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Voci e volti della nonviolenza. 285
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 285
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 14 Jan 2009 09:18:21 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 285 del 14 gennaio 2009 In questo numero: 1. Giuseppe Vacca: Accostamento a Gramsci 2. Bruno Accarino presenta "La filosofia della rivoluzione" di Michele Maggi 3. Daniele Balicco presenta due libri su Gramsci di Cesare Bermani e Mimmo Boninelli 4. Alberto Burgio presenta "Gramsci e la 'continua crisi'" di Pasquale Voza 5. Adriano Guerra presenta "Gramsci tra Mussolini e Stalin" di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca 1. RIFLESSIONE. GIUSEPPE VACCA: ACCOSTAMENTO A GRAMSCI [Dal quotidiano "L'Unita'" del 4 novembre 2007 col titolo "Che cosa significa essere gramsciani", il sommario "Dal marxismo radicale degli anni Sessanta e dalle canonizzazioni gramsciane allo studio dei Quaderni come officina del mondo globale. La prossima settimana a Torino, generazioni diverse di studiosi di Gramsci a confronto. Ecco come uno di quegli studiosi, presidente della Fondazione Istituto Gramsci, racconta la sua personale scoperta del pensatore sardo" e la citazione "'In fondo la detenzione e la condanna le ho volute io stesso in certo modo, perche' non ho mai voluto mutare le mie opinioni per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione' (Antonio Gramsci)"] Gramsci l'ho incontrato mentre preparavo la tesi di laurea. Studiavo giurisprudenza e avevo deciso di tentare la via del "lavoro intellettuale come professione". Mi interessavano la filosofa e la politica. Presi una tesi sulla filosofia politica di Benedetto Croce. Avevo vent'anni, vivevo a Bari e il mio punto di riferimento - faticosamente raggiunto attraversando tutto l'arco delle posizioni, dalla destra alla sinistra - era la politica culturale del Pci. Per me diventare "un intellettuale" voleva dire allora, nel Mezzogiorno, innanzi tutto "fare i conti" con Benedetto Croce, percepito come principale ostacolo sulla via al marxismo. Lessi Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, ma non divenni "gramsciano". Mi acconciai a letture molto piu' schematiche e "liquidai" l'idealismo a botta di citazioni di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin. Per Croce trovai calzante la formula con cui l'aveva incasellato Lukacs ne La distruzione della ragione: una variante debole dell'"irrazionalismo" europeo del primo Novecento. Una lettura piu' seria di Gramsci la iniziai dopo la laurea, quando, studiando la genealogia del marxismo italiano, approdai all'hegelismo napoletano. Ancora una volta la mia ricerca era ispirata da Togliatti e mi dedicai a Bertrando Spaventa, che studiai con passione e con grande giovamento. Mi ero iscritto al Pci e univo allo studio l'attivita' militante. Il magistero intellettuale di Togliatti conviveva con una grande insofferenza politica per il moderatismo del partito ed ero incuriosito dalle sperimentazioni radicali della sinistra anni '60: i "Quaderni rossi" di Panzieri, i "Quaderni piacentini" di Bellocchio, il messianismo di Fortini, "La sinistra" di Colletti. Ma vivevo nel Mezzogiorno e l'insoddisfazione per la politica del Pci - al quale pure mi sentivo legato come da una "scelta di vita" - riguardava principalmente la sua incapacita' di rielaborare il "meridionalismo", la sua irrilevanza urbana, l'essere accampato nelle campagne e assai lontano dalla capacita' di condurre lotte per l'egemonia. Il mio primo scritto apparve su "Cronache meridionali" nel 1964. Era dedicato ai mutamenti della funzione e del ruolo degli intellettuali meridionali ed era di schietta impronta gramsciana. Avevo approfondito Alcuni temi della quistione meridionale, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura e Il Risorgimento; avevo capito che il principale meccanismo di riproduzione del dualismo italiano era nella distruzione della relativa autonomia dell'intelligenza meridionale e nella concentrazione delle risorse fondamentali del "cervello nazionale" - l'industria culturale, la ricerca scientifica e l'informazione - nelle capitali industriali del Nord. Ma fino al 1968 questi primi nuclei di "gramscismo" continuarono a convivere, contraddittoriamente, con altri "marxismi", piu' consoni al mio radicalismo politico che mi induceva ad apprezzare teoresi apparentemente piu' rigorose, prima fra tutte quella di Galvano Della Volpe. Furono Bertrando Spaventa, lo studio diretto di Marx e la fusione tentata dal Pci fra lotte di classe e lotte antiautoritarie, nonche' le teorizzazioni piu' sofisticate del movimento studentesco - le tesi di Trento e di Palazzo Campana - a sciogliere quelle antinomie. Sullo sfondo, la guerra di liberazione vittoriosa in Vietnam, la Primavera di Praga e la repressione che ne segui'. Dopo quelle esperienze dall'Urss, dal "socialismo reale" e dalla visione dicotomica del mondo, di cui il "campo socialista" era l'alibi e il supporto, non mi aspettavo piu' nulla; e conseguentemente si stemperavano le incongruenze del "marxismo in combinazione" che si era annidato nella mia mente nel decennio precedente. Com'e' evidente dai ricordi che ho fin qui evocato, la mia formazione intellettuale era avvenuta in simbiosi con l'azione politica e la consideravo parte di una lotta per l'affermazione di determinati indirizzi della cultura italiana, contro altri. Cosi' mi era stato insegnato, e questo modo di concepire l'azione politica di un intellettuale corrispondeva perfettamente alla mia morale e forse anche al mio temperamento. Condannando l'invasione sovietica della Cecoslovacchia il Pci aveva cominciato il suo lento distacco da Mosca. Personalmente lo consideravo troppo timido. Con i compagni che animavano il nuovo progetto della casa editrice De Donato pensavamo che si dovessero generalizzare i fondamenti teorici e strategici della politica del Pci che ci pareva configurassero non solo una "variante nazionale" del comunismo internazionale - un "comunismo democratico" giustificato dalle condizioni storiche e geopolitiche in cui si radicava la sua azione - ma un'esperienza storica originale, di valore generale e non solo italiano. Per contribuire alla rielaborazione della "tradizione comunista" italiana mi immersi nello studio di Gramsci e di Togliatti. Ma evidentemente era soprattutto il secondo a tenere il campo della revisione teorico-politica auspicata e del nostro aspro contendere non solo con i suoi critici e avversari di sempre, ma anche con la canonizzazione della sua "eredita'" operata dal Pci berlingueriano. La posta in giuoco non era solo il rapporto fra il Pci e il comunismo internazionale, ma anche l'interpretazione del 1968 e la strategia del "compromesso storico" che ci illudevamo potesse svilupparsi come "assedio reciproco" fra Dc e Pci, e sperimentazione di una trasformazione democratica e socialista inedita, di valore europeo. Eravamo "giobertiani", come del resto lo era anche il Pci negli enunciati della sua strategia, sempre piu' distanti dalla politica che effettivamente praticava. Condividevamo con esso l'incomprensione del passaggio degli anni Settanta che scandivano la fine del "riformismo nazionale" in Europa e nel mondo. * In questo contesto si sviluppo' e si approfondi' il mio incontro con Gramsci. Fin dai primi anni Settanta Franco De Felice, principale storico e figura intellettuale di riferimento del gruppo della De Donato, aveva intrapreso lo studio diacronico dei Quaderni del carcere e con un breve ma denso saggio pubblicato sul "Contemporaneo" nel 1972 - Una chiave di lettura in Americanismo e fordismo - aveva posto le prime basi per ribaltare le interpretazioni canoniche di Gramsci. Il fatto che non avessi mai compiuto uno studio sistematico dei Quaderni fu per me un vantaggio. Non ero troppo condizionato dall'edizione tematica del 1948-1951 e uno studio vero e proprio di essi lo iniziai sull'edizione Gerratana del 1975. Seguirne la stesura quasi giorno per giorno originava un vero e proprio mutamento di paradigmi. Innanzi tutto risultava evidente che il pensiero di Gramsci aveva avuto una evoluzione molto significativa fra il '29 e il '35. Ne risaltavano le innovazioni rispetto al decennio 1915-1926 e l'intreccio fra le note dei Quaderni e gli sviluppi della politica mondiale. Altro che "ricerca disinteressata"! Si doveva ricostruire la biografia politica del prigioniero per districarsi nell'"ingens silva" dei Quaderni e delinearne la biografia intellettuale. Sorgeva la domanda: qual era stato il "programma scientifico" di Gramsci nel carcere di Turi? In che misura proseguiva quello che aveva preso forma fra le Grande Guerra e l'avvento di Stalin? In quali punti, invece, lo riformulava? Il gruppo di studiosi che lavorarono alla preparazione del convegno dell'Istituto Gramsci del 1977, intitolato non per caso Politica e storia in Gramsci, condivideva questa impostazione. Anche se nel suo esito finale il lavoro di preparazione fu sostanzialmente accantonato, Franco De Felice, Biagio de Giovanni, Marisa Mangoni, io stesso ed altri avevamo prodotto un volume preparatorio che prospettava un nuovo approccio al pensiero maturo di Gramsci. Ad esso cominciai a dedicarmi con una certa continuita' e con progressivi approfondimenti dopo essere venuto a capo della crisi mondiale degli anni Settanta, essermene fatta un'idea personale e aver cominciato a capire che eravamo di fronte ad un declino forse irreversibile del sistema politico dell'Italia repubblicana. Questo slargamento di vedute e una significativa revisione dei miei strumenti di indagine mi liberarono dal "giobertismo" politico e culturale del Pci che avevo condiviso nel decennio precedente. In Gramsci scoprii gradualmente i fondamenti di un pensiero storico-politico utile ad inquadrare il Novecento come il secolo dell'interdipendenza e della globalita', della modernita' compiuta e della sua crisi; ma anche i primi elementi di quel "nuovo modo di pensare" che indicava le prospettive per superarla. E' il Gramsci su cui lavoro ancor oggi: sono piu' di vent'anni e credo di poter dire che finalmente l'ho incontrato davvero ed eletto a guida della mia ricerca politica e intellettuale. 2. LIBRI. BRUNO ACCARINO PRESENTA "LA FILOSOFIA DELLA RIVOLUZIONE" DI MICHELE MAGGI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 luglio 2008 col titolo "La lente di Gramsci sul conservatorismo" e il sommario "Saggi. Da Michele Maggi La filosofia della rivoluzione"] Chi abbia anche solo una conoscenza superficiale dei testi di Gramsci puo' apprezzare fino in fondo, per esempio, un capolavoro del conservatorismo europeo come Le origini della Francia contemporanea di Hyppolite Taine, di recente riproposto da Adelphi. Gramsci e' infatti uno dei pochi autori militanti che riesca, sempre e senza sforzo, a togliere ogni patina retorico-propagandistica al concetto di conservatorismo: se mai e' stato un freddo entomologo, lo e' stato nei confronti del pensiero e della pratica dei conservatori. Scelgo questo criterio per render conto della ricostruzione di Michele Maggi (La filosofia della rivoluzione. Gramsci, la cultura e la guerra europea, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 248, euro 28). Naturalmente negli anni torinesi gli strumenti sono meno affinati, ma non puo' mancare di impressionare la rinuncia - a quella temperatura politica - a condanne forfettarie dell'avversario, il tentativo di distinguere le fisionomie degli attori politici, dei protagonisti culturali, delle aristocrazie intellettuali vere o sedicenti tali: vale per Oriani, per Gobetti, per Missiroli, naturalmente per Croce e per Gentile. Il concetto di rivoluzione passiva e' uno dei passaggi obbligati per acuire lo sguardo sul conservatorismo. Esso decanta, e in realta' accantona, la polarizzazione industrialistica a cui era legato il gruppo torinese, impedendo di classificare le mediazioni parassitarie come un accidente tanto pesantemente residuato, quanto destinato a scomparire nella tenaglia dello scontro frontale tra borghesia e proletariato industriale. E' con l'area concettuale della rivoluzione-restaurazione, inoltre, che viene valorizzata la contrapposizione tra guerra di movimento e guerra di posizione e in certo modo sprovincializzato il pensiero di Gramsci, che i paradigmi corrispondenti ora li va a cercare in Europa. La periodizzazione e' nota: nel 1789 e nella catena di eventi immediatamente successiva l'Europa ha proposto una guerra di movimento, tra il 1815 e il 1870 una guerra di posizione. Nel secolo seguente, la guerra di movimento e' finita nel 1921, sedimentando archetipi intellettuali, come li chiama Maggi, ben rappresentati da Croce e Gentile e dal loro scontro attorno a quella "pedagogia della guerra" a cui Gentile affidava una missione rigeneratrice. Viene cosi' prendendo corpo la distanza dalla definizione che Gobetti aveva dato, e pur con piccole correzioni mantenuto, del fascismo: autobiografia della nazione (novembre 1922). E' una definizione che mette il radicalismo, anche dell'invettiva letteraria, al servizio dell'indignazione contro la "rinunzia per pigrizia alla lotta politica", in una nazione nella quale proletari e borghesi sembrano essersi estinti per far posto soltanto a classi medie. Mussolini non potrebbe rivendicare nessuna originalita'. Combatterlo per sostituirgli, dopo pochi mesi, un Nitti o un Giolitti? Non vale la pena. Da una parte, commenta Maggi, c'e' per Gobetti un'Italia arretrata, vittima di tutte le consuetudini trasformistiche, dall'altro "l'Italia delle minoranze dell'ascetismo combattente", intransigente ed energica. E capace finalmente di portare alle soglie di una modernita' finora preclusa. Resta il fatto che anche questa definizione politicamente paralizzante, che non coglie il novum del fenomeno fascista, e' formulata con una generosita' senza compromessi e trascina con se' qualche spunto di riflessione non effimero: come quello che fa capo a un deficit storico di un'etica protestante che possa portare, scrive Gobetti contro Turati, a un "luteranesimo sociale" e al suo corredo necessario, il senso di responsabilita'. Quanto alla storia della ricezione, Maggi si dilunga opportunamente su un episodio tutt'altro che agiografico di rielaborazione del patrimonio gramsciano: e' il discorso di Togliatti del 30 aprile 1950, a Torino, su Giolitti e la democrazia italiana (o anche Discorso su Giolitti). Un Giolitti titolare di un ruolo progressivo si allontana tanto dal "Machiavelli in sessantaquattresimo" (Gramsci), quanto dal "ministro della malavita" (Salvemini). Togliatti vede in lui, oltre che la pur timida condivisione di una sensibilita' democratica europea che avrebbe portato al suffragio universale, una percezione dei bisogni popolari che, nel buio successivo alle elezioni del 1948, era purtroppo solo una sponda storiografica, ma avrebbe certo fatto comodo come sponda politica reale. Quando Togliatti compara Giolitti a De Gasperi, non puo' fare a meno di registrare un salto all'indietro. Anche l'insistente riferimento alla subalternita' del governo italiano alle autorita' ecclesiastiche e' uno spiraglio "filo-giolittiano" che non sembra meramente strumentale o dettato dalla cronaca: si tratta di rifare il censimento della tradizione liberale italiana, cogliendo in essa cio' che ha trasceso il riflesso d'ordine anti-operaio e la ripugnanza naturale nei confronti del movimento di massa socialista e comunista. Tutto questo, si puo' pensare, va collocato nella rubrica della diagnosi del conservatorismo italiano, la cui mancanza di sintonia con le tradizioni riconoscibili del grande conservatorismo europeo e' all'origine anche di qualche vicolo cieco in cui si imbatte la sinistra ai giorni nostri. 3. LIBRI. DANIELE BALICCO PRESENTA DUE LIBRI SU GRAMSCI DI CESARE BERMANI E MIMMO BONINELLI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 maggio 2008, col titolo "L'immaginario rimosso dai Quaderni del carcere" e il sommario "In due saggi, Cesare Bermani e Mimmo Boninelli ripercorrono le analisi di Antonio Gramsci sulla cultura operaia, l'operetta, il feuilletton e il folklore"] "Spesso a cuori e picche ansiose bocche/ chiedono la verita'/ Principi e plebe vengono qua". Gramsci, nel 1918, gia' redattore dell'edizione piemontese dell'"Avanti!", canticchiava in continuazione questo refrain di un'operetta allora in voga, la Madama di Tebe di Carlo Lombardo. Ed era cosi' appassionato di musica - adorava l'Operetta - che spesso scriveva gli articoli per il giornale solo dopo essere uscito da teatro a notte fonda sotto l'assillo disperato di Pastore che letteralmente glieli toglieva di mano dalla scrivania per mandarli subito in rotativa. Questo aneddoto, e molti altri, si possono piacevolmente ascoltare nel bel saggio sonoro che chiude l'ultimo lavoro di Cesare Bermani su Gramsci, intitolato Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria (Colibri', pp. 334, euro 19). Il volume raccoglie undici articoli pubblicati dal 1979 ad oggi e due Cd costituenti, per l'appunto, il saggio sonoro, appassionante ricostruzione della vita di Gramsci attraverso testimonianze dirette e documenti musicali. E' bene ricordare subito che la storia orale, di cui Bermani e' maestro indiscusso, mai come nel caso di Gramsci si rivela essere strumento conoscitivo congruente. E per almeno due ragioni. In primo luogo per la sua forma, perche' la posizione di ascolto e' il presupposto necessario della persuasione permanente. Gramsci, come tutte le testimonianze ricordano, sapeva ascoltare. La sua pedagogia - e si legga nel volume la bella testimonianza di Ettore Piacentini - partiva proprio dall'ascolto, era socratica, dubitante, persuadeva chiedendo continue precisazioni capaci di portare l'interlocutore fino alla coscienza di non sapere, primo e necessario passo verso una vera politicizzazione di se stessi. In secondo luogo, perche' la raccolta di testimonianze dirette divenne, negli anni passati, strumento capace di aprire nuove strade all'interno di quel controverso campo di ricerca che furono gli studi gramsciani, per lo meno fin quando il Pci ne oriento' studio e pubblicazione. Certo, il quadro attuale e' oggi profondamente mutato e un lavoro come quello di Bermani, cosi' attento a ricostruire di Gramsci una fisionomia morale, intellettuale e politica altra rispetto a quella consegnata dalla vulgata togliattiana, puo' apparire eccentrico rispetto allo stato dell'arte della ricerca italiana contemporanea (basti solo pensare dove e' stato relegato a Roma l'Istituto Gramsci, che, certo, per il peso internazionale che ha, in uno stato serio, meriterebbe altri spazi, altre metrature, altra visibilita', altre strutture, altri fondi). L'inattualita' dell'impostazione di Bermani risponde quanto meno al sospetto che questo ridimensionamento della figura di Gramsci sia l'esito ultimo di una certa idea della conoscenza e dell'azione politica che il Pci e Togliatti promossero proprio attraverso la pubblicazione orientata degli scritti di Gramsci. Del resto, se si dipana fino in fondo questo filo, l'evoluzione del Pci in Pds/Ds e oggi Pd appare sotto il segno della continuita', e non certo della frattura. Il lavoro di Bermani valorizza invece un altro Gramsci, anzitutto critico di un'idea di politica come categoria a se stante, attivita' separata. Si leggano le pagine dove l'autore ricostruisce il dibattito fra culturalisti e anticulturalisti e un Gramsci ancora giovanissimo gia' riflette sulla centralita' dell'organizzazione politica della cultura intendendola come un terzo fronte di lotta accanto a quello economico e politico; o i due saggi pubblicati su "Primo Maggio" (Gramsci operaista e la letteratura operaia; Breve storia del Proletkul't italiano) dove emerge con chiarezza come Gramsci intenda la pedagogia politica in opposizione al modello didattico delle Universita' popolari del Psi; e come pratichi il suo ruolo di dirigente politico nella conoscenza diretta della vita operaia e dell'organizzazione del lavoro nella grande fabbrica. Il punto di partenza della politica sta dunque nella capacita' di leggere nei depositi creativi del senso comune, forme da liberare, educare, organizzare, universalizzare; e da non reprimere. Certo, e' questo un Gramsci visto attraverso le lenti di quello straordinario laboratorio di etnografia politica della cultura popolare italiana che e' l'Istituto Ernesto De Martino (e non a caso il volume di Bermani si chiude proprio con il saggio Due letture non canoniche degli scritti di Antonio Gramsci, un omaggio dello storico orale ai suoi maestri, Bosio e de Martino). Ma e' proprio in questo Gramsci che si possono ancora trovare strumenti capaci di scardinare la narcosi mediatica del nostro presente. E' incredibile, infatti, che in un universo culturale dominato senza controforze dalla propaganda - che e' l'espressione della violenza politica nella comunicazione - nessuno senta il bisogno di tornare, anche solo come ricognizione preliminare, a riflettere su ruolo degli intellettuali, organizzazione della cultura, egemonia; e su come il senso comune riveli sempre, come l'iride, lo stato di salute del mondo sociale. Nella stessa direzione si muove un altro bel volume da poco pubblicato da Carocci (Frammenti indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci, pp. 267, euro 19). L'autore e' Mimmo Boninelli, collaboratore come Bermani dell'Istituto Ernesto de Martino. Scritto con un'attenzione minuta ai dati propria della grande tradizione filologica militante di Gianni Bosio, Boninelli cerca di capire se le note Osservazioni sul folclore presuppongano in Gramsci una passione e una conoscenza approfondita della cultura popolare e folclorica italiana. Sei sono gli argomenti attraverso i quali l'intero corpus degli scritti di Gramsci (pagine giovanili, scritti politici, Lettere e Quaderni) e' passato al setaccio: Sardegna e mondo popolare; religione popolare, credenze, magia; proverbi e modi di dire; narrazioni e storie; canti popolari e della protesta sociale; teatro popolare, teatro dialettale. Attraverso questo spoglio incrociato, emerge un'immagine sorprendente del pensatore sardo come curiosissimo osservatore e critico della vita quotidiana. 4. LIBRI. ALBERTO BURGIO PRESENTA "GRAMSCI E LA 'CONTINUA CRISI'" DI PASQUALE VOZA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 luglio 2008 col titolo "La chiave di accesso che svela il presente" e il sommario "Saggi. La 'rivoluzione passiva' di Antonio Gramsci"] Sara' un caso, ma e' significativo che si moltiplichino le riflessioni e gli approfondimenti analitici sull'idea di "rivoluzione passiva". L'addensarsi di un interesse non puramente archeologico sembra dimostrare l'importanza di questo concetto gramsciano ai fini di una ricostruzione pertinente - e politicamente feconda - del trentennio che abbiamo alle spalle. E che ha raggiunto un degno coronamento (temiamo soltanto interlocutorio) con il naufragio della sinistra italiana nel crudele aprile di quest'anno. Con questo suo saggio su Gramsci (Gramsci e la "continua crisi", Carocci, pp. 115, euro 10.80) Pasquale Voza fornisce alla discussione sulla rivoluzione passiva un contributo importante. I quattro capitoli del libro sono tenuti saldamente insieme dal filo rosso di alcune domande. Non solo: che cos'e' una rivoluzione passiva? Ma anche: dove e quando si e' verificata? E quindi: quali indicazioni pratiche occorre saperne trarre? * Tra conservazione e innovazione Sulla prima questione, Voza lascia parlare i Quaderni, riprendendo le pagine piu' esplicite nell'affermare la ricorrenza delle rivoluzioni passive e quindi la portata euristica del concetto, che Gramsci finisce col considerare un "principio generale di scienza e di arte politica". Com'e' noto, i Quaderni vedono rivoluzioni passive tanto nei processi di modernizzazione (nella costituzione degli Stati nazionali) in gran parte dell'Europa (a cominciare dal Risorgimento italiano e dalla Germania bismarckiana, con la fondamentale eccezione della Francia), quanto nelle risposte novecentesche alla "crisi organica" del capitalismo (fascismo e fordismo), accomunate dalla tensione verso assetti stabili e regolati. La domanda che sorge immediata dinanzi all'assimilazione di fenomeni storici cosi' diversi riguarda le loro affinita'. Che cosa li accomuna, agli occhi di Gramsci? I Quaderni rispondono: la debolezza delle forze popolari (i democratici di Mazzini, Garibaldi e Pisacane nel Risorgimento; il movimento operaio all'indomani della Grande guerra) sullo sfondo (ma cio' e' meno evidente nel caso degli Stati Uniti) di una generale arretratezza strutturale. E' il mix tra l'assenza di una "antitesi vigorosa" e la fragilita' dello "sviluppo economico locale" a consentire alle classi dominanti di governare riformisticamente il mutamento, calibrando in dosi omeopatiche conservazione e innovazione, e accogliendo (questo e' un punto decisivo) "una qualche parte delle esigenze popolari". I Quaderni arricchiscono questo schema con molteplici corollari di rilievo: la funzione degli intellettuali moderati (Gioberti, quindi Croce) che tendono a concepirsi come protagonisti e come classe a se stante, fungendo da battistrada del processo; il nesso rivoluzione passiva/"guerra di posizione"/economie di piano; la questione del trasformismo (per Gramsci una costante della storia politica italiana dal 1848 in poi). Voza tesse una fitta trama di riferimenti, restituendo la complessita' dell'ordito teorico che scaturisce dall'intreccio di queste problematiche; illuminando anche nodi poco indagati (come il giudizio di Gramsci sulla figura e l'opera di Verdi); e soffermandosi sulle tappe dell'itinerario gramsciano di Pasolini. Ma e' soprattutto sui riflessi politici della questione che egli concentra l'attenzione. Se una rivoluzione passiva suppone la debolezza dell'antagonista, allora il problema-chiave e': come produrre una forte antitesi, come riequilibrare il rapporto di forza? Tradotto nella fulminante lingua dei Quaderni: come dare corpo al soggetto, come dare vita e respiro al "movimento storico sulla base della struttura"? * Una scommessa da giocare La ricerca su questo terreno apre alla piu' classica sequenza: la produzione del soggetto suppone l'elaborazione e il radicamento della coscienza critica; impone di tematizzare il rapporto tra "spontaneita'" e "direzione consapevole"; chiama in causa la questione dell'egemonia: quindi il ruolo "connettivo e organizzativo" dell'intellettualita' critica (antidoto alla "passivizzazione" e alla "standardizzazione" della massa) e la funzione del partito operaio, anticipazione della "nuova societa'" e dello Stato "di tipo nuovo". L'intento e' trasparente e non si limita a un bilancio retrospettivo. L'indagine verte anche sul presente, nella convinzione che lo schema della rivoluzione passiva serva a decifrare anche gli avvenimenti di quest'ultimo trentennio e aiuti, se non altro, ad avviare una riflessione seria sulle ragioni della sconfitta storica del movimento di classe e sugli errori che lo hanno condotto, in Italia e in tutta Europa, all'odierno disastro. Cosi' Voza si inserisce autorevolmente in una discussione che registra gia' diverse voci, dal contributo di Buci-Glucksmann e Therborn sul "compromesso socialdemocratico" e dalle analisi di Franco De Felice sul Quaderno 22 sino alle riflessioni di Giuseppe Chiarante sull'Italia degli anni Sessanta e Settanta e alla recente indagine di Carlos Nelson Coutinho su rivoluzione passiva e "controriforma". E' una discussione che deve continuare proprio per la sua marcata valenza politica. E che dimostra la fecondita' di una cultura critica - quella che Croce chiamo', intendendo pronunciarne l'epitaffio, "comunismo teorico" - che sarebbe semplicemente sciagurato considerare obsoleta. 5. LIBRI. ADRIANO GUERRA PRESENTA "GRAMSCI TRA MUSSOLINI E STALIN" DI ANGELO ROSSI E GIUSEPPE VACCA [Dal quotidiano "L'Unita'" del 4 giugno 2007 col titolo "Gramsci: l'Inferno dantesco per parlare al Pci" e il sommario "La rottura netta con il Comintern e col Partito Comunista, e la rottura personale con Togliatti. Lo studio di Vacca e Rossi decodifica i saggi su Alighieri, Croce e Machiavelli scritti dal carcere come messaggi al partito. Un'esplicita condanna del marxismo sovietico e una diversa strategia per combattere il fascismo. Giustificati i sospetti del pensatore sardo. La gestione di Togliatti non fu esemplare ma alla fine chi decise furono Stalin e Mussolini"] Gramsci in carcere a Turi, Togliatti a Mosca, dove c'e' con la famiglia Schucht, la moglie di gramsci Julia coi figli. E dove c'e' Stalin. In Italia c'e' Mussolini, e c'e' il "Tribunale speciale" al lavoro. Siamo nel pieno del secolo "grande e terribile", coi suoi momenti di gloria, di generosita' e di solidarieta', ma anche di paure, di incomprensioni, di tradimenti, ed e' questo il quadro entro cui va collocata la ricerca di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, appena pubblicata da Fazi, Gramsci tra Mussolini e Stalin (pp. 245, euro 19). Negli anni della guerra fredda - come si sa - i tentativi di custodire ma anche di preservare dalla curiosita' altrui piccoli e grandi segreti familiari e di partito, hanno portato a stendere veli su verita' dolorose. Cosi' e' nata la "questione Gramsci". Non pochi di questi veli sono stati rimossi grazie alle ricerche di numerosi studiosi. Altri lo sono con questo libro, che e' un'opera "aperta" e dunque - come sempre accade quando un tema viene affrontato da piu' autori - con interpretazioni non sempre collimanti e in qualche caso anche contraddittorie. Ma, vivaddio, questa e' la ricerca. E quel che di nuovo veniamo a sapere impone di modificare vecchie convinzioni. Ora sappiamo, ad esempio, che Gramsci scrivendo in carcere centinaia di pagine su Benedetto Croce, sul fordismo, su Machiavelli, non intendeva (soltanto) lavorare fur ewig (per l'eternita'), ma anche condurre una vigorosa e quotidiana lotta politica all'interno del partito e del movimento comunista. Che sin dai giorni dell'arresto egli fosse in contrasto con Togliatti era noto. Quel che era meno noto, e per certi aspetti del tutto ignoto, e' rappresentato da una parte dall'ampiezza e dalle forme nelle quali il confronto fra i due dirigenti ha continuato a svolgersi, e dall'altra, e soprattutto, dai contenuti reali del confronto stesso. Su questi punti il libro di Rossi e Vacca dice cose nuove che riguardano intanto il ruolo reale svolto da Piero Sraffa. A differenza di quel che si riteneva, il famoso economista non ha ricoperto nella vicenda il ruolo di semplice strumento di contatto, quasi anodino e neutrale, fra i due, soltanto perche' amico di Gramsci e di Togliatti, e soprattutto del primo, ma ha agito per volonta' e vocazione propria. Perche' Sraffa era un intellettuale comunista, un uomo di partito, sia pure "senza tessera" (e "senza tessera" per potersi muovere liberamente, o quasi, fra Londra, Parigi e il carcere di Turi). Nuovo e' poi quel che Rossi ha scoperto sui "codici letterari" impiegati da Gramsci per riprendere nel 1931 la discussione iniziata con Togliatti nel 1926 sui pericoli che sarebbero nati qualora la maggioranza di Stalin non si fosse accontentata di vincere la sua battaglia contro la minoranza di Trotskij, ma avesse teso a "stravincere". Gramsci ha utilizzato a questo proposto vari testi: uno scritto su Benedetto Croce e il materialismo storico, il Canto X dell'Inferno, (quello di Farinata degli Uberti, ma Gramsci per far sapere al partito il suo pensiero sulle posizioni del Comintern ha posto al centro la figura di Cavalcanti), e, ancora, una finta recensione alla Storia d'Europa di Croce. Quel che viene fuori, attraverso il lavoro di decodificazione delle "lettere" e l'analisi di alcuni documenti sin qui inediti - prima di tutto il Rapporto steso da Gennaro Gramsci che era stato incaricato dal partito di informare il fratello sulle ultime scelte del partito - e' il quadro complessivo delle divaricazioni che si erano progressivamente venute a creare fra il prigioniero e il Pci. Queste divaricazioni riguardavano soprattutto il giudizio sul fascismo e sulla tattica per combatterlo: erano ancora valide le Tesi di Lione del gennaio 1926 nelle quali, seppure entro il quadro di una situazione italiana definita "prerivoluzionaria", si poneva al centro la questione dell'unita' classe operaia-proletariato agricolo-contadini, con le scelte politiche conseguenti (dialogo e intesa con socialisti e socialdemocratici per dar vita al "fronte unico") oppure occorreva far propria la linea del Comintern (1928) e soprattutto del X Plenum (luglio 1929) sulla "Terza fase", con le parole d'ordine della "crisi generale del capitalismo", della "classe contro classe" e del "socialfascismo"? Gramsci si pronuncio' sempre per la validita' delle tesi di Lione e dunque contro il Comintern e contro la "traduzione italiana" della "terza fase" avviata dal Pci nel 1929 con la "svolta", e alla fine parlo' dell'Assemblea Costituente, e dunque di una battaglia da condurre per obiettivi democratico-borghesi nelle condizioni del pluralismo e del pluripartitismo politico, come di un obiettivo valido non gia' dopo la caduta del fascismo ma negli anni stessi del fascismo, utilizzando le occasioni fornite dal confronto che si era aperto sui temi del corporativismo. A dare organicita' alla lotta politica di Gramsci c'era - va ancora detto - una concezione dell'egemonia che si distaccava fortemente dai moduli, allora imperanti, della "dittatura del proletariato", e - ancora - c'era una esplicita dichiarazione di condanna del marxismo sovietico considerato alla stregua del "teologismo medievale". Rottura netta, insomma, col Comintern e col Pci che e' diventata anche grave e irreparabile rottura personale con Togliatti, ma che non ha pero' impedito a quest'ultimo - come i due autori riconoscono ampiamente - di guardare a quel che Gramsci produceva in carcere come ad un patrimonio prezioso da salvaguardare per il futuro, e non solo per il partito. La svolta verso la rottura radicale ha preso avvio - come si sa - con la "famigerata" lettera di Grieco del 1928 interpretata da Gramsci, per il fatto che con essa il partito lo indicava come il capo del Pci, come il momento di avvio di una iniziativa diretta, consapevolmente o inconsapevolmente, a trattenerlo in carcere. Ed e' continuata, sempre secondo Gramsci, col ritardato e in piu' di un caso il mancato sostegno da parte del partito alle diverse vie - ultimo il "tentativo grande" - studiate e tentate da Gramsci per ottenere la liberazione. Per quel che riguarda l'impatto che le differenzazioni sull'atteggiamento da tenere nei confronti del regime fascista hanno avuto sulla questione della liberazione di Gramsci e' presto detto: scartata sin dal primo momento la via della richiesta di grazia, l'unica possibilita' per uscire dal carcere consisteva per Gramsci nel puntare sul riavvicinamento che si stava verificando fra l'Urss e l'Italia fascista, entrambe preoccupate per l'ascesa di Hitler. Trattativa diretta fra due Stati impegnati nella preparazione di un "Patto di non aggressione" dunque, tenendo all'oscuro il partito, tanto piu' che quest'ultimo stava in quella fase chiedendo la liberazione dei prigionieri politici dalle carceri fasciste attraverso manifestazioni e campagne di stampa. Con iniziative cioe' che - pensava Gramsci - non avrebbero potuto che irrigidire le posizioni di Mussolini. Se si prende in considerazione nel suo insieme l'atteggiamento tenuto dal Pci nei confronti del problema della liberazione di Gramsci si puo' ragionevolmente pervenire alla conclusione, come fanno i due autori, che le preoccupazioni e anche i sospetti di Gramsci, erano in parte giustificati. Se pero' si guarda a come si sono svolti i fatti non si puo' non rilevare il peso che hanno avuto, insieme alle divergenze, le incomprensioni dovute all'accumularsi senza tregua di equivoci, di informazioni parziali o del tutto errate che non hanno consentito alle parti di avere incontri chiarificatori. Basti dire, nell'ordine, che la "famigerata" lettera di Grieco che tanti sospetti ha generato in Gramsci, non ha avuto nessun peso nel determinare la condanna (non figura neppure negli atti processuali) e, per quel che riguarda il suo contenuto, non e' certo attraverso di essa che gli inquisitori hanno appreso che gli imputati che avevano di fronte erano i dirigenti al massimo livello del partito. A spingere poi il Pci a far propria la campagna avviata a Parigi, sulla base di documenti che illustravano le condizioni di salute di Gramsci, per la liberazione dei prigionieri politici in Italia, non e' stata una scelta di Togliatti, ma un complesso di circostanze che hanno preso il via da un'iniziativa della Concentrazione antifascista. Va infine ricordato che anche Togliatti pensava che le Tesi di Lione (delle quali era stato coautore) non avessero perso di significato dopo il X Plenum del Comintern e, come Vacca ha ampiamente dimostrato gia' in un libro precedente, la sua analisi del fascismo presenta indubbie affinita' con quella di Gramsci. Quel che soprattutto ha distinto i due dirigenti e' stato l'atteggiamento da tenere nei confronti dell'Urss. Da una parte c'era il "realismo" di Togliatti che ha spinto quest'ultimo a schierarsi con l'Urss di Stalin anche quando diverse da quelle imposte da Mosca erano le sue convinzioni. E questo perche' non vedeva altra scelta nel momento in cui in Europa si trattava di fronteggiare il fascismo. Dall'altra parte c'era il "non realismo" (ma forse, proprio perche' fondato su una scelta non di campo ma di collocazione ideale eticamente oltreche' politicamente fondata, e' possibile parlare di "realismo" altro, superiore) di Gramsci. Del tutto oziosa, almeno nel momento in cui siamo di fronte al problema di ricostruire una vicenda, e' chiedersi adesso chi avesse ragione. La gestione di Togliatti della "questione Gramsci" non e' certo - come si e' visto - esente da critiche. Non si puo' pero' dimenticare che - come e' ricordato nelle ultime pagine del libro - a decidere sulla sorte di Gramsci sono stati Mussolini e Stalin. Poco prima che Litvinov giungesse a Roma per la firma del "Patto", Gramsci era stato portato - e forse perche' Mussolini si proponeva di utilizzare la carta della liberazione dell'uomo che aveva fatto condannare a 20 anni di reclusione - da Turi al carcere presentabile di Civitavecchia. Ma per Stalin Gramsci era evidentemente ancora quello della lettera del 1926, un "trotskista". Meglio lasciarlo in carcere in Italia. Avvenne cosi' che quando il ministro degli esteri sovietico incontro' Mussolini non fece cenno della questione. E quest'ultimo non aggiunse verbo. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 285 del 14 gennaio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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