Nonviolenza. Femminile plurale. 230



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 230 del 15 gennaio 2009

In questo numero:
1. Simonetta Piccone Stella: Sul movimento delle donne in Italia...
2. Alcuni estratti da "Come nasce il sogno d'amore" di Lea Melandri
3. Alcuni estratti da "Maglia o uncinetto" di Luisa Muraro

1. RIFLESSIONE. SIMONETTA PICCONE STELLA: SUL MOVIMENTO DELLE DONNE IN
ITALIA...
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo il seguente contributo di Simonetta Piccone Stella al Convegno
in onore di Bianca Beccalli, tenutosi presso l'Universita' degli Studi di
Milano il 19 dicembre 2008]

Il saggio sul movimento delle donne in Italia, pubblicato dalla "New Left
Review" nel 1994, e' una delle ricostruzioni piu' complete ed esaurienti del
neofemminismo degli anni Settanta, sul quale finora sono stati proposti solo
resoconti in scala ridotta e con intento piu' documentario che critico. La
prospettiva storica e comparativa che lo inquadra e' preziosa: possiamo
afferrare il bandolo del fenomeno femminismo fin dalle sue prime interpreti
nell'Ottocento e fase per fase veniamo guidati fino agli anni '90. I leit
motiv dell'analisi sono, per dichiarazione dell'autrice, due: la relazione
del femminismo con le forze politiche della sinistra da una parte e il
dilemma/binomio tra la prospettiva dell'uguaglianza e quella della
differenza, che segna tutta la vicenda del femminismo, dall'altra.
Bianca Beccalli e' una partigiana della prospettiva ugualitaria. Ha ideato e
coordinato un master per le pari opportunita' nell'universita' milanese e
fondato un centro di studio e di riflessione sulle problematiche di genere.
In questa sua posizione, in questa sua scelta io mi riconosco, con qualche
riserva.
Vengo al saggio. Le radici del discorso orientato alla differenza vengono
individuate in ultima analisi nella cultura cattolica del nostro paese e
nella tradizionale devozione italiana alla figura della madre. Ma si
trascura in questo modo una spinta piu' profonda: la reazione di rifiuto
anzi di rigetto per l'esperienza emancipazionista dalla quale ci si voleva
distaccare radicalmente. Non a caso. Fino alla vigilia degli anni Settanta
lo spirito e l'intento della filosofia ugualitaria promossa dalle donne di
sinistra e dall'Udi conducevano a: la grande meta luminosa della parita'
alla quale le donne dovevano arrivare con fatica, arrancando - un
traguardo-premio, non un diritto; l'autonomia - che veniva chiamata cosi' ma
che segnalava soltanto l'accettazione avvenuta nel mondo maschile, la
promozione della donna a maschio; la doppia fatica - nel mondo produttivo e
nel mondo familiare - che veniva presentata come un dettaglio banale di
buona organizzazione, bastava volerlo - mentre oggi la tematica della
conciliazione, se non altro, e' al centro di una florida letteratura
specialistica; infine, un silenzio assoluto sulla sessualita' e un invito
continuo alle donne a migliorarsi, mai ad esprimersi. E' contro questo
obiettivo ugualitario mortificante che si e' coagulato il discorso sulla
differenza. Molti anni fa, in un lavoro, mi e' capitato di indagare su
alcune biografie di intellettuali emancipate - ricordo qui le redattrici dei
"Quaderni Rossi". Nelle loro testimonianze l'esperienza dell'emancipata era
quelle di una donna vissuta nell'ombra, della "compagna di", della "moglie
di", cui si chiedeva di sentirsi miracolosamente alla pari con gli
intellettuali maschi per pura virtu' emulativa, senza mai parlare di se' o
partire da se'. L'espulsione di questa generazione di emancipate e' stata
compiuta senza molto guardare a cio' che valeva la pena conservare e a cio'
che invece era opportuno scartare di quella esperienza. E' il fenomeno della
smemoratezza che Mannheim considera intrinseco a ogni ricambio
generazionale, soprattutto quando una generazione innovativa afferma il suo
stile contro quella precedente. Bianca si stupisce un po' troppo che le
conquiste del sindacato degli anni '60, favorevoli all'uguaglianza
salariale, non abbiano lasciato traccia nella memoria del movimento. Tutto
il suo saggio e' percorso da uno strisciante rammarico per la dismissione
ingrata da parte delle donne dei vantaggi ottenuti dall'azione sindacale.
Ma il valore del diverso e' questo: io valgo anche se non sono pari e
comunque ragiono a partire da me. Questo nuovo tema - sono diversa e
comunque parto da me - e' la molla che ha impresso impulso al movimento
negli anni '70, ed e' probabile che senza la proclamazione della differenza
un movimento femminista non sarebbe neanche sorto, non si sarebbe neanche
formato.
E' vero che nel corso del tempo l'ostilita' verso l'emancipazione ha assunto
la valenza simbolica di una scelta identitaria, orientata piu' a una
richiesta di cambiamento personale e di riconoscimento che a un obiettivo di
giustizia sociale. A ragione il saggio critica il discorso della differenza
quando le sue portavoci trascurano di impegnarsi nelle occasioni concrete
nelle quali le donne potrebbero ottenere dei guadagni reali, quando cioe' la
proiezione ideale in un'identita' diversa conduce a perdere di vista i
cambiamenti materiali nelle condizioni di vita e di presenza nella sfera
pubblica e politica. Chiamarsi fuori dalle regole del gioco - the rules of
the game come le chiama Bianca - e' un grosso rischio.
Il contrasto tra gli obiettivi ugualitari e quelli orientati alla differenza
ieri si presentava in modo abbastanza schematico, oggi il contrasto e' piu'
complesso. Si trattava di proteggere le fragilita' femminili nei luoghi di
lavoro, ieri, invece di lasciare le donne rischiare la competizione in campo
aperto. Oggi l'alternativa si pone tra una considerazione complessiva delle
donne come datrici di cura e riproduttrici di vite umane - e quindi
portatrici nella sfera pubblica di valori specifici della sfera privata - e
un confronto come semplici lavoratrici nella sfera pubblica con le
competenze e le capacita' maschili. E' come se oggi il dilemma tra
uguaglianza e differenza si fosse allargato in una prospettiva piu'
complessa, in cui il lavoro di cura e il lavoro per il mercato dovrebbero
pesare congiuntamente nella valutazione dell'uguaglianza, perche' le
condizioni mutate del contesto, in cui spicca l'elevamento esplosivo delle
credenziali formative e di istruzione raggiunto dalle donne, non sono
sufficienti a calibrare il confronto tra i due sessi sul mercato del lavoro.
I programmi di pari opportunita', in evoluzione costante ma lenta, non
sempre tengono conto di questa nuova complessita'. Ancora l'impressione che
se ne ricava e' di una marcia femminile dentro un mondo dominato dalle
regole maschili.
A questo proposito e' utile una distinzione che si puo' intravedere nella
figura della madre. Vi sono piu' modi di intendere il suo ruolo. Uno e'
quello mitizzato non solo dalla cultura cattolica e dalla tradizione
familistica italiana ma anche sublimato dalla genealogia tutta al femminile
del pensiero delle differenza; uno diverso e' quello che si richiama
all'etica della cura di Martha Nussbaum, piu' ampio e universalistico: qui
la madre e' la scorciatoia simbolica per intendere il bisogno di cura di
tutti gli esseri umani nel corso della loro vita e nelle loro relazioni.
Sono d'accordo con Bianca che l'oscillazione tra uguaglianza e differenza
rappresenti una linfa vitale nel dibattito tuttora in corso. Tanto piu' che
le due prospettive hanno in parte modificato i loro profili e ritoccato i
loro obiettivi pur senza comunicarselo apertamente. La prospettiva che pone
l'enfasi sulla differenza sessuale ha acquistato la consapevolezza che
l'ingresso del genere femminile nel lavoro per il mercato e' un fatto
incontrovertibile, che sociologicamente non si puo' negare, e che ne vanno
seguite le sorti nel nuovo ordine produttivo postfordista con molta
attenzione. E' un valore femminile che il femminismo della differenza ha
riconosciuto come tale solo in tempi recenti, cosi' come ha riconosciuto
l'importanza di disporre di una rappresentanza femminile nelle istituzioni
politiche e nelle assemblee politiche nazionali.
Mentre si parla meno di emancipazione nello schieramento ugualitario, piu'
di diritti, di cittadinanza, di parti opportunita'. Il prezzo pagato a suo
tempo per una condivisione del tragitto trainato dagli uomini e' stato alto.
La lezione appresa ha fatto si' che il suo approccio oggi sia meno rigido e
meno ortodosso. Il filone ugualitario ha ampliato la propria visione del
femminile. L'ideale maschile della vita pubblica e produttiva puo' venire
riformulato ed entrare in sincronia con i mutamenti profondi avvenuti nella
sfera privata. Si e' accettata l'esistenza di voci diverse, secondo la
lezione di Carol Gilligan, e la possibilita' che un pensiero teorico non
falso neutro bensi' consapevole del suo statuto di diversita' maschile
collabori con quello femminile nel disegno di una convivenza sociale
diversa. Cio' non prelude a una convergenza ma ad una imprevedibile
evoluzione delle rispettive diversita'. Si captano per il momento segni di
un'influenza reciproca.

2. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "COME NASCE IL SOGNO D'AMORE" DI LEA MELANDRI
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di Lea
Melandri, Come nasce il sogno d'amore, Bollati Boringhieri, Torino 2002
(prima edizione: 1988)]

Indice del volume
I racconti del gelo; Sibilla Aleramo. Un pudore selvaggio, una selvaggia
nudita'; Il tempio aperto; La nascita di un dio; Il sogno e la mischia;
Sotto la specie dell'eterno; Pellegrinaggio mistico; Il gelo, l'estasi; E la
"mestissima" liberta'; Dietro il velo; Il lungo sonno e la vita; Il sole di
Zarathustra; Il fanciullo e il profeta; L'enigma di Freud.
*
Da pagina 34
Se la totalita' appagata e la miseria hanno messo radici cosi' profonde e
durature nell'immagine che le donne si sono fatte di se stesse, e' perche'
il sogno dell'uomo e' andato a depositarsi su un altro sogno, che in parte
lo riproduce, in parte se ne distacca.
Dalla mancanza si e' atteso inutilmente che nascesse un desiderio di
ribellione, dalla pienezza un segno di forza propria.
Cio' che di rado si e' lasciato vedere, pur essendo sotto gli occhi di
tutti, e' il paradosso che lega insieme la vita e la morte, la sottomissione
e il dominio, il dolore e la gioia; o l'illusione con cui le donne innalzano
talvolta la loro autonomia come una fortezza, senza riconoscere il signore
che la abita.
La dualita' che le tiene ai margini del vivere sociale, che riconosce in
loro il singolare privilegio di far nascere la vita, ma non il diritto di
percorrerla, poteva essere superata solo attraverso il sogno onnipotente di
un ricongiungimento che non ubbidisce a nessuna legge reale e a nessuna
scienza, che mescola tra loro gli opposti e li confonde, che ignora la
concretezza, perche' non gli e' stato dato il modo di conoscerla.
La difesa che gli uomini hanno posto al loro luogo di origine, la porta che
doveva essere aperta per garantire loro il ritorno, sarebbe restata un mito,
se un altro pudore, nato dalla necessita', non si fosse alzato a proteggere
l'unica esistenza che sia stata concessa alle donne.
Forse non e' un caso che una scrittrice come Sibilla Aleramo, dopo aver
guardato attentamente al di la' di quel velo che separa la vita privata da
quella pubblica, l'amore dalle altre relazioni sociali, e dopo aver cercato,
per tutta la vita, di dar voce ai pensieri che molte donne preferirebbero
tenere nascosti, aspetti ancora di essere scoperta.
La spudoratezza, che le ha permesso di mostrare i sogni degli uomini e delle
donne, e di innalzarli al di sopra dell'ordine sociale, come segno
dell'adolescenza del mondo, si trasforma, quasi inavvertitamente, in una
resistenza tenace a misurare la distanza che separa l'illusione dalla
realta'.
*
Da pagina 40
Il "sogno grandioso" e', ancora una volta, un'unita' a due, due diversi,
maschile e femminile, che si compongono in armonia, anche se si presentano
in posizione rovesciata rispetto alla coppia d'origine. La reciproca
appartenenza e' l'essere indispensabili l'uno per l'altra, l'essere il
figlio tutto in lei e lei tutta nel figlio. Questa singolare esperienza
produce una "gioia grave, quasi mistica": mistica e' la sparizione di un
essere dentro un altro, mistica e', inoltre, l'idea di poter trasformare la
vita in scrittura. Tutti gli amori successivi di Sibilla si modelleranno in
modo analogo: fantasia di darsi totalmente per riprendersi, di "foggiare"
l'altro per "foggiare" se stessa, secondo quella che e' la sua immagine
ricorrente, l'uomo grande e forte che ha il dominio della vita, ingentilito
dalla sensibilita' poetica e dalle "fibre materne" dell'essere femminile.
L'idea di perfezione e di felicita', che cerca di diventare vita, parola che
vuole farsi corpo, e' la pretesa di un dio, ma anche il sogno onnipotente di
un bambino. Questa specie di trasfigurazione ha bisogno di momenti di
esaltata solitudine, ma le montagne silenziose e i deserti sono corpi troppo
lontani e freddi per chi non ha conosciuto il calore di un corpo materno. Lo
slancio mistico avra' sempre per Sibilla una partenza concreta, che e'
l'amore e l'esistenza delle persone a cui e' diretto il suo sforzo creativo,
prima di rivelarsi, essenzialmente, come amore e creazione di se'.
*
Da pagina 58
Come Freud si arresta, quando pensa di aver individuato nella "coazione a
ripetere", piu' forte del principio del piacere, la "proprieta' universale
delle pulsioni, e forse della vita organica in generale", cosi' Sibilla
crede di aver trovato la sua legge e il suo ordine, fuori dal modo comune di
sentire, nella vicenda di vita e morte, di gioia e di dolore, che regola
l'esistenza dei singoli e della storia.
Dopo aver costretto la volonta' e la conoscenza al massimo sforzo, se ne
sbarazza con rapidita' e senza avvertire alcuna contraddizione. Si inchina
davanti al potere di accadimenti che sembrano eterni, necessari e
imperscrutabili, pur continuando a immaginare nel futuro potenzialita'
creatrici e rigeneratrici da parte degli esseri umani.
In realta' non si tratta di una resa: innalzando come legge, anzi come legge
della donna, impulsi di cui aveva conosciuto la violenza e la necessita',
Sibilla tenta di volgere in attivo quel destino femminile di miseria ed
esaltazione, saggezza e follia, di cui le donne sono generalmente
protagoniste passive e inconsapevoli. Aderendo alla corrente sotterranea
della vita, che scorre sotto il tessuto sociale, essa crede di aver toccato
la sua essenza piu' profonda. Non pensa alla stranezza e al paradosso di una
legge che si accanisce di preferenza contro le persone che dovrebbe
sostenere e confortare.
*
Da pagina 69
In sintesi, alcuni tratti essenziali dell'esperienza umana e letteraria di
Sibilla: la sofferenza, la scrittura che si fa espressione della vita, la
grandiosita' eroica con cui viene esaltato il dolore. Sibilla si innalza,
ogni volta, splendidamente, sugli abbandoni, li desidera e li anticipa,
quasi quanto la gioia che dovrebbe venirle dal ricongiungimento amoroso. Si
fa avvolgere dalla sofferenza come da una luce di miracolo che la pone al di
sopra del tempo e delle vicende quotidiane. Cosi' nasce la sua chiesa
narcisistica dove e' lei stessa ad essere compresa e a comprendere, dove si
realizza l'unita' perfetta di se' con se', o, se guardiamo piu' lontano nel
passato, di se' con la madre ideale.
*
Da pagina 96
Il gelo, l'estasi
Dotata di intelligenza, cultura e capacita' creative, oltre che di un forte
senso di se', Sibilla si viene a trovare, di necessita', piu' vicina agli
uomini che alle donne. Della sua "tempra virile" hanno bisogno quelli che
l'avvicinano e che traggono da lei nutrimento per le loro capacita', anche
se finiscono per accontentarsi del calore che viene dal suo corpo. Una volta
rafforzati, moralmente e spiritualmente, i campi tornano a dividersi: l'uomo
afferma la sua diversita' e la legge che lo lega ai suoi simili, tutto cio'
che lo porta fuori da una casa, lontano da una donna e da quel "mondo
interiore" che Boccioni voleva buttare dalla finestra, per dedicarsi
esclusivamente ai suoi colori.
Ma come Boccioni, sprezzante della sentimentalita' e dell'amore, non puo'
nascondere una madre che, nella stanza attigua allo studio, cucina per lui,
cosi' e' per tutti gli altri: rifiutano l'interezza, essere insieme vita e
pensiero, sentimento e ragione, perche' possono raggiungere lo stesso
equilibrio attraverso la separazione e la divisione dei compiti.
L'uomo puo' essere adulto perche' una donna, in un'altra stanza, conforta il
suo bisogno di infanzia, puo' mostrarsi forte e attivo perche' ha chi
protegge la sua debolezza e i suoi abbandoni. Maschile e femminile, corpo e
mente, natura e storia, e' cio' che egli ha artificiosamente separato per
poter ogni volta nascere e tornare bambino, essere la madre ed essere
diverso da lei. In questa altalena di opposti, la donna si inserisce
forzatamente, il suo bisogno di globalita' e di interezza e'
l'impossibilita' di collocarsi o solo su un versante o solo sull'altro: ne'
solo natura ne' solo cultura, ne' solo maschio ne' solo femmina, nel
significato che l'uomo ha dato ai suoi opposti desideri, essa puo' solo
tentare di metterli insieme in uno sforzo creativo che e' l'illusione di far
nascere se stessa. Ma perche' cio' avvenga, e' necessaria una strettissima
unita' a due, silenzio e solitudine attorno e una garanzia d'amore totale,
che si rompe appena l'uomo si profila come irriducibilmente diverso e
staccato, incapace dell'attenzione e della tenerezza di una madre,
intollerante della posizione di figlio, se diventa un impedimento alla sua
vita sociale.
E' cosi' che Sibilla deve constatare ogni volta di aver partorito non se
stessa, ma uno che sara' uomo altrove, fuori casa, con altre donne.

3. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "MAGLIA O UNCINETTO" DI LUISA MURARO
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Luisa Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla
inimicizia tra metafora e metonimia, Manifestolibri, Roma 2004 (prima
edizione: 1981)]

Indice del volume
Prefazione. La parola del contatto, di Ida Dominijanni; 1. Maglia o
uncinetto. Metafora e metonimia non sono sorelle gemelle; Loro concorrenza
nella produzione simbolica; Pacificazione teorica; Il grado zero; La
passione del significante secondo Lacan; Nell'orfanotrofio della ragione; 2.
Un corpo di qua, un corpo di la'. L'esigenza di avere un'anima; Una molla
rotta; La narratrice infedele; La divisione del lavoro nella produzione
simbolica; Si puo' sempre imitare?; La traversata mescolatrice; 3. Difesa
dello schema povero. La matrice senza corpo e senza tempo; Letteralita'
ossessiva; Dal corpo senza legge all'ordine simbolico, ordinatamente; La
domanda senza risposta; Sangue e caffe'; 4. Piacere e sapere di essere
parte. Corpo che irrompe e corpo che tesse; La parola non rompe l'unita'
dell'esperienza; La complicita'; L'amministrazione delle metafore;
L'inversione del punto di vista; Il linguaggio e' zoppo.
*
Da pagina 51
Maglia o uncinetto
Metafora e metonimia non sono sorelle gemelle
Riprendendo una rinomata teoria esposta da Roman Jakobson negli anni
Cinquanta, diro' che parlare e' come lavorare a maglia. Per fare la maglia
occorrono almeno due ferri. Quando si parla, dice Jakobson, si opera su due
assi fondamentali: su uno si selezionano le unita' linguistiche, sull'altro
le si combina tra loro. Un testo sarebbe dunque una combinazione di segni
selezionati, il suo senso essendo determinato dall'incrociarsi dei due assi.
Uno, quello delle selezioni, e' costituito da tutti i segni che sono
associati al segno che compare e che non compaiono nel testo per il fatto
che compare proprio quello. Saussure diceva: e' la sfera dei rapporti in
assenza, detta anche paradigma. L'altro sarebbe il sintagma, l'asse dei
rapporti in presenza, dei segni che compaiono a costituire il testo
combinandosi tra loro in vari modi.
Fin qui niente di nuovo rispetto a Saussure. La teoria di Jakobson ha avuto
risonanza per due ulteriori sviluppi. Primo, Jakobson ha avanzato l'ipotesi
che i due assi corrispondano ai processi primari di ogni produzione
simbolica. Secondo, egli ha ravvisato in due figure retoriche, la metafora e
la metonimia, i procedimenti che caratterizzano, dal punto di vista
semantico, l'asse delle selezioni e quello delle combinazioni. Ha parlato
percio' di direttrice metaforica per l'asse delle selezioni e di direttrice
metonimica per quello delle combinazioni.
La teoria di Jakobson, oltre a suscitare un ritorno di interesse per la
retorica, e' stata ripresa anche fuori dalla linguistica. Lacan l'ha
riconosciuta coincidente con la sua lettura di Freud, dell'inconscio che e'
linguaggio, assicurando cosi' a metafora e metonimia una specie di
popolarita'. Ormai formano coppia fissa, non s'incontra mai l'una senza
l'altra e io credo che molti non le distinguano piu' tanto bene - complice
un meccanismo tipicamente metonimico che sbeffeggia le operazioni teoriche,
come risultera' chiaro dal seguito.
Una simile confusione e' proprio all'opposto di quello che aveva in mente
Jakobson il quale intendeva differenziare massimamente due figure retoriche
tradizionalmente poste vicine. Vi ha contribuito, credo, il fatto che la sua
teoria e' stata amputata di una parte importante, quella in cui si dice che
polo metaforico e polo metonimico si trovano in un rapporto che non e' di
pacifica complementarita' ma di rivalita' concorrente. La quale rivalita'
agisce nella produzione simbolica potendo manifestarsi nei prodotti con la
prevalenza dell'uno o dell'altro polo. In altre parole, il modo della
produzione simbolica si determina storicamente per una tensione tra due
principi difformi che l'analisi teorica dichiara, quanto a se',
indecidibile. La tensione ha diverse possibili soluzioni che lo studioso
rileva storicamente. La sua scienza entra nel gioco tra i due opposti
principi simbolici, ma non ha il potere di deciderlo.
Di questo spessore storico non c'e' quasi traccia negli sviluppi avuti dalla
teoria di Jakobson. E questo ha voluto dire che di fatto si e' ristabilito
il tradizionale primato della metafora. Infatti lo spazio simbolico si
drammatizza storicamente, nel discorso di Jakobson, per la scoperta di una
produzione di senso che puo' svilupparsi prevalentemente (e perfino
esclusivamente) su quella che lui chiama la direttrice metonimica, risorsa
occulta e occultata della produzione significante. Per spiegare meglio
questo punto occorre riprendere l'esposizione quel tanto che serve a
chiarire che cosa sono metafora e metonimia, molto semplicemente.
Dunque, Jakobson chiama direttrice metaforica l'asse delle selezioni,
metonimica quella delle combinazioni. La denominazione si giustifica avendo
presente che cosa sono e in che cosa differiscono quelle due figure
retoriche. Hanno in comune di essere espressioni che significano qualcosa di
diverso dal loro senso; proprio prendendo il posto di un'espressione che
sarebbe quella normale, abituale. Parlare di "rivoluzione" per dire un
cambiamento radicale della societa' era una metafora quando l'espressione
veniva usata propriamente per indicare un certo movimento dei corpi, in
particolare di quelli celesti. Dire di una donna che "ragiona con l'utero"
per dire che ragiona seguendo piu' le proprie emozioni che la logica, e' una
metonimia in quanto all'utero si puo' attribuire ed e' stato attribuito il
potere di turbare il pensiero razionale. In base ai due esempi e' facile
scorgere la differenza tra metafora e metonimia. Tra il moto dei corpi
celesti e una radicale sovversione sociale, quelli che inventarono la
metafora rivoluzionaria non supponevano che ci fosse un qualche collegamento
materiale bensi' una somiglianza internamente percepibile. La metafora
rinforza la percezione di una somiglianza, anzi a volte la determina. Per
questo e' stata considerata la figura poetica per eccellenza, perche' fa
indefinitamente variare l'immagine delle realta' inventando collegamenti che
una mente prosaica non avrebbe mai immaginato. Senza escludere la poesia,
c'e' da dire che il procedimento metaforico ha ben altre funzioni. Esso, in
quanto ci fa superare il livello descrittivo dell'esistente e la
particolarita' dell'esperienza, sostiene ogni impresa di spiegazione,
interpretazione e progettazione. Le teorie, comprese quelle politiche, si
appoggiano su di esso per darci una rappresentazione unitaria e generale dei
fatti che, nell'esperienza concreta, possono presentarsi scuciti,
frammentari, o che intrattengono tra loro rapporti di cui la teoria riesce a
dimostrare che sono irrilevanti.
*
Da pagina 77
Nell'orfanatrofio della ragione
Finisce paradossalmente che proprio il discorso di Lacan costringa a pensare
che tra l'ordine simbolico e l'ordine sociale esista una complicita' non
chiarita: servitu' materiali che diventano esigenze logiche e, viceversa,
condizioni della produzione simbolica che si traducono in imposizioni
sociali.
Una troppo felice coincidenza, non c'e' dubbio, di cui e' un po' difficile
capire se sia integralmente effetto di uno straordinario exploit teorico o
se non c'entri anche qualche manipolazione. I seguaci di Lacan vedono
l'exploit, i critici cercano il trucco.
Secondo me non si tratta esattamente ne' dell'una ne' dell'altra cosa.
Quando Lacan teorizza che tutto si trova preso nelle macchinazioni del
linguaggio, le istituzioni sociali come i comportamenti individuali o i
rapporti sessuali fino alle piu' labili emozioni, nel loro svolgimento
considerato normale come in quello deviante, non c'e' quasi bisogno che
abbia ragione in cio' che dice poiche' con il suo discorso non fa che
rendere vero cio' che comunque si sta verificando. Da Freud a Lacan, senza
escludere gli sviluppi intermedi, la psicanalisi si e' tenuta vicina, forse
come nessun altro movimento o scuola di pensiero, al processo di
disgregazione del corpo sociale in una somma di individui e della sua
reintegrazione a forza di parole e immagini.
Alcuni pensano che la frammentazione della societa' in atomi individuali
dipenda dal modo di produzione capitalistico che comporta una
socializzazione basata sullo scambio delle merci e non sul lavoro. Questa
tesi si trova sviluppata da Sohn-Rethel in Lavoro manuale e lavoro
intellettuale, dove si legge, tra l'altro: "Come il capitalista borghese si
serve della potenza sociale del suo capitale, cosi' la mente empirica si
serve della potenza del suo intelletto come di una proprieta' personale, ad
maiorem gloriam suam. A proposito dell'intelletto separato, Kant afferma
chiaramente: 'Nella ragione teoretica non vi e' alcun motivo per dedurre
l'esistenza di un altro essere', dove l'altro essere puo' significare Dio,
il padre e la madre o tutti i nostri simili. La sintesi sociale unica, il
cui mandatario e' la 'ragione teoretica', non lascia spazio alcuno ad una
seconda sintesi, esattamente come l'universum non lascia spazio a un
pluriversum, come la unicita' dell'esistenza esclude una dualita' o una
pluralita'. Ma dal punto di vista dello spirito individuale, la societa' si
e' cosi' trasformata in un agglomerato di uomini singoli che non hanno
alcuna necessita' reciproca".
Dunque fin dal Settecento un filosofo, Kant, aveva chiaro che l'esistenza di
un altro essere, padre e madre compresi, e' solo oggetto di fede (di qui,
forse, la religione della famiglia?). Nella filosofia moderna, e' noto, il
problema dell'intersoggettivita' continuera' a ripresentarsi
tormentosamente, insieme a quello - che Kant credeva risolto - della
causalita' naturale. In definitiva nel pensiero moderno non c'e' modo di
affermare, se non da chi ha una qualche fede, che tra due cose, due corpi,
due fatti, esista una relazione materiale. Questo vicolo cieco della
razionalita' moderna trova la piu' concisa sanzione in una delle
proposizioni iniziali del Tractatus di Wittgenstein, la 1.21: "Una cosa puo'
accadere o non accadere e tutto l'altro restare eguale".
E allora, se non possiamo dire di essere generati da una donna e da un uomo,
se le cose che compriamo e usiamo non ci provano l'esistenza di chi le
avrebbe prodotte, se il contatto dei corpi non ha una efficacia
riconoscibile, da che cosa possiamo dire di essere fatti quello che siamo?
Semplice, lo dice Lacan: dall'ordine simbolico.
Il senso comune si rivolta a tale conclusione, ma poi proprio la gente ben
provvista di senso comune ne offre ingenuamente le illustrazioni piu'
patenti. In effetti la generazione fisica, i rapporti tra i corpi, la
causalita' naturale, come se li immagina il senso comune, sono per lo piu'
fantasie difensive che vengono ricavate dall'immaginario collettivo. Parole
che cercano di colmare il vuoto intervallo tra corpi, cose, fatti, e nelle
quali c'e' niente o poco di una materialita' implicata e autonomamente
produttiva di sapere.
In una societa' la cui materializzazione va distruggendo i contenuti dello
scambio sociale, la polemica tra i due principi della produzione simbolica
sembra destinata a risolversi con la prevalenza del principio metaforico e
la conseguente chiusura del linguaggio in una totalita' fondamentalmente
senza storia, cosi' come si presenta in Lacan.
E' ben vero che Freud ha inventato un linguaggio e un luogo, la scena
analitica, dove e' possibile sapere che chi parla, oltre ad avere un corpo,
e' un corpo, generato da una donna e da un uomo, con una vicenda biografica
rilevabile e una particolarita' sessuale intrascendibile. La psicanalisi
dunque ha messo alcuni individui e alcuni fatti in un rapporto che non sia
l'aggregato di uno piu' uno piu' uno, ha dato un corpo e un sesso al
discorso del soggetto razionale. Ed e' stata, inutile dirlo, una scossa. Non
bastante pero' a cambiare il modo della socializzazione ne' quello della
produzione simbolica. Piu' che ad una intrinseca manchevolezza della
psicanalisi, bisogna forse pensare ad un complesso di circostanze, per
esempio il tardivo riconoscimento del materialismo psicanalitico. Ad ogni
buon conto, invece della prevista sovversione dalla psicanalisi e' venuto un
ulteriore contributo all'immaginario collettivo circolante nel corpo sociale
per la sua reintegrazione simbolica.
Lacan ha voluto togliere la psicanalisi dalla funzione subordinata che la
faceva fornitrice di illusioni o immaginazioni, per farne la teoria stessa
della inevitabile smaterializzazione dei rapporti tra esseri umani e degli
esseri umani con la natura. E' chiaro che si tratta di un esito per certi
aspetti distante se non opposto a quello che aveva in mente Freud. C'e'
pero' da dire che Lacan ci e' arrivato in pochi passaggi. Come dice lui
stesso, non ha fatto che tradurre la scoperta freudiana dell'inconscio nei
concetti della linguistica strutturale, un'operazione di suo difficilmente
criticabile in quanto essa si risolve nella eliminazione, dal discorso di
Freud, del presupposto naturalistico di una materialita' operante secondo
leggi che sarebbero indipendenti dall'ordine simbolico. Il trucco, se di
trucco si vuole parlare, sta nel fatto che, insieme al naturalismo
dogmatico, si e' persa di vista anche una produzione materiale che nella
nostra societa' ha luogo senza sapere.
Il presupposto naturalistico non poteva essere superato con esito diverso?
Probabilmente si', ma questo - di nuovo - dipendeva e dipende da circostanze
di cui il pensiero teorico non e' padrone. L'insignificanza dei rapporti
materiali, la docile rispondenza dei corpi alla parola interpretante, la
mobilitazione fantomatica, queste non sono invenzioni di Lacan. Sono,
praticamente, luoghi comuni della vita sociale.
*
Da pagina 91
La narratrice infedele
A questo punto qualcuno verra' a dirmi che io vado fantasticando, come se
potessero essere vergini, di cose corpi e fatti che invece sono da sempre
gia' segnati dalla cultura e quindi non opponibili ai suoi schemi. Cosa vuol
dire che i corpi potrebbero, dovrebbero tagliare di traverso l'espansione
del metaforico? Dove sono i corpi, i piaceri, dov'e' la natura estranea
all'ordine simbolico?
Riconosco subito che il mio discorso ha parecchie caratteristiche del
linguaggio ipermetaforico, anzi di un ipermetaforico acritico, sto
trascurando infatti le sue recenti versioni piu' sofisticate. Posso farlo
perche', attraverso un linguaggio alquanto convenzionale, sto cercando di
indicare. Indico delle cose e quelli che se le ritrovano nel proprio
orizzonte, mi capiscono. Vuol dire allora che escludo gli altri e offendo il
linguaggio nella sua piu' umana funzione? No, gli altri capiranno, solo un
po' meno. Del resto capita sempre cosi', sempre la gente si dice, oltre a
quello che dice, quello che ha in comune, sesso, soldi, cibo, cultura,
interessi (fanno eccezione, come diro' poi, gli imitatori). Il
"significabile" non e' un limbo indeterminato, in esso si trova gia' la
realta' circostanziata della nostra esistenza.
Ho riproposto la teoria di Jakobson perche' mi sembra che ci faccia fare un
passo avanti rispetto al discorso che dice: non esiste una esperienza
immediata originaria e quindi non ha senso appellarsi ai corpi, alle cose,
alla vita, come istanze originali che si troverebbero oltre la realta'
storicamente determinata. Giustissimo finche' si tratta di confutare lo
schema di una razionalita' scientifica che si aggiudicava i titoli della
verita' superstorica postulando il carattere originario dell'esperienza. Un
po' meno giusto quando la critica vuole colpire coloro che ad una realta'
non traducibile in parole si richiamano perche' il loro stesso parlare e'
per loro una traduzione mutilante.
Puo' esserci una forzatura nell'ordine simbolico tale per cui di qualcosa in
esso si rende conto imperfettamente e puo' esserci una forzatura nell'ordine
sociale tale per cui alcuni si trovano mutilati per cio' di cui l'ordine
simbolico non rende conto. La teoria di Jakobson dice che la produzione
simbolica (la quale ovviamente significa tutto il significabile) si
determina storicamente. Il simbolico dunque impronta di se' la realta'
sociale essendone parte in causa. La sua non significabile parzialita' -
aggiungo io - resta inespressa ma cio' non toglie che ci sia ed abbia degli
effetti. Si imprime su cio' che partecipa al processo simbolico senza
potervisi significare. L'alterita', l'estraneita' rispetto all'ordine
simbolico e' data da tutto quello che la sua forzatura lascia senza parole
appropriate e che nel tentativo di esprimersi urta contro i suoi dispositivi
o cade nel vuoto.
Che ci sia dell'altro a me pare che si mostri - negativamente - negli
appartamenti ritagliati in maniera scomoda, nelle farneticazioni del senso
comune, nei trucchi della femminilita' e ogni volta che il simbolico
esercita in dettaglio la sua potenza macchinatrice. Perche' li', nei suoi
banali trionfi quotidiani, si vede come la produzione simbolica proceda in
coincidenza con precise imposizioni di ordine sociale da cui pero' e'
difficile sganciarla senza provocare un dissesto di proporzioni non
calcolabili. Li' si vede che sono molte le cose, del grande gioco
linguistico, che non possono essere messe in gioco.
*
Da pagina 115
Difeaa dello schema povero
La matrice senza corpo e senza tempo
Vorrei qui rispondere ad una critica che mi e' stata fatta e che per certi
aspetti e' contraria a quella che ho gia' considerato sui corpi che non sono
mai vergini di parola.
Per trovare se e come si dia un parlare segnato dai suoi moventi materiali
e, come tale, fonte di intelligenza sul mondo, io uso uno schema - questa la
critica - che e' troppo povero: non comprende l'eterogeneita' intrinseca e
forse costitutiva del linguaggio, non sa ne' puo' sapere nulla del processo
della materia che si fa significante. Secondo Kristeva lo strutturalismo
avrebbe evacuato dal semiotico la pulsione. Tornero' poi su Kristeva e
questa affermazione, il cui significato peraltro si lascia subito intuire.
Allo schema degli assi incrociati manca sicuramente qualcosa, tant'e' che il
suo impiego nella ricerca linguistica ha richiesto vari aggiustamenti.
Secondo i linguisti della scuola di Chomsky, si e' visto, mancante e' la
dimensione delle operazioni teoriche in quanto distinte dalla analisi del
testo. Per chi muove l'obiezione che dicevo, cio' che manca allo
strutturalismo e' invece la dimensione della generazione materiale del segno
e del testo, e quindi della costituzione del soggetto parlante in quanto
anche soggetto storico.
I limiti dello strutturalismo e in particolare dello schema da me adottato
mi sono noti. Ma essi in definitiva mi appaiono piu' interessanti dei
superamenti tentati anche con successo. Rispondero' cosi', motivando una
preferenza.
Con una premessa. Una teoria di cui si e' scoperto questo o quel limite non
esige per tanto di essere sostituita ne' il suo eventuale superamento passa
per forza attraverso un potenziamento del suo apparato teorico. Il
superamento teorico e' un movimento relativo. Tra i fattori che
relativizzano le conquiste teoriche io metto anche le procedure di
conoscenza di cui uno dispone praticamente. C'e' chi lavora nei laboratori
di linguistica, chi fa scuola agli analfabeti, chi cerca le parole per
formulare un desiderio ecc. Tutti, si puo' dire, ci poniamo dei problemi
linguistici e, benche' sia probabile che questi problemi siano tra loro
collegati, non e' per niente sicuro che i concetti piu' rispondenti in una
data situazione lo siano anche in un'altra.
Io dunque ho una preferenza per lo schema strutturalistico benche' sia
visibilmente mutilato. Anzi, proprio perche' lo e'. Anche nella vita comune
ho una certa inclinazione per le mutilazioni, le cicatrici, le deformita'.
Un corpo impedito o sminuito mi pare che prometta piu' di un corpo perfetto.
Pero' deve trattarsi di un difetto sensibile, i corpi felicemente passati
attraverso la cosiddetta castrazione simbolica non hanno quel fascino li'.
Il passaggio dalla linguistica strutturale a quella generativa di Chomsky e'
paragonabile a una castrazione simbolica: ridimensionare una pretesa
eccessiva e acquistare in tal modo potenza e produttivita', con
un'operazione che ripete, a distanza di quasi quattro secoli, il gesto
inaugurale della scienza moderna.
*
Da pagina 189
Il linguaggio e' zoppo
L'enigma e' del nostro essere corpo e essere parola, insieme. Noi attenuiamo
l'enigma quando diciamo di "avere" un corpo. In passato si e' cercato di
pensare che sia veramente cosi', cioe' che siamo parola (pensiero, mente,
anima) e che abbiamo un corpo (con tutto quello che un corpo comporta). A
pensarci bene, non sarebbe sbagliato, infatti il corpo ci risulta eterogeneo
al pensiero e se uno si mette a pensare se stesso, inevitabilmente si
riconosce in cio' che e' trasparente al pensiero, che e' il suo stesso
essere pensiero.
Ma e' giusto solo in quanto uno ci pensa e si pensa. Non e' piu' giusto
allorche' ci si accorge che uno, quando pensa e si pensa, e' anche
inestricabilmente pensato da altri e da altro. Cosi' e' stato scoperto,
nella nostra cultura, il nostro essere corpo.
La scoperta di un paradosso non puo' che assumere la forma di un paradosso.
Per di piu' la scoperta e' stata fatta dall'interno di quello che chiamavo
regime di ipermetaforicita' - altrimenti non ci sarebbe stata... Di
conseguenza la sua formulazione ha preso i termini propri di tale regime. Il
nostro "essere parlati" dal corpo vi e' stato concepito come l'esatto
inverso del nostro essere parlanti del corpo: noi parliamo il mondo e
intanto il mondo ci parla, noi ci rappresentiamo noi stessi e intanto quello
che noi siamo, senza sapere di esserlo, si rappresenta nel nostro parlare.
Soggetti attivi in quanto pensanti, passivi in quanto "pensati", passivi
mentre ci pensiamo attivi, e viceversa.
Questa specularita', di un essere corpo che opererebbe sul nostro essere
parola quello che il linguaggio opera sul mondo - che e' di farne materia
significante per il proprio significarsi - presuppone che il linguaggio sia
il principio della separazione tra essere corpo e essere parola.
Ma non e' cosi', perche' il linguaggio, oltre a riprodurre in se' l'enigma
nella divisione significante/significato, lo riprende ed elabora nella
doppia generazione del significato. Il linguaggio conosce nella sua stessa
natura il nostro essere insieme corpo e parola, e mentre asseconda ogni
tentativo di risolvere l'enigma, lo accoglie, gli da' alloggio e ce lo
rende, oltre che riconoscibile, praticabile.
Secondo me, abbiamo ancora da scoprire quanta intelligenza possa venire dal
nostro essere corpo e quale stretto legame ci sia tra piacere e sapere. Ma
l'idea di questa possibilita' ce l'abbiamo, ce la suggerisce il linguaggio
con la sua difformita' costitutiva, la sua sghemba andatura, il suo
insormontabile squilibrio.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 230 del 15 gennaio 2009

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