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La domenica della nonviolenza. 189
- Subject: La domenica della nonviolenza. 189
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 9 Nov 2008 07:33:12 +0100
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 189 del 9 novembre 2008 In questo numero: 1. Obama e noi 2. Mariuccia Ciotta: Obama e il movimento 3. Marina Forti: Obama e il clima 4. Eduardo Galeano: Obama e il futuro 5. Alessandro Portelli: Obama e la storia 6. Tariq Ali: Obama e la crisi 1. EDITORIALE. OBAMA E NOI Che alla Casa bianca da gennaio non ci sara' piu' Bush e' gia' una buona notizia. Che per la prima volta ci sara' un afroamericano e' un'altra buona, anzi ottima notizia. * Che su cruciali questioni Barack Obama voglia e possa e sappia profondamente cambiare in meglio l'attualmente scellerata e catastrofica politica statunitense non solo e' speranza di tutte le persone ragionevoli, ma e' necessita' di cui l'umanita' intera e' consapevole. Ma perche' questi radicali cambiamenti si producano occorrera' anche il nostro impegno. Il nostro impegno di lotta contro quanto vi e' di inaccettabile e fin mostruoso nella politica statunitense attuale, e non solo in quella statunitense. Il nostro impegno di solidarieta' con tutte le vittime di tutte le ingiustizie. Il nostro impegno di resistenza al male. Il nostro impegno di costruzione di giustizia e liberta'. * E non bastera' un cambiamento la'. Occorre anche un cambiamento qui. E ancora altrove. E i cambiamenti necessari e urgenti per l'umanita' intera non verranno dall'alto, ma dal basso. Lo sapevano gia' quei signori che si riunirono a Londra nel 1864 che la lotta per la liberazione delle classi sfruttate ed oppresse e dei popoli colonizzati e di tutto rapinati, la lotta per l'emancipazione dell'umanita', e' internazionale. E questa lotta a guidarla devono essere le persone sfruttate ed oppresse, le persone vittime di violenza, le persone che devono liberare se stesse, e liberando se stesse contribuiscono alla liberazione di tutti. E questa lotta anche del tuo aiuto ha bisogno. * Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua opposizione alla guerra, al riarmo, al militarismo. Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua opposizione al razzismo. Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua opposizione al patriarcato. Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua lotta per la democrazia e il diritto contro tutti - tutti - i poteri criminali. Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua lotta per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani. Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua lotta per la difesa della biosfera. Non altri, ma noi dobbiamo costruire una societa' di persone libere ed eguali in diritti, fondata sulla cura reciproca e sulla responsabilita' comune: da ciascuno secondo le sue capacita', a ciascuno secondo i suoi bisogni. * La nonviolenza e' la via. La nonviolenza e' in cammino. 2. RIFLESSIONE. MARIUCCIA CIOTTA: OBAMA E IL MOVIMENTO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "Il nuovo mondo"] Il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti porta su di se' i segni del cambiamento storico di un'America che ha perduto il suo sogno e la sua immagine. Barack Obama, bianco e nero, ha vinto sull'onda alta della mobilitazione popolare, una valanga di consensi, uno scarto di sei milioni di voti sull'avversario. Ha dilagato negli stati della sconfitta democratica del 2000 e 2004, Ohio, Florida, Virginia, Indiana, ha portato alle urne giovani, ispanici, afroamericani, nativi americani, gay, etero, disabili e non disabili, gli esclusi. Ma la sua vittoria passa le frontiere. La sensazione, a vederlo pronunciare nella notte di Chicago sul palco del Grant Park il suo primo discorso alla nazione, e' che non sia stato eletto presidente degli Stati Uniti ma di un paese espanso, geografia emozionale senza confini. La mappa mondiale, tutta blu, registrava durante le primarie un'alta adesione politica, dall'Europa all'estremo oriente, dalla Never land all'Africa. I cittadini di ogni continente sembrava vivessero la vigilia di un natale comune, la speranza che l'America smettesse di farsi odiare. La maggioranza della popolazione planetaria ha votato virtualmente Obama presidente, e il dispositivo di identificazione ha trasceso l'uomo, che qualcuno guarda ancora con disincanto. Ma se la gente ha votato un'"immagine" - come ai tempi di Franklin D. Roosevelt - lo ha fatto per esprimere un atto di possesso e di protagonismo politico. Ora il neopresidente sara' alle prese con la crisi economica, sociale, culturale del suo paese e con la catastrofe internazionale prodotta dagli otto anni di Bush. Non gli bastera' un "new deal" per riparare agli errori. Ed e' lui il primo ad ammetterlo: "Questa vittoria non e' il cambiamento ma la possibilita' del cambiamento", a fare la differenza sara' il movimento che e' riuscito a catalizzare. "La forza dell'America non e' la sua potenza militare ma la capacita' di creare democrazia, liberta' e opportunita'" ha detto a Chicago. L'insorgenza delle minoranze, le lunghe code multicolori davanti ai seggi elettorali, la rete intrecciata da Barack, una catena di naufraghi interconnessi dall'idea di tornare protagonisti, sono gia' una vittoria. L'antidoto alla stagione di Bush si e' materializzato nell'esponente di una umanita' cangiante, improponibile fino a poco tempo fa, Barack e' andato oltre l'appartenenza di genere, irriconducibile perfino alla sua stessa etnia, oltre il suo stesso moderatismo. La scommessa ora e' che si apra una stagione di lotte, per la scuola, la sanita', il lavoro, l'ambiente, la pace e che non si guardi a Obama come a un messia da incorniciare. "Non io - ha sempre detto - ma voi siete gli agenti del cambiamento". Ed e' percio' che salutiamo Barack Obama con un sospiro di sollievo che mai come questa volta attraversa gli oceani. 3. RIFLESSIONE. MARINA FORTI: OBAMA E IL CLIMA [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 novembre 2008 col titolo "Un New Deal verde?"] L'ha detto chiaro, l'hanno sentito in tutto il mondo: il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, ha detto l'altra notte a Chicago che il problema del cambiamento del clima sara' una priorita' della sua amministrazione. Sara' una svolta drastica rispetto alla politica del predecessore George W. Bush, che nella primavera del 2001, appena insediato alla Casa Bianca, aveva deciso di ricusare il Protocollo di Kyoto, ovvero l'unico trattato finora in vigore che impone alle nazioni industrializzate di tagliare le loro emissioni di gas "di serra" come l'anidride carbonica - nonostante gli Usa siano il piu' grande produttore pro capite di questi gas che alterano il clima (contano, da soli, per oltre un quarto del totale mondiale). Per otto anni dunque l'America si e' isolata dal resto del mondo, per cio' che riguarda il clima: ora cambia direzione. Certo, il presidente eletto entra alla Casa Bianca mentre l'America sprofonda nella peggiore recessione economica dai tempi della Grande depressione degli anni '30. Per questo pero' sono tanto piu' interessanti i progetti annunciati gia' in campagna elettorale: come il "progetto Apollo", investire 150 miliardi di dollari in dieci anni nelle energie rinnovabili. Obama ne ha parlato nei termini di una "economia delle energia alternative", o di "piano di salvataggio 'verde' dell'economia". E' importante, perche' sarebbe ben piu' di una banale promessa elettorale. "Investiremo 15 miliardi di dollari all'anno nel prossimo decennio in energie rinnovabili, creando 5 milioni di nuovi posti di lavoro 'verdi' che pagano bene, non possono essere delocalizzati e aiuteranno a diminuire la nostra dipendenza dal petrolio", aveva detto Obama solo qualche giorno prima del martedi' elettorale. Negli ultimi tempi molti anche negli Stati Uniti hanno cominciato a usare il termine "green New Deal", riferimento al "nuovo patto" che negli anni '30 del secolo scorso permise all'America di uscire dalla depressione con investimenti in infrastrutture e opere pubbliche che hanno creato lavoro e permesso di redistribuire reddito. Ottant'anni fa le grandi opere sono state dighe, sistemi di irrigazione, impianti energetici, strade; politiche analoghe in fondo sono state riprese anche in Europa. Oggi chi parla di "green" New Deal sta dicendo che investire in energie alternative e in tecnologie pulite e' una parte fondamentale della soluzione alla crisi che dall'America si e' rapidamente estesa al pianeta intero. D'improvviso, il "green new deal" e' diventato popolare nelle cancellerie di mezzo mondo: a Londra il governo sta elaborando un piano di investimenti in energie rinnovabili e tecnologie pulite come parte centrale di un pacchetto di "salvataggio dell'economia". Anche in Australia, il governo ha ipotizzato un piano di "green jobs", posti di lavoro in energie alternative, bonifiche, tecnologie pulite. Certo, sarebbe naif pensare che le soluzioni siano facili. Ma e' urgente cominciare a rimettere in questione il sistema economico fondato sul consumo di energia e di risorse naturali: cosi' i pacchetti di investimenti "verdi" sono un passo importante. Obama ha detto di voler tagliare le emissioni "di serra" degli Stati Uniti dell'80% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050 (adesso solo circa il 14% sopra al livello del 1990). Varera' un piano di tagli obbligatori? Manterra' l'impegno? Per lo meno promette di tornare a un approccio multilaterale, e su questo il credito e' aperto: lo ha detto giovedi' il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, inaugurando una conferenza su "il cambiamento climatico come minaccia alla sicurezza". 4. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: OBAMA E IL FUTURO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 novembre 2008 col titolo "New dream. Magari Obama"] Obama provera', dal governo, che le sue minacce guerriere contro l'Iran e il Pakistan non sono state altro che parole, proclamate per sedurre orecchie difficili durante la campagna elettorale? Magari. E magari non cadesse nemmeno per un momento nella tentazione di ripetere le imprese di George W. Bush. In fin dei conti, Obama ha avuto la dignita' di votare contro la guerra in Iraq, mentre il partito democratico e il partito repubblicano applaudivano l'annuncio di quella macelleria. Durante la sua campagna, la parola leadership e' stata la piu' ripetuta nei discorsi di Obama. Durante il suo governo continuera' a credere che il suo paese e' stato eletto per salvare il mondo, venefica idea che condivide con quasi tutti i suoi colleghi? Continuera' a insistere nella leadership mondiale degli Stati Uniti e nella loro messianica missione di comando? Magari la crisi attuale, che sta scuotendo le imperiali fondamenta, servisse almeno per far fare un bagno di realismo e di umilta' a questo governo che inizia. Obama accettera' che il razzismo sia normale quando venga esercitato contro i paesi che il suo paese invade? Non e' razzismo contare uno a uno i morti invasori in Iraq e olimpicamente ignorare i moltissimi morti nella popolazione invasa? Non e' razzista questo mondo dove esistono cittadini di prima, seconda e terza categoria, e morti di prima, seconda e terza? La vittoria di Obama e' stata universalmente celebrata come una battaglia vinta contro il razzismo. Magari si assumesse, con le azioni del suo governo, questa magnifica responsabilita'. Il governo di Obama confermera' una volta di piu' che il partito democratico e il partito repubblicano sono due nomi dello stesso partito? Magari la volonta' di cambiamento, che queste elezioni hanno consacrato, fosse piu' che una promessa e piu' di una speranza. Magari il nuovo governo avesse il coraggio di rompere con questa tradizione del partito unico, camuffato da due che al momento della verita' fanno piu' o meno lo stesso, anche se simulano di scontrarsi. Obama manterra' la promessa di chiudere il sinistro carcere di Guantanamo? Magari, e magari finisse il sinistro embargo a Cuba. Obama continuera' a credere che va benissimo che un muro eviti ai messicani di passare la frontiera, mentre il denaro passa senza che nessuno gli chieda il passaporto? Durante la campagna elettorale, Obama ha affrontato con franchezza il tema dell'immigrazione. Magari a partire da ora, quando non corre piu' il rischio di spaventare i voti, potesse e volesse farla finita con questo muro, molto piu' lungo e oppressivo di quello di Berlino e di tutti i muri che violano il diritto alla libera circolazione delle persone. Obama, che con tanto entusiasmo ha appoggiato il recente regalino di settecentocinquanta miliardi di dollari ai banchieri, governera' come e' costume per socializzare le perdite e per privatizzare i profitti? Ho paura di si', pero' magari no. Obama firmera' e rispettera' l'accordo di Kyoto o continuera' a concedere il privilegio dell'impunita' alla nazione piu' avvelenatrice del pianeta? Governera' per le automobili o per la gente? Potra' cambiare il cammino assassino di un modo di vita di pochi che si giocano il destino di tutti? Ho paura di no, pero' magari si'. Obama, il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, mettera' in pratica il sogno di Martin Luther King o l'incubo di Condoleezza Rice? Questa Casa Bianca, che ora e' casa sua, venne costruita da schiavi negri. Magari non lo dimenticasse, mai. 5. RIFLESSIONE. ALESSANDRO PORTELLI: OBAMA E LA STORIA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "Radici. Nero o bianco? Il cavallo Barack cambia direzione" e il sommario "Si e' fatto carico della storia degli afro-americani, reinterpretandola"] Oggi salutiamo in Barack Obama, con entusiasmo e commozione, il primo presidente "nero" degli Stati Uniti. Ma "nero" in che senso? Dopo tutto, ha un padre nero e una madre bianca, il colore della sua pelle non e' tanto piu' scuro di quello di tanti italiani. E' tanto nero quanto bianco, ma lo chiamiamo nero perche' quella parte di lui e' resa equivalente al tutto dalle conseguenze tutt'altro che svanite di una lunga storia. Nel 1872 il grande leader nero Frederick Douglass (figlio di una schiava posseduta dal suo padrone) diceva, nello sposare in seconde nozze una donna bianca: "Col mio primo matrimonio ho reso omaggio alla razza di mia madre; col secondo, rendo omaggio alla razza di mio padre". Per tutta una lunga storia, intellettuali e figure pubbliche afro-americane hanno contestato una divisione bipolare della societa' in cui o eri tutto bianco o eri tutto nero, senza mediazioni. Per esempio, uno dei protagonisti "neri" del '900, W. E. B. DuBois, apriva la sua autobiografia proprio elencando puntigliosamente tutta la sua complicata discendenza da antenati di ogni colore e di ogni continente. Ma il paradosso era che Douglass, DuBois e prima di loro James Weldon Jonhson, Charles Chesnutt - esempi viventi della unione interrazziale - potevano contestare questa secca costruzione ideologica solo partendo da dentro il recinto che volevano distruggere. Potevano contestare l'identita' che gli veniva rovesciata addosso solo nell'atto di farla propria. Per poter dire che la "razza" non avrebbe dovuto contare, dovevano contare sui di essa. Da questo punto di vista, per dirla con una immagine cara a Vittorio Foa, Barack Obama rappresenta la mossa del cavallo: il progetto di cambiare direzione al discorso, di collocarsi altrove. Ha scelto e ha dovuto farsi carico di quella storia che lo identificava tutto e solo come nero, ma lo ha fatto parlando da fuori del recinto, perche' per quanto se ne faccia carico tuttavia non e' quella la storia da cui proviene. Non ha bisnonni schiavi, nonni linciati, genitori arrestati e picchiati in Alabama negli anni '60. E' americano di prima generazione (e semmai c'e' anche un'altra lezione da imparare: gli Stati Uniti hanno eletto presidente il figlio di un immigrato), che rivendica la storia dei neri d'America ma non ne porta il peso e la rabbia (in questo senso era molto azzeccato il titolo del "Manifesto" di ieri: "Indovina chi viene a cena"). Perche' rinviava si' a un'esperienza afroamericana, ma a una figura come quella di Sidney Poitier, che era parte della rivendicazione nera di cittadinanza, ma ne rappresentava l'aspetto meno minaccioso, meno contestatario, quello a cui in fondo potevi far sposare tua figlia - e generare cosi' altri bambini sia bianchi sia neri). E' presto per dire se la mossa del cavallo di Barack Obama rappresenta una negazione prematura di un doloroso passato e di un difficile presente, o l'affermazione di un possibile futuro in cui un nero alla Casa bianca non sia piu' sorprendente di una donna italiana eletta capo del governo in India. Forse, e' tutte e due le cose: come dice lo straordinario finale di Amatissima di Toni Morrison, quesa non e' una storia "to pass on" - che, a seconda di dove mettiamo l'accento, significa o che non e' una storia da tramandare oppure che non e' una storia da trascurare. Forse Barack Obama suggerisce che possiamo tramandarla come parte di una piu' vasta e molteplice storia dell'America intera. Intanto, quello che mi commuove e mi entusiasma oggi non e' solo il pensiero di Barack Obama "a cena" alla Casa Bianca. E' il pensiero di quelle due bambine nere - piccole abbastanza da ricordarci che la differenza di Obama e' anche generazionale - che per parte di madre la storia d'America ce l'hanno tutta addosso, che giocheranno in quelle stanze e correranno in quei giardini dove i loro antenati materni potevano entrare solo come schiavi o come domestici. 6. RIFLESSIONE. TARIQ ALI: OBAMA E LA CRISI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 novembre 2008 col titolo "Cambio di regime. Banche, guerre, vicini... la retorica non bastera'" e il sommario "Un risultato storico ha sepolto chi diceva (come Hillary, e ai suoi tempi anche Bill) che l'America non era pronta. Le destre hanno preso 50 milioni di voti e i big democratici frenano ma la crisi e' troppo avanzata e le domande di lavoro, salute e casa pressanti. Gli slogan non saranno sufficienti, servira' l'Obama vero. Se c'e'"] La vittoria di Barack Obama segna un passaggio generazionale e sociologico decisivo nella politica americana. In questa fase e' difficile prevedere il suo impatto, ma le aspettative della maggioranza dei giovani che hanno portato Obama alla vittoria restano alte. Forse non e' stata una valanga, ma il voto e' stato abbastanza consistente; i democratici hanno conquistato piu' del 50% dell'elettorato (62,4 milioni di elettori) e hanno solidamente insediato una famiglia nera alla Casa Bianca. Il significato storico di questo fatto non va sottovalutato. E' accaduto in un paese dove una volta il Ku Klux Klan era il gruppo politico piu' ampio della storia americana e contava milioni di membri lanciati in una campagna di terrore mortale contro i cittadini neri, avvalendosi di un sistema legale basato sul pregiudizio. Com'e' possibile dimenticare le fotografie dei primi trent'anni del secolo scorso che ritraevano gli afro-americani linciati sotto lo sguardo d'approvazione delle famiglie bianche, famiglie intente a godersi il loro picnic mentre assistevano alla scena? Nella voce memorabile di Billie Holliday: "black bodies swinging in the southern breeze and strange fruit hanging from the poplar trees" ("corpi neri oscillano nella brezza del sud, dagli alberi di pioppo pende uno strano frutto"). Negli anni '60 le lotte di massa per i diritti civili portarono alla fine della segregazione e alle campagne per la registrazione dei neri negli elenchi elettorali, ma anche all'assassinio di Martin Luther King e Malcolm X (proprio quando quest'ultimo stava iniziando a invocare l'unita' di neri e bianchi contro un sistema che opprimeva gli uni e gli altri). Sarebbe banale osservare che Obama non e' uno di loro. Lo pensa il 96% degli afro-americani che sono usciti di casa per votarlo. Puo' anche darsi che gli dispiaccia, ma per il momento stanno festeggiando. Come biasimarli? Solo due decenni fa, Bill Cinton ammoniva il suo rivale democratico, il governatore liberal dello stato di New York, Mario Cuomo, che l'America non era ancora pronta a eleggere un presidente il cui nome terminasse con la "o" o con la "i". Solo pochi mesi fa, i Clinton assecondavano apertamente sentimenti razzisti sottolineando ripetutamente che gli elettori bianchi della working class avrebbero sicuramente respinto Obama, e ricordavano ai Democratici che anche Jesse Jackson aveva ottenuto un buon risultato durante le primarie. La nuova generazione di elettori ha dimostrato che si sbagliavano: il 66% dei votanti di eta' compresa tra 18 e 29 anni, corrispondenti al 18% dell'elettorato, ha votato per Obama; il 52% della fascia di eta' compresa tra i 30 e i 44 anni (il 37% dell'elettorato) ha fatto altrettanto. La crisi del capitalismo senza regole e del libero mercato ha portato a uno slancio nel consenso a Obama in stati ritenuti finora territorio dei Repubblicani o dei Democratici bianchi, accelerando il processo che ha decretato la sconfitta di Bush e Cheney e della banda neo-con. Ma il fatto che McCain e Palin abbiano comunque ottenuto 55 milioni di voti sta a ricordarci quanto sia tuttora forte la destra americana. I Clinton, Joe Biden, Nancy Pelosi e molti altri pezzi da novanta democratici utilizzeranno questa argomentazione per fare pressione su Obama affinche' resti fedele al copione che ha utilizzato per vincere le elezioni. Tuttavia, gli slogan moderati e buonisti non basteranno a garantire la vittoria anche al secondo mandato. La crisi e' troppo avanzata e le domande che agitano la maggior parte dei cittadini americani - come ho potuto verificare quando sono stato li', poche settimane fa - riguardano il posto di lavoro, la salute (40 milioni di cittadini non hanno assicurazione sanitaria) e la casa. La retorica da sola non basta per affrontare la recessione in atto nell'economia reale: ci sono mille miliardi di dollari di debiti di carte di credito che potrebbero far crollare altri giganti del sistema bancario; il declino dell'industria automobilistica portera' a una disoccupazione su larga scala; e c'e' la manovra di salvataggio che ha fatto indebitare generazioni future di americani nei confronti di Wall Street. Le misure prese dall'amministrazione Bush in preda al panico, predisposte e orchestrate dall'amico dei banchieri e ministro del tesoro Paulson, hanno privilegiato poche grandi banche, che stanno godendo dei finanziamenti pubblici. I democratici e Obama hanno dato il proprio assenso all'operazione e troveranno difficile tirarsi indietro per passare a un altro fronte. L'espandersi della crisi, comunque, potrebbe obbligarli a muoversi in una direzione diversa. Le misure di austerity colpiscono sempre i meno privilegiati, e il futuro del nuovo presidente e della sua squadra dipendera' dal modo in cui essi affronteranno questo problema. E' un pessimo momento per essere eletti presidente, ma e' anche una sfida, e Franklin Roosvelt negli anni '30 la accetto' imponendo un regime social-democratico di regole, di opere pubbliche, e un approccio fantasioso nei confronti della cultura popolare. Lo soccorse l'esistenza di un forte movimento dei lavoratori e della sinistra americana: gli anni di Reagan-Clinton-Bush hanno contribuito a distruggere l'eredita' del New Deal. Siamo di fronte a una new economy fortemente dipendente dalla finanza globale, e a una America deindustrializzata. Obama possiede la visione o la forza per rimettere le lancette di questo orologio indietro e avanti allo stesso tempo? In politica estera, l'approccio Obama-Biden non e' stato troppo diverso da quello di Bush o McCain. Un New Deal per il resto del mondo richiederebbe una rapida partenza dall'Iraq e dall'Afghanistan, senza intraprendere ulteriori avventure in quelle regioni ne' altrove. Biden si e' virtualmente impegnato in una balcanizzazione dell'Iraq che ora appare meno probabile, dato che il resto del paese, cosi' come l'Iran e la Turchia, si oppone per ragioni diverse alla creazione di un protettorato israelo-americano nel nord dell'Iraq con basi americane permanenti. Obama farebbe bene ad annunciare un ritiro rapido e completo. A parte tutte le altre considerazioni, i costi sono oggi proibitivi. E inviare in Afghanistan le truppe di stanza in Iraq non farebbe che ricreare il problema da un'altra parte. Come hanno osservato numerosi diplomatici, militari ed esperti di intelligence britannici, la guerra nell'Asia del sud e' persa. Washington e' certamente consapevole di questo fatto. Da qui, i negoziati con i neo-talebani dettati dal panico. Possiamo solo augurarci che i consiglieri di politica estera di Obama pretendano una ritirata anche su questo fronte. E l'America del sud? Certamente Obama dovrebbe imitare il viaggio di Nixon a Pechino e volare all'Avana, mettendo fine all'embargo economico e diplomatico nei confronti di Cuba. Persino Colin Powell ha riconosciuto che il regime ha fatto molto per il suo popolo. Sara' difficile per Obama predicare le virtu' del libero mercato, ma i cubani potrebbero certamente aiutarlo a creare un vero sistema sanitario negli Stati Uniti. La gran parte degli americani sarebbe felice di credere in questo cambiamento. Altre lezioni le potrebbero offrire anche gli altri paesi sudamericani, che avendo previsto la crisi del capitalismo neoliberista hanno cominciato a strutturare diversamente la loro economia piu' di un decennio fa. Se cambiamento significa che nulla cambia, allora coloro che hanno portato Obama alla Casa Bianca potrebbero decidere, tra qualche anno, che un partito progressista negli Stati Uniti e' diventato una necessita'. ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 189 del 9 novembre 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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