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Voci e volti della nonviolenza. 283
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 283
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sat, 10 Jan 2009 15:41:08 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 283 del 10 gennaio 2009 In questo numero: 1. Norberto Bobbio: Democrazia (1958) 2. Simonetta Fiori intervista Gustavo Zagrebelsky 3. Massimo Novelli: La lezione di Bobbio 4. Alcuni estratti da "Violenza senza legge" a cura di Marina Calloni (parte seconda e conclusiva) 1. MAESTRI. NORBERTO BOBBIO: DEMOCRAZIA (1958) [Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 gennaio 2009 col titolo "Se vengono meno i principi della democrazia", il sommario "In un articolo scritto nel 1958, l'apprensione per la sorte dei principi conquistati dopo il fascismo e la sottolineatura di cio' a cui non si dovra' mai rinunciare, le liberta' civili, politiche e sociali. Oggi non crediamo, come credevano i liberali e i socialisti del primo Novecento, che il cammino democratico sia inesorabile. Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti fatalmente progressive dell'umanita'" e la nota redazionale "Questo testo comparve nel 1958 su 'Risorgimento' che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un'inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell'Ateneo di Torino"] Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri. Come regime politico la democrazia moderna e' fondata sul riconoscimento e la garanzia della liberta' sotto tre aspetti fondamentali: la liberta' civile, la liberta' politica e la liberta' sociale. Per liberta' civile s'intende la facolta', attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalita' di ciascuno. Attraverso la liberta' politica, che e' il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l'orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall'alto. Inoltre, oggi siamo convinti che liberta' civile e liberta' politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla liberta' sociale, che sola puo' dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacita' naturali. Queste tre liberta' sono l'espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della piu' alta e umanamente piu' ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la liberta' civile c'e' il riconoscimento dell'uomo come persona, e quindi il principio che societa' giusta e' soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere puo' essere legittimamente, cioe' con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la liberta' politica c'e' l'idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della societa' umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la liberta' sociale c'e' il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non piu' rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprieta', il contributo effettivo che ciascuno puo' dare secondo le proprie capacita' allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignita' civile dell'uomo in societa'. Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. La' dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c'e' un problema della democrazia in Italia, e' piu' un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprimere su questo punto qualche apprensione. Il cammino della democrazia non e' un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell'umanita'. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l'Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri e' che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme. 2. MEMORIA. SIMONETTA FIORI INTERVISTA GUSTAVO ZAGREBELSKY [Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 gennaio 2009 col titolo "Intervista a Gustavo Zagrebelsky. Le liberta' oggi a rischio"] - Simonetta Fiori: Professor Gustavo Zagrebelsky, qual e' l'insegnamento essenziale che viene dalla lezione pubblicata in questa pagina? - Gustavo Zagrebelsky: Si puo' notare quanto questo testo sia lontano dal cliche' che fa del professor Bobbio un teorico della democrazia esclusivamente formale, cioe' della democrazia come insieme di regole procedurali. Senza queste regole, non c'e' democrazia. Ma non e' vero che la democrazia si esaurisca qui. Non bastano le istituzioni; occorre che le istituzioni siano "alimentate da saldi principi" e questi saldi principi sono l'humus della democrazia. Occorre dunque che le forme della democrazia operino in una sostanza democratica. Bobbio, in questo campo, era tutt'altro che un formalista. Avendo appreso la lezione dalla teoria e dalla storia, sapeva bene che, senza sostanza, la democrazia si trasforma in un guscio vuoto che puo' contenere, cercando magari di nasconderla o di imbellettarla, qualsiasi sozzura e che cio', alla fine, si rivolgera' contro le sue regole formali, rendendole odiose ai piu'. Se le procedure democratiche si riducono a una scorciatoia per gli interessi dei potenti di turno, e' facile che la frustrazione dei molti possa essere indirizzata contro la democrazia, invece che contro chi ne abusa. L'origine del populismo e' questa. * - Simonetta Fiori: Sta parlando di noi? - Gustavo Zagrebelsky: Sto parlando, mi pare, di un rischio che la democrazia corre in quanto tale. Se poi oggi viviamo in condizioni particolari di pericolo, ciascuno giudichi da se'. Per dare un giudizio, questo testo suggerisce di non limitarci alle forme e di portare l'attenzione sulla sostanza. Bene o male, le forme ci sono o, se non ci sono, e' perche', prima, si e' persa di vista la sostanza. * - Simonetta Fiori: Tre sono i punti essenziali indicati da Bobbio: liberta' civili, liberta' politiche, liberta' sociali. Quali liberta' sono oggi piu' "a rischio"? - Gustavo Zagrebelsky: Questo testo parla una sola volta di uguaglianza, a proposito della liberta' in politica: in democrazia non vi sono "governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati". Ma l'uguaglianza e' una condizione onnipervasiva della democrazia. Senza uguaglianza di mezzi materiali e intellettuali, la liberta' cambia natura e la democrazia si trasforma in maschera dell'oligarchia, cioe' del regime del privilegio di pochi, non necessariamente i migliori, a danno dei molti, non necessariamente i peggiori, ma certamente i piu' deboli. Cioe': la democrazia, che dovrebbe essere il regime che bandisce tra gli esseri umani l'uso della forza, si rovescia nel suo contrario, cioe' nel regime basato sullo squilibrio della forza. Da qui puo' venire una risposta alla sua domanda. Mai come in questo momento della vita della nostra societa' constatiamo tanta iniquita' nella distribuzione dei beni materiali, delle conoscenze e delle risorse intellettuali. La critica antidemocratica ha sempre sottolineato il rischio della massificazione, dell'appiattimento verso il basso. Ma qui, ora, si prefigura un incubo diverso: il gregge esposto e ignaro, guidato da pochi pastori, cioe' da gente che - come diceva Trasimaco - solo l'ingenuo Socrate poteva credere avesse a cuore il bene delle sue pecore, piuttosto che il proprio interesse. Una politica per l'uguaglianza: ecco cio' di cui ci sarebbe bisogno e non si vede in giro, nemmeno a sinistra. * - Simonetta Fiori: Di fronte all'involuzione in atto, suonano profetiche le parole di Bobbio che, all'ottimismo dei padri, oppone la necessita' di essere "democratici in allarme". Non siamo stati abbastanza "in allarme"? - Gustavo Zagrebelsky: Bisogna prendere sul serio quanto Bobbio stesso dice della democrazia. Dice che non e' un dato di fatto, un "cammino fatale" che si possa percorrere con facile fiducia. No. La democrazia e' una meta, anzi "la meta piu' alta", che richiede molto impegno e molte rinunce e non puo' vivere senza un ethos adeguato. * - Simonetta Fiori: E' cio' che manca oggi in Italia? - Gustavo Zagrebelsky: Si', abbiamo pensato che la democrazia sia un regime naturale, al quale tutti, purche' non coartati da qualche dittatore, si sarebbero orientati spontaneamente. Ricorda il discorso di Montesquieu sulla "molla della politica"? La molla che fa funzionare il dispotismo, per esempio, e' la paura; il potere dei privilegiati, l'invidia (finche' dura e non si trasforma in rabbia). Per la democrazia, che e' il regime di tutti, occorre una "virtu'" particolare, fatta di serieta' e sobrieta' negli stili di vita, di stima reciproca, di spirito d'uguaglianza, di rifiuto del privilegio e rispetto del diritto, di cura per le cose pubbliche che, essendo di tutti, non possono essere preda di nessuno in particolare. Potrei continuare e sarebbe un elenco che ci farebbe venire i brividi, per quanto lontani siamo dall'avere consolidato quella molla ideale. L'atteggiamento etico che e' stato diffuso dappertutto e con tutti i mezzi, in questi decenni, e' l'esatto contrario di tutto cio'. E ci stupiamo se avvertiamo la democrazia scricchiolare? * - Simonetta Fiori: E' questo l'effetto che le ha fatto leggere le parole di Bobbio? - Gustavo Zagrebelsky: Si'. I nemici della democrazia sanno che la prima battaglia per combatterla si svolge nei convincimenti e negli stili di vita che essi promuovono. Gli amici della democrazia dovrebbero fare altrettanto, sul versante opposto. 