Nonviolenza. Femminile plurale. 236



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 236 del 18 febbraio 2009

In questo numero:
1. Nicoletta Crocella: Sicurezza o perdita di umanita'?
2. Normanna Albertini: Il mostro
3. Natalia Aspesi: Se e' un pericolo essere donna
4. Monica Lanfranco: L'urgenza
5. Nadia Urbinati: Il linguaggio della cattiveria
6. Anne Zell: Piu' liberta' per tutte e tutti
7. Maddalena Gasparini: Postfazione a "Ho sognato uno spazio morbido" di
Chiara Maria Colombari
8. Giulia Siviero presenta "La vita che non si ferma" di Clarice Lispector

1. EDITORIALE. NICOLETTA CROCELLA: SICUREZZA O PERDITA DI UMANITA'?
[Ringraziamo Nicoletta Crocella (per contatti: stellecadenti at tiscali.it) per
questo intervento]

La sicurezza... che cosa intendiamo per sicurezza? e come si puo' affrontare
in modo non demagogico e sicuro? Mi sembra che il concetto di sicurezza
venga usato a senso unico.
Sicurezza sul lavoro: non esiste, se si considera il numero di incidenti sul
lavoro su cui al momento abbiamo steso il velo del silenzio per puntare
l'attenzione altrove, sino alla prossima tragedia che nella sua enormita' ci
richiama alla realta'...
Sicurezza ambientale, non esiste, dalla centrale a carbone di Civitavecchia,
alle varie centrali che dovrebbero bruciare spazzatura, alle discariche
tappabuchi di problemi mai affrontati, per non parlare degli aereoporti che
germogliano come funghi, con senso o meno della realta' e della possibilita'
reale di immettere un altro aereoporto in questo territorio...
Sicurezza economica: garanzia che si puo' continuare a vivere, ad avere una
vita dignitosa e piacevole, anche qui e' stata affrontata con battute
("sposi un miliardario", come consiglia il premier, oppure: "spendete,
sentitevi sicuri, siate felici"), invito a spendere per migliorare il
bilancio, non per prendere cose utili, piacevoli...
Sicurezza stradale: meno che meno, cantieri aperti, strade intasate, tutti
per strada a correre per lavorare, per realizzare, pochi servizi pubblici,
scomodi e che non arrivano mai dove dovresti andare, e cosi' tutti chiusi
nelle nostre scatolette, magari soli, uno per scatola, e via, ad occupare
spazio, a dilapidare ambiente, aria, vite...
Sensazione di sicurezza: ebbene no, niente, l'insicurezza ci rode dentro,
non abbiamo punti fermi cui affidarci, per osare magari nuove esplorazioni,
nuovi incontri.
*
Succedono certamente molti fatti disdicevoli, spaventosi, efferati, in
questa come nelle altre parti del mondo, e quindi non ci sentiamo sicuri...
ma l'attenzione posta sul diverso, lo straniero, il musulmano, lo zingaro,
ci portano velocemente ad incoraggiare l'imbarbarimento delle nostre
societa', aumenta il livello di insicurezza, cosi' ci tappiamo in casa,
affidando a ronde ed esercito la gestione del territorio. I soldati per
strada danno sicurezza? ma a chi mai piace vedere questi strani esseri
armati e pronti ad azioni violente per le nostre strade! Sa tanto di colpo
di stato, fatto con garbo, urlando di essere cattivi con gli altri, per la
nostra difesa, ovviamente, ma e' il clima che si respira, il messaggio che
passa ogni ora, ogni momento, che ci rende sempre piu' insicuri, perche' una
comunita' arroccata, in guerra con tutti i diversi, coloro che si discostano
dalla "normalita'" inesistente ma immaginata, non puo' che produrre scontri,
guerre, guerre tra vicini invece che solidarieta'.
Sparare ad un nero, un ladro, un marocchino, un rumeno od uno che sembra uno
zingaro sembra ormai una cosa lecita, e alla fine si pensa di insegnare alle
ragazzine almeno i principi della autodifesa violenta perche' possano
proteggersi... ma non saranno le strade deserte, senza persone amiche
intorno, l'indifferenza per quello che avviene a due passi da noi ad essere
pericolose davvero? Se dei compagni di scuola possono pensare che una
bigiata di gruppo si possa concludere con lo stupro della ragazzina
presente, a che servono gli insegnamenti di difesa personale, o l'esercito
per strada? Non e' il clima, il modo di sentire e di vivere le relazioni che
insegnamo ai ragazzini fin da piccoli il vero problema? Siano bulli,
violenti o stupratori in erba, sono cresciuti qui, nelle nostre case, hanno
visto la televisione, ascoltato le notizie, imparato che il piu' forte ha
ragione, che la violenza paga, e che le ragazze sono pezzi di carne rosea e
soda da usare...
*
Io credo che l'unica sicurezza possibile stia nell'accoglienza, nel rispetto
delle persone, nel sapere sin da piccolo, da piccola, da subito, che il
limite alla tua liberta' e' la liberta' degli altri, che le donne sono
persone, con emozioni, desideri, sentimenti con cui entrare in relazione,
che i ragazzi non sono necessariamente violenti ed aggressivi, che sanno
fermarsi, sanno quando esprimere e quando controllare le proprie pulsioni,
che essere gentile e tranquillo non significa essere omosessuale, e che
comunque essere omosessuale, lesbica, o qualunque altra cosa si voglia
essere, e' un fatto personale, un aspetto della identita' di una persona,
che va rispettato, e quella tra i sessi non e' necessariamente una guerra...
Andare incontro agli altri, alle altre, semplicemente per incontrarsi,
accogliere, parlarsi, e sostenere relazioni solidali e felici... penso che
cosi' molto piu' facilmente riusciremo ad avere rapporti sereni, citta'
sicure, ambienti vivibili.
Ma questo vuol dire metter via i discorsi aggressivi, le urla, e cominciare
a ragionare, da essere umano tra esseri umani, a rischio di perdere il
facile consenso di gente spaventata, che venga se mai aiutata a sentirsi
essere pensante, che ascolta, valuta e sceglie, non inneggia ad un capo come
un fan, ma vuole essere rappresentata e sostenuta dalla attenzione al ben
essere, ed al ben vivere, non alle battute ed ai finti sorrisi.
*
Il pacchetto sicurezza cosi' come viene presentato rispecchia una cultura
aggressiva, violenta, e preordina una societa' velocemente inclinata verso
una situazione di fascismo ormai palese.
Una societa' in cui il povero viene schedato, deve chiedere come una
concessione lo scarso obolo che il governo ha previsto; in cui chi non ha
fissa dimora deve essere schedato, per la sua sicurezza, naturalmente; gli
zingari vanno espulsi dai centri abitati, rinchiusi in ghetti, anch'essi
schedati e sorvegliati; in cui un medico puo' denunciare uno straniero
bisognoso di cure; in cui essere senza documenti invece che sollecitare una
protezione diviene un reato; in cui si vietano le manifestazioni o si
limitano fortemente; in cui si fanno e si inventano motivi per leggi ad
personam, con ogni singolo caso valutato e deciso in termini ideologici; in
cui i potenti fanno tutto, ed il contrario di tutto; e se si pensa ad un
sostegno in un momento di crisi si pensa a sostenere le banche... ebbene
questo non e' forse un paese votato alla dittatura, al degrado morale, alla
perdita di umanita'?

