monsignor Lefebvre. E quale sia la "cifra" del sentimento religioso nel quale l'attore e regista e' stato allevato, e' piuttosto evidente. Suo padre, Hutton Gibson, e' stato a lungo legato ai tradizionalisti cattolici, ma, come ha spiegato uno dei portavoce della Fraternita', l'abate Alain Lorans, ha scelto negli ultimi anni di separarsi da loro giudicandoli "troppo liberali e troppo moderni". Hutton Gibson si e' quindi avvicinato ai cosiddetti "sedevacantisti", quella frangia del cattolicesimo ultra' che non riconosce i papi post-conciliari. Con i proventi derivanti dai suoi successi cinematografici, Mel Gibson ha costruito a proprie spese a Malibu, in California, una chiesa per questi fedeli davvero particolari. Ma Hutton Gibson, 85 anni, sembra avere idee molto chiare anche su altri argomenti. A pochi giorni dall'uscita di The Passion negli Stati Uniti, volendo rispondere a suo modo all'accusa di antisemitismo mossa al film da diverse organizzazioni e personalita' della comunita' ebraica, ha pensato bene di spiegare come per lui "l'Olocausto e' un'invenzione". Ma che The Passion rappresenti qualcosa di piu' del frutto avvelenato di una cultura di estrema destra, e' altrettanto evidente. Come ha spiegato su "Le Monde" Henri Tincq, "il film di Gibson rivela la frontiera che separa i due versanti attuali del cristianesimo. Da un lato, una fede cristiana che si appoggia sulla ragione, una fede intellettualizzata da secoli di scolastica, dall'approccio critico dei testi ammesso dalla tradizione luterana come dal Concilio Vaticano II. Dall'altro, un cristianesimo fondato sull'emozione, sul realismo magico-religioso, sul fondamentalismo "evangelico" e su una pieta' morbosa". "E' questa seconda corrente - conclude lo specialista di religioni del quotidiano parigino - che ha oggi il vento in poppa - negli Stati Uniti come nelle megalopoli povere del Terzo mondo - e che, attraverso il successo del film di Gibson, mostra la sua capacita' di espansione". ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 204 del 22 febbraio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: Minime. 739
- Next by Date: Minime. 740
- Previous by thread: Minime. 739
- Next by thread: Minime. 740
- Indice: