La domenica della nonviolenza. 200



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 200 del 25 gennaio 2009

In questo numero:
Philip Roth intervista Primo Levi (1986)

MEMORIA. PHILIP ROTH INTERVISTA PRIMO LEVI (1986)
[Dal sito www.minerva.unito.it riprendiamo la seguente intervista di Philip
Roth a Primo Levi dal titolo "L'uomo salvato dal suo mestiere" ripresa da
Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, Einaudi, Torino 1997, pp.
84-94, originariamente apparsa con il titolo "A Man Saved by His Skills"
sulla "The New York Times Book Review" del 12 ottobre 1986 ed in traduzione
italiana su "La Stampa" del 26 e 27 novembre 1986]

- Philip Roth: Nel Sistema periodico, il tuo libro sul sapore forte e amaro
della tua esperienza di chimico, tu parli di una collega, Giulia, che spiega
la tua mania di lavorare con il fatto che tu, poco piu' che ventenne, eri
timido con le donne e non avevi una ragazza. Ma credo che sbagliasse. La tua
effettiva mania di lavorare ha un'origine piu' profonda. Il lavoro sembra un
tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz.
"Arbeit Macht Frei", il lavoro rende liberi: sono le parole incise dai
nazisti all'ingresso di Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz e' un'orrenda
parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; e' fatica come punizione, che
porta a una morte tormentosa. Si puo' considerare la tua intera fatica
letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la
parola Arbeit dall'irridente cinismo con il quale i tuoi datori di lavoro di
Auschwitz l'avevano sfregiata. Faussone ti dice: "Ogni lavoro che incomincio
e' come un primo amore". Gli piace parlare del suo lavoro quasi quanto gli
piace lavorare. Faussone e' l'Uomo Lavoratore, reso realmente libero dalla
sua fatica.
- Primo Levi: Non credo che Giulia avesse torto nell'attribuire la mia mania
di lavorare alla mia timidezza di allora con le ragazze. Questa timidezza, o
inibizione, era un dato di fatto, concreto, doloroso e pesante. A quel
tempo, era molto piu' importante per me che non la passione per il lavoro:
del resto, il lavoro nella fabbrica di Milano che ho descritto nel capitolo
"Fosforo" del Sistema periodico era un falso lavoro, in cui io non credevo;
la catastrofe dell'armistizio italiano era gia' nell'aria, e non avrebbe
avuto molto senso ignorarla per immergersi in un lavoro fittizio e
scientificamente insensato.
Non ho mai cercato seriamente di analizzare la mia timidezza sessuale di
allora, ma e' certo che essa era in buona parte condizionata dalle leggi
razziali (1); anche altri miei amici ebrei ne soffrivano, alcuni nostri
compagni di scuola "ariani" ci deridevano, dicevano che la circoncisione non
era altro, in sostanza, che una castrazione, e noi, almeno a livello
inconscio, tendevamo a crederci (aiutati in questo dal puritanesimo che
dominava nelle nostre famiglie). Di conseguenza, credo che a quel tempo il
lavoro fosse effettivamente per me un equivalente sessuale piuttosto che una
passione.
Tuttavia, per quanto mi riguarda, sono ben consapevole che dopo il Lager il
lavoro, anzi, i miei due lavori (la chimica e lo scrivere) hanno avuto, e
tuttora hanno, un'importanza fondamentale nella mia vita. Sono convinto che
l'uomo normale e' biologicamente costruito per un'attivita' diretta a un
fine, e che l'ozio, o il lavoro senza scopo (come l'Arbeit di Auschwitz)
provoca sofferenza e atrofia. Nel mio caso, e in quello del mio alter ego
Faussone, il lavoro si identifica con il "problem solving", il risolvere
problemi.
Ma ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del "lavoro
ben fatto" e' talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro
imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita,
portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro
cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su
muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignita'
professionale.