2. RIFLESSIONE. NORMANNA ALBERTINI: IL MOSTRO
[Ringraziamo Normanna Albertini (per contatti: normin56 at alice.it) per questo
intervento]

Siamo in guerra. Siamo semplicemente in guerra. Gli uni contro gli altri,
ferocemente, spietatamente. Siamo in guerra. Qui, nelle famiglie, tra le
case, tra le persone, dentro di noi.
Perche' l'uomo non e' animale socievole per natura. No, la natura non e'
"buona". Nemmeno l'uomo e' "buono". E' feroce, spietato, se lasciato allo
stato di natura. E' un mammifero predone, violento come sanno esserlo i
cugini scimpanze'; l'uomo nulla condivide con gli altri cugini bonobo,
spensierati viveur che usano il sesso per spegnere ogni possibilita' di
violenza. L'uomo e' predone e ha bisogno di uno stato di diritto che lo
obblighi in confini etici. Nel De iure belli ac pacis, pubblicato nel 1625,
opera che da' il via al Giusnaturalismo moderno, Ugo Grozio ribaltava i
concetti del modello politico aristotelico, secondo cui l'uomo e' un animale
socievole per natura. Sempre nel '600, Thomas Hobbes rifiuto' la concezione
tradizionale secondo cui l'uomo sarebbe, per natura, un essere sociale.
Poiche' ognuno ambisce al proprio vantaggio a danno degli altri e,
contemporaneamente, il numero di individui che ambiscono a una stessa cosa
tende sempre ad aumentare, e' chiaro "che la condizione naturale degli
uomini, precedente al loro aggregarsi in uno stato, era quella di guerra",
la guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Nella
condizione di uno stato di natura, dove gli individui non hanno alcun dovere
gli uni verso gli altri, ciascuno tenderebbe ad esercitare il suo dominio
sugli altri (homo homini lupus), e cio' scatenerebbe un eterno conflitto.
Solamente con la ragione l'uomo puo' evitare questo conflitto. Infatti. E ci
stavamo, lentamente, arrivando. Lentamente, perche' per le donne la
violenza, fino a solo un decennio fa, era da sopportare pazientemente. Un
delitto contro la morale. Ci stavamo arrivando. Con le Costituzioni, con le
leggi. Una Costituzione, la nostra, nata dalla Resistenza, nata dal
sacrificio di molte vite, nata dal profondo desiderio di giustizia di chi
aveva lottato contro l'orrore nazifascista. Mai piu', non doveva accadere
mai piu'. Mai piu' le ingiustizie, mai piu' le discriminazioni.
E invece. Il fascismo era li', era rimasto come un male dormiente, una
cellula tumorale sfuggita al chirurgo. E' bastato cominciare a riscaldarlo
pian piano, alla luce dell'incubatrice/televisore. Piano piano, anno dopo
anno, piano piano, trasmissione dopo trasmissione, nulla e pornografia e
vuoto e violenza propinati come divertimento. Lentamente, inesorabilmente,
anno dopo anno, trasmissione dopo trasmissione. Vuoto e pornografia,
incivilta', noncuranza, sacrilegio e profanazione della persona umana. Ed
eccolo respirare di nuovo. Eccolo, il mostro... Rinato, enorme, forte,
violento. Siamo in guerra. Bellum omnium contra omnes, cominciando dai
barboni, dagli stranieri,dai poveri.