3. MEMORIA. MASSIMO NOVELLI: LA LEZIONE DI BOBBIO [Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 gennaio 2009 col titolo "Bobbio. L'edizione di tutte le opere convegni e mostre"] Quando Norberto Bobbio venne sepolto nella tomba di famiglia di Rivalta Bormida, il 12 gennaio del 2004, uno dei figli volle leggere uno suo scritto. Il filosofo rinsaldava li' il suo legame con il borgo contadino, adagiato tra basse colline, vigneti e foschie, in cui era nata la madre Rosa Caviglia, e ricordava: "E' bene mantenere le proprie radici" che "si hanno solo nel paese d'origine, nella terra, non nel cemento delle citta'". Cosi' da quelle radici di Rivalta, un piccolo comune in provincia di Alessandria, domani pomeriggio, in coincidenza con il quinto anniversario della morte, cominciano con una cerimonia a Palazzo Bruni le celebrazioni per il centenario della nascita (avvenuta a Torino il 18 ottobre 1909) di uno dei testimoni e dei protagonisti piu' significativi della cultura del Novecento. Sabato, nell'aula magna del rettorato dell'Universita' di Torino, dove Bobbio insegno' a lungo, insieme alla presentazione delle manifestazioni verra' rievocata la sua figura. Sono previsti interventi di Gastone Cottino, Enzo Pelizzetti, Paolo Garbarino, Marcello Gallo e Pietro Rossi. Il calendario delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per il centenario, presieduto da Gastone Cottino e sorto per l'impegno del Centro studi Piero Gobetti, entrera' nel vivo tra aprile e ottobre, con punte nel 2010, attraverso seminari, lezioni, un convegno internazionale (al quale dovrebbe prendere parte il capo dello Stato Giorgio Napolitano), uno spettacolo teatrale, una mostra all'Archivio di Stato di Torino e il completamento dell'edizione critica integrale delle sue opere. Altri appuntamenti sono in programma in Brasile, in Messico e in Spagna. Spiega Marco Revelli, vicepresidente del Centro Gobetti: "Saranno celebrazioni sobrie, nello spirito di Bobbio. L'intento e' di lasciare qualcosa di concreto, non di creare degli 'eventi' effimeri". Quelle cose concrete di cui si occupava Bobbio, ultimo grande rappresentante dell'"Italia civile". Ne incarno' i principi tanto da diventare per tanti l'estremo maestro, malgrado la sua ritrosia. Bobbio era nato nel 1909, lo stesso anno di Alessandro Galante Garrone e di Leone Ginzburg, che con lui - chi fino in fondo come il "mite giacobino", chi fino alla precoce morte come Ginzburg - percorsero gli impervi e drammatici cammini del secolo scorso. Il centenario sara' l'occasione per riflettere sulla generazione di intellettuali che animo' l'antifascismo e la breve eppure fondamentale e sempre viva stagione dell'azionismo. Non a caso il convegno di ottobre porta un titolo eloquente: "Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Bobbio". 4. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "VIOLENZA SENZA LEGGE" A CURA DI MARINA CALLONI (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA) [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro a cura di Marina Calloni, Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra nell'et‡ globale, Utet Universita', Torino 2006] Da pagina 36 Guerra e trasformazioni socio-territoriali. Una ricerca audiovisuale sulla citta' di Mostar, di Valentina Anzoise e Cristiano Mutti "Da Venezia l'Oriente e' una pulsazione vicinissima [...]. Niente come l'Adriatico, in questi giorni di guerra ed esodi di massa, ti dice che l'Europa altro non e' che una penisola dell'Asia e che li', a due passi, oltre le isole dalmate, comincia un altro mondo, un mondo che preme da millenni. Una terra inquieta, madre di tutte le migrazioni" (P. Rumiz, 2003) "When you spend a night in Mostar, you are woken in the morning not by sounds but by - the light" (I. Andric, 1992) 1. Introduzione Mostar, capitale dell'Erzegovina e seconda citta' piu' importante della Bosnia Erzegovina dopo Sarajevo, e' un insediamento di origine turca, situato nella valle della Neretva. Mentre nella parte nord dell'Erzegovina abitano soprattutto erzegovesi di religione cattolica e di nazionalita' croata, nella parte sud vivono prevalentemente erzegovesi di religione ortodossa e di nazionalita' serba, mentre verso l'interno, a est di Mostar, prevalgono i bosniaci di origine musulmana. Nelle aree intermedie ci sono localita' in cui vivono forti minoranze di musulmani. Mostar e' l'ultima citta' di cultura musulmana, di cosi' grande importanza, situata in occidente. E' collocata proprio lungo la valle di accesso a Sarajevo, dove la Bosnia centrale si apre verso il Mediterraneo (l'Adriatico), segnando un confine tra due mentalita' molto diverse: quella bosniaca e quella erzegovese. "Ibridazione e promiscuita' culturale fanno dei Balcani un'area di transizione tra occidente e oriente, un ponte [...], uno spazio interno all'Europa, ma profondamente ambiguo, crocevia dove si sovrappongono elementi etnici, linguistici e religiosi apparentemente inconciliabili" (dell'Agnese, Squarcina, 2002, p. 17). Durante l'era di Tito (1945-1980), molti dissidenti politici lasciarono l'Erzegovina croata - regione che aveva rappresentato la "roccaforte" del governo croato degli ustascia di Ante Pavelic, soprattutto in ambienti rurali. E sempre in questo periodo, prese anche avvio un'ondata migratoria verso il capoluogo, divenuto il volano per lo sviluppo industriale, per una modernizzazione di tipo socialista e per forti processi di urbanizzazione (Colafato, 1999). Alla fine della seconda guerra mondiale Mostar contava 18.000 abitanti, mentre nel 1991 ne erano censiti 126.000. Tale sviluppo sociale, economico e urbanistico era stato voluto da Tito per tre motivi: a. per garantire la sicurezza, a causa della sua posizione centrale, in quella che era la regione meno accessibile e piu' riparata da possibili attacchi militari, provenienti sia da est che da ovest; b. per dare sostegno all'etnia musulmana, in un complesso gioco di equilibri politici con le altre due "etnie" - quella croata e quella serba - peraltro maggioritarie; c. per rafforzare in contesti urbani la centralita' operaia, grazie alla creazione di una salda avanguardia rivoluzionaria, ideologicamente e politicamente fedele al nuovo regime. In tale contesto, la riorganizzazione dei comuni era il principale elemento per una costruzione dello Stato a partire dal basso. Ad esempio, nel comune di Mostar si contavano 38 comunita' locali, che insieme alle organizzazioni operaie di base e alle comunita' di interesse dovevano rappresentare le esperienze base di autogestione entro un territorio delimitato. Dal censimento del 1991, risulta dunque che gli abitanti di Mostar erano cosi' ripartiti: serbi 19%; musulmani 34,8%; croati 33,8%; jugoslavi 10%; altri 2,4% (Colafato, 1999, p. 20). Solitamente, si definivano jugoslavi coloro che erano nati da matrimoni "misti", che a Mostar erano un numero decisamente elevato. Dal censimento si puo' dunque evincere un sostanziale equilibrio tra le tre identita' - croata, serba e musulmana - che caratterizzava altresi' alcune comunita' locali di Mostar. Tuttavia, nelle comunita' del centro storico - specie quelle a ridosso del fiume, come Brankovac, Carina, Cernica, Donja Mahala e Luka I - prevalevano i musulmani, quale risultato del lento farsi della cultura urbana attorno a ponti, moschee, mercati e istituzioni varie risalenti al periodo turco (Colafato, 1999). Ma quanto piu' ci si allontanava dal centro, tanto piu' le comunita' locali venivano a configurarsi come etnicamente omogenee. Per fare solo qualche esempio, nella comunita' di Bijeli Brijeg II la percentuale dei croati ammontava al 44%, mentre nelle comunita' confinanti di Cim e Ilici raggiungeva rispettivamente il 97% e il 93%. Lo stesso valeva per la comunita' di Bacevici, situata tra la superstrada per Sarajevo e le pendici del Velez. Qui la percentuale di serbi risultava essere del 98%, laddove sorgevano infatti la Vecchia e la Nuova Chiesa Ortodossa (quest'ultima completamente rasa al suolo nel corso della prima guerra di Mostar). Quindi, ai margini di una citta' multietnica vi erano comunita' periferiche, etnicamente omogenee, quasi fossero avanguardie a presidio dei rispettivi territori. Sebbene per diversi secoli il popolo bosniaco fosse stato composto da bosniaci cattolici, bosniaci ortodossi e bosniaci musulmani, tuttavia nel processo di costruzione dell'identita' nazionale, nelle comunita' cattolica e ortodossa ha prevalso il legame con le cosiddette "madrepatrie", vale a dire Serbia e Croazia. E cio' ha indubbiamente influito sulla possibilita' di sviluppare un comune sentimento di appartenenza bosniaca, al di la' della diversita' etnica/religiosa. * 2. Le guerre di Mostar La guerra armata fa il suo ingresso ufficiale a Mostar nel 1992 con l'entrata dell'esercito ex jugoslavo (Esercito Popolare Jugoslavo, Jna) serbizzato, coadiuvato da "volontari". I bombardamenti distruggono moschee, cimiteri, palazzi e ponti; tolgono valore alla citta'; cancellano l'esperienza di cittadinanza. Al seguito dell'esercito, si muovono verso la Serbia anche i cittadini di nazionalita' serba. Le loro case vengono dunque occupate da profughi bosniaci e croati. Nella primavera del 1993 inizia la seconda guerra tra croati e musulmani. Ricominciano i bombardamenti e segue la pulizia etnica. Nelle mani delle milizie e delle bande paramilitari la citta' perde il suo orizzonte di senso. La distruzione del Ponte Vecchio, avvenuta il 9 novembre 1993 per mano delle armate estremiste croato-bosniache, esplicita la tragedia. Il 21 novembre 1995 a Dayton, nell'Ohio, le parti belligeranti firmano un accordo di pace che pone fine a una guerra civile interetnica durata tre anni (l'accordo finale venne firmato poi a Parigi il 14 dicembre 1995). Con gli accordi di Dayton la Bosnia Erzegovina viene suddivisa in Federazione di Bosnia Erzegovina e Republika Srpska, ovvero l'entita' serba della Bosnia Erzegovina. Dopo gli scontri armati, la citta' di Mostar si ritrova dunque divisa in due parti: la parte occidentale della citta' e' diventata la "parte croata", mentre il settore orientale e' diventato la "parte musulmana". La popolazione esce comunque nel complesso decimata dalla guerra, cosi' come la citta' subisce radicali devastazioni. In effetti, la disintegrazione urbana e' uno degli elementi piu' distintivi che hanno caratterizzato le guerre nella ex Jugoslavia. Nel descrivere gli eventi che hanno portato alla dissoluzione della federazione jugoslava, una delle immagini piu' ricorrenti riguarda infatti la distruzione delle citta'. Tant'e' che la furia distruttrice sui beni culturali e il processo di annientamento delle realta' urbane hanno preso il nome di "urbicidio", un neologismo coniato dal celebre architetto serbo Bogdan Bogdanovic, ex sindaco di Belgrado e oppositore di Milosevic: "Prima la barocca Vukovar; poi Dubrovnik, 'gioiello dell'Adriatico', quindi Mostar, dove il centenario Stari Most [il Ponte Vecchio sulla Neretva ultimato nel 1566] e' stato distrutto da pochi colpi di mortaio" (dell'Agnese, Squarcina, 2002, p. 155), infine Sarajevo, capitale della Bosnia e simbolo di multiculturalita'. Questi paesaggi urbani - distrutti dal tiro incrociato di miliziani, eserciti e mercenari - sono diventati i piu' potenti simboli della violenza della guerra, e ancora una volta la storia ha mostrato quanto la distruzione delle citta' sia una pratica bellica consolidata. A proposito della distruzione di Dubrovnik e delle altre citta', che sono oltretutto fra le piu' belle del paese, Bogdanovic ritiene che: "e' duro da dire, ma l'unico scopo dell'attacco a Dubrovnik e' stata la distruzione della sua bellezza. Fra noi ci sono barbari che odiano quelle citta' e traggono piacere dal distruggerle" (Bogdanovic, 1993, p. 20). Questo processo di uccisione della memoria e delle metafore urbane e' stato spiegato da diversi autori (dell'Agnese, Squarcina, 2002; Rumiz, 1996), ma anche dagli stessi "aggrediti" e "aggressori", nel quadro dell'antica opposizione tra popolazioni delle montagne, "piu' barbare", e popolazioni delle citta', "piu' civilizzate e pacifiche", o come scontro tra popolazioni dalla "purezza indomabile" e popolazioni dalla "mollezza decadente". L'inquadramento di Mostar all'interno di un piu' ampio contesto territoriale e una breve ricostruzione storico-analitica delle principali tappe e delle cause delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia, ci sono sembrati fondamentali per fornire il quadro teorico della nostra ricerca, di cui diamo in parte conto anche nel Cd-Rom allegato al presente volume. I massacri e il tragico epilogo delle guerre nella Bosnia Erzegovina sono ormai noti a tutti. Sono invece meno note le conseguenze che i conflitti e il persistere di confini e divisioni hanno avuto e continuano ad avere nelle interazioni sociali e nella memoria delle popolazioni, nonche' sui processi di ricostruzione urbana, a oltre dieci anni dalla fine della guerra. * Da pagina 52 Media e creazione dell'odio etnico. Il caso del Ruanda e della Bosnia Erzegovina, di Joshua Massarenti "Quando comincia una guerra, la prima vittima e' la verita'" (P. Knightly, The First Casualty) Introduzione Col collasso dei regimi comunisti avvenuto alla fine degli anni Ottanta, gli equilibri geopolitici internazionali, che erano nati con la guerra fredda, vennero completamente stravolti. Furono molti, fra analisti e giornalisti, ad annunciare la nascita di una nuova epoca, segnata dall'affermazione su scala mondiale dei principi della democrazia rappresentativa. Purtroppo, le guerre civili in Ruanda e nella ex Jugoslavia occorse negli anni Novanta tolsero tale certezza. Tra gli elementi che furono alla base dell'implosione dei due Stati si deve indubbiamente riconoscere il ruolo giocato dai mass-media. Approfittando della rabbia e della miseria che affliggevano molte fasce sociali, gruppi politici di ispirazione etno-nazionale riuscirono a veicolare appelli alla violenza e all'odio razziale, facendo un uso strumentale e propagandistico dei mass-media. Anche in Bosnia Erzegovina crimini di guerra divennero pratica quotidiana. Come in Ruanda, anche qui giocarono un ruolo determinante i mass-media, nell'incitazione all'odio razziale e - talvolta - ai massacri. Una parte della stampa (i giornali "Politica" e "Glas"), della radio e della televisione (RTV Serbia, TV Banja Luka) promosse infatti un tipo di comunicazione sociale in totale violazione del diritto internazionale. In particolar modo, veniva violato l'articolo 20 del Patto relativo ai diritti civili e politici, e soprattutto l'articolo 4 della Convenzione internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. In Ruanda fu la radio il piu' influente mezzo di comunicazione, mentre nella ex Jugoslavia - ad eccezione della Bosnia Erzegovina - fu la televisione. Il presente contributo intende ricordare in primo luogo le tappe fondamentali che segnarono il sopravvento dei media dell'odio in queste due realta' geopolitiche. In secondo luogo, mira ad analizzare - soprattutto in chiave socio-antropologica - il contenuto degli appelli discriminatori, trasmessi prima e durante la guerra in Ruanda e in Bosnia Erzegovina. Infine, ha lo scopo di comprendere i termini effettivi dell'influenza dei media sulla condotta dei civili. Si tratta, a ben vedere, di una problematica cruciale. Dalla seconda guerra mondiale in poi, si e' infatti assistito a un sempre maggior coinvolgimento dei civili in guerra rispetto ai militari, tanto da rendere sempre piu' difficili i processi di riconciliazione tra i diversi gruppi e individui, una volta terminati i conflitti. Cio' viene emblematicamente testimoniato dai casi del Ruanda e della Bosnia-Erzegovina. Ma a tutt'oggi l'Africa e, in misura minore, i Balcani sono ancora in balia di tensioni etniche e di conflitti politici di vecchia data, tanto da poter essere suscettibili - come accaduto in passato - di effetti indesiderati, dovuti a una propaganda discriminatoria e razziale, agita da giornalisti senza scrupoli (come nel caso della Costa d'Avorio). Tale situazione porta necessariamente a interrogarsi su quali possano essere le azioni preventive e repressive di cui la comunita' internazionale potrebbe disporre, al fine di scongiurare il pericolo di ulteriori conflitti armati. * Da pagina 183 L'umanitarismo tra pragmatismo e principi: elogio dell'incoerenza, di Marcello Flores La tutela dei diritti umani e' una questione di principio, di valori, o e' un problema eminentemente pratico? Qualsiasi risposta chiara e netta si dia a questo interrogativo, non puo' che soddisfare solo parzialmente i problemi di chi si e' trovato ad affrontarli direttamente. Un approccio "coerente", infatti, puo' essere poco produttivo rispetto a un orientamento piu' duttile ed elastico, quando ci si trovi di fronte a situazioni complesse - come sono ormai tutte, praticamente, le situazioni in cui e' coinvolto l'intervento umanitario. Proprio il riferimento costante ai diritti umani da parte di chiunque, e spesso con obiettivi e metodi d'intervento contrapposti o divergenti, dovrebbe suggerire non, come spesso si sostiene, che quella dei "diritti umani" e' un'ideologia, strumentalizzata per lo piu' dal potere e dalla cultura occidentali; ma che la questione dei diritti umani e' oggettivamente complessa, spinosa e contraddittoria nel rapporto che concretamente s'instaura tra i principi e l'azione pratica. Non e' un caso, del resto, che la maggior parte dell'intervento umanitario - di tipo solidaristico e di alleviamento delle sofferenze - abbia spesso trascurato o sottovalutato la tematica dei diritti umani. E che talvolta le campagne per i diritti umani si siano mosse piu' sul terreno della denuncia e del richiamo ai principi, senza valutare con attenzione i risultati raggiunti e l'efficacia prodotta. Un esempio: nel settembre 1997 il Commissario europeo Emma Bonino venne arrestata per qualche ora dai talebani, a Kabul. "La Repubblica" riporto' cosi' la notizia, per la penna di Guido Rampoldi: "Emma Bonino ha l'ottimo vizio di immettere nel suo ruolo di commissario europeo cio' che in genere la diplomazia internazionale rifugge: valori, principi, passioni civili. E questo probabilmente spiega perche' ieri mattina a Kabul sia incorsa in un incidente mai accaduto prima ai prudentissimi emissari delle Nazione Unite: e' stata arrestata dai Taliban, gli ultra-fondamentalisti afghani". Alcuni tra i "prudentissimi emissari delle Nazioni Unite" erano riusciti, dopo mesi di contrattazione, a giungere a un compromesso: alle bambine afgane non era ancora permesso di andare a scuola, in base alla rigida e fondamentalista interpretazione del Corano che guidava il regime talebano, ma potevano essere condotte, se ne avessero avuto bisogno, in ospedale, dove fino ad allora era loro proibito recarsi. Dopo l'intervento della Bonino, quella misura (di buon senso? umanitaria? liberale? di sopravvivenza?) venne immediatamente revocata per diversi mesi. Il mondo occidentale esulto' per il coraggio con cui una donna europea aveva difeso principi e valori che dovrebbero essere di tutti; le bambine afgane esultarono un po' meno. Il problema, naturalmente, non e' quello di stabilire quale dei due modi di agire - il richiamo ai valori o il difficile e prudente intervento diplomatico - sia da privilegiare. La questione consta nella consapevolezza che entrambi gli aspetti sono facce di una stessa medaglia e meritano, almeno, di essere conosciute e prese in considerazione entrambe per sapere a cosa si puo' andare incontro con la propria azione. E' evidente che per un "democratico" occidentale la presa di posizione di Emma Bonino abbia costituito un elemento di soddisfazione maggiore che non il lavoro dei "prudentissimi emissari" delle Nazioni Unite, dipinti ormai perennemente (e a volte, naturalmente, a ragione) come cinici, corrotti e profittatori delle disgrazie che dovrebbero cercare di lenire o risolvere. Ma chi lavora sul campo, sia esso diplomatico o militare, membro di una Ong o rappresentante di organismi internazionali, sa quanto spesso i risultati concreti possano giungere solo perche' si e' arrivati a un compromesso sui principi o si sono momentaneamente accantonati. Spesso i valori e i principi che vorremmo difendere, trasmettere, applicare e fare vincere entrano in conflitto gli uni con gli altri. E' stato a lungo cosi' - e lo e' tuttora, anche se soprattutto fuori dall'Occidente - nei contrasti che hanno visto sovente contrapposti sindacati e mondo del lavoro contro ecologisti e difensori dell'ambiente. Eppure, non si e' fatto gran che per analizzare queste contraddizioni, tutte interne al mondo dei valori universalistici che la parte migliore dell'Occidente vorrebbe propagandare. In realta', non sono certo di sapere e volere prendere posizione per l'uno o per l'altro dei comportamenti che si sono scontrati nell'occasione ricordata. Mi domando, pero', se gli operatori umanitari abbiano fatto tutto il possibile per fare anche, nei limiti del loro possibile, una battaglia di principio sui diritti umani; e se Emma Bonino si sia interrogata sugli effetti delle proprie parole e del proprio comportamento nei confronti degli afghani, e abbia chiesto lumi sul lavoro lento e difficile che le agenzie umanitarie stavano compiendo da anni in Afghanistan. E' probabile che la risposta sia no a entrambi questi interrogativi. La situazione dei diritti umani e' oggi migliore o peggiore di quella che era nell'epoca della guerra fredda? Vorrei fare, a questo proposito, qualche osservazione da storico e da comparatista. La cultura dei diritti umani e' una scoperta, nella sua dimensione di massa, dell'ultimo quindicennio, forse dell'ultimo ventennio. Prima della Conferenza di Helsinki del 1975, di fatto, era inesistente; e anche dopo ha dovuto faticare parecchio per imporsi, ad esempio, nell'agenda della sinistra. Non c'e' dubbio, per quanto possiamo guardare criticamente all'attuale realta' internazionale, che la cultura dei diritti umani abbia progressivamente influenzato la politica internazionale. Certo, quest'ultima ha naturalmente cercato di utilizzarla e strumentalizzarla, ma ha potuto farlo solo fino a un certo punto. Per quanto possiamo considerare illegittime le guerre condotte in Jugoslavia/Kosovo, in Afghanistan e in Iraq (alcune delle quali hanno diviso, proprio sulla questione della loro legittimita', la sinistra democratica: la questione e' complessa e si tratta comunque di guerre fra di loro diverse, anche se tutti, favorevoli e contrari, hanno teso a darne una lettura omogenea), queste guerre sono state fortemente influenzate dalla cultura dei diritti, nel modo in cui sono state progettate e attuate. Lo sono state per il tentativo di minimizzare le vittime proprie (obiettivo solo in parte riuscito, soprattutto in Iraq: ma nel dopoguerra), ma anche per la necessita' "storica" di violare il meno possibile i diritti umani (cioe', sostanzialmente, uccidere o colpire i civili: la piu' comune violazione dei diritti in tempo di guerra). Puo' sembrare cinico che dica questo mentre e' ancora in corso la guerra in Iraq. Eppure, in una dimensione comparata, che non comporta alcun giudizio morale o politico, le ultime guerre sono state davvero, per molti aspetti, guerre piu' "umanitarie". Basti confrontarle con il Vietnam o con il Guatemala per esserne certi, a dispetto dei bombardamenti su Belgrado e in Afghanistan, o delle uccisioni e delle torture in Iraq. E non e' un caso che ci siano voluti tre anni di bombardamenti sul Vietnam perche' il movimento pacifista divenisse forte e influente negli Usa e in Europa, mentre nel caso dell'Iraq cio' e' potuto avvenire, anche se con poca influenza, prima ancora dell'inizio della guerra. A questo proposito vorrei citare (solo a memoria purtroppo) una testimonianza eccellente, quella di Henry Kissinger. In un'intervista, un giornalista gli ricordava l'accusa di genocidio e di gravi violazioni di diritti umani fatta a Nixon e a Kissinger stesso in diverse occasioni, un'accusa riportata anche nel recente libro di Cristopher Hitchens. L'ex Segretario di Stato riusciva solo a rispondere: a quell'epoca non si parlava di diritti umani, non c'era l'attenzione che