Voci e volti della nonviolenza. 283



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 283 del 10 gennaio 2009

In questo numero:
1. Norberto Bobbio: Democrazia (1958)
2. Simonetta Fiori intervista Gustavo Zagrebelsky
3. Massimo Novelli: La lezione di Bobbio
4. Alcuni estratti da "Violenza senza legge" a cura di Marina Calloni (parte
seconda e conclusiva)

1. MAESTRI. NORBERTO BOBBIO: DEMOCRAZIA (1958)
[Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 gennaio 2009 col titolo "Se vengono
meno i principi della democrazia", il sommario "In un articolo scritto nel
1958, l'apprensione per la sorte dei principi conquistati dopo il fascismo e
la sottolineatura di cio' a cui non si dovra' mai rinunciare, le liberta'
civili, politiche e sociali. Oggi non crediamo, come credevano i liberali e
i socialisti del primo Novecento, che il cammino democratico sia
inesorabile. Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure
abbandonarsi alle sorti fatalmente progressive dell'umanita'" e la nota
redazionale "Questo testo comparve nel 1958 su 'Risorgimento' che, in
occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso
un'inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino
dell'Ateneo di Torino"]

Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di
istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella
democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti
e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo
di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.
Come regime politico la democrazia moderna e' fondata sul riconoscimento e
la garanzia della liberta' sotto tre aspetti fondamentali: la liberta'
civile, la liberta' politica e la liberta' sociale. Per liberta' civile
s'intende la facolta', attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte
personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della
vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si
rafforza la personalita' di ciascuno. Attraverso la liberta' politica, che
e' il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione
delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle
scelte politiche che determinano l'orientamento del governo, e di discutere
e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il
potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall'alto. Inoltre,
oggi siamo convinti che liberta' civile e liberta' politica siano nomi vani
qualora non vengano integrate dalla liberta' sociale, che sola puo' dare al
cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente
di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie
capacita' naturali.
Queste tre liberta' sono l'espressione di una compiuta concezione della vita
e della storia, della piu' alta e umanamente piu' ricca concezione della
vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli.
Dietro la liberta' civile c'e' il riconoscimento dell'uomo come persona, e
quindi il principio che societa' giusta e' soltanto quella in cui il potere
dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di
potere puo' essere legittimamente, cioe' con mezzi giuridici, respinto, e vi
domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma
di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di
violenza fisica e morale. Dietro la liberta' politica c'e' l'idea della
fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il
principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la
sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della societa' umana, non vi sono
eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti
incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma
tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e
gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie.
Infine, dietro la liberta' sociale c'e' il principio, tardi e faticosamente
apparso, ma non piu' rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare,
non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la
proprieta', il contributo effettivo che ciascuno puo' dare secondo le
proprie capacita' allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno
detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la
dignita' civile dell'uomo in societa'.
Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se
queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. La' dove i
principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche
le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi
al primo urto di finire in polvere. Se oggi c'e' un problema della
democrazia in Italia, e' piu' un problema di principi che di istituzioni. A
dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le
principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico
esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle
democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non
esprimere su questo punto qualche apprensione.
Il cammino della democrazia non e' un cammino facile. Per questo bisogna
essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure
abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive
dell'umanita'. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici,
i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino
fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza
europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire
l'Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei
nostri padri e' che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo
essere, democratici sempre in allarme.

2. MEMORIA. SIMONETTA FIORI INTERVISTA GUSTAVO ZAGREBELSKY
[Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 gennaio 2009 col titolo "Intervista a
Gustavo Zagrebelsky. Le liberta' oggi a rischio"]

- Simonetta Fiori: Professor Gustavo Zagrebelsky, qual e' l'insegnamento
essenziale che viene dalla lezione pubblicata in questa pagina?
- Gustavo Zagrebelsky: Si puo' notare quanto questo testo sia lontano dal
cliche' che fa del professor Bobbio un teorico della democrazia
esclusivamente formale, cioe' della democrazia come insieme di regole
procedurali. Senza queste regole, non c'e' democrazia. Ma non e' vero che la
democrazia si esaurisca qui. Non bastano le istituzioni; occorre che le
istituzioni siano "alimentate da saldi principi" e questi saldi principi
sono l'humus della democrazia. Occorre dunque che le forme della democrazia
operino in una sostanza democratica. Bobbio, in questo campo, era tutt'altro
che un formalista. Avendo appreso la lezione dalla teoria e dalla storia,
sapeva bene che, senza sostanza, la democrazia si trasforma in un guscio
vuoto che puo' contenere, cercando magari di nasconderla o di imbellettarla,
qualsiasi sozzura e che cio', alla fine, si rivolgera' contro le sue regole
formali, rendendole odiose ai piu'. Se le procedure democratiche si riducono
a una scorciatoia per gli interessi dei potenti di turno, e' facile che la
frustrazione dei molti possa essere indirizzata contro la democrazia, invece
che contro chi ne abusa. L'origine del populismo e' questa.
*
- Simonetta Fiori: Sta parlando di noi?
- Gustavo Zagrebelsky: Sto parlando, mi pare, di un rischio che la
democrazia corre in quanto tale. Se poi oggi viviamo in condizioni
particolari di pericolo, ciascuno giudichi da se'. Per dare un giudizio,
questo testo suggerisce di non limitarci alle forme e di portare
l'attenzione sulla sostanza. Bene o male, le forme ci sono o, se non ci
sono, e' perche', prima, si e' persa di vista la sostanza.
*
- Simonetta Fiori: Tre sono i punti essenziali indicati da Bobbio: liberta'
civili, liberta' politiche, liberta' sociali. Quali liberta' sono oggi piu'
"a rischio"?
- Gustavo Zagrebelsky: Questo testo parla una sola volta di uguaglianza, a
proposito della liberta' in politica: in democrazia non vi sono "governanti
e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati". Ma
l'uguaglianza e' una condizione onnipervasiva della democrazia. Senza
uguaglianza di mezzi materiali e intellettuali, la liberta' cambia natura e
la democrazia si trasforma in maschera dell'oligarchia, cioe' del regime del
privilegio di pochi, non necessariamente i migliori, a danno dei molti, non
necessariamente i peggiori, ma certamente i piu' deboli. Cioe': la
democrazia, che dovrebbe essere il regime che bandisce tra gli esseri umani
l'uso della forza, si rovescia nel suo contrario, cioe' nel regime basato
sullo squilibrio della forza. Da qui puo' venire una risposta alla sua
domanda. Mai come in questo momento della vita della nostra societa'
constatiamo tanta iniquita' nella distribuzione dei beni materiali, delle
conoscenze e delle risorse intellettuali. La critica antidemocratica ha
sempre sottolineato il rischio della massificazione, dell'appiattimento
verso il basso. Ma qui, ora, si prefigura un incubo diverso: il gregge
esposto e ignaro, guidato da pochi pastori, cioe' da gente che - come diceva
Trasimaco - solo l'ingenuo Socrate poteva credere avesse a cuore il bene
delle sue pecore, piuttosto che il proprio interesse. Una politica per
l'uguaglianza: ecco cio' di cui ci sarebbe bisogno e non si vede in giro,
nemmeno a sinistra.
*
- Simonetta Fiori: Di fronte all'involuzione in atto, suonano profetiche le
parole di Bobbio che, all'ottimismo dei padri, oppone la necessita' di
essere "democratici in allarme". Non siamo stati abbastanza "in allarme"?
- Gustavo Zagrebelsky: Bisogna prendere sul serio quanto Bobbio stesso dice
della democrazia. Dice che non e' un dato di fatto, un "cammino fatale" che
si possa percorrere con facile fiducia. No. La democrazia e' una meta, anzi
"la meta piu' alta", che richiede molto impegno e molte rinunce e non puo'
vivere senza un ethos adeguato.
*
- Simonetta Fiori: E' cio' che manca oggi in Italia?
- Gustavo Zagrebelsky: Si', abbiamo pensato che la democrazia sia un regime
naturale, al quale tutti, purche' non coartati da qualche dittatore, si
sarebbero orientati spontaneamente. Ricorda il discorso di Montesquieu sulla
"molla della politica"? La molla che fa funzionare il dispotismo, per
esempio, e' la paura; il potere dei privilegiati, l'invidia (finche' dura e
non si trasforma in rabbia). Per la democrazia, che e' il regime di tutti,
occorre una "virtu'" particolare, fatta di serieta' e sobrieta' negli stili
di vita, di stima reciproca, di spirito d'uguaglianza, di rifiuto del
privilegio e rispetto del diritto, di cura per le cose pubbliche che,
essendo di tutti, non possono essere preda di nessuno in particolare. Potrei
continuare e sarebbe un elenco che ci farebbe venire i brividi, per quanto
lontani siamo dall'avere consolidato quella molla ideale. L'atteggiamento
etico che e' stato diffuso dappertutto e con tutti i mezzi, in questi
decenni, e' l'esatto contrario di tutto cio'. E ci stupiamo se avvertiamo la
democrazia scricchiolare?
*
- Simonetta Fiori: E' questo l'effetto che le ha fatto leggere le parole di
Bobbio?
- Gustavo Zagrebelsky: Si'. I nemici della democrazia sanno che la prima
battaglia per combatterla si svolge nei convincimenti e negli stili di vita
che essi promuovono. Gli amici della democrazia dovrebbero fare altrettanto,
sul versante opposto.

3. MEMORIA. MASSIMO NOVELLI: LA LEZIONE DI BOBBIO
[Dal quotidiano "La Repubblica" dell'8 gennaio 2009 col titolo "Bobbio.
L'edizione di tutte le opere convegni e mostre"]

Quando Norberto Bobbio venne sepolto nella tomba di famiglia di Rivalta
Bormida, il 12 gennaio del 2004, uno dei figli volle leggere uno suo
scritto. Il filosofo rinsaldava li' il suo legame con il borgo contadino,
adagiato tra basse colline, vigneti e foschie, in cui era nata la madre Rosa
Caviglia, e ricordava: "E' bene mantenere le proprie radici" che "si hanno
solo nel paese d'origine, nella terra, non nel cemento delle citta'". Cosi'
da quelle radici di Rivalta, un piccolo comune in provincia di Alessandria,
domani pomeriggio, in coincidenza con il quinto anniversario della morte,
cominciano con una cerimonia a Palazzo Bruni le celebrazioni per il
centenario della nascita (avvenuta a Torino il 18 ottobre 1909) di uno dei
testimoni e dei protagonisti piu' significativi della cultura del Novecento.
Sabato, nell'aula magna del rettorato dell'Universita' di Torino, dove
Bobbio insegno' a lungo, insieme alla presentazione delle manifestazioni
verra' rievocata la sua figura. Sono previsti interventi di Gastone Cottino,
Enzo Pelizzetti, Paolo Garbarino, Marcello Gallo e Pietro Rossi. Il
calendario delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per il
centenario, presieduto da Gastone Cottino e sorto per l'impegno del Centro
studi Piero Gobetti, entrera' nel vivo tra aprile e ottobre, con punte nel
2010, attraverso seminari, lezioni, un convegno internazionale (al quale
dovrebbe prendere parte il capo dello Stato Giorgio Napolitano), uno
spettacolo teatrale, una mostra all'Archivio di Stato di Torino e il
completamento dell'edizione critica integrale delle sue opere.
Altri appuntamenti sono in programma in Brasile, in Messico e in Spagna.
Spiega Marco Revelli, vicepresidente del Centro Gobetti: "Saranno
celebrazioni sobrie, nello spirito di Bobbio. L'intento e' di lasciare
qualcosa di concreto, non di creare degli 'eventi' effimeri". Quelle cose
concrete di cui si occupava Bobbio, ultimo grande rappresentante
dell'"Italia civile". Ne incarno' i principi tanto da diventare per tanti
l'estremo maestro, malgrado la sua ritrosia.
Bobbio era nato nel 1909, lo stesso anno di Alessandro Galante Garrone e di
Leone Ginzburg, che con lui - chi fino in fondo come il "mite giacobino",
chi fino alla precoce morte come Ginzburg - percorsero gli impervi e
drammatici cammini del secolo scorso. Il centenario sara' l'occasione per
riflettere sulla generazione di intellettuali che animo' l'antifascismo e la
breve eppure fondamentale e sempre viva stagione dell'azionismo. Non a caso
il convegno di ottobre porta un titolo eloquente: "Dal Novecento al Duemila.
Il futuro di Bobbio".

4. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "VIOLENZA SENZA LEGGE" A CURA DI MARINA CALLONI
(PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro a cura
di Marina Calloni, Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra
nell'et‡ globale, Utet Universita', Torino 2006]

Da pagina 36
Guerra e trasformazioni socio-territoriali. Una ricerca audiovisuale sulla
citta' di Mostar, di Valentina Anzoise e Cristiano Mutti
"Da Venezia l'Oriente e' una pulsazione vicinissima [...]. Niente come
l'Adriatico, in questi giorni di guerra ed esodi di massa, ti dice che
l'Europa altro non e' che una penisola dell'Asia e che li', a due passi,
oltre le isole dalmate, comincia un altro mondo, un mondo che preme da
millenni. Una terra inquieta, madre di tutte le migrazioni" (P. Rumiz, 2003)
"When you spend a night in Mostar, you are woken in the morning not by
sounds but by - the light" (I. Andric, 1992)
1. Introduzione
Mostar, capitale dell'Erzegovina e seconda citta' piu' importante della
Bosnia Erzegovina dopo Sarajevo, e' un insediamento di origine turca,
situato nella valle della Neretva. Mentre nella parte nord dell'Erzegovina
abitano soprattutto erzegovesi di religione cattolica e di nazionalita'
croata, nella parte sud vivono prevalentemente erzegovesi di religione
ortodossa e di nazionalita' serba, mentre verso l'interno, a est di Mostar,
prevalgono i bosniaci di origine musulmana. Nelle aree intermedie ci sono
localita' in cui vivono forti minoranze di musulmani.
Mostar e' l'ultima citta' di cultura musulmana, di cosi' grande importanza,
situata in occidente. E' collocata proprio lungo la valle di accesso a
Sarajevo, dove la Bosnia centrale si apre verso il Mediterraneo
(l'Adriatico), segnando un confine tra due mentalita' molto diverse: quella
bosniaca e quella erzegovese.
"Ibridazione e promiscuita' culturale fanno dei Balcani un'area di
transizione tra occidente e oriente, un ponte [...], uno spazio interno
all'Europa, ma profondamente ambiguo, crocevia dove si sovrappongono
elementi etnici, linguistici e religiosi apparentemente inconciliabili"
(dell'Agnese, Squarcina, 2002, p. 17).
Durante l'era di Tito (1945-1980), molti dissidenti politici lasciarono
l'Erzegovina croata - regione che aveva rappresentato la "roccaforte" del
governo croato degli ustascia di Ante Pavelic, soprattutto in ambienti
rurali. E sempre in questo periodo, prese anche avvio un'ondata migratoria
verso il capoluogo, divenuto il volano per lo sviluppo industriale, per una
modernizzazione di tipo socialista e per forti processi di urbanizzazione
(Colafato, 1999).
Alla fine della seconda guerra mondiale Mostar contava 18.000 abitanti,
mentre nel 1991 ne erano censiti 126.000. Tale sviluppo sociale, economico e
urbanistico era stato voluto da Tito per tre motivi:
a. per garantire la sicurezza, a causa della sua posizione centrale, in
quella che era la regione meno accessibile e piu' riparata da possibili
attacchi militari, provenienti sia da est che da ovest;
b. per dare sostegno all'etnia musulmana, in un complesso gioco di equilibri
politici con le altre due "etnie" - quella croata e quella serba - peraltro
maggioritarie;
c. per rafforzare in contesti urbani la centralita' operaia, grazie alla
creazione di una salda avanguardia rivoluzionaria, ideologicamente e
politicamente fedele al nuovo regime.
In tale contesto, la riorganizzazione dei comuni era il principale elemento
per una costruzione dello Stato a partire dal basso. Ad esempio, nel comune
di Mostar si contavano 38 comunita' locali, che insieme alle organizzazioni
operaie di base e alle comunita' di interesse dovevano rappresentare le
esperienze base di autogestione entro un territorio delimitato.
Dal censimento del 1991, risulta dunque che gli abitanti di Mostar erano
cosi' ripartiti: serbi 19%; musulmani 34,8%; croati 33,8%; jugoslavi 10%;
altri 2,4% (Colafato, 1999, p. 20). Solitamente, si definivano jugoslavi
coloro che erano nati da matrimoni "misti", che a Mostar erano un numero
decisamente elevato.
Dal censimento si puo' dunque evincere un sostanziale equilibrio tra le tre
identita' - croata, serba e musulmana - che caratterizzava altresi' alcune
comunita' locali di Mostar. Tuttavia, nelle comunita' del centro storico -
specie quelle a ridosso del fiume, come Brankovac, Carina, Cernica, Donja
Mahala e Luka I - prevalevano i musulmani, quale risultato del lento farsi
della cultura urbana attorno a ponti, moschee, mercati e istituzioni varie
risalenti al periodo turco (Colafato, 1999). Ma quanto piu' ci si
allontanava dal centro, tanto piu' le comunita' locali venivano a
configurarsi come etnicamente omogenee. Per fare solo qualche esempio, nella
comunita' di Bijeli Brijeg II la percentuale dei croati ammontava al 44%,
mentre nelle comunita' confinanti di Cim e Ilici raggiungeva rispettivamente
il 97% e il 93%. Lo stesso valeva per la comunita' di Bacevici, situata tra
la superstrada per Sarajevo e le pendici del Velez. Qui la percentuale di
serbi risultava essere del 98%, laddove sorgevano infatti la Vecchia e la
Nuova Chiesa Ortodossa (quest'ultima completamente rasa al suolo nel corso
della prima guerra di Mostar). Quindi, ai margini di una citta' multietnica
vi erano comunita' periferiche, etnicamente omogenee, quasi fossero
avanguardie a presidio dei rispettivi territori.
Sebbene per diversi secoli il popolo bosniaco fosse stato composto da
bosniaci cattolici, bosniaci ortodossi e bosniaci musulmani, tuttavia nel
processo di costruzione dell'identita' nazionale, nelle comunita' cattolica
e ortodossa ha prevalso il legame con le cosiddette "madrepatrie", vale a
dire Serbia e Croazia. E cio' ha indubbiamente influito sulla possibilita'
di sviluppare un comune sentimento di appartenenza bosniaca, al di la' della
diversita' etnica/religiosa.
*
2. Le guerre di Mostar
La guerra armata fa il suo ingresso ufficiale a Mostar nel 1992 con
l'entrata dell'esercito ex jugoslavo (Esercito Popolare Jugoslavo, Jna)
serbizzato, coadiuvato da "volontari". I bombardamenti distruggono moschee,
cimiteri, palazzi e ponti; tolgono valore alla citta'; cancellano
l'esperienza di cittadinanza. Al seguito dell'esercito, si muovono verso la
Serbia anche i cittadini di nazionalita' serba. Le loro case vengono dunque
occupate da profughi bosniaci e croati.
Nella primavera del 1993 inizia la seconda guerra tra croati e musulmani.
Ricominciano i bombardamenti e segue la pulizia etnica. Nelle mani delle
milizie e delle bande paramilitari la citta' perde il suo orizzonte di
senso. La distruzione del Ponte Vecchio, avvenuta il 9 novembre 1993 per
mano delle armate estremiste croato-bosniache, esplicita la tragedia.
Il 21 novembre 1995 a Dayton, nell'Ohio, le parti belligeranti firmano un
accordo di pace che pone fine a una guerra civile interetnica durata tre
anni (l'accordo finale venne firmato poi a Parigi il 14 dicembre 1995). Con
gli accordi di Dayton la Bosnia Erzegovina viene suddivisa in Federazione di
Bosnia Erzegovina e Republika Srpska, ovvero l'entita' serba della Bosnia
Erzegovina. Dopo gli scontri armati, la citta' di Mostar si ritrova dunque
divisa in due parti: la parte occidentale della citta' e' diventata la
"parte croata", mentre il settore orientale e' diventato la "parte
musulmana". La popolazione esce comunque nel complesso decimata dalla
guerra, cosi' come la citta' subisce radicali devastazioni.
In effetti, la disintegrazione urbana e' uno degli elementi piu' distintivi
che hanno caratterizzato le guerre nella ex Jugoslavia. Nel descrivere gli
eventi che hanno portato alla dissoluzione della federazione jugoslava, una
delle immagini piu' ricorrenti riguarda infatti la distruzione delle citta'.
Tant'e' che la furia distruttrice sui beni culturali e il processo di
annientamento delle realta' urbane hanno preso il nome di "urbicidio", un
neologismo coniato dal celebre architetto serbo Bogdan Bogdanovic, ex
sindaco di Belgrado e oppositore di Milosevic: "Prima la barocca Vukovar;
poi Dubrovnik, 'gioiello dell'Adriatico', quindi Mostar, dove il centenario
Stari Most [il Ponte Vecchio sulla Neretva ultimato nel 1566] e' stato
distrutto da pochi colpi di mortaio" (dell'Agnese, Squarcina, 2002, p. 155),
infine Sarajevo, capitale della Bosnia e simbolo di multiculturalita'.
Questi paesaggi urbani - distrutti dal tiro incrociato di miliziani,
eserciti e mercenari - sono diventati i piu' potenti simboli della violenza
della guerra, e ancora una volta la storia ha mostrato quanto la distruzione
delle citta' sia una pratica bellica consolidata.
A proposito della distruzione di Dubrovnik e delle altre citta', che sono
oltretutto fra le piu' belle del paese, Bogdanovic ritiene che: "e' duro da
dire, ma l'unico scopo dell'attacco a Dubrovnik e' stata la distruzione
della sua bellezza. Fra noi ci sono barbari che odiano quelle citta' e
traggono piacere dal distruggerle" (Bogdanovic, 1993, p. 20).
Questo processo di uccisione della memoria e delle metafore urbane e' stato
spiegato da diversi autori (dell'Agnese, Squarcina, 2002; Rumiz, 1996), ma
anche dagli stessi "aggrediti" e "aggressori", nel quadro dell'antica
opposizione tra popolazioni delle montagne, "piu' barbare", e popolazioni
delle citta', "piu' civilizzate e pacifiche", o come scontro tra popolazioni
dalla "purezza indomabile" e popolazioni dalla "mollezza decadente".
L'inquadramento di Mostar all'interno di un piu' ampio contesto territoriale
e una breve ricostruzione storico-analitica delle principali tappe e delle
cause delle guerre che hanno portato alla dissoluzione della ex Jugoslavia,
ci sono sembrati fondamentali per fornire il quadro teorico della nostra
ricerca, di cui diamo in parte conto anche nel Cd-Rom allegato al presente
volume.
I massacri e il tragico epilogo delle guerre nella Bosnia Erzegovina sono
ormai noti a tutti. Sono invece meno note le conseguenze che i conflitti e
il persistere di confini e divisioni hanno avuto e continuano ad avere nelle
interazioni sociali e nella memoria delle popolazioni, nonche' sui processi
di ricostruzione urbana, a oltre dieci anni dalla fine della guerra.
*
Da pagina 52
Media e creazione dell'odio etnico. Il caso del Ruanda e della Bosnia
Erzegovina, di Joshua Massarenti
"Quando comincia una guerra, la prima vittima e' la verita'" (P. Knightly,
The First Casualty)
Introduzione
Col collasso dei regimi comunisti avvenuto alla fine degli anni Ottanta, gli
equilibri geopolitici internazionali, che erano nati con la guerra fredda,
vennero completamente stravolti. Furono molti, fra analisti e giornalisti,
ad annunciare la nascita di una nuova epoca, segnata dall'affermazione su
scala mondiale dei principi della democrazia rappresentativa. Purtroppo, le
guerre civili in Ruanda e nella ex Jugoslavia occorse negli anni Novanta
tolsero tale certezza. Tra gli elementi che furono alla base dell'implosione
dei due Stati si deve indubbiamente riconoscere il ruolo giocato dai
mass-media. Approfittando della rabbia e della miseria che affliggevano
molte fasce sociali, gruppi politici di ispirazione etno-nazionale
riuscirono a veicolare appelli alla violenza e all'odio razziale, facendo un
uso strumentale e propagandistico dei mass-media.
Anche in Bosnia Erzegovina crimini di guerra divennero pratica quotidiana.
Come in Ruanda, anche qui giocarono un ruolo determinante i mass-media,
nell'incitazione all'odio razziale e - talvolta - ai massacri. Una parte
della stampa (i giornali "Politica" e "Glas"), della radio e della
televisione (RTV Serbia, TV Banja Luka) promosse infatti un tipo di
comunicazione sociale in totale violazione del diritto internazionale. In
particolar modo, veniva violato l'articolo 20 del Patto relativo ai diritti
civili e politici, e soprattutto l'articolo 4 della Convenzione
internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.
In Ruanda fu la radio il piu' influente mezzo di comunicazione, mentre nella
ex Jugoslavia - ad eccezione della Bosnia Erzegovina - fu la televisione. Il
presente contributo intende ricordare in primo luogo le tappe fondamentali
che segnarono il sopravvento dei media dell'odio in queste due realta'
geopolitiche. In secondo luogo, mira ad analizzare - soprattutto in chiave
socio-antropologica - il contenuto degli appelli discriminatori, trasmessi
prima e durante la guerra in Ruanda e in Bosnia Erzegovina. Infine, ha lo
scopo di comprendere i termini effettivi dell'influenza dei media sulla
condotta dei civili. Si tratta, a ben vedere, di una problematica cruciale.
Dalla seconda guerra mondiale in poi, si e' infatti assistito a un sempre
maggior coinvolgimento dei civili in guerra rispetto ai militari, tanto da
rendere sempre piu' difficili i processi di riconciliazione tra i diversi
gruppi e individui, una volta terminati i conflitti. Cio' viene
emblematicamente testimoniato dai casi del Ruanda e della Bosnia-Erzegovina.
Ma a tutt'oggi l'Africa e, in misura minore, i Balcani sono ancora in balia
di tensioni etniche e di conflitti politici di vecchia data, tanto da poter
essere suscettibili - come accaduto in passato - di effetti indesiderati,
dovuti a una propaganda discriminatoria e razziale, agita da giornalisti
senza scrupoli (come nel caso della Costa d'Avorio). Tale situazione porta
necessariamente a interrogarsi su quali possano essere le azioni preventive
e repressive di cui la comunita' internazionale potrebbe disporre, al fine
di scongiurare il pericolo di ulteriori conflitti armati.
*
Da pagina 183
L'umanitarismo tra pragmatismo e principi: elogio dell'incoerenza, di
Marcello Flores
La tutela dei diritti umani e' una questione di principio, di valori, o e'
un problema eminentemente pratico? Qualsiasi risposta chiara e netta si dia
a questo interrogativo, non puo' che soddisfare solo parzialmente i problemi
di chi si e' trovato ad affrontarli direttamente. Un approccio "coerente",
infatti, puo' essere poco produttivo rispetto a un orientamento piu' duttile
ed elastico, quando ci si trovi di fronte a situazioni complesse - come sono
ormai tutte, praticamente, le situazioni in cui e' coinvolto l'intervento
umanitario. Proprio il riferimento costante ai diritti umani da parte di
chiunque, e spesso con obiettivi e metodi d'intervento contrapposti o
divergenti, dovrebbe suggerire non, come spesso si sostiene, che quella dei
"diritti umani" e' un'ideologia, strumentalizzata per lo piu' dal potere e
dalla cultura occidentali; ma che la questione dei diritti umani e'
oggettivamente complessa, spinosa e contraddittoria nel rapporto che
concretamente s'instaura tra i principi e l'azione pratica. Non e' un caso,
del resto, che la maggior parte dell'intervento umanitario - di tipo
solidaristico e di alleviamento delle sofferenze - abbia spesso trascurato o
sottovalutato la tematica dei diritti umani. E che talvolta le campagne per
i diritti umani si siano mosse piu' sul terreno della denuncia e del
richiamo ai principi, senza valutare con attenzione i risultati raggiunti e
l'efficacia prodotta.
Un esempio: nel settembre 1997 il Commissario europeo Emma Bonino venne
arrestata per qualche ora dai talebani, a Kabul. "La Repubblica" riporto'
cosi' la notizia, per la penna di Guido Rampoldi: "Emma Bonino ha l'ottimo
vizio di immettere nel suo ruolo di commissario europeo cio' che in genere
la diplomazia internazionale rifugge: valori, principi, passioni civili. E
questo probabilmente spiega perche' ieri mattina a Kabul sia incorsa in un
incidente mai accaduto prima ai prudentissimi emissari delle Nazione Unite:
e' stata arrestata dai Taliban, gli ultra-fondamentalisti afghani". Alcuni
tra i "prudentissimi emissari delle Nazioni Unite" erano riusciti, dopo mesi
di contrattazione, a giungere a un compromesso: alle bambine afgane non era
ancora permesso di andare a scuola, in base alla rigida e fondamentalista
interpretazione del Corano che guidava il regime talebano, ma potevano
essere condotte, se ne avessero avuto bisogno, in ospedale, dove fino ad
allora era loro proibito recarsi. Dopo l'intervento della Bonino, quella
misura (di buon senso? umanitaria? liberale? di sopravvivenza?) venne
immediatamente revocata per diversi mesi. Il mondo occidentale esulto' per
il coraggio con cui una donna europea aveva difeso principi e valori che
dovrebbero essere di tutti; le bambine afgane esultarono un po' meno. Il
problema, naturalmente, non e' quello di stabilire quale dei due modi di
agire - il richiamo ai valori o il difficile e prudente intervento
diplomatico - sia da privilegiare. La questione consta nella consapevolezza
che entrambi gli aspetti sono facce di una stessa medaglia e meritano,
almeno, di essere conosciute e prese in considerazione entrambe per sapere a
cosa si puo' andare incontro con la propria azione. E' evidente che per un
"democratico" occidentale la presa di posizione di Emma Bonino abbia
costituito un elemento di soddisfazione maggiore che non il lavoro dei
"prudentissimi emissari" delle Nazioni Unite, dipinti ormai perennemente (e
a volte, naturalmente, a ragione) come cinici, corrotti e profittatori delle
disgrazie che dovrebbero cercare di lenire o risolvere. Ma chi lavora sul
campo, sia esso diplomatico o militare, membro di una Ong o rappresentante
di organismi internazionali, sa quanto spesso i risultati concreti possano
giungere solo perche' si e' arrivati a un compromesso sui principi o si sono
momentaneamente accantonati.
Spesso i valori e i principi che vorremmo difendere, trasmettere, applicare
e fare vincere entrano in conflitto gli uni con gli altri. E' stato a lungo
cosi' - e lo e' tuttora, anche se soprattutto fuori dall'Occidente - nei
contrasti che hanno visto sovente contrapposti sindacati e mondo del lavoro
contro ecologisti e difensori dell'ambiente. Eppure, non si e' fatto gran
che per analizzare queste contraddizioni, tutte interne al mondo dei valori
universalistici che la parte migliore dell'Occidente vorrebbe propagandare.
In realta', non sono certo di sapere e volere prendere posizione per l'uno o
per l'altro dei comportamenti che si sono scontrati nell'occasione
ricordata. Mi domando, pero', se gli operatori umanitari abbiano fatto tutto
il possibile per fare anche, nei limiti del loro possibile, una battaglia di
principio sui diritti umani; e se Emma Bonino si sia interrogata sugli
effetti delle proprie parole e del proprio comportamento nei confronti degli
afghani, e abbia chiesto lumi sul lavoro lento e difficile che le agenzie
umanitarie stavano compiendo da anni in Afghanistan. E' probabile che la
risposta sia no a entrambi questi interrogativi.
La situazione dei diritti umani e' oggi migliore o peggiore di quella che
era nell'epoca della guerra fredda?
Vorrei fare, a questo proposito, qualche osservazione da storico e da
comparatista. La cultura dei diritti umani e' una scoperta, nella sua
dimensione di massa, dell'ultimo quindicennio, forse dell'ultimo ventennio.
Prima della Conferenza di Helsinki del 1975, di fatto, era inesistente; e
anche dopo ha dovuto faticare parecchio per imporsi, ad esempio, nell'agenda
della sinistra. Non c'e' dubbio, per quanto possiamo guardare criticamente
all'attuale realta' internazionale, che la cultura dei diritti umani abbia
progressivamente influenzato la politica internazionale. Certo, quest'ultima
ha naturalmente cercato di utilizzarla e strumentalizzarla, ma ha potuto
farlo solo fino a un certo punto. Per quanto possiamo considerare
illegittime le guerre condotte in Jugoslavia/Kosovo, in Afghanistan e in
Iraq (alcune delle quali hanno diviso, proprio sulla questione della loro
legittimita', la sinistra democratica: la questione e' complessa e si tratta
comunque di guerre fra di loro diverse, anche se tutti, favorevoli e
contrari, hanno teso a darne una lettura omogenea), queste guerre sono state
fortemente influenzate dalla cultura dei diritti, nel modo in cui sono state
progettate e attuate. Lo sono state per il tentativo di minimizzare le
vittime proprie (obiettivo solo in parte riuscito, soprattutto in Iraq: ma
nel dopoguerra), ma anche per la necessita' "storica" di violare il meno
possibile i diritti umani (cioe', sostanzialmente, uccidere o colpire i
civili: la piu' comune violazione dei diritti in tempo di guerra).
Puo' sembrare cinico che dica questo mentre e' ancora in corso la guerra in
Iraq. Eppure, in una dimensione comparata, che non comporta alcun giudizio
morale o politico, le ultime guerre sono state davvero, per molti aspetti,
guerre piu' "umanitarie". Basti confrontarle con il Vietnam o con il
Guatemala per esserne certi, a dispetto dei bombardamenti su Belgrado e in
Afghanistan, o delle uccisioni e delle torture in Iraq. E non e' un caso che
ci siano voluti tre anni di bombardamenti sul Vietnam perche' il movimento
pacifista divenisse forte e influente negli Usa e in Europa, mentre nel caso
dell'Iraq cio' e' potuto avvenire, anche se con poca influenza, prima ancora
dell'inizio della guerra.
A questo proposito vorrei citare (solo a memoria purtroppo) una
testimonianza eccellente, quella di Henry Kissinger. In un'intervista, un
giornalista gli ricordava l'accusa di genocidio e di gravi violazioni di
diritti umani fatta a Nixon e a Kissinger stesso in diverse occasioni,
un'accusa riportata anche nel recente libro di Cristopher Hitchens. L'ex
Segretario di Stato riusciva solo a rispondere: a quell'epoca non si parlava
di diritti umani, non c'era l'attenzione che c'e' adesso, non mi si puo'
accusare di quanto ho commesso allora con la cultura e la mentalita' di
oggi. Al di la' dell'autogiustificazione, questa osservazione ha una sua
parte di verita'.
*
Da pagina 195
Sopravvivere e vivere, di Esther Mujawayo
Bisogna disingannarsi: il genocidio dei tutsi in Ruanda nell'aprile 1994 non
e' stato un evento brutale, inatteso e spontaneo, come vogliono farci
credere i mass media. E' stato ben preparato e sperimentato su piccola
scala, nei mesi che l'hanno preceduto. Ma bisogna soprattutto ricordare che
sia in Ruanda sia al suo esterno le mentalita' tanto dei carnefici quanto
delle vittime erano state abituate ad accettare come una questione
inevitabile la discriminazione quotidiana che ha subissato i tutsi durante
l'intero periodo postcoloniale. Il che significava un difficile accesso
all'istruzione, alla funzione pubblica, ai servizi. La carta d'identita' col
riferimento obbligatorio all'etnia a cui appartenevi ti seguiva ovunque, neg
li studi, nell'impiego, perfino nei controlli di ogni tuo spostamento. E in
effetti, il genocidio del 1994 arrivo' come la soluzione finale - come
dicevano gli stessi genocidari - della questione tutsi, che era sempre stata
affrontata in modo solo parziale. Si deve infatti ricordare che c'erano gia'
stati massacri e cacce all'uomo negli anni 1959, 1963 e 1973, ma il successo
di tali operazioni era stato parziale, dal momento che c'erano sempre tutsi
che riuscivano a fuggire e a ricominciare una nuova vita altrove.
Nel 1994 la parola d'ordine fu invece estremamente chiara: annientateli
tutti. Non lasciate bebe', donne, nessuno, niente: non commettete lo stesso
errore fatto in passato, quando vi siete lasciati scappare bebe' e donne,
quando non avete ucciso le persone nascoste nelle chiese e cosi' via. Prima
uccidete, poi saccheggiate!
Poter sopravvivere a questa volonta' di annientamento non e' una questione
evidente. Per mesi sei stato braccato come una bestia feroce. Del resto, non
vieni piu' chiamato come un essere umano, sei solo una blatta, un insetto...
E cio' rende piu' facile il compito del carnefice. Non uccide una persona,
ma un insetto. Schiaccia, pulisce, lavora. Quando sopravvivi a tutto questo
e sei costretto a vivere, non e' facile: ieri eri perseguitato come una
bestia! Ieri eri una blatta da schiacciare, da ripulire dalla terra! Ieri i
cani e i bambini dovevano venirti a scovare in tutti i nascondigli possibili
e immaginabili. Ora tutto e' finito. Vivo. Ho il diritto di vivere oppure
sono forse condannata a vivere?
All'inizio della nostra sopravvivenza, quando ci siamo accorti di essere
belli e vivi, di essere stati condannati a vivere, ci siamo trovati
smarriti. Del resto i carnefici dei nostri familiari si erano rifiutati di
ucciderci. Ci ricordavano spesso che saremmo morti a fuoco lento, poiche'
per mezzo dello stupro sistematico ci avevano inoculato una morte lenta, per
Aids. Dovevamo morire e ci ritroviamo qui, non morti ma comunque morti
viventi.
Come passare da questa morte-vita a una vera vita? Come vivere malgrado
l'accanita volonta' di annientarti? Perche' ti hanno voluto annientare? Per
la sola ragione di essere nata tale e quale sono, cioe' tutsi?
Dapprima l'istinto di sopravvivenza ci ha tenuti in vita, ma a poco a poco,
e grazie soprattutto al sostegno reciproco che ci si offriva nella nostra
associazione, chiamata Vedove del Genocidio d'Aprile (Avega), abbiamo deciso
di fare della nostra sopravvivenza una vera vita! Non fosse che per punire i
nostri carnefici.
Ci volevano morte, finite, per terra.
Ed effettivamente siamo morte viventi, siamo quasi finite, siamo per terra.
Moriamo di Aids che ci e' stato gratuitamente infettato durante gli stupri
che abbiamo subito. Moriamo di una solitudine incredibile dopo aver perduto
tutti i nostri cari e ritrovandoci in mezzo ai nostri carnefici. Il vuoto e'
violento. L'annientamento e' quasi riuscito. Non abbiamo piu' identita'.
Abbiamo perso perfino cio' che eravamo. Non abbiamo potuto essere in lutto,
non abbiamo potuto piangere e seppellire i nostri morti.
Le ferite fisiche e morali rimangono ancora aperte.
Per curarle, ci uniamo. Avega e' la nostra nuova famiglia. Ci teniamo unite
per mano. Piangiamo insieme. Ci struggiamo insieme. Ma ci rialziamo anche
insieme. Impariamo a rialzarci, a ridere, a ricostruire le nostre case e i
nostri cuori, a medicare le ferite e a pensare al nostro avvenire, perche'
nonostante tutto, per il tempo che ci resta - per noi e per i morti - non
c'e' soltanto questo presente, ma anche questo avvenire da vivere e non
soltanto da sopravvivere.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 283 del 10 gennaio 2009

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