3. RIFLESSIONE. NATALIA ASPESI: SE E' UN PERICOLO ESSERE DONNA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 17 febbraio 2009 col titolo "Se e' un
pericolo essere donna"]

La donna e' tornata ad essere un corpo fragile, a disposizione di quello del
maschio violento di ogni nazionalita' e colore.
E i maschi violenti italiani, per lo meno quelli che progettano le ronde,
sprangano immigrati e auspicano torce umane, adesso urlano a caso "Bastardi!
Cosi' imparate a stuprare le 'nostre' donne!". Attraverso il confuso
moltiplicarsi di fatti e notizie orribili, la donna sta perdendo la propria
autonomia, la propria liberta', la fiducia in se' e negli altri. Sono gli
uomini a riprendere il potere su di lei: quelli che la violentano, quelli
che dovrebbero proteggerla, quelli che la vorrebbero soggetta, quelli che
dicono "e' nostra". Quelli che a nome suo pretenderebbero la castrazione del
violentatore; e qui bisognerebbe sapere se il provvedimento, caso mai i
leghisti insistessero, vale solo per i rom o anche per quegli italiani
(forse persino leghisti) che nel confortevole riparo di casa ogni tanto
sottopongono la "loro" donna alle massime molestie non solo sessuali. O per
tutti quegli altri, sempre italiani, che erano il 58% degli autori dei 4.465
stupri denunciati (piu' di 12 al giorno, solo una parte di quelli realmente
avvenuti e taciuti) nel 2008.
Si sa che le donne hanno dovuto combattere anni perche' lo stupro, da reato
contro la moralita' pubblica e il buon costume, fosse considerato finalmente
un reato contro la liberta' personale, e alcuni legislatori non erano poi
cosi' contenti, parendo ai piu' resistenti che fare quella brutta cosa li'
era piu' che altro un peccato mortale, da punire appunto perche' immorale.
Quindi e' solo dal 1996 che il codice penale riconosce il diritto della
donna alla liberta' di disporre del proprio corpo e di negarlo con tutte le
sue forze a chiunque, senza per questo essere obbligata a imitare Maria
Goretti. Anche se sino a un paio di decenni fa, una ragazza che uscisse viva
da uno stupro e non stesse zitta, metteva in sospetto: senza dimenticare che
piu' recentemente la Corte di Cassazione aveva ritenuto impossibile per uno
stupratore riuscire a togliere i jeans a una ragazzina senza la complicita'
della stessa. Insinuando anche nella sentenza che tale e' l'orrore dello
stupro, che per impedirlo la vittima non avrebbe dovuto aver paura "di
patire altre ipotetiche e non certo piu' gravi offese alla propria
incolumita' fisica". Tipo la morte.
Uno studio della solita Universita' di Princeton che ha un pallino per le
cose del sesso, ha stabilito che in certi uomini, si presume insaziabili, la
fotografia di una bella ragazza accende la stessa sezione del cervello che
reagisce agli oggetti desiderabili, "come se la donna non fosse del tutto un
essere umano", comunque umano quanto puo' esserlo un'automobile o un
giubbotto firmato. Percepire la donna come un oggetto, qualcosa quindi da
prendere, possedere, sottomettere, per ragioni biologiche e irrazionali,
forse e' vero e forse no, ma se fosse vero, basterebbe che gli uomini
stessero davanti alla televisione perche' i loro cervelli lampeggiassero di
luci come Piedigrotta causando loro seri tormenti e impulsi riprovevoli. Ma
a parte questa eventualita' bizzarra, fa piu' paura una sorta di rancore
muto e protervo che le donne sentono salire dal mondo maschile, rancore per
la loro liberta' di essere sessualmente disponibili o indisponibili a
seconda della sola loro volonta', per la loro capacita' di non aver padroni,
di non dipendere, di non aver bisogno, di cavarsela da sole anche quando
troppo spesso sono lasciate sole. Dagli anni '70 la maggior parte degli
uomini ci ha provato ad accettare, e ce l'ha fatta, ma le donne sono a poco
a poco diventate sempre piu' estranee al ruolo loro assegnato, intaccando il
senso e il valore del ruolo opposto, quello maschile. Sono state troppo
fiduciose e hanno creduto davvero di poter contare sulla liberta' personale
sino a usare il loro corpo da immettere sul mercato dell'immagine come un
oggetto virtualmente desiderabile e accessibile. Non avevano fatto i conti
forse col cervello maschile e le sue reazioni, certo non con la nuova
fragilita' e rabbia maschile.
Essere donna e' tornato ad essere un pericolo, ed e' la sua debolezza fisica
ad essere colpita: minacciandola, spaventandola, violentandola,
promettendole protezione. Ma se mai oltre alle parole si trovassero i soldi,
che non ci sono, per quella famosa sicurezza che per ora consiste solo nel
prendersela con gli stranieri e non riesce ad impedire le violenze
(straniere e italiane) non solo contro le donne, si raccomanda alle
eventuali forze dell'ordine di tener d'occhio anche le ronde, non si sa mai,
nella storia ne han fatte di tutti i colori.

4. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO: L'URGENZA
[Ringraziamo Monica Lanfranco (per contatti: monica.lanfranco at gmail.com) per
averci messo a disposizione il seguente articolo apparso sul quotidiano
"Liberazione" del 17 febbraio 2009 col titolo "Nessuno scagli la prima
pietra"]

Domanda: ci sono culture, (o popoli) che possono essere considerate piu'
misogine e stupratorie di altre? La risposta e' difficile e oggi piu' che
mai non e' da eludere, quando la politica diventa pericolosa per l'intera
societa' al punto da avanzare soluzioni dettate dall'odio, come la
castrazione chimica per chi stupra. La storia dell'umanita' indica con
chiarezza che e' nell'intreccio tra valori patriarcali, sistemi dittatoriali
e fanatismo religioso che germoglia la violenza maschile sulle donne. Non e'
un caso che alla base di tutte e tre le strutture simboliche citate (il
patriarcato nella sfera delle relazioni, la dittatura in quella sociale e il
fondamentalismo nell'ambito della fede) le caratteristiche comuni siano il
dominio, la mancanza di democrazia e la logica del nemico e della
sopraffazione. Il collante non secondario e' l'alimentazione di un clima di
paura verso cio' che non si conosce e non si vuole conoscere, identificando
in chi e' estraneo il capro espiatorio sul quale far ricadere ogni
responsabilita', badando bene di non dare alla popolazione gli strumenti per
debellare la paura, come l'istruzione, la conoscenza, l'emancipazione e
l'autodeterminazione.
Certo che ci sono sacche di minoranze violente in chi migra da luoghi
poveri, affamati, colpiti da guerre e nei quali da tempo i processi sociali
collettivi sono improntati sull'oppressione, l'ignoranza e la superstizione,
oppure da terre che hanno visto nel giro di pochi anni lo sgretolarsi delle
certezze economiche e collettive. Questo fa di tutti i cittadini rumeni,
cingalesi, pakistani, albanesi e via citando altre geografie degli
aggressori?
E, anche volendo solo per un attimo dialogare con la logica folle e
criminale di chi invoca la castrazione: questa e' davvero la soluzione che
una societa' civile sceglie di adottare perche' la crede efficace, o e' il
grido impotente e schiumante di rabbia di una collettivita' frantumata al
suo interno, incapace di pensare un futuro di riparazione, di tutela e di
evoluzione, efficiente solo nel produrre rimedi uguali e contrari alle
ingiustizie che subisce, sempre piu' sprofondata nella logica dell'occhio
per occhio?
Una mia amica, oggi cinquantenne, mi confesso' che da quando si era sposata,
appena ventenne, e fino al divorzio (circa diciotto anni dopo), veniva
regolarmente picchiata dal marito, dopo un breve periodo di equilibrio
durato i primi momenti del matrimonio.
Silvia (la chiamero' cosi') aveva dato per scontato, per decenni, che nelle
relazioni tra i due sessi la violenza fosse inevitabile, un accessorio
indispensabile che segnava il dover essere di un marito, uomo, compagno. In
parte, a corollario di questa convinzione, trasmessa anche della madre di
Silvia con il consenso del suo ambiente sociale, lei stessa pensava che una
donna meritasse quel trattamento. Non stiamo parlando di un profondo sud o
di una classe sociale disagiata, ma dell'esperienza di una donna del Nord
Italia di classe media. Come vuole la tradizione sessista, condivisa e
tollerata, ad ogni latitudine e cultura, la sua vita e' stata sottesa dalla
massima "Arrivato a casa picchia tua moglie: tu non sai perche', ma lei
si'".
Approdare, per Silvia, a porsi la domanda se gli uomini e le donne possano
convivere senza che i primi siano violenti con le seconde ha rappresentato
l'inizio del percorso di riconoscimento della violenza. Quella subita,
quella introiettata, quella trasmessa, quella potenzialmente trasmissibile
da lei a sua figlia. Che viene accettata perche' non la si riconosce, e
viene rimossa socialmente con un'alzata di spalle, nell'indifferenza.
Oggi l'Italia vive una dimensione di limite pericolosissimo, in bilico tra
l'invocazione della legge del taglione per i violenti, e la tolleranza per
la violenza stessa, quella delle discoteche e della velocita' alimentata dai
modelli televisivi, delle tifoserie violente che fomentano odio assurdo per
i colori degli altri o per la polizia, quella che ormai si da' per scontata
tra i giovani, e in particolare i giovani maschi: non e' forse il nostro
presidente del Consiglio ad aver dichiarato alla stampa che "lo stupro e'
inevitabile"? Inevitabile per tutti gli uomini, in quanto tali? Come e'
possibile che un capo di governo europeo faccia affermazioni di questo tipo?
Da alcuni decenni le/gli studiose/i di psicopedagogia infantile che lavorano
sull'infanzia violata  sostengono la necessita' di insegnare come
riconoscere la violenza, insegnando i propri diritti di esseri umani. Chi
accetta e non riconosce la violenza spesso non solo e' destinato a subirla,
ma anche a riprodurla a danni di altri e cosi' perpetuarla, in una spirale
senza fine. Se non si rifiuta il paradigma della forza come fondativo delle
relazioni non ci puo' essere alcuna speranza di convivenza umana pacifica e
feconda. Alla base di questo percorso c'e' la necessita' di riconoscere la
violenza sulle donne come violenza primaria da sradicare. C'e' bisogno di
farlo a partire dalla scuola elementare, nei luoghi di lavoro e di
aggregazione, lo si deve ricominciar a fare come societa' civile, come
movimenti, perche' una cultura violenta contro le donne originera', a
cascata, modelli violenti in ogni altra manifestazione del corpo sociale.
Riconoscerlo e' un'urgenza.

5. RIFLESSIONE. NADIA URBINATI: IL LINGUAGGIO DELLA CATTIVERIA
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 17 febbraio 2009 col titolo "Il linguaggio
della cattiveria" e il sommario "La soluzione Berlusconi agli stupri
sarebbe: via le donne belle, via i clandestini. Poi si lanciano messaggi per
incitare i cittadini a farsi giustizia da se'"]

Il Ministro dell'Interno ha dichiarato qualche giorno fa che "per
contrastare l'immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti, ma
cattivi e determinati nell'applicazione della legge". Non dovrebbe essere
necessario spiegare al Ministro che la legge non si applica ne' con
cattiveria ne' con bonta': si applica con equita' e giustizia. Sono le
azioni delle persone che possono essere buone o cattive, e che quando sono
cattive, come quella che si e' consumata alla Stazione di Nettuno, non ci
puo' essere ambiguita' nel giudizio e nell'applicazione della legge. La
condanna morale deve essere univoca e determinata e la legge applicata con
giustizia. Ma l'attenzione al linguaggio e' cio' che dovrebbe premere di
piu'. Poiche' e' un fatto che se le parole di un ministro suggeriscono
un'inferenza fra il successo della lotta all'immigrazione clandestina e la
"cattiveria" nel modo di contrastarla, chi le ascolta potrebbe facilmente
trovare in esse quello che cerca: la giustificazione del proprio sentimento
discriminatorio e violento contro i clandestini, contro i deboli, contro
tutti coloro che non rientrano nel loro modello "cattivo" di umanita'. Chi
ricopre incarichi pubblici o ha lo straordinario potere di essere ascoltato
e letto da tutti dovrebbe sentire il peso della responsabilita' delle parole
che pronuncia.
La societa' italiana e' piu' violenta e intollerante e nello stesso tempo
massicciamente piu' esposta a un linguaggio pubblico che e' sempre meno
pubblico e sempre piu' usato con stile privatissimo, e quindi anche
esagerato e rozzo. Ecco allora che la violenza contro i clandestini diventa
il segno di un'emergenza che non si puo' contenere se non con la forza,
perche' pare ovvio che se ci sono casi di violenza e' perche' i clandestini
non se ne stanno a casa loro e continuano ad arrivare sulle nostre coste.
Ecco allora che la violenza contro le donne diventa un oggetto di ironia:
impossibile contenerla, occorrerebbe mettere un militare a scortare ogni
donna (bella naturalmente); dove non e' chiaro perche' ad essere scortati
non debbano essere i maschi, visto che sono i potenziali criminali il
problema, non le potenziali vittime.
In ogni caso la violenza viene dipinta come un fatto naturale. Nell'un caso
perche' e' naturale che i padroni di casa (la nazione non e' forse
"nostra"?) vogliano tener fuori gli ospiti non desiderati, con tutti i mezzi
che hanno a disposizione. Nell'altro, perche' e' nella natura del maschio
desiderare le donne (soprattutto se belle). Non c'e' nulla da fare. Se non
ci fossero stranieri alle porte e se le donne fossero brutte, la sicurezza
sarebbe garantita senza sforzo. Ma cosi' non e' e quindi ci sono e ci si
devono aspettare reazioni, anche cattive.
Ma non doveva essere la sicurezza la preoccupazione centrale di questo
governo di destra? Certo che lo doveva e lo e' ancora. Il problema e' che,
poiche' non sembra che i progetti del governo, anche quelli piu' autoritari
(militarizzare la funzione ordinaria di polizia; schedare i rom; e ora anche
costringere i medici a fare gli agenti informatori), producano grandi
risultati, allora si ricorre ad un'arma aggiuntiva, quella populista. Si
lanciano messaggi infiammanti che implicitamente stimolano i cittadini a
pensare che debbano prendersi cura della sicurezza nei modi loro propri,
sostenendo il governo nella sua azione "cattiva e determinata".
Una domanda da donna mi viene a questo punto spontanea (lasciando ai
potenziali predatori decidere se sono bella abbastanza da meritare il loro
desiderio di violenza, secondo il suggerimento del nostro Presidente del
Consiglio): non e' chiaro cosa dovrebbero fare le donne (belle) per
difendersi dai loro potenziali stupratori, visto che non possono essere
protette dai guardiani della legge. Armarsi e attaccare prima di essere
attaccate, come Hobbes pensava che succedesse nello stato di natura?

6. ANNIVERSARI. ANNE ZELL: PIU' LIBERTA' PER TUTTE E TUTTI
[Ringraziamo la pastora valdese Anne Zell (per contatti: annezell at libero.it)
per questo intervento dal titolo originale "Accade oggi, 17 febbraio: dalla
festa della liberta' alla proposta per una giornata nazionale della liberta'
di pensiero, di coscienza e di religione"]