*
- Philip Roth: Se questo e' un uomo si conclude con un capitolo intitolato
"Storia di dieci giorni", nel quale tu descrivi, in forma di diario, come
hai resistito dal 18 al 27 gennaio del 1945 tra un piccolo manipolo di
malati e moribondi nell'infermeria improvvisata del campo, dopo la fuga dei
nazisti verso Ovest con circa ventimila prigionieri sani. Quel racconto mi
suona come la storia di Robinson Crusoe all'inferno, con te, Primo Levi, nei
panni di un Crusoe (2) che strappa cio' che gli serve per vivere ai
magmatici avanzi di un'isola irriducibilmente spietata. Cio' che mi ha
colpito in quel capitolo, come in tutto il libro, e' quanto il pensare abbia
contribuito a farti sopravvivere, il pensare di una mente pratica, umana,
scientifica. La tua non mi pare una sopravvivenza determinata da una
animalesca resistenza biologica o da una straordinaria fortuna, ma radicata
semmai nel tuo mestiere, nel tuo lavoro, nella tua condizione professionale,
nell'uomo della precisione, nell'uomo che verifica esperimenti e cerca il
principio dell'ordine, posto di fronte al perverso capovolgimento di tutto
cio' che per lui era un valore. Si' il pezzo numerato di una macchina
infernale, ma un pezzo numerato con un'intelligenza metodica che deve sempre
capire. Ad Auschwitz dici a te stesso: "penso troppo" per resistere, "sono
troppo civilizzato". Ma secondo me l'uomo civilizzato che pensa troppo e'
inscindibile dal sopravvissuto. Lo scienziato e il superstite sono una cosa
sola.
- Primo Levi: Benissimo! Hai colpito nel segno. E' proprio vero che, in quei
memorabili dieci giorni del gennaio 1945, io mi sono sentito come Robinson
Crusoe, ma con una importante differenza. Robinson si era messo al lavoro
per la sua individuale sopravvivenza; io ed i miei due compagni francesi
eravamo consci, e felici, di lavorare finalmente per uno scopo giusto e
umano, quello di salvare le vite dei nostri compagni ammalati.
Quanto al perche' della sopravvivenza, e' una questione che mi sono posto
piu' volte, e che molti mi hanno posto. Insisto: regole generali non ce
n'erano, salvo quelle fondamentali di entrare in Lager in buona salute e di
capire il tedesco. A parte questo, ho visto sopravvivere persone astute e
stupide, coraggiose e vili, "pensatori" e folli (ad esempio, quell'Elias che
ho descritto in Se questo e' un uomo). Nel mio caso personale, la fortuna ha
avuto un ruolo essenziale in almeno due occasioni: nell'avere incontrato il
muratore italiano a cui ho accennato prima, e nell'essermi ammalato una
volta sola, ma al momento giusto.
Tuttavia, quello che tu dici, e cioe' che per me il pensare, l'osservare, e'
stato un fattore di sopravvivenza, e' vero, anche se a mio parere ha
prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in
una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda
dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalita', o
da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e
gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un'immagine
incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero
costantemente invaso da una curiosita' che ad alcuni e' parsa addirittura
cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente
mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.
*
- Philip Roth: In Se questo e' un uomo la descrizione e l'analisi del tuo
atroce ricordo del gigantesco esperimento biologico e sociale fatto dai
tedeschi sono controllate con grande puntualita' da un interesse
quantitativo per i modi in cui un uomo puo' venire trasformato o disgregato
e puo' perdere le sue proprieta' caratteristiche come una sostanza che si
decompone per una reazione chimica. Se questo e' un uomo equivale alle
memorie di un teorico della biochimica morale che sia stato precettato come
organismo campione per essere sottoposto alla piu' bieca sperimentazione di
laboratorio. La persona prigioniera nel laboratorio dello scienziato folle r
iassume in se' lo scienziato razionale. Nella Chiave a stella - che si
sarebbe potuta benissimo intitolare Questo e' un uomo - tu dici a Faussone,
tuo Shahrazad operaio, che "essendo agli occhi del mondo un chimico e
sentendomi... il sangue dello scrittore nelle vene", come risultato tu hai
"due anime in corpo, che sono troppe". Direi che c'e' un anima sola, capace
e senza saldature: che non sono inscindibili soltanto il sopravvissuto e lo
scienziato, ma anche lo scrittore e lo scienziato.
- Primo Levi: Piu' che una domanda, questa e' una diagnosi, che accetto e di
cui ti ringrazio. Ho vissuto il Lager nel modo piu' razionale che potevo, e
ho scritto Se questo e' un uomo sforzandomi di spiegare agli altri, e a me
stesso, i fatti in cui ero stato coinvolto, ma senza precisi intenti
letterari. Il mio modello, o se preferisci il mio stile, era quello del
"weekly report", del rapportino settimanale che si usa fare nelle fabbriche:
deve essere conciso, preciso, e scritto in un linguaggio accessibile a tutti
i livelli della gerarchia aziendale. Non certo in linguaggio scientifico:
del resto, scienziato avrei voluto diventare, ma la guerra e il Lager me lo
hanno impedito, e ho dovuto accontentarmi di essere un tecnologo durante
tutta la mia vita professionale.
