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Minime. 630
- Subject: Minime. 630
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 5 Nov 2008 01:16:53 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 630 del 5 novembre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. A Viterbo un 4 novembre di lutto e di lotta. Dalla parte delle vittime, contro tutte le guerre, gli eserciti, le armi. Contro tutte le uccisioni 2. Da Viterbo un quattro novembre per la pace e la nonviolenza (2003) 3. Massimo L.Salvadori: Un immenso massacro 4. Bruna Bianchi: Le vittime dimenticate 5. Domenico Gallo: Il flagello della guerra 6. Giobbe Santabarbara: Breve una lettera a Pierino Enrichetti 7. Paul Ricoeur: Noi tutti stranieri e il dovere dell'ospitalita' 8. Marinella Correggia: Petrolio 9. Marina Forti: Diamanti 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. A VITERBO UN 4 NOVEMBRE DI LUTTO E DI LOTTA. DALLA PARTE DELLE VITTIME, CONTRO TUTTE LE GUERRE, GLI ESERCITI, LE ARMI. CONTRO TUTTE LE UCCISIONI Sotto un cielo buio, sotto la pioggia battente, anche quest'anno abbiamo reso omaggio alle vittime di tutte le guerre nell'anniversario della fine dell'"inutile strage" della prima guerra mondiale. Anche quest'anno il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo ha voluto realizzare una iniziativa senza cembali e senza fanfare, senza retorica e senza ideologie, spoglia, nuda: il silenzioso fare memoria e rendere omaggio alle persone uccise, ed intima e persuasa la promessa di continuare a lottare contro tutte le uccisioni, contro tutte le guerre, contro tutti gli eserciti e tutte le armi. Anche quest'anno. E il prossimo anno vogliamo che non solo a Viterbo ed in poche altre citta' il 4 novembre sia ricondotto a giorno di misericordia e civilta', di umano afflato e di rammemorazione del dovere di solidarieta' e rispetto per ogni vita; vogliamo che in molte altre citta' sia cosi', e sempre di piu': finche' venga un 4 novembre in cui non ci sara' piu' chi festeggia gli strumenti e gli apparati della morte, in cui non ci sara' piu' chi festeggia il "sacrificio" delle vite altrui; ma solo resti un 4 novembre di lutto e di pace, di verita' e di pieta': un 4 novembre non festa ma lutto. Dalla parte delle vittime, contro tutte le guerre, gli eserciti, le armi. Contro tutte le uccisioni. Sarebbe bene che lungo questo anno cominciassimo a lavorarci, affinche' il 4 novembre 2009 le iniziative di commemorazione e di pace siano gia' piu' numerose di quelle necrofile e insensate di apologia dello sterminio, di elogio dell'uccidere, di blasfema adorazione della guerra, dei suoi strumenti e dei suoi apparati. E sarebbe bene anche che ogni giorno scendessimo in piazza a chiedere la fine della partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista in Afghanistan; che ogni giorno scendessimo in piazza a chiedere il rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana che ripudia la guerra. 2. INCONTRI. DA VITERBO UN QUATTRO NOVEMBRE PER LA PACE E LA NONVIOLENZA (2003) [Riproponiamo il seguente articolo estratto da "La nonviolenza e' in cammino" n. 630 del 5 novembre 2003] Come gia' lo scorso anno, il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo la mattina del 4 novembre alle ore 8 (in orario distinto e distante dalle chiassose esibizioni di chi in questo giorno oscenamente festeggia gli apparati assassini della guerra, nuovamente offendendo fin la memoria delle persone dalla guerra uccise) ha realizzato una essenziale, austera, silenziosa cerimonia che ha recato un omaggio floreale ai monumenti che ricordano le vittime di guerra in piazza del Sacrario a Viterbo. Con tale iniziativa si e' realizzato un momento di memoria e pieta' verso le vittime di tutