La domenica della nonviolenza. 189



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 189 del 9 novembre 2008

In questo numero:
1. Obama e noi
2. Mariuccia Ciotta: Obama e il movimento
3. Marina Forti: Obama e il clima
4. Eduardo Galeano: Obama e il futuro
5. Alessandro Portelli: Obama e la storia
6. Tariq Ali: Obama e la crisi

1. EDITORIALE. OBAMA E NOI

Che alla Casa bianca da gennaio non ci sara' piu' Bush e' gia' una buona
notizia.
Che per la prima volta ci sara' un afroamericano e' un'altra buona, anzi
ottima notizia.
*
Che su cruciali questioni Barack Obama voglia e possa e sappia profondamente
cambiare in meglio l'attualmente scellerata e catastrofica politica
statunitense non solo e' speranza di tutte le persone ragionevoli, ma e'
necessita' di cui l'umanita' intera e' consapevole.
Ma perche' questi radicali cambiamenti si producano occorrera' anche il
nostro impegno. Il nostro impegno di lotta contro quanto vi e' di
inaccettabile e fin mostruoso nella politica statunitense attuale, e non
solo in quella statunitense. Il nostro impegno di solidarieta' con tutte le
vittime di tutte le ingiustizie. Il nostro impegno di resistenza al male. Il
nostro impegno di costruzione di giustizia e liberta'.
*
E non bastera' un cambiamento la'. Occorre anche un cambiamento qui. E
ancora altrove.
E i cambiamenti necessari e urgenti per l'umanita' intera non verranno
dall'alto, ma dal basso.
Lo sapevano gia' quei signori che si riunirono a Londra nel 1864 che la
lotta per la liberazione delle classi sfruttate ed oppresse e dei popoli
colonizzati e di tutto rapinati, la lotta per l'emancipazione dell'umanita',
e' internazionale.
E questa lotta a guidarla devono essere le persone sfruttate ed oppresse, le
persone vittime di violenza, le persone che devono liberare se stesse, e
liberando se stesse contribuiscono alla liberazione di tutti.
E questa lotta anche del tuo aiuto ha bisogno.
*
Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua opposizione
alla guerra, al riarmo, al militarismo.
Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua opposizione al
razzismo.
Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua opposizione al
patriarcato.
Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua lotta per la
democrazia e il diritto contro tutti - tutti - i poteri criminali.
Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua lotta per il
riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani.
Non altri, ma noi dobbiamo condurre qui e adesso una strenua lotta per la
difesa della biosfera.
Non altri, ma noi dobbiamo costruire una societa' di persone libere ed
eguali in diritti, fondata sulla cura reciproca e sulla responsabilita'
comune: da ciascuno secondo le sue capacita', a ciascuno secondo i suoi
bisogni.
*
La nonviolenza e' la via. La nonviolenza e' in cammino.

2. RIFLESSIONE. MARIUCCIA CIOTTA: OBAMA E IL MOVIMENTO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "Il nuovo
mondo"]

Il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti porta su di se' i segni
del cambiamento storico di un'America che ha perduto il suo sogno e la sua
immagine. Barack Obama, bianco e nero, ha vinto sull'onda alta della
mobilitazione popolare, una valanga di consensi, uno scarto di sei milioni
di voti sull'avversario. Ha dilagato negli stati della sconfitta democratica
del 2000 e 2004, Ohio, Florida, Virginia, Indiana, ha portato alle urne
giovani, ispanici, afroamericani, nativi americani, gay, etero, disabili e
non disabili, gli esclusi. Ma la sua vittoria passa le frontiere. La
sensazione, a vederlo pronunciare nella notte di Chicago sul palco del Grant
Park il suo primo discorso alla nazione, e' che non sia stato eletto
presidente degli Stati Uniti ma di un paese espanso, geografia emozionale
senza confini. La mappa mondiale, tutta blu, registrava durante le primarie
un'alta adesione politica, dall'Europa all'estremo oriente, dalla Never land
all'Africa. I cittadini di ogni continente sembrava vivessero la vigilia di
un natale comune, la speranza che l'America smettesse di farsi odiare. La
maggioranza della popolazione planetaria ha votato virtualmente Obama
presidente, e il dispositivo di identificazione ha trasceso l'uomo, che
qualcuno guarda ancora con disincanto. Ma se la gente ha votato
un'"immagine" - come ai tempi di Franklin D. Roosevelt - lo ha fatto per
esprimere un atto di possesso e di protagonismo politico.
Ora il neopresidente sara' alle prese con la crisi economica, sociale,
culturale del suo paese e con la catastrofe internazionale prodotta dagli
otto anni di Bush. Non gli bastera' un "new deal" per riparare agli errori.
Ed e' lui il primo ad ammetterlo: "Questa vittoria non e' il cambiamento ma
la possibilita' del cambiamento", a fare la differenza sara' il movimento
che e' riuscito a catalizzare. "La forza dell'America non e' la sua potenza
militare ma la capacita' di creare democrazia, liberta' e opportunita'" ha
detto a Chicago.
L'insorgenza delle minoranze, le lunghe code multicolori davanti ai seggi
elettorali, la rete intrecciata da Barack, una catena di naufraghi
interconnessi dall'idea di tornare protagonisti, sono gia' una vittoria.
L'antidoto alla stagione di Bush si e' materializzato nell'esponente di una
umanita' cangiante, improponibile fino a poco tempo fa, Barack e' andato
oltre l'appartenenza di genere, irriconducibile perfino alla sua stessa
etnia, oltre il suo stesso moderatismo. La scommessa ora e' che si apra una
stagione di lotte, per la scuola, la sanita', il lavoro, l'ambiente, la pace
e che non si guardi a Obama come a un messia da incorniciare. "Non io - ha
sempre detto - ma voi siete gli agenti del cambiamento". Ed e' percio' che
salutiamo Barack Obama con un sospiro di sollievo che mai come questa volta
attraversa gli oceani.

3. RIFLESSIONE. MARINA FORTI: OBAMA E IL CLIMA
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 novembre 2008 col titolo "Un New Deal
verde?"]

L'ha detto chiaro, l'hanno sentito in tutto il mondo: il presidente eletto
degli Stati Uniti, Barack Obama, ha detto l'altra notte a Chicago che il
problema del cambiamento del clima sara' una priorita' della sua
amministrazione. Sara' una svolta drastica rispetto alla politica del
predecessore George W. Bush, che nella primavera del 2001, appena insediato
alla Casa Bianca, aveva deciso di ricusare il Protocollo di Kyoto, ovvero
l'unico trattato finora in vigore che impone alle nazioni industrializzate
di tagliare le loro emissioni di gas "di serra" come l'anidride carbonica -
nonostante gli Usa siano il piu' grande produttore pro capite di questi gas
che alterano il clima (contano, da soli, per oltre un quarto del totale
mondiale). Per otto anni dunque l'America si e' isolata dal resto del mondo,
per cio' che riguarda il clima: ora cambia direzione.
Certo, il presidente eletto entra alla Casa Bianca mentre l'America
sprofonda nella peggiore recessione economica dai tempi della Grande
depressione degli anni '30. Per questo pero' sono tanto piu' interessanti i
progetti annunciati gia' in campagna elettorale: come il "progetto Apollo",
investire 150 miliardi di dollari in dieci anni nelle energie rinnovabili.
Obama ne ha parlato nei termini di una "economia delle energia alternative",
o di "piano di salvataggio 'verde' dell'economia". E' importante, perche'
sarebbe ben piu' di una banale promessa elettorale. "Investiremo 15 miliardi
di dollari all'anno nel prossimo decennio in energie rinnovabili, creando 5
milioni di nuovi posti di lavoro 'verdi' che pagano bene, non possono essere
delocalizzati e aiuteranno a diminuire la nostra dipendenza dal petrolio",
aveva detto Obama solo qualche giorno prima del martedi' elettorale. Negli
ultimi tempi molti anche negli Stati Uniti hanno cominciato a usare il
termine "green New Deal", riferimento al "nuovo patto" che negli anni '30
del secolo scorso permise all'America di uscire dalla depressione con
investimenti in infrastrutture e opere pubbliche che hanno creato lavoro e
permesso di redistribuire reddito. Ottant'anni fa le grandi opere sono state
dighe, sistemi di irrigazione, impianti energetici, strade; politiche
analoghe in fondo sono state riprese anche in Europa. Oggi chi parla di
"green" New Deal sta dicendo che investire in energie alternative e in
tecnologie pulite e' una parte fondamentale della soluzione alla crisi che
dall'America si e' rapidamente estesa al pianeta intero. D'improvviso, il
"green new deal" e' diventato popolare nelle cancellerie di mezzo mondo: a
Londra il governo sta elaborando un piano di investimenti in energie
rinnovabili e tecnologie pulite come parte centrale di un pacchetto di
"salvataggio dell'economia". Anche in Australia, il governo ha ipotizzato un
piano di "green jobs", posti di lavoro in energie alternative, bonifiche,
tecnologie pulite.
Certo, sarebbe naif pensare che le soluzioni siano facili. Ma e' urgente
cominciare a rimettere in questione il sistema economico fondato sul consumo
di energia e di risorse naturali: cosi' i pacchetti di investimenti "verdi"
sono un passo importante. Obama ha detto di voler tagliare le emissioni "di
serra" degli Stati Uniti dell'80% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050
(adesso solo circa il 14% sopra al livello del 1990). Varera' un piano di
tagli obbligatori? Manterra' l'impegno? Per lo meno promette di tornare a un
approccio multilaterale, e su questo il credito e' aperto: lo ha detto
giovedi' il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier,
inaugurando una conferenza su "il cambiamento climatico come minaccia alla
sicurezza".

4. RIFLESSIONE. EDUARDO GALEANO: OBAMA E IL FUTURO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 novembre 2008 col titolo "New dream.
Magari Obama"]

Obama provera', dal governo, che le sue minacce guerriere contro l'Iran e il
Pakistan non sono state altro che parole, proclamate per sedurre orecchie
difficili durante la campagna elettorale?
Magari. E magari non cadesse nemmeno per un momento nella tentazione di
ripetere le imprese di George W. Bush. In fin dei conti, Obama ha avuto la
dignita' di votare contro la guerra in Iraq, mentre il partito democratico e
il partito repubblicano applaudivano l'annuncio di quella macelleria.
Durante la sua campagna, la parola leadership e' stata la piu' ripetuta nei
discorsi di Obama. Durante il suo governo continuera' a credere che il suo
paese e' stato eletto per salvare il mondo, venefica idea che condivide con
quasi tutti i suoi colleghi? Continuera' a insistere nella leadership
mondiale degli Stati Uniti e nella loro messianica missione di comando?
Magari la crisi attuale, che sta scuotendo le imperiali fondamenta, servisse
almeno per far fare un bagno di realismo e di umilta' a questo governo che
inizia.
Obama accettera' che il razzismo sia normale quando venga esercitato contro
i paesi che il suo paese invade? Non e' razzismo contare uno a uno i morti
invasori in Iraq e olimpicamente ignorare i moltissimi morti nella
popolazione invasa? Non e' razzista questo mondo dove esistono cittadini di
prima, seconda e terza categoria, e morti di prima, seconda e terza?
La vittoria di Obama e' stata universalmente celebrata come una battaglia
vinta contro il razzismo. Magari si assumesse, con le azioni del suo
governo, questa magnifica responsabilita'.
Il governo di Obama confermera' una volta di piu' che il partito democratico
e il partito repubblicano sono due nomi dello stesso partito?
Magari la volonta' di cambiamento, che queste elezioni hanno consacrato,
fosse piu' che una promessa e piu' di una speranza. Magari il nuovo governo
avesse il coraggio di rompere con questa tradizione del partito unico,
camuffato da due che al momento della verita' fanno piu' o meno lo stesso,
anche se simulano di scontrarsi.
Obama manterra' la promessa di chiudere il sinistro carcere di Guantanamo?
Magari, e magari finisse il sinistro embargo a Cuba.
Obama continuera' a credere che va benissimo che un muro eviti ai messicani
di passare la frontiera, mentre il denaro passa senza che nessuno gli chieda
il passaporto?
Durante la campagna elettorale, Obama ha affrontato con franchezza il tema
dell'immigrazione. Magari a partire da ora, quando non corre piu' il rischio
di spaventare i voti, potesse e volesse farla finita con questo muro, molto
piu' lungo e oppressivo di quello di Berlino e di tutti i muri che violano
il diritto alla libera circolazione delle persone.
Obama, che con tanto entusiasmo ha appoggiato il recente regalino di
settecentocinquanta miliardi di dollari ai banchieri, governera' come e'
costume per socializzare le perdite e per privatizzare i profitti?
Ho paura di si', pero' magari no.
Obama firmera' e rispettera' l'accordo di Kyoto o continuera' a concedere il
privilegio dell'impunita' alla nazione piu' avvelenatrice del pianeta?
Governera' per le automobili o per la gente? Potra' cambiare il cammino
assassino di un modo di vita di pochi che si giocano il destino di tutti?
Ho paura di no, pero' magari si'.
Obama, il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, mettera' in
pratica il sogno di Martin Luther King o l'incubo di Condoleezza Rice?
Questa Casa Bianca, che ora e' casa sua, venne costruita da schiavi negri.
Magari non lo dimenticasse, mai.

5. RIFLESSIONE. ALESSANDRO PORTELLI: OBAMA E LA STORIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 novembre 2008 col titolo "Radici. Nero
o bianco? Il cavallo Barack cambia direzione" e il sommario "Si e' fatto
carico della storia degli afro-americani, reinterpretandola"]

Oggi salutiamo in Barack Obama, con entusiasmo e commozione, il primo
presidente "nero" degli Stati Uniti. Ma "nero" in che senso? Dopo tutto, ha
un padre nero e una madre bianca, il colore della sua pelle non e' tanto
piu' scuro di quello di tanti italiani. E' tanto nero quanto bianco, ma lo
chiamiamo nero perche' quella parte di lui e' resa equivalente al tutto
dalle conseguenze tutt'altro che svanite di una lunga storia.
Nel 1872 il grande leader nero Frederick Douglass (figlio di una schiava
posseduta dal suo padrone) diceva, nello sposare in seconde nozze una donna
bianca: "Col mio primo matrimonio ho reso omaggio alla razza di mia madre;
col secondo, rendo omaggio alla razza di mio padre". Per tutta una lunga
storia, intellettuali e figure pubbliche afro-americane hanno contestato una
divisione bipolare della societa' in cui o eri tutto bianco o eri tutto
nero, senza mediazioni.
Per esempio, uno dei protagonisti "neri" del '900, W. E. B. DuBois, apriva
la sua autobiografia proprio elencando puntigliosamente tutta la sua
complicata discendenza da antenati di ogni colore e di ogni continente. Ma
il paradosso era che Douglass, DuBois e prima di loro James Weldon Jonhson,
Charles Chesnutt - esempi viventi della unione interrazziale - potevano
contestare questa secca costruzione ideologica solo partendo da dentro il
recinto che volevano distruggere. Potevano contestare l'identita' che gli
veniva rovesciata addosso solo nell'atto di farla propria. Per poter dire
che la "razza" non avrebbe dovuto contare, dovevano contare sui di essa.
Da questo punto di vista, per dirla con una immagine cara a Vittorio Foa,
Barack Obama rappresenta la mossa del cavallo: il progetto di cambiare
direzione al discorso, di collocarsi altrove. Ha scelto e ha dovuto farsi
carico di quella storia che lo identificava tutto e solo come nero, ma lo ha
fatto parlando da fuori del recinto, perche' per quanto se ne faccia carico
tuttavia non e' quella la storia da cui proviene. Non ha bisnonni schiavi,
nonni linciati, genitori arrestati e picchiati in Alabama negli anni '60. E'
americano di prima generazione (e semmai c'e' anche un'altra lezione da
imparare: gli Stati Uniti hanno eletto presidente il figlio di un
immigrato), che rivendica la storia dei neri d'America ma non ne porta il
peso e la rabbia (in questo senso era molto azzeccato il titolo del
"Manifesto" di ieri: "Indovina chi viene a cena"). Perche' rinviava si' a
un'esperienza afroamericana, ma a una figura come quella di Sidney Poitier,
che era parte della rivendicazione nera di cittadinanza, ma ne rappresentava
l'aspetto meno minaccioso, meno contestatario, quello a cui in fondo potevi
far sposare tua figlia - e generare cosi' altri bambini sia bianchi sia
neri).
E' presto per dire se la mossa del cavallo di Barack Obama rappresenta una
negazione prematura di un doloroso passato e di un difficile presente, o
l'affermazione di un possibile futuro in cui un nero alla Casa bianca non
sia piu' sorprendente di una donna italiana eletta capo del governo in
India. Forse, e' tutte e due le cose: come dice lo straordinario finale di
Amatissima di Toni Morrison, quesa non e' una storia "to pass on" - che, a
seconda di dove mettiamo l'accento, significa o che non e' una storia da
tramandare oppure che non e' una storia da trascurare. Forse Barack Obama
suggerisce che possiamo tramandarla come parte di una piu' vasta e
molteplice storia dell'America intera.
Intanto, quello che mi commuove e mi entusiasma oggi non e' solo il pensiero
di Barack Obama "a cena" alla Casa Bianca. E' il pensiero di quelle due
bambine nere - piccole abbastanza da ricordarci che la differenza di Obama
e' anche generazionale - che per parte di madre la storia d'America ce
l'hanno tutta addosso, che giocheranno in quelle stanze e correranno in quei
giardini dove i loro antenati materni potevano entrare solo come schiavi o
come domestici.

6. RIFLESSIONE. TARIQ ALI: OBAMA E LA CRISI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 novembre 2008 col titolo "Cambio di
regime. Banche, guerre, vicini... la retorica non bastera'" e il sommario
"Un risultato storico ha sepolto chi diceva (come Hillary, e ai suoi tempi
anche Bill) che l'America non era pronta. Le destre hanno preso 50 milioni
di voti e i big democratici frenano ma la crisi e' troppo avanzata e le
domande di lavoro, salute e casa pressanti. Gli slogan non saranno
sufficienti, servira' l'Obama vero. Se c'e'"]

La vittoria di Barack Obama segna un passaggio generazionale e sociologico
decisivo nella politica americana. In questa fase e' difficile prevedere il
suo impatto, ma le aspettative della maggioranza dei giovani che hanno
portato Obama alla vittoria restano alte. Forse non e' stata una valanga, ma
il voto e' stato abbastanza consistente; i democratici hanno conquistato
piu' del 50% dell'elettorato (62,4 milioni di elettori) e hanno solidamente
insediato una famiglia nera alla Casa Bianca.
Il significato storico di questo fatto non va sottovalutato. E' accaduto in
un paese dove una volta il Ku Klux Klan era il gruppo politico piu' ampio
della storia americana e contava milioni di membri lanciati in una campagna
di terrore mortale contro i cittadini neri, avvalendosi di un sistema legale
basato sul pregiudizio. Com'e' possibile dimenticare le fotografie dei primi
trent'anni del secolo scorso che ritraevano gli afro-americani linciati
sotto lo sguardo d'approvazione delle famiglie bianche, famiglie intente a
godersi il loro picnic mentre assistevano alla scena? Nella voce memorabile
di Billie Holliday: "black bodies swinging in the southern breeze and
strange fruit hanging from the poplar trees" ("corpi neri oscillano nella
brezza del sud, dagli alberi di pioppo pende uno strano frutto").
Negli anni '60 le lotte di massa per i diritti civili portarono alla fine
della segregazione e alle campagne per la registrazione dei neri negli
elenchi elettorali, ma anche all'assassinio di Martin Luther King e Malcolm
X (proprio quando quest'ultimo stava iniziando a invocare l'unita' di neri e
bianchi contro un sistema che opprimeva gli uni e gli altri). Sarebbe banale
osservare che Obama non e' uno di loro. Lo pensa il 96% degli afro-americani
che sono usciti di casa per votarlo. Puo' anche darsi che gli dispiaccia, ma
per il momento stanno festeggiando. Come biasimarli?
Solo due decenni fa, Bill Cinton ammoniva il suo rivale democratico, il
governatore liberal dello stato di New York, Mario Cuomo, che l'America non
era ancora pronta a eleggere un presidente il cui nome terminasse con la "o"
o con la "i".
Solo pochi mesi fa, i Clinton assecondavano apertamente sentimenti razzisti
sottolineando ripetutamente che gli elettori bianchi della working class
avrebbero sicuramente respinto Obama, e ricordavano ai Democratici che anche
Jesse Jackson aveva ottenuto un buon risultato durante le primarie. La nuova
generazione di elettori ha dimostrato che si sbagliavano: il 66% dei votanti
di eta' compresa tra 18 e 29 anni, corrispondenti al 18% dell'elettorato, ha
votato per Obama; il 52% della fascia di eta' compresa tra i 30 e i 44 anni
(il 37% dell'elettorato) ha fatto altrettanto.
La crisi del capitalismo senza regole e del libero mercato ha portato a uno
slancio nel consenso a Obama in stati ritenuti finora territorio dei
Repubblicani o dei Democratici bianchi, accelerando il processo che ha
decretato la sconfitta di Bush e Cheney e della banda neo-con. Ma il fatto
che McCain e Palin abbiano comunque ottenuto 55 milioni di voti sta a
ricordarci quanto sia tuttora forte la destra americana. I Clinton, Joe
Biden, Nancy Pelosi e molti altri pezzi da novanta democratici utilizzeranno
questa argomentazione per fare pressione su Obama affinche' resti fedele al
copione che ha utilizzato per vincere le elezioni. Tuttavia, gli slogan
moderati e buonisti non basteranno a garantire la vittoria anche al secondo
mandato. La crisi e' troppo avanzata e le domande che agitano la maggior
parte dei cittadini americani - come ho potuto verificare quando sono stato
li', poche settimane fa - riguardano il posto di lavoro, la salute (40
milioni di cittadini non hanno assicurazione sanitaria) e la casa. La
retorica da sola non basta per affrontare la recessione in atto
nell'economia reale: ci sono mille miliardi di dollari di debiti di carte di
credito che potrebbero far crollare altri giganti del sistema bancario; il
declino dell'industria automobilistica portera' a una disoccupazione su
larga scala; e c'e' la manovra di salvataggio che ha fatto indebitare
generazioni future di americani nei confronti di Wall Street. Le misure
prese dall'amministrazione Bush in preda al panico, predisposte e
orchestrate dall'amico dei banchieri e ministro del tesoro Paulson, hanno
privilegiato poche grandi banche, che stanno godendo dei finanziamenti
pubblici. I democratici e Obama hanno dato il proprio assenso all'operazione
e troveranno difficile tirarsi indietro per passare a un altro fronte.
L'espandersi della crisi, comunque, potrebbe obbligarli a muoversi in una
direzione diversa. Le misure di austerity colpiscono sempre i meno
privilegiati, e il futuro del nuovo presidente e della sua squadra
dipendera' dal modo in cui essi affronteranno questo problema. E' un pessimo
momento per essere eletti presidente, ma e' anche una sfida, e Franklin
Roosvelt negli anni '30 la accetto' imponendo un regime social-democratico
di regole, di opere pubbliche, e un approccio fantasioso nei confronti della
cultura popolare. Lo soccorse l'esistenza di un forte movimento dei
lavoratori e della sinistra americana: gli anni di Reagan-Clinton-Bush hanno
contribuito a distruggere l'eredita' del New Deal. Siamo di fronte a una new
economy fortemente dipendente dalla finanza globale, e a una America
deindustrializzata. Obama possiede la visione o la forza per rimettere le
lancette di questo orologio indietro e avanti allo stesso tempo?
In politica estera, l'approccio Obama-Biden non e' stato troppo diverso da
quello di Bush o McCain. Un New Deal per il resto del mondo richiederebbe
una rapida partenza dall'Iraq e dall'Afghanistan, senza intraprendere
ulteriori avventure in quelle regioni ne' altrove. Biden si e' virtualmente
impegnato in una balcanizzazione dell'Iraq che ora appare meno probabile,
dato che il resto del paese, cosi' come l'Iran e la Turchia, si oppone per
ragioni diverse alla creazione di un protettorato israelo-americano nel nord
dell'Iraq con basi americane permanenti. Obama farebbe bene ad annunciare un
ritiro rapido e completo. A parte tutte le altre considerazioni, i costi
sono oggi proibitivi. E inviare in Afghanistan le truppe di stanza in Iraq
non farebbe che ricreare il problema da un'altra parte. Come hanno osservato
numerosi diplomatici, militari ed esperti di intelligence britannici, la
guerra nell'Asia del sud e' persa. Washington e' certamente consapevole di
questo fatto. Da qui, i negoziati con i neo-talebani dettati dal panico.
Possiamo solo augurarci che i consiglieri di politica estera di Obama
pretendano una ritirata anche su questo fronte.
E l'America del sud? Certamente Obama dovrebbe imitare il viaggio di Nixon a
Pechino e volare all'Avana, mettendo fine all'embargo economico e
diplomatico nei confronti di Cuba. Persino Colin Powell ha riconosciuto che
il regime ha fatto molto per il suo popolo. Sara' difficile per Obama
predicare le virtu' del libero mercato, ma i cubani potrebbero certamente
aiutarlo a creare un vero sistema sanitario negli Stati Uniti. La gran parte
degli americani sarebbe felice di credere in questo cambiamento. Altre
lezioni le potrebbero offrire anche gli altri paesi sudamericani, che avendo
previsto la crisi del capitalismo neoliberista hanno cominciato a
strutturare diversamente la loro economia piu' di un decennio fa.
Se cambiamento significa che nulla cambia, allora coloro che hanno portato
Obama alla Casa Bianca potrebbero decidere, tra qualche anno, che un partito
progressista negli Stati Uniti e' diventato una necessita'.

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