Sono d'accordo con te sul fatto che ho "una sola anima senza saldature", e
ancora una volta ti ringrazio. La mia affermazione che "due anime sono
troppe" e' per meta' uno scherzo, ma per l'altra meta' allude a cose molto
serie. Ho vissuto in fabbrica per quasi trent'anni, e devo ammettere che non
c'e' contraddizione fra l'essere un chimico e l'essere uno scrittore: c'e'
anzi un reciproco rinforzo. Ma stare in fabbrica, anzi, dirigere una
fabbrica, significa molte altre cose diverse e lontane dalla chimica:
assumere e licenziare personale; litigare col padrone, con clienti e con
fornitori; far fronte a incidenti, ed essere chiamati al telefono, magari di
notte o durante una cena da amici; occuparsi di noiose faccende
burocratiche; e tanti altri "soul destroying tasks", "compiti che
distruggono l'anima". Tutti questi affari sono brutalmente incompatibili con
lo scrivere, che esige una certa pace dell'anima; percio' mi sono sentito
veramente nato una seconda volta quando ho raggiunto l'eta' della pensione e
ho potuto dare le mie dimissioni, rinunciando cosi' alla mia anima numero
uno.
*
- Philip Roth: Il seguito di Se questo e' un uomo e' La tregua. Il tema e'
il tuo viaggio di ritorno da Auschwitz in Italia. C'e' davvero una
dimensione mitica in questo tormentato viaggio, specialmente nella storia
del tuo lungo periodo di "gestazione" in Unione Sovietica, in attesa di
essere rimpatriato. Cio' che sorprende ne La tregua - che avrebbe potuto, e
comprensibilmente, essere stata improntata al lutto, a un inconsolabile
disperazione - e' l'esuberanza. La tua riconciliazione con la vita si compie
in un mondo che a tratti pareva simile al caos primordiale. Eppure tu vi
appari straordinariamente interessato a tutto, pronto a ricavare da tutto
divertimento e cultura al punto che mi sono domandato se nonostante la fame,
il freddo e le ansie, persino nonostante i ricordi, davvero tu abbia mai
vissuto mesi migliori di quelli che definisci "una parentesi di
disponibilita' illimitata, un provvidenziale ma irripetibile regalo del
destino". Tu sembri una persona la cui esigenza piu' profonda e'
innanzitutto di aver radici - nella professione, nella razza, nel luogo,
nella lingua; eppure, quando ti sei trovato piu' solo e sradicato di quanto
si possa essere hai considerato quella condizione un "regalo".
- Primo Levi: Un amico, ottimo medico (era fratello di Natalia Ginzburg.
conosci i suoi libri? E' una Levi anche lei, ma non mia parente (3)), mi ha
detto molti anni fa: "I tuoi ricordi di prima e di dopo sono in bianco e
nero; quelli di Auschwitz e del viaggio di ritorno sono in technicolor".
Aveva ragione. La famiglia, la casa e la fabbrica sono cose buone in se', ma
mi hanno privato di qualcosa di cui ancora oggi sento la mancanza, cioe'
dell'avventura. Il mio destino ha voluto che io trovassi l'avventura proprio
in mezzo al disordine dell'Europa devastata dalla guerra.
Tu sei del mestiere, e sai come vanno queste cose. La tregua e' stato
scritto quattordici anni dopo Se questo e' un uomo; e' un libro piu'
consapevole, piu' letterario, e molto piu' profondamente elaborato, anche
come linguaggio. Racconta cose vere, ma filtrate. E' stato preceduto da
innumerevoli versioni verbali: intendo dire, ogni avventura era stata da me
raccontata molte volte a persone di cultura diversa (spesso a ragazzi delle
scuole medie), e aggiustata a poco a poco in modo da provocare le reazioni
piu' favorevoli. Quando Se questo e' un uomo ha cominciato ad avere
successo, e io ho cominciato a intravedere per me un futuro come scrittore,
mi sono accinto alla stesura. Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i
miei futuri lettori; percio' ho dato enfasi agli episodi piu' strani, piu'
esotici, piu' allegri: soprattutto, ai russi visti da vicino. Ho regalato
all'inizio e alla fine del libro i tratti, come tu dici, di lutto e di
disperazione inconsolabile.
A proposito del radicamento, della "rootedness": e' vero che io ho radici
profonde, e che ho avuto la fortuna di non esserne stato privato: la mia
famiglia e' stata in buona parte risparmiata dalla strage, e oggi io
continuo ad abitare addirittura nell'alloggio dove sono nato. La scrivania
su cui scrivo sta esattamente nel luogo in cui, secondo la leggenda, sono
stato partorito. Percio', quando mi sono trovato sradicato quanto piu' non
si potrebbe, ho certo provato sofferenza; ma questa e' stata compensata dal
fascino dell'avventura, dagli incontri umani, dalla dolcezza della
"convalescenza" dal morbo di Auschwitz. La mia "tregua" russa, nella sua
realta' storica, ha cominciato ad apparirmi come un dono solo molti anni
dopo, quando l'ho depurata rivivendola e scrivendola.