Il 17 febbraio del 1848 Carlo Alberto promulgo' le famose Lettere Patenti
secondo le quali i valdesi erano ammessi "a godere di tutti i diritti civili
e politici de' Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle
Universita', ed a conseguire i gradi accademici...", dopo una serie di
petizioni e atti che avrebbero portato, nello stesso anno, al riconoscimento
di tali diritti anche agli ebrei. Si sono cosi' poste le basi per i diritti
civili e politici di ebrei e valdesi, "cugini primi" secondo Tullia Zevi,
gia' presidente dell'Unione delle Comunita' Ebraiche Italiane. Il 17
febbraio ancora oggi viene ricordato e festeggiato da una parte per non
dimenticare le persecuzioni, le repressioni e la diaspora, subiti per motivi
di fede e di coscienza, dall'altra parte per sottolineare l'importanza del
diritto di esprimere la propria fede e opinione liberamente e senza dover
temere delle repressioni - diritto di tutti e di tutte.
"Il 17 febbraio 1848 e' il giorno in cui per la prima volta in Italia e'
stato affermato il principio non della liberta' religiosa, che non esisteva
ancora, ma dell'uguale dignita' civile dei cittadini", ha affermato Paolo
Ricca (intervento citato da Alessandro Esposito in "Riforma" n. 43, anno
XIV); "Questo e' un fatto di enorme valore perche' e' una vittoria decisiva
del principio democratico costitutivo di uno stato di diritto come noi oggi
lo concepiamo e lo vogliamo. Non si tratta di una difesa o rivendicazione
della liberta' soltanto religiosa. Si intende la liberta' nel senso piu'
ampio e inclusivo del termine; e' laico perche' e' globale e investe tutti
gli aspetti umani; e' l'affermazione dei diritti della persona, non solo del
credente; e' laico nella radice, non ha carattere di privilegio per chiese o
religioni, ma afferma i diritti della persona in quanto tale, che pensa, ha
una coscienza e puo' essere credente avendo liberta' di esprimere la fede".
In questo contesto e' maturata la proposta affinche' il 17 febbraio, o
"festa della liberta'", diventi la "Giornata nazionale della liberta' di
pensiero, di coscienza e di religione", presentata da Valdo Spini il 30
gennaio 2008 come proposta di legge. La data si richiama non solo alle
Lettere Patenti del 17 febbraio 1848, ma anche al rogo in cui fu arso il
filosofo Giordano Bruno proprio il giorno 17 febbraio 1600.
Proprio mentre emergono nuovi (e vecchi) segnali di intolleranza, in un
momento in cui la liberta' religiosa non gode del massimo rispetto (vedi
solo il protrarsi delle trattative per delle intese con le altre comunita'
religiose o il dibattito sull'ora di religione), come, del resto, gli altri
elementari aspetti della liberta' a cui ha diritto ogni cittadino, e'
importante portare avanti una proposta complessiva per la liberta' ed il
riconoscimento dell'altro, del diverso, che affermasse tali valori
attraverso provvedimenti concreti.
Si potrebbe percio' rafforzare la valenza simbolica del 17 febbraio,
dandogli questo carattere, di liberta' nella laicita'; iniziativa, quindi,
laica e insieme ecumenica (nel senso piu' ampio del termine: la parola
deriva dal greco oikoumene che significa "terra abitata" e riguarda cioe' in
generale la dimensione umana).
Le nostre chiese locali e i centri culturali protestanti possono svolgere
una funzione importante per la crescita di una coscienza civile e laica: non
piu' spazio per noi, ma piu' liberta' per tutti, piu' liberta' per gli
altri. Proprio a livello locale si possono allora intraprendere e realizzare
azioni significative di sostegno ad un clima di estensione dei diritti, per
dimostrare che le questioni di coscienza non sono "trattabili" ma un diritto
inalienabile.

7. LIBRI. MADDALENA GASPARINI: POSTFAZIONE A "HO SOGNATO UNO SPAZIO MORBIDO"
DI CHIARA MARIA COLOMBARI
[Dal sito della Libera' universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo la postfazione di Maddalena
Gasparini al romanzo di Chiara Maria Colombari, Ho sognato uno spazio
morbido, Antigone, 2009]