c'e' adesso, non mi si puo' accusare di quanto ho commesso allora con la cultura e la mentalita' di oggi. Al di la' dell'autogiustificazione, questa osservazione ha una sua parte di verita'. * Da pagina 195 Sopravvivere e vivere, di Esther Mujawayo Bisogna disingannarsi: il genocidio dei tutsi in Ruanda nell'aprile 1994 non e' stato un evento brutale, inatteso e spontaneo, come vogliono farci credere i mass media. E' stato ben preparato e sperimentato su piccola scala, nei mesi che l'hanno preceduto. Ma bisogna soprattutto ricordare che sia in Ruanda sia al suo esterno le mentalita' tanto dei carnefici quanto delle vittime erano state abituate ad accettare come una questione inevitabile la discriminazione quotidiana che ha subissato i tutsi durante l'intero periodo postcoloniale. Il che significava un difficile accesso all'istruzione, alla funzione pubblica, ai servizi. La carta d'identita' col riferimento obbligatorio all'etnia a cui appartenevi ti seguiva ovunque, neg li studi, nell'impiego, perfino nei controlli di ogni tuo spostamento. E in effetti, il genocidio del 1994 arrivo' come la soluzione finale - come dicevano gli stessi genocidari - della questione tutsi, che era sempre stata affrontata in modo solo parziale. Si deve infatti ricordare che c'erano gia' stati massacri e cacce all'uomo negli anni 1959, 1963 e 1973, ma il successo di tali operazioni era stato parziale, dal momento che c'erano sempre tutsi che riuscivano a fuggire e a ricominciare una nuova vita altrove. Nel 1994 la parola d'ordine fu invece estremamente chiara: annientateli tutti. Non lasciate bebe', donne, nessuno, niente: non commettete lo stesso errore fatto in passato, quando vi siete lasciati scappare bebe' e donne, quando non avete ucciso le persone nascoste nelle chiese e cosi' via. Prima uccidete, poi saccheggiate! Poter sopravvivere a questa volonta' di annientamento non e' una questione evidente. Per mesi sei stato braccato come una bestia feroce. Del resto, non vieni piu' chiamato come un essere umano, sei solo una blatta, un insetto... E cio' rende piu' facile il compito del carnefice. Non uccide una persona, ma un insetto. Schiaccia, pulisce, lavora. Quando sopravvivi a tutto questo e sei costretto a vivere, non e' facile: ieri eri perseguitato come una bestia! Ieri eri una blatta da schiacciare, da ripulire dalla terra! Ieri i cani e i bambini dovevano venirti a scovare in tutti i nascondigli possibili e immaginabili. Ora tutto e' finito. Vivo. Ho il diritto di vivere oppure sono forse condannata a vivere? All'inizio della nostra sopravvivenza, quando ci siamo accorti di essere belli e vivi, di essere stati condannati a vivere, ci siamo trovati smarriti. Del resto i carnefici dei nostri familiari si erano rifiutati di ucciderci. Ci ricordavano spesso che saremmo morti a fuoco lento, poiche' per mezzo dello stupro sistematico ci avevano inoculato una morte lenta, per Aids. Dovevamo morire e ci ritroviamo qui, non morti ma comunque morti viventi. Come passare da questa morte-vita a una vera vita? Come vivere malgrado l'accanita volonta' di annientarti? Perche' ti hanno voluto annientare? Per la sola ragione di essere nata tale e quale sono, cioe' tutsi? Dapprima l'istinto di sopravvivenza ci ha tenuti in vita, ma a poco a poco, e grazie soprattutto al sostegno reciproco che ci si offriva nella nostra associazione, chiamata Vedove del Genocidio d'Aprile (Avega), abbiamo deciso di fare della nostra sopravvivenza una vera vita! Non fosse che per punire i nostri carnefici. Ci volevano morte, finite, per terra. Ed effettivamente siamo morte viventi, siamo quasi finite, siamo per terra. Moriamo di Aids che ci e' stato gratuitamente infettato durante gli stupri che abbiamo subito. Moriamo di una solitudine incredibile dopo aver perduto tutti i nostri cari e ritrovandoci in mezzo ai nostri carnefici. Il vuoto e' violento. L'annientamento e' quasi riuscito. Non abbiamo piu' identita'. Abbiamo perso perfino cio' che eravamo. Non abbiamo potuto essere in lutto, non abbiamo potuto piangere e seppellire i nostri morti. Le ferite fisiche e morali rimangono ancora aperte. Per curarle, ci uniamo. Avega e' la nostra nuova famiglia. Ci teniamo unite per mano. Piangiamo insieme. Ci struggiamo insieme. Ma ci rialziamo anche insieme. Impariamo a rialzarci, a ridere, a ricostruire le nostre case e i nostri cuori, a medicare le ferite e a pensare al nostro avvenire, perche' nonostante tutto, per il tempo che ci resta - per noi e per i morti - non c'e' soltanto questo presente, ma anche questo avvenire da vivere e non soltanto da sopravvivere. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 283 del 10 gennaio 2009 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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