*
- Philip Roth: Se non ora, quando? e' diverso da tutto cio' che ho letto di
tuo. Pur essendo puntualmente tratto da reali eventi storici, il libro e'
presentato come un puro racconto picaresco delle avventure di un piccolo
gruppo di partigiani ebrei di origine russa e polacca, che tendono imboscate
ai tedeschi dietro le loro linee sul fronte orientale. Gli altri tuoi libri
hanno forse trame meno "fantasiose", ma mi hanno colpito per una maggiore
fantasia sul piano tecnico. L'impulso creativo che sta alle spalle di Se non
ora, quando? da' l'impressione di essere piu' limitato, piu' parziale - e
quindi meno liberatorio per lo scrittore - di quelli che hanno dato vita
alle opere autobiografiche. Mi domando se tu concordi su questo: se
scrivendo dell'audacia degli ebrei che si ribellarono, tu abbia sentito di
fare un qualcosa che bisognava fare, se ti sentissi responsabile di una
rivendicazione politica e morale che non poteva comparire altrove, anche
quando il tema e' il tuo destino, inconfondibilmente ebraico.
- Primo Levi: Se non ora, quando? e' un libro che ha avuto un destino
imprevisto. I motivi che mi hanno spinto a scriverlo sono diversi: li
enumero qui per ordine di importanza.
Avevo fatto una specie di scommessa con me stesso: dopo tanta autobiografia
aperta o mascherata, sei o non sei uno scrittore a pieno titolo, capace di
costruire un romanzo, di creare personaggi, di descrivere ambienti in cui
non sei stato? Mettiti alla prova!
Volevo divertirmi a scrivere un "western" ambientato in uno scenario poco
comune; volevo divertire i miei lettori raccontando loro una storia
sostanzialmente ottimistica, piena di speranza, a tratti allegra, anche se
sullo sfondo della strage.
Volevo rompere un luogo comune ancora prevalente in Italia: un ebreo e' un
mite, uno studioso (pio o laico), una persona ribelle, umiliata che ha
subito secoli di persecuzioni senza mai ribellarsi. Mi sembrava doveroso
rendere omaggio a quegli ebrei che in condizioni disperate avevano trovato
la forza e l'intelligenza di resistere ai nazisti.
Nutrivo anche l'ambizione di essere il primo scrittore italiano a descrivere
il mondo yiddish (4); volevo insomma "utilizzare" la mia popolarita' in
Italia per far giungere fra le mani di molti lettori un libro che avesse
come soggetto la cultura, la lingua, la mentalita' e la storia,
dell'ebraismo ashkenazita, che in Italia e' virtualmente sconosciuta.
Questi motivi sono stati riconosciuti come validi in misura diversa nei
diversi paesi in cui il libro e' stato pubblicato. In Italia esso ha avuto
pieno successo, sotto tutti i suoi aspetti. Lo stesso si puo' dire per
l'Inghilterra e la Germania, almeno a giudicare dalle prime reazioni del
pubblico e della critica. In Francia e' passato sostanzialmente inosservato.
Negli Stati Uniti, come sai, ha avuto un successo moderato: la sua
Yiddishkeit e' stata giudicata risaputa; un soggetto insomma troppo noto
perche' ancora se ne parli. Inoltre, il lettore americano si e' accorto di
un fatto vero, che cioe' si tratta di un libro "yid" scritto da un autore
che "yid" non e', ma che ha cercato di diventarlo studiando testi e
ascoltando racconti.
Personalmente io sono soddisfatto di questo libro, soprattutto perche' mi
sono divertito molto nel progettarlo e nello scriverlo. Per la prima e unica
volta nella mia carriera di scrittore, ho avuto l'impressione (quasi
un'allucinazione) che i miei personaggi fossero vivi, mi stessero intorno, e
mi suggerissero loro stessi le loro avventure e i loro dialoghi. L'anno che
ho impiegato a scriverlo e' stato un anno felice; percio', indipendentemente
dal risultato, per me questo libro e' stato liberatorio.