Un fine settimana di settembre, la gita fuori porta con gli amici di sempre
e' l'occasione per Maria per lasciar fluire liberamente ricordi legati al
vecchio borgo sull'Appennino che li aveva visti bambini e le storie delle
persone che assiste nel Nucleo Alzheimer di cui e' responsabile: a Masino si
danno appuntamento le giovani famiglie che vivono in citta', nascono nuovi
amori, si spia il tradimento e si ripetono i litigi. Il farsi della memoria
che costruisce la vita si affianca al suo disfarsi nella malattia di
Alzheimer.
Maria ha un marito, Matteo, e due figlie, Laura e Silvia, che talvolta porta
con se' al lavoro. Curiosa ed esuberante, Laura "va matta per la sedia a
rotelle e la gamba finta" di Iris, ma vuole garanzie che l'Alzheimer non "si
attacchi", che il "virus con le ali" non lo trasmetta alle persone che ama.
La malattia di Alzheimer non viene da una virus, ma "perche' e' scritto",
spiega la madre, e per rassicurarla precisa: "non dentro di noi". La
chiamano "l'epidemia silenziosa", ma non e' una malattia contagiosa; e'
propria dei paesi dove le condizioni di vita e d'assistenza permettono non
solo di non morire piccoli, ma anche di vivere molto a lungo. L'Alzheimer e'
tanto piu' frequente quanto piu' sono alti gli anni: dopo gli 80 anni
colpisce una persona su cinque, dopo i 90 una su tre. E' scritta nella
predisposizione genetica, ma si manifesta se la vita e' abbastanza lunga, e
precocemente se gli studi e i lavori e i rapporti, d'affetto o sociali, sono
stati scarsi.
Non ci sono cure che la guariscano, ma una cura continua che accompagna il
lento declino: la cura come lavoro e il lavoro, gratuito, di cura. Secondo
l'Aima sono 900.000 i pazienti che soffrono di Alzheimer in Italia e
l'assistenza e' a carico delle donne, di famiglia e "badanti", con una quota
pari al 76,6% dell'assistenza totale. Col suo salario Maria ha quasi
mantenuto la famiglia per un pezzo, ma da quando suo marito guadagna bene,
Maria non lavora, "si occupa" di Alzheimer nel "ìmodo classico e ancillare
dell'essere infermiera". Interrogandosi sul nesso fra giustizia e attivita'
di cura dei malati cronici e dei disabili, Martha Nussbaum ci segnala il
gender bias, l'errore sistematico che non tiene conto che a svolgerla sono
soprattutto le donne. Per nascere e crescere, quando si e' malati o
disabili, da bambini e da vecchi, ogni giorno, almeno un po', si ha bisogno
di cura, un bene che la filosofa propone di includere fra i beni primari,
come la salute o l'istruzione. Un bene da ridistribuire fra gli uomini e le
donne e le generazioni.
In casa e fuori, per amore o per denaro, e' difficile separare affetto e
competenza anche se cambiano la posizione e la professione. Basta uno a
voler bene, dice Giovanna, basta che sia lei a voler bene alla caposala.
Anche se la tiene in carrozzina con la cinghia, perche' si e' rotta due
femori e i figli hanno minacciato la denuncia. La medicina difensiva. E' per
questo che urla Giovanna, perche' preferisce rompersi un altro osso
piuttosto che una cinghia la leghi alla carrozzina? il dilemma della scelta
fra tutela e liberta', per chi e' assistito e per chi assiste. I Nuclei
Alzheimer, strutture dedicate a chi e' affetto da demenza, per brevi
ricoveri "di sollievo" o per una collocazione definitiva sono luoghi
formalmente aperti, ma uscire e' come scappare; dove si entra consenzienti,
ma l'oggetto del consenso e' sfuggente: la riabilitazione?
l'intrattenimento? il controllo dei sintomi? la protezione? Non e' facile
tener fede al principio di autodeterminazione, quando puo' capitare, come a
Ivano, di "perdersi dentro se stesso" e disperarsene e perdere il contatto
con la realta'. Come declinare l'autodeterminazione quando e' persa o
gravemente compromessa la capacita' di comprendere, ricordare, prevedere le
conseguenze delle proprie scelte, e comunicarle?
Meglio sarebbe pensarci prima, dichiarare cosa si preferirebbe per se', nel
tal caso e nel tal altro; quali cure e quali no; dove e come si preferirebbe
morire. Negli Stati Uniti la quasi totalita' degli ospiti delle case di
riposo ha compilato un testamento biologico che aiuta a fare scelte
difficili per chi non ne ha piu' la capacita'. Nel reparto di Maria le
persone sembrano giungere serenamente al compimento della vita, con la
malinconia del caso ma senza accanimento. Basta la speranza che la Lina
sopravviva fino al lunedi', cosicche' le si possa dare un ultimo saluto al
ritorno dall'Appennino; o che Saro muoia in fretta, prima che il Comune lo
trasferisca in una struttura piu' a buon mercato, perche' "e' gia' troppo
grave... non ha bisogno di una struttura mirata".
Gli ospiti di Maria sono quasi tutte donne: viviamo piu' a lungo e siamo
piu' esposte alla malattia. Ognuna ha la sua storia, di cui restano tracce
in gesti, inquietudini, smorfie, aggressioni, di cui non e' facile cogliere
il significato: bisogna rimontare brandelli di racconti, di informazioni dei
parenti, di pettegolezzi, perche' no.
Dall'esperienza e dai ricordi, dalle associazioni e dai rimandi,
dall'ascolto e dai confronti, nell'andirivieni fra la struttura e la citta'
e la casa prendono senso gli strepiti e i silenzi, gli atti e i gesti.
Elodia ha le tasche piene di sorprese, come quelle della nonna; nasconde
caramelle in luoghi impensati, chiude la stanza con mezzi di fortuna, grida
sei una troia, a qualcuna che passa di fuori, a chi capita; qualcuna le ha
rubato il marito, sia mai che le rubi le caramelle; Enerina vuole toccare le
mani di Norma, ma non ci arriva come quando fra innamorati ci si lascia, ci
si cerca, ci si incontra, ma non ci si tocca; Rosalba cammina avanti e
indietro per i corridoi chiedendo permesso permesso permesso; ma sotto i
portici affollati non funziona, Maria ci ha provato, nessuno si scosta.
Io, per lavoro, davvero "mi occupo" di demenza. Perche' non posso dire che
la curo. "Il medico non sembrava persona da prendere in considerazione"
scrive di Clotilde l'autrice. Spesso del resto sono i parenti, la figlia, la
moglie, che mi portano una persona che non sa dire cosa l'ha portata a fare
una visita. A me cosi' tocca piuttosto ascoltare l'esasperazione dei
familiari, diradare qualche dubbio, fornire suggerimenti, spesso troppo
impersonali per funzionare, ma talvolta sufficienti a indirizzare verso la
soluzione. Trasmetto storie "a lieto fine" che comunichino la speranza; non
della guarigione, ma della possibilita' di soluzione di un problema, qui e
ora, come quella della figlia di una paziente: quando la madre non
riconoscendola la cercava disperatamente, lei usciva dalla porta di casa,
suonava il campanello e al "rientro" veniva festosamente accolta; l'angoscia
di entrambe si scioglieva in un abbraccio. Chi assiste quotidianamente, a
casa o in una casa di riposo, le persone affette da demenza, ci insegna che
per il benessere della persona piu' dei farmaci, piu' dei controlli medici
conta esserci, ascoltare, tessere una nuova trama per chi ha perso il filo.
Nel gruppo di bioetica di cui faccio parte abbiamo speso due anni per
discutere degli aspetti etici della cura della demenza, nel convincimento
che molto si puo' fare perche' sia rispettata e anzi promossa l'autonomia
nelle diverse fasi di malattia malgrado essa sia caratterizzata dalla
perdita progressiva delle capacita' su cui l'autonomia si fonda. Nella
letteratura scientifica trovai riferimenti non solo al genere, ma anche
all'elaborazione femminista sul tema della relazione di cura, sulle
implicazioni sociali e politiche del tradizionale lavoro delle donne.
L'analisi del modello delle cure materne ci aiuta a coglierne le ambivalenze
e la conflittualita', l'oscillazione fra sentimenti contrastanti: la
tenerezza da una parte e l'obbligo a cui non ci si puo' sottrarre e quindi
la rabbia dall'altra.
"Ho sognato l'equita'", scrive l'autrice in un intermezzo onirico.
Concediamoci il sogno che il bene scarso della cura necessaria smetta di
essere confuso con la bonta'. "La bonta' non esiste. Esiste magari il
coraggio".

