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Minime. 635
- Subject: Minime. 635
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 10 Nov 2008 00:55:33 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 635 del 10 novembre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Benito D'Ippolito, nell'anniversario della notte dei cristalli 2. Opporsi alla guerra e al razzismo 3. Luigi Manconi e Federico Resta: Un disegno di legge scandaloso 4. Enzo Collotti: Memoria 5. Dacia Maraini: Studenti 6. Un colloquio di Claudio Magris e Dunja Badnjevic 7. Tommaso Di Francesco presenta "L'isola nuda" di Dunja Badnjevic 8. Predrag Matvejevic presenta "L'isola nuda" di Dunja Badnjevic 9. La "Carta" del Movimento Nonviolento 10. Per saperne di piu' 1. MEMORIA. BENITO D'IPPOLITO: NELL'ANNIVERSARIO DELLA NOTTE DEI CRISTALLI [Riproponiamo questo vecchio testo del nostro buon amico Benito D'Ippolito] Nella notte tra il nove ed il dieci novembre dell'anno millenovecentotrentotto, nella Germania che fu di Goethe e di Heine, di Hegel e di Beethoven caduta in pugno alla ciurma hitleriana fu scatenata la strage che reca questo nome orribile di notte dei cristalli. E tu che leggi queste spente righe fermati a considerare e accendi una lampada ancora a fare luce, a far memoria delle vittime, a tener sveglia l'umanita' sempre. 2. EDITORIALE. OPPORSI ALLA GUERRA E AL RAZZISMO Le stragi che in Afghanistan continuano. Opporsi occorre alla guerra. Cessi la partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista. Cessi la partecipazione italiana alla guerra che viola il diritto internazionale e la legalita' costituzionale. I diritti umani si difendono con la pace e la solidarieta' che salva le vite, non con i massacri. La pace si costuisce con il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti. * L'eversione razzista del governo italiano e dei suoi prolungamenti negli enti locali. Occorre opporsi al razzismo. Si torni nel nostro paese alla legalita' costituzionale, al rispetto dei diritti umani. Si torni alla democrazia e alla legalita' che accoglie, difende, assiste e salva ogni essere umano. 3. RIFLESSIONE. LUIGI MANCONI E FEDERICO RESTA: UN DISEGNO DI LEGGE SCANDALOSO [Dal quotidiano "L'Unita'" del 9 novembre 2008 col titolo "Governo a muso duro con poveri e immigrati" e il sommario "Homeless schedati e senza diritti. Reato di clandestinita' e 18 mesi per l'identificazione. Le ronde legalizzate. Sindaci sceriffi e pseudopoliziotti a occuparsi di ordine pubblico. Persino il matrimonio e' subordinato al permesso di soggiorno. Via tutti i diritti"] Sara' in aula da martedi' a Palazzo Madama il disegno di legge sulla sicurezza. Ronde istituzionali, reato di clandestinita' per gli immigrati e schedatura dei clochard. Cosi' si tagliano i diritti dei piu' poveri. Il complesso delle misure disegna una strategia e un'ideologia affidate a un sistema di intimidazione ed esclusione. Questi i punti piu' significativi. * La schedatura dei clochard Si istituisce il registro delle persone che non hanno fissa dimora, rimettendone a un mero decreto del Ministro dell'interno la disciplina di funzionamento. La norma contrasta con il principio di eguaglianza, assoggettando a una sorta di schedatura persone per il solo fatto di essere "senza fissa dimora". Non si specificano poi le finalita' che dovrebbero legittimare questo trattamento discriminatorio, gravemente lesivo della dignita' personale. * Le ronde e il presidio Gli enti locali potranno avvalersi "della collaborazione di associazioni tra cittadini" al fine, tra l'altro, di "cooperare nello svolgimento dell'attivita' di presidio del territorio"; finalita', questa, prevalente, tanto da comparire nel "titolo" della norma. Ora, coinvolgere privati nell'esercizio di una delle funzioni principali della sovranita' dello Stato contrasta con il monopolio statuale della forza. Ne' si prevede espressamente il carattere pacifico (non in armi) di tali associazioni. Se quindi esse perseguissero anche indirettamente scopi politici (il che non e' escluso dalla norma), incorrerebbero anche nel divieto di cui all'art. 18 Cost. * Il permesso a punti Si subordina il rilascio (e il rinnovo) del permesso di soggiorno alla stipula di un "accordo di integrazione" e si prevede l'espulsione immediata nel caso di perdita dei "crediti", senza neppure la deroga per asilanti e rifugiati. Contrasta con il diritto internazionale subordinare uno status soggettivo (la presenza in uno Stato) alla valutazione (necessariamente discrezionale) del grado di integrazione della persona. Giudizio complesso, che l'autorita' amministrativa fatalmente esprimerebbe con criteri arbitrari: tanto piu' che non sono previsti dalla legge parametri certi ne' i fatti che determinano la perdita dei crediti (si rinvia a un regolamento, in contrasto con la riserva di legge di cui all'art. 10 Cost.). * L'immigrazione irregolare e' un reato Benche' "derubricato" da delitto (com'era in origine) a contravvenzione, questo reato resta inaccettabile. Non si comprende infatti l'esigenza di incriminare l'immigrazione irregolare quando (e per fortuna) la sola misura applicabile resta quella dell'espulsione, la cui esecuzione impedisce la prosecuzione dell'azione penale, salvo riattivarla in caso di reingresso. Inoltre - fatto gravissimo - non si prevedono cause di non punibilita' o di sospensione del processo per le vittime di tratta, o per i titolari di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Ancora: questo reato sarebbe difficilmente compatibile con lo jus migrandi sancito quale liberta' fondamentale (e non mero diritto alla fuga) dal diritto internazionale. Infine, la norma sarebbe allo stato inapplicabile, poiche' le disposizioni del d. lgs. sul giudice di pace richiamate ai fini del procedimento... non esistono. * Nei centri identificazione per 18 mesi E' prevista la detenzione nei centri fino a 18 mesi in caso di difficolta' nell'accertamento dell'identita' e della nazionalita' dello straniero, o nell'acquisizione dei documenti per il viaggio. La direttiva Ce migration policy, invocata dal Governo italiano a sostegno della misura, prevede che il termine massimo di 18 mesi valga per la sola resistenza all'identificazione, il che e' diverso dalla mera difficolta' nell'accertamento. Inoltre, la direttiva sancisce il carattere di extrema ratio del trattenimento, prevedendo la liberazione dello straniero qualora non esistano verosimili possibilita' di esecuzione dell'espulsione. Correttivi, questi, assenti dal disegno di legge, nonostante la Commissione de Mistura abbia dimostrato che i tempi per l'identificazione dello straniero non superano mai i 60 giorni. Perche' allora legittimare una simile estensione della detenzione amministrativa, per un tempo pari a quello di pene previste per reati anche di una certa gravita', invece di promuovere gli accordi di riammissione che, essi soli, rendono effettive le espulsioni? E come giustificare tale privazione della liberta' motivata solo da circostanze estranee alla condotta individuale, quali sono l'indisponibilita' dei documenti di viaggio o l'impossibilita' di identificare lo straniero? * Quelli sinora esposti sono i contenuti principali del disegno di legge. Altre norme, altrettanto illiberali, prevedono l'obbligatorieta' della custodia cautelare anche per i reati informatici, nonostante la Consulta e Strasburgo non abbiano censurato tale disciplina solo perche' sinora limitata ai reati di mafia; e prevedono, poi, il rimpatrio dei minori comunitari che esercitano la prostituzione, senza assicurare loro possibilita' di accoglienza e protezione in Italia. Si e' infine subordinata la possibilita' di contrarre matrimonio - diritto fondamentale e non legato alla cittadinanza - al possesso del permesso di soggiorno. 4. RIFLESSIONE. ENZO COLLOTTI: MEMORIA [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 novembre 2008 col titolo "La memoria come risorsa antifascista"] E' proprio vero che i fatti della seconda guerra mondiale non meritano che l'oblio? E' questa la domanda che si e' tentati di porsi di fronte alle tante manifestazioni di insofferenza che accompagnano la riesumazione di episodi editi o inediti relativi a questo evento epocale con i suoi caratteri di scontro frontale nella lotta per la civilta', nel momento in cui invece il fronte della memoria sembra ricompattarsi nell'appagamento della riconciliazione nel ricordo della fine della prima guerra mondiale. Il ricordo della guerra piu' lontana non sembra soffrire le lacerazioni che la guerra piu' vicina ancora evoca. Le prese di posizione ambigue degli esponenti dell'attuale maggioranza rendono lo stato della situazione particolarmente confuso. Approssimandosi il settantesimo anniversario delle leggi razziste del fascismo e il giorno della memoria possiamo prevedere che nella caterva di dichiarazioni cui andiamo incontro queste contraddizioni raggiungeranno l'apice dell'esasperazione. Dal mese di aprile in poi non e' passato quasi un giorno che non si siano succedute prese di distanza da atti della politica fascista (precipuamente la persecuzione degli ebrei) e contemporaneamente affermazioni e gesti di riabilitazione parziale o totale del regime del ventennio e della sua continuazione nella Rsi. Ne viene messa in evidenza da una parte l'incerta identita' democratica di una parte rilevante del ceto politico del centro-destra, ma dall'altra anche l'indissociabile legame che esso ha con le sue radici e quindi la sua difficolta' a disfarsene, posto che lo voglia. Per chi si e' nutrito sino all'altroieri dei simboli e dei teoremi di un aristocratico della razza come Evola e' impresa ardua riciclarsi sul terreno dell'antirazzismo e della democrazia, come e' dimostrato dalla quotidianita' politico-culturale. Si potra' dire che sviluppando argomentazioni del genere continuiamo a condurre una battaglia di retroguardia. Siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma e' pur sempre meglio condurre una battaglia di retroguardia che non affrontare nessuna battaglia. Siamo anche consapevoli che di fronte alla potenza della tirannia mediatica che e', almeno da noi, lo strumento formatore e livellatore delle coscienze e spesso l'unica fonte d'informazione per un largo pubblico, le nostre parole sono povera cosa. Ma sono convinto che spetti ai superstiti della mia generazione coltivare il filo della memoria che tiene unite esperienze cosi' lontane alla sensibilita' delle generazioni piu' giovani. Certo, per un corrispondente della "Faz" che da sempre fa il diffamatore della Resistenza e dell'antifascismo, sarebbe molto piu' comodo un Presidente della Repubblica che si limitasse a ricordare in maniera neutra le vittime della guerra senza emettere giudizi sulla natura delle forze in campo e senza quindi rischiare di attualizzare confronti di valutazioni, anche se dovrebbe sapere che oggi anche a casa sua sulla guerra nazista non esistono piu' i tabu' di 20 o 30 anni fa. Il discorso su una identita' europea oggi e' certamente un discorso complesso e non suscettibile di un unico sbocco, perche' rispecchia le divisioni che l'Europa ha attraversato negli ultimi decenni e lacerazioni politico-culturali che persistono tuttora. Ma buona parte dell'Europa, dall'Atlantico ai territorio dell'ex Unione Sovietica ha conosciuto l'esperienza del Nuovo ordine nazista e fascista. Della formazione di una identita' europea fa parte anche questa esperienza, lo vogliano o no ammettere tutti gli odierni stati soggetti del panorama europeo e di questa esperienza fanno parte integrante, perche' hanno accomunato le popolazioni europee sotto un unico destino di breve durata ma di radicale intensita', fenomeni come la Shoah ma anche i colossali sconvolgimenti demografici e sociali provocati da immani spostamenti forzati di popolazione. Oggi si tende, e giustamente, a studiare gli spostamenti avvenuti a seguito della guerra, ma come dimenticare le decine di milioni di uomini e donne sradicate forzatamente dalle proprie case in nome del Nuovo ordine europeo? Al di la' della Shoah, i deportati per il lavoro forzato o per rappresaglia per la partecipazione alla Resistenza ("Notte e nebbia") o per gli scioperi operai contro l'economia di guerra nazista, cui si devono aggiungere i milioni di militari polacchi, francesi, sovietici, italiani e di altre nazionalita' catturati e trattati al di fuori di ogni tutela prevista per i prigionieri di guerra, sono stati tra i testimoni viventi della tragedia che ha travolto e devastato l'Europa. Oggi non c'e' paese d'Europa in cui non siano presenti i superstiti di questa immensa schiera di deportati, vittime di questo prodotto della guerra totale, non certo sconosciuto al primo conflitto mondiale ma diventato aspetto centrale del secondo conflitto. E' possibile dimenticare tutto questo? Il quesito e' meramente retorico, se solo si considera la massa enorme di individui, uomini e donne, che la deportazione ha messo in movimento in Europa. Se pensiamo alla difficolta' con la quale nei primi anni del dopoguerra chi era sopravvissuto alla deportazione riusciva a farsi ascoltare e quindi alla reticenza di raccontare esperienze cui spesso non si voleva prestare orecchio, l'esplosione di racconti dagli anni '80 in poi fa concludere che ci troviamo invece in presenza di una ipertrofia di memorie, cui non coincide necessariamente un adeguato indice di memoria collettiva. Tuttavia i semi diffusi nelle diverse societa' nazionali dalla consapevolezza degli ex deportati di avere vissuto un tratto irripetibile di percorso comune ne ha fatto dei buoni europei e messaggi insostituibili di un avvenire di pace. Da noi Primo Levi e' stato non l'unico ma forse l'esempio piu' alto di questo tipo umano; altrove, da Semprun a Langbein, la voce degli ex deportati ha anticipato aspirazioni di pace contro gli interessi imperialistici delle potenze. Che senso ha ricordare oggi tutto questo? In un momento di grandi incertezze politico-culturali, di opacita' di pensiero e di prospettive, l'elaborazione della memoria e' una risorsa. L'apprendere dal passato non puo' essere mai un'operazione passiva, non puo' essere l'attesa della ripetizione di circostanze che non ritorneranno mai come prima, ma e' uno strumento prezioso per affinare la sensibilita' e l'intelligenza a sapere cogliere anche nel nuovo (o nell'apparente nuovo) cio' che di vecchio si ripresenta sotto spoglie inedite. 5. RIFLESSIONE. DACIA MARAINI: STUDENTI [Dal "Corriere della sera" del 4 novembre 2008 col titolo "Mutamenti sociali e decreti ufficiali" e il sommario "In un Paese imbolsito facce nuove, che usano le parole della ragione"] Negli ultimi anni quando si parlava di scuola si pensava solo alle immagini penose che apparivano sui giornali: ragazzi affollati a fotografare un compagno che molestava una professoressa, liceali che allagavano una classe, che prendevano a calci un minorato, che facevano scherzi miserabili alle loro compagne. Sono usciti fiumi di articoli per dire che gli studenti ormai o sono inebetiti o presi da forme arroganti di bullismo. Siamo arrivati a credere di vivere in un'epoca di inerzia morale, in cui la scuola, che e' la parte piu' vulnerabile ed esposta del paese, produce solo rassegnazione, droga, e velleitarismo. Io che vado spesso nelle scuole avevo una idea diversa e l'ho anche scritto piu' volte. A me risulta che li' dove gli insegnanti hanno passione e talento, li' dove viene proposto lo studio come conquista e invenzione, gli studenti danno tanto e sono vitalissimi. Sono stata accusata di indulgente ottimismo. Ma ecco: la minaccia di tagli su un futuro gia' abbastanza precario e' riuscita a far venire a galla cio' che non poteva non giacere sotto la coltre di apparente abulia: la voglia di studiare, di imparare un mestiere, di prendersi le proprie responsabilita' nella costruzione di un futuro comune. Finalmente si vedono i ragazzi per strada solidali e vicini, li si trovano nelle piazze seduti in cerchio ad ascoltare lezioni prestigiose, oppure pacifici in corteo per opporsi contro un sistema drastico di cambiamenti che piove dall'alto come un ordine odioso. In un Paese imbolsito da una classe dirigente vecchia e ripetitiva, in un Paese in cui i politici sono diventati divi del piccolo schermo, perdendo i rapporti con la realta', fa piacere vedere facce nuove, fresche, che usano le parole della ragione e della necessita'. Qualcuno paventa il pericolo di una deriva estremista: "Non e' successo cosi' nel '68? come sono nate le Brigate rosse?". Ma per fortuna non siamo in tempi di fedi ideologiche. Le richieste oggi non riguardano tanto una palingenesi universale quanto la necessita' di regole che rimettano in sesto un sistema scolastico che va alla deriva. Sbaglia gravemente chi non vuole ascoltarli questi studenti. I veri cambiamenti vengono sempre dal basso, dalle esigenze primarie di chi vive il disagio della crescita, della ricerca del lavoro. Questi ragazzi esprimono, con le loro facce pulite e coraggiose, quella indignazione che molti sostenevano morta e sepolta, quella capacita' di reagire all'ingiustizia, di battersi per i propri diritti che e' essenziale per lo sviluppo di un Paese. Una generazione che si sveglia lo fa lentamente, per contagio. E i metodi forti, i trucchi, le trappole non fanno che rinsaldarla. Se questi ragazzi sapranno governare un sentimento di massa che passando attraverso lo sconforto, la rassegnazione approda oggi all'orgoglio e alla voglia di liberta', non potra' non portare nuovi cambiamenti etici dell'intero Paese. I mutamenti non possono essere imposti dall'alto, meno che meno da decreti ufficiali. Devono crescere dal basso, come una necessita' innegabile che coinvolge tante menti, tanti corpi e si lega a un progetto collettivo per il futuro. Per questo vanno ascoltati e anche con molta attenzione questi ragazzi. 6. MEMORIA. UN COLLOQUIO DI CLAUDIO MAGRIS E DUNJA BADNJEVIC [Dal Corriere della sera" dell'8 novembre 2008 col titolo "Gli eroi sbagliati dell'Isola Nuda" e il sommario "Dunja Badnjevic racconta il padre stalinista che fini' senza piegarsi nell'inferno di Tito. Il dialogo. Incontro con la scrittrice serba, che descrive in un romanzo le sofferenze della sua famiglia perseguitata in Jugoslavia per un falso ideale. Conversazione tra Claudio Magris e Dunja Badnjevic"] "Goli Otok isola della pace, isola di assoluta liberta' - dice il depliant turistico - Mare straordinariamente pulito, ambiente immacolato, immerso nel silenzio". Quelle due isole paradisiache dell'alto Adriatico sono state per anni un inferno. Il regime titoista jugoslavo le aveva trasformate in due Lager, in cui finirono non solo ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, in particolare, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo, che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin erano rimasti fedeli, per fede nell'idea universale marxista, al comunismo ortodosso e cioe' - allora - a Stalin. Finirono cosi' a Goli Otok, l'Isola Nuda, eroici combattenti per la causa della rivoluzione mondiale d'improvviso ferocemente perseguitati dai loro stessi compagni e dal regime jugoslavo che avevano contribuito a costruire, liberando il Paese dal nazifascismo. Fra essi c'erano anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i Lager nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco e si erano recati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese piu' vicino. In quell'inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall'Est e posteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare. E' una storia che mi ha ossessionato per tanti anni, sulla quale ho scritto un libro, il romanzo Alla cieca; dopo essere stata a lungo rimossa e taciuta, questa vicenda e' riemersa alla consapevolezza, ha dato origine a molte indagini storiche ed elaborazioni memorialistiche ed e' stata resa nota soprattutto attraverso il libro di Giacomo Scotti, Goli Otok, ritorno all'isola calva (ed. Lint), che ne documenta e illustra tutte le fasi. Anche la letteratura ha dato voce a quella tragedia, soprattutto attraverso la scrittura di testimoni sopravvissuti; fra le opere in italiano va ricordato il romanzo autobiografico Martin Muma del poeta rovignese Ligio Zanini. Ora e' uscito, scritto in italiano, l'intenso, incisivo e conturbante romanzo-verita' L'Isola Nuda di Dunja Badnjevic (Bollati Boringhieri), nata a Belgrado e residente da piu' di quarant'anni in Italia, traduttrice e promotrice nel nostro Paese di letteratura serba, bosniaca e croata, e traduttrice di autori italiani in serbo, esempio di un'identita' culturale che, pur restando fedele alle proprie origini, si trasforma e si arricchisce acquisendo, attraverso l'avventura della lingua, una valenza intellettuale e umana in piu'. Lo specchio Adriatico, come dice un libro del poeta e saggista croato Tonko Maroevic, e' stato fecondo di questi rimbalzi culturali; un altro esempio e' Ljiljana Avirovic, saggista e grande traduttrice dall'italiano in croato ma anche dal croato o dal russo in italiano. L'Isola Nuda e' essenzialmente la storia del padre dell'autrice, Esref Badnjevic, comunista internazionalista e partigiano, incrollabilmente fedele agli ideali universalistici, che finisce a Goli Otok e poi in un altro Lager all'interno della Jugoslavia. Attraverso la storia del suo calvario e della diritta fierezza con cui egli lo ha affrontato, emergono, con asciutta poesia che rende piu' intensa una nobile e indomita sofferenza, la storia di una famiglia, in estreme difficolta' sopportate con fermezza, e la storia di tutto un Paese, che inizia a rovinare calpestando i valori che lo hanno costruito e che esso stesso mina credendo di farlo per difendersi. * Lei - le dico incontrandola a Roma - ha scritto un libro forte, "vero" umanamente, storicamente e personalmente. Una testimonianza personale che diventa romanzo. Come si e' posta rispetto a tale rapporto tra la bruciante verita' e quel tanto di finzione necessaria per articolarla in un racconto che ha pure un suo notevole spessore letterario? E' stato esistenzialmente difficile? - Dunja Badnjevic: Non e' stato difficile perche' e' un documento-verita', non c'e' alcuna finzione. Era un po' come un'auto-analisi e una catarsi attraverso tutto cio' che abbiamo vissuto io, mio padre e il mio Paese. Ho perso un padre nel momento in cui ne avevo piu' bisogno, prima, e ho perso una patria che amavo, quasi visceralmente, dopo. Da qui il mio neologismo "apolitudine": sentire ad un tratto cancellato tutto un vissuto e avere solo la memoria per ricordare quel che gli altri cercavano di far sparire nel nulla. Affrontare un mondo in cui le vittime di ieri oggi non si riconoscono come tali, in cui i nomi delle strade e delle citta' sono cambiati. Che cosa significa ora aver combattuto per la patria e per un mondo migliore, se nella storia ufficiale quello non era il mondo migliore e nemmeno la patria era piu' quella? La realta' dei Balcani ha superato di gran lunga ogni possibile previsione. * - Claudio Magris: Cio' che mi ha sempre commosso, in questa terribile vicenda, e' il contrasto fra l'eroismo morale di questi uomini come suo padre e altri, pronti a sacrificare se stessi alla causa dell'umanita', e il fatto che essi si siano battuti e sacrificati (e forse pronti a sacrificare pure altri) in nome di Stalin, che, se avesse vinto, avrebbe trasformato il mondo intero in una Isola Nuda. Lei come sente questo contrasto? A parte l'amore personale per suo padre e l'oggettiva ammirazione per la sua dirittura, lo vede anche come in parte oggettivamente colpevole o almeno in errore? - Dunja Badnjevic: Colpevole no, ha agito in totale buona fede, facendo male solo a se stesso e alla sua famiglia. Bisogna rapportarsi a quegli anni quando i comunisti di tutto il mondo credevano che Stalin dei gulag non sapesse niente, che le responsabilita' fossero degli Jagoda, degli Ezov, dei Beria. Mio padre non e' mai stato in Russia. Credeva, sbagliando, nell'internazionalismo che necessitava, almeno all'inizio, di uno Stato guida, in un mondo in cui tutti davano secondo le proprie capacita' e ricevevano secondo i bisogni. Se il socialismo avesse vinto in Germania, diceva, tutto sarebbe stato molto diverso. L'Unione Sovietica era un Paese troppo povero, arretrato e grande. Anche se in molti Paesi dell'Est, Russia compresa, ci sono ancora oggi coloro che credono di aver pagato un prezzo troppo alto per la fine del socialismo reale. * - Claudio Magris: Negli anni recenti c'e' stato un intenso dibattito su questa storia che si voleva far dimenticare; studi storici, saggi, testimonianze, opere letterarie. C'e' stato qualche testo o qualche autore importante per l'ispirazione di questo libro? - Dunja Badnjevic: Sono usciti tanti saggi, ovviamente dopo la morte di Tito. Un testo letterario fu scritto ancora negli anni '70 da Dragoslav Mihajlovic, Quando fiorivano le zucche, ma ne fu vietata la diffusione. Il romanzo piu' fortunato sull'argomento fu Tren 2 di Antonije Isakovic. Mihajlovic era tra i piu' giovani "ospiti" dell'Isola e ha pubblicato due grossi volumi di ricordi. Ci sono stati qualche tentativo di riabilitazione dei detenuti, qualche convegno e incontro ufficiale. A uno di questi ho preso parte: era veramente toccante vedere i vecchi superstiti rincontrarsi e ricordare. Poco dopo e' arrivata la fine della Jugoslavia travolgendo tutto come un uragano. Che cosa poteva significare il destino di poche decine di migliaia di persone rispetto agli orrori di una guerra che si spalancavano davanti al Paese? * - Claudio Magris: Questa terribile storia e' una tragedia del movimento rivoluzionario mondiale, un tramonto - temporaneo o definitivo? - del sole dell'avvenire ed e' anche una tragedia jugoslava, quasi un lontano preludio della dissoluzione di quel Paese. Lei sente un nesso, sia pur lontano e simbolico? Come ha vissuto e come vive lei il tracollo del socialismo jugoslavo, la dissoluzione della Jugoslavia e la deformazione o cancellazione della sua memoria storica? - Dunja Badnjevic: Ogni volta che tornavo mi sentivo, come dicevano le mie amiche, una rana buttata nell'acqua bollente, stupita ed esterrefatta. Loro invece erano state immerse in acqua fredda e portate all'ebollizione lentamente. Credo che il declino inarrestabile del socialismo inizi nel 1956 quando le incertezze del gruppo dirigente sovietico e la mediocrita' della classe dirigente delle democrazie popolari impedirono il necessario e radicale mutamento e critica della teoria e della pratica politica del socialismo e il suo adeguamento ai tempi nuovi. Se si fossero date risposte serie e sincere ai tanti "perche'" del '56, forse oggi non ci troveremmo in un mondo in cui non invidio la giovinezza delle mie figlie e dei miei nipoti. Io, figlia di un vecchio comunista, credevo "nel sol dell'avvenire". In quei principi elementari di solidarieta' umana e di internazionalismo che avevano caratterizzato gli albori del socialismo. Lei nel suo Utopia e disincanto ha scritto: "Il mondo non puo' essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo". 7. LIBRI. TOMMASO DI FRANCESCO PRESENTA "L'ISOLA NUDA" DI DUNJA BADNJEVIC [Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 giugno 2008 col titolo "Il nemico interno" e il sommario "Come un romanzo sulla criminalizzazione del dissenso nella Jugoslavia di Tito puo' parlare al nostro presente"] E' un momento importante quello che vede un traduttore o una traduttrice prendere in proprio la parola letteraria. Per la lezione appresa dai grandi autori restituiti in altra lingua - in questo caso Milos Crnjavski, Danilo Kis e, su tutti, Ivo Andric - ma anche perche' si rende esplicito che la contiguita' con questi scrittori ha motivazioni profonde e un incomprimibile sedimento letterario. Parliamo di Dunja Badnjevic e del suo romanzo di memoria L'isola nuda (Bollati Boringhieri, pp. 162, euro 14) da poco uscito. Che, per la forma narrativa sospesa tra passato e presente, si propone in una sua cogente attualita'. Si tratta di un libro sul padre, per un arco temporale che va dall'infanzia dell'autrice negli anni '50 ai bombardamenti "umanitari" del 1999 su Belgrado. E' la storia della Jugoslavia vista con gli occhi di chi ormai si ritrova con la sua apolitudine: come privazione di una identita' reale indivisibile e invece dilaniata nel sangue, come dolore fisico per i luoghi perduti ai quali si apparteneva, come perdita del passato e dei legami, dei sogni e delle radici. Infine come perdita della memoria. Non e' nostalgia ma il contrario. Il romanzo, infatti, e' una tenera e insieme feroce scoperta della figura paterna, anche attraverso pagine del diario del padre Esref inserite come in un oratorio del tempo e che parlano dell'inferno dell'Isola nuda, Goli Otok. Tristemente nota per essere stata il centro di deportazione dei comunisti dissidenti dell'epoca di Tito, dei "cominformisti" legati a Stalin e contrari alla rottura tra il leader jugoslavo e il "padre" dell'Urss. Nel gioco di specchi di un'epoca dove tutti condannavano tutti, dove il dissenso era maledetto di fronte a un Occidente pronto alla Guerra fredda. Questa tenuta ancora "comunista" avvenne a costo degli stessi valori di solidarieta', umanita' e internazionalismo. Cosi', mentre Tito deportava i suoi cominformisti, Stalin faceva altrettanto con i suoi titini e il delfino albanese Enver Hoxha internava in Albania la "cricca degli jugolavi antipartito"; mentre dall'altra parte dell'Adriatico, esplodeva in Italia "il caso di Cucchi e Magnani", due dirigenti del Pci espulsi perche' filo-Tito. Sull'Isola nuda decine di migliaia furono gli internati dal 1949 al 1953 e quasi cinquemila le vittime. Il romanzo e' il resoconto di quattro viaggi che Dunja fa sull'isola dove scopre la ferocia degli aguzzini e il teatro dell'assurdo delle sedute d'accusa recitate dai funzionari di partito contro i dissidenti, mentre il "coro greco" in sottofondo intonava "morte ai banditi". Colpevoli di un unico reato: il delitto verbale. L'avere, cioe', politicamente e pubblicamente dubitato della linea del partito. Qui leader della lotta partigiana, capi politici della Guerra civile in Spagna o addirittura della Rivoluzione bolscevica, abituati a farsi ammazzare per le proprie idee che avevano difeso davanti ai plotoni d'esecuzione nazifascismi e nelle prigioni degli Ustascia, erano costretti a chinare il capo davanti a poliziotti di carriera dai bassi istinti. "Ho pensato spesso che l'intera vita di mio padre - scrive Dunja Badnjevic - sia stata come un inseguimento di prigioni. Mi rendo conto che e' un pensiero simile a una bestemmia, che in realta' lui inseguiva unicamente un ideale di giustizia. Ero contemporaneamente orgogliosa e impaurita da tanta forza d'animo". L'Isola nuda dunque alla fine si rivela nel suo orrore e nella sua interna lontananza: quella terra inospitale e' proprio il luogo nel quale il padre, scrive Dunja Badnjevic, "ha trascorso" quattro anni della sua vita, "quattro anni sottratti alla mia infanzia". Perche' un uomo gia' ricco aveva deciso di mettersi a disposizione del partito, aveva combattuto in armi e viveva, dopo la vittoria, malvolentieri i privilegi della nomenklatura sulla collina di Dedinje a Belgrado e alla fine veniva ripagato con il lager? E perche' resisteva e i carnefici erano i suoi stessi compagni di lotta? Perche' tanta caparbieta' visto che ormai l'insieme di tutta quella sofferenza non e' nemmeno storia, tutto e' stato cancellato e quel paese non esiste piu'? L'Isola nuda appare alla scrittrice come il padre stesso, la sua voglia di durata nel tempo, contro tutti e tutto per "difendere la sua verita' a tutti i costi". Anche a quello di perdere il legame con la figlia piu' amata che alla fine recupera l'emozione di riaverlo per se' solo, cancellando dalla tomba la neve dura che ne ricopre il nome. Certo, non e' minimamente paragonabile quella sofferenza al vuoto che ci circonda. Alla scomparsa della sinistra che abbiamo conosciuto, voglio dire. Ne' le sedute da "macchina infernale" kafkiana con cui i secondini attivavano le torture materiali e psicologiche nelle riunioni interne al lager possono essere confrontate con l'assenza di dialogo attuali e con l'incapacita' a collegare le volonta' di cambiamento alla proposta concreta, alla parola e al rapporto diretto con gli individui. Ma, ed e' il messaggio piu' forte che Dunja Badnjevic ci manda, mentre la consapevolezza e la memoria ormai sembrano essere diventate ripide e inaccessibili, scabre, senza baie e ripari come la piccola isola "calva", l'impressione netta e' che ognuno di noi resti come un'isola nuda per se stesso. Impossibilitato a usare la parte piu' ricca, quella della debolezza, per non consegnarsi al presente, ai "nemici". Rischiando cosi', per salvare il tempo futuro e l'alternativa, di mostrarsi pervicacemente inadeguati al quotidiano e alle richieste d'amore dell'oggi. * Postilla Goli Otok, "l'isola nuda": Goli Otok e' una piccola e spoglia isoletta al largo della Croazia. Divenne il gulag di Tito in cui vennero rinchiusi i comunisti contrari alla rottura con Stalin dopo il 1948. Dunja Badnjevic ricostruisce la vicenda di uno di essi, suo padre Esref, nel romanzo biografico L'isola nuda. Tra partito e internazionale: furono circa 30.000 i deportati a Goli Otok. Tra di essi molti italiani che nell'immediato dopoguerra avevano lasciato la Venezia Giulia per "andare a costruire il socialismo" oltreconfine. In gran parte ex partigiani e operai dei cantieri navali, di fronte alla scelta tra fedelta' al loro nuovo partito e quella ai principii dell'internazionalismo - ai loro occhi incarnati da Stalin - scelsero la rottura politica con la linea di Tito. Un libro esemplare: lo studio piu' importante sulla storia degli internati sull'"isola calva" e' quello di Giacomo Scotti, Goli Otok. Italiani nel gulag di Tito (Ed. Lint, Trieste 2006), che racconta le accuse di "spionaggio", la prigionia e la sorte dei detenuti. E arriva fino al "dopo", quando (nel 1956) il campo di "rieducazione" venne chiuso, i superstiti tornarono alle loro case. Senza che nessuno si pentisse delle scelte fatte. 8. LIBRI. PREDRAG MATVEJEVIC PRESENTA "L'ISOLA NUDA" DI DUNJA BADNJEVIC [Dal "Corriere della sera" del 12 giugno 2008 col titolo "Isola Calva, inferno nel nome di Tito" e il sommario "Un libro rievoca dall'interno gli orrori del comunismo jugoslavo. Fra le vittime i seguaci di Stalin. Il gulag nell'Adriatico dove si uccidevano i nemici del regime"] Isola Nuda, la chiamano gli slavi. Isola Calva, dicono gli italiani d'Istria. Il libro di Dunja Badnjevic, pubblicato per i tipi della Bollati Boringhieri, sceglie per titolo la prima denominazione per indicare questo tragico luogo collocato ai confini del Quarnero. Un isolotto roccioso e di difficile accesso, che non va dimenticato dalla storia. Ne hanno parlato, anche recentemente, Claudio Magris nel suo romanzo Alla cieca (Garzanti) e Enzo Bettiza nel Libro perduto (Mondadori). Giacomo Scotti, scrittore della minoranza italiana di Fiume, le ha dedicato vari articoli e un libro. Era un vero gulag, "una Kolyma jugoslava", dice la Badnjevic: la' suo padre, partigiano e comunista, trascorse piu' di quattro anni, incarcerato dai suoi compagni di lotta e di Resistenza. Per comprendere meglio queste vicende e' utile ricordare alcuni eventi del XX secolo. Nel corso della prima riunione di una sorta di nuova internazionale comunista, il Cominform, che ebbe luogo nel 1947 in Polonia, i rappresentanti jugoslavi, Kardelj e Djilas, si assunsero (per ordine diretto di Stalin) l'incarico di criticare i compagni italiani e francesi per "opportunismo". Erano presenti alla riunione Longo, Reale, Duclos e altri membri dei vari Comitati centrali. Il maresciallo Tito, considerato il maggior protagonista della Resistenza, sembrava allora piu' apprezzato di Togliati o di Thorez. Solo un anno dopo, nella seconda riunione a Bucarest, questo potenziale rivale di Stalin nel movimento comunista doveva invece divenire obiettivo di atroci accuse e durissimi attacchi. Fu la grande divisione del movimento operaio internazionale. L'accusa piu' grave fu quella di un "rigurgito di trotzkismo". Quella rottura brutale fu percepita da noi, in Jugoslavia, come la prosecuzione della seconda guerra mondiale o una nuova guerra. L'Armata rossa era alle frontiere del Paese in attesa dell'ordine di superarle. Tito seppe resistere e difendere la sua via autonoma, quella via che Togliatti cercava di difendere ancora agli inizi del '47 e che doveva invece rinnegare scrivendo la risoluzione del Cominform contro la Jugoslavia. Nel partito comunista jugoslavo erano tutt'altro che rari i filosovietici, convinti che la loro organizzazione dovesse essere una armata internazionale guidata dall'Unione Sovietica. Ebbero cosi' inizio le "purghe", in primo luogo all'interno dell'apparato dello Stato e del partito. Molti membri che occupavano ruoli importanti nelle istituzioni furono sostituiti e gettati in prigione. Nel conflitto con lo stalinismo si fece ricorso agli stessi metodi staliniani. Goli Otok sull'Adriatico settentrionale - l'Isola "nuda" o "calva" - divenne il gulag jugoslavo. Esref Badnjevic, il padre dell'autrice, uno dei primi partigiani insorti nel 1941, ex ambasciatore della Jugoslavia per il Medio Oriente, non volle rinnegare le proprie convinzioni. Si rese presto conto che "non c'era posto per il dubbio. Ci si doveva dichiarare: pro o contro. Non esistevano piu' la solidarieta', l'amicizia, la discussione fraterna", mancava la capacita' di mantenere anche nelle situazioni piu' difficili della guerra partigiana il rispetto delle diverse opinioni. "Se non ti riconoscevi nella linea del partito eri un traditore... Solo ieri eravamo soldati in lotta per la stessa causa", scriveva il vecchio partigiano. Cosi' comincio' il suo calvario. Appena approdato sulla sponda dell'isolotto, fu accolto con "una gragnuola di calci, pedate, pugni, sputi". La "rieducazione" doveva essere lunga e severa. Il cosiddetto "boicottaggio" si praticava in modo feroce. Si dovevano spaccare durante tanti giorni grossi blocchi di pietra per poi buttarli in mare. Un lavoro di Sisifo. "Sento i colpi su tutto il corpo e non so da dove mi venga la forza di resistere". Non tutti riuscivano a sopportare un simile trattamento. O si suicidavano o morivano per le atrocita' subite. Esref Badnjevic riusci' a resistere come aveva resistito prima alle persecuzioni naziste. Quando ne usci' scrisse una specie di diario. Sua figlia, autrice di questo libro, l'ha utilizzato nel migliore dei modi. Ha alternato le testimonianze crude di suo padre ai ricordi della propria infanzia - spezzata da quell'improvvisa irruzione notturna della polizia che doveva portarle via il genitore e distruggere la vita della sua famiglia - ai pensieri e alle riflessioni anche su tempi piu' recenti. Ne risulta un racconto autentico e struggente. L'alternanza dei due percorsi produce, quasi inaspettatamente, uno straordinario effetto letterario. Da una parte il percorso della grande Storia con la sua tragedia collettiva, dall'altra il piccolo vissuto quotidiano dei dolori e delle angosce familiari. Nel gulag dell'Isola Nuda finirono anche molti comunisti provenienti dall'Istria o dall'Italia stessa (particolarmente gli operai di Monfalcone) per collaborare alla "costruzione del socialismo". Pagarono cosi' la loro fede in un mondo che ritenevano migliore. Fino agli anni Ottanta in Jugoslavia non si poteva scrivere su questo argomento. Apparvero solo dopo la morte di Tito alcuni libri interessanti che abbiamo cercato di sostenere e divulgare, spesso senza successo. Mi sono talvolta chiesto se "misure" meno drastiche avrebbero potuto raggiungere lo stesso risultato - salvarci da Stalin e dagli staliniani. Ma ho talvolta rifiutato di porre queste domande, anche per l'amicizia nei confronti di coloro che avevano vissuto gli orrori dell'Isola e che avevano dimostrato un'onesta' intellettuale e una coerenza, anche se mal riposte. La narratrice, Dunja Badnjevic, sembra in alcuni momenti porsi domande simili e difficili. Vive da quarant'anni in Italia, e' nata a Belgrado da un padre bosniaco e da una madre croata. Ha fatto conoscere in Italia alcuni tra i migliori scrittori jugoslavi. Ha curato le opere di Andric per i Meridiani della Mondadori. Ama il suo Paese, nonostante molti "conti aperti" e avverte ancora la ferita della sua dissoluzione. Ha inventato un neologismo che mi sembra renda l'idea: "apolitudine - una sorta di non appartenenza... di perdita dei luoghi geografici, di amici, di sogni, della memoria e, soprattutto, delle radici". La conclusione e' amara: "Mio padre e' stato riabilitato il 24 gennaio 1990. Erano passati dieci anni dalla sua morte e quaranta dal suo primo arresto. Il Paese per il quale aveva combattuto e lottato oggi non esiste piu'". 9. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 10. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 635 del 10 novembre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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