*
- Philip Roth: Parliamo ora della fabbrica di vernici. Oggigiorno molti
scrittori hanno fatto gli insegnanti, altri i giornalisti, e la maggior
parte degli scrittori sopra i 50 anni hanno prestato servizio militare; per
questo o quel paese. C'e' un elenco impressionante di scrittori che hanno
esercitato la medicina e contemporaneamente fatto libri, e altri che sono
stati uomini di chiesa. T. S. Eliot era editore, e, come noto, Wallace
Stevens (5) e Franz Kafka lavoravano per grandi societa' assicurative. Che
io sappia, solo due scrittori di rango sono stati dirigenti di una fabbrica
di vernici: tu a Torino, in Italia, e Sherwood Anderson (6) a Elyria,
nell'Ohio. Anderson dovette abbandonare la fabbrica di vernici (e la
famiglia) per diventare scrittore; sembra invece che tu sia diventato lo
scrittore che sei oggi rimanendovi, e continuandovi la tua carriera. Mi
domando se ti consideri addirittura piu' fortunato - e magari piu'
agguerrito per scrivere - di quanti tra noi non hanno alle spalle una
fabbrica di vernici e tutto quanto comporta quel tipo di contesto.
- Primo Levi: Sono approdato all'industria delle vernici per puro caso. Mi
sono occupato piuttosto poco di vernici propriamente dette: la nostra
fabbrica, fin dai primi anni, si e' specializzata nella produzione di smalti
isolanti per conduttori elettrici di rame. A quel tempo contavo fra i trenta
o quaranta specialisti del mondo in questo ramo: di filo smaltato sono fatti
gli animali che hai visto nel mio studio.
Onestamente non conoscevo il nome di S. Anderson. Ho letto ieri una sua
breve biografia: no, a me non sarebbe mai venuto in mente di abbandonare la
famiglia e la fabbrica per mettermi a fare lo scrittore a tempo pieno come
ha fatto lui; avrei avuto paura del salto nel buio, ed oltre tutto avrei
perso il diritto alla pensione.
Al tuo breve elenco di scrittori verniciai devo pero' aggiungere un terzo
nome, quello di Italo Svevo (1861-1928), ebreo triestino convertito al
cattolicesimo: Svevo fu direttore commerciale di una fabbrica di vernici di
Trieste, la Societa' Veneziani, che apparteneva a suo suocero e che si e'
sciolta pochi anni fa. Fino al 1918 Trieste apparteneva all'Austria, e
questa Societa' era famosa perche' forniva alla Marina austriaca una
eccellente vernice antivegetativa per le carene delle navi da guerra; dopo
il 1918 Trieste divenne italiana, e la vernice venne fornita alla Marina
italiana e a quella inglese. Per trattare con la British Admiralty Svevo
prese lezioni d'inglese da James Joyce, che a quel tempo insegnava a
Trieste; Joyce divenne amico di Svevo, e lo aiuto' nella pubblicazione delle
sue opere.
La vernice accennata si chiamava Moravia. La coincidenza con lo pseudonimo
del noto scrittore italiano non e' casuale: sia l'industriale triestino, sia
lo scrittore romano ricavarono questo nome dal cognome di una loro comune
parente dal lato di madre. Scusami per questo pettegolezzo che forse e' poco
pertinente.
Si', come accennavo prima, non ho rimpianti. Non credo di aver sprecato il
mio tempo dirigendo una fabbrica (di vernici o di qualsiasi altra roba): ho
acquistato altre esperienze preziose, che si sono addizionate e combinate
con quelle di "Auschwitz".
*
Note
1. Le leggi razziali sono state introdotte in Italia nel 1938.
2. Dal romanzo omonimo (1719) di Daniel Defoe che narra la storia di un
naufrago su un'isoletta deserta alle foci dell'Orinoco e del modo ingegnoso
con cui riesce a procurarsi, poco a poco, tutto cio' che gli e' necessario
per la sopravvivenza.
3. Natalia Ginzburg (1916-1991) scrittrice; tra le sue opere: La strada che
va in citta' (1942), Le voci della sera (1961) e Lessico famigliare (1963),
dedicato all'ambiente ebraico torinese.
4. Lingua e cultura degli ebrei ashkenaziti dell'Europa centrale e
orientale; i piu' famosi narratori yiddish sono Schalom Alechem, H. Leivick,
I. J. Singer; la cultura yiddish, distrutta dalla persecuzione nazista, e'
rifiorita negli Usa, in particolare nell'opera di narratori come Saul Bellow
e attori e registi come Woody Allen.
5. Wallace Stevens (1879-1955) poeta americano, autore di Harmonium (1923) e
altre raccolte.
6. Sherwood Anderson (1876-1941), scrittore americano, autore di Racconti
dell'Ohio (1919) e di Povero bianco (1920).

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