8. LIBRI. GIULIA SIVIERO PRESENTA "LA VITA CHE NON SI FERMA" DI CLARICE
LISPECTOR
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente articolo apparso su "Alias" del 24 gennaio 2009 col
titolo "Clarice Lispector, lettere sul bordo della vita"]

Cammino' sul brodo della vita, senza timore, "nuda e scalza e a mani e
vuote". Come una creatura dal cuore selvaggio che seppe entrare "nel tessuto
proibito della vita". Il figlio disse di lei che era un incrocio tra una
tigre e un cervo. Clarice Lispector fu allo stesso tempo pietosa e spietata,
presente e "altrove", come solo chi non ha timore di sporgersi puo' essere.
Lo fu attraverso gli occhi delle donne cui diede corpo, nei romanzi e nei
racconti per i quali e' considerata la piu' grande scrittrice brasiliana del
Novecento. E lo fu nella vita, penetrando nei segreti dell'anima per
ritrovare un luogo che andasse oltre l'individualita': "E' fino a me dove
vado. E da me esco per vedere. Vedere cosa? Vedere cio' che esiste". Perche'
aderire totalmente e immediatamente al reale e', per lei, "il massimo della
spiritualita', l'unico modo in cui lo spirito puo' vivere". Attraverso non
le "ruote giganti" dell'esistenza, ma quelle minute, impercettibili: "gatti
che entrano dalla finestra, capelli che cadono in primavera". Ecco perche',
ne La passione secondo G. H., forse il suo capolavoro, e' nella visione di
uno scarafaggio che scopre la trascendenza. Ecco perche', nell'ingoiare la
materia biancastra (come il latte materno?) che ne fuoriesce dal corpo,
scavalca la vita singolare.
Ponendosi fuori dalla misura umana e di fronte a cio' che non ha forma,
consapevole che ciascuno incarna per un momento, per il tempo di una vita,
quel flusso che sta prima, ancor prima dell'inizio. Ma la nientificazione
dell'io, la perdita di se' (percorso mistico?) in cui Clarice Lispector ci
trascina, non e' mai mortifera attrazione per il nulla, bensi' vertiginosa e
amorevole consapevolezza di appartenere alla radice della vita. E che l'ha
fatta sentire in vita sempre, "poco importa se propriamente io - scrive -
non la cosa che ho deciso di chiamare convenzionalmente io. Io ero sempre
stata in vita". L'estraneita', la dissidenza, il torcere cio' che si e'
irrigidito, il disprezzo di un mondo "tutto uguale", sono il cuore selvaggio
di Clarice. Che pulsa anche nelle lettere, irrinunciabili, de La vita che
non si ferma (Archinto, pp. 98, euro 17). La vita che non si ferma fu la sua
che, nomade a seguito del marito diplomatico, visse sempre altrove: "Tutto
e' senza radici", confessa. La vita che non si ferma fu la sua, che non si
arrese mai a una de-finizione, finzione e fine allo stesso tempo: "Giuro su
Dio - scrive alla sorella minore - che se ci fosse un cielo, una persona che
si e' sacrificata per codardia verra' punita e andra' all'inferno. Chissa'
se una vita tiepida non venga punita per il suo stesso tepore. Prendi per te
cio' che ti appartiene, e cio' che ti appartiene e' tutto quel che la tua
vita esige. Sembra una morale amorale. Ma quel che davvero e' immorale e'
avere desistito da te stessa".
Cio' che Clarice Lispector ci offre sono un mondo e un linguaggio che
rompono le regole del simbolico e fanno esplodere la sintassi. Cio' che ci
offre e' la possibilita' di stare sulla soglia, tessere una trama che si
riverbera nelle forme altre. Nessun prato e' mai stato verde per Clarice. E
nessun cielo azzurro. Perche' li', sul bordo della vita, un prato non e' mai
verde. Un cielo, mai azzurro.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 236 del 18 febbraio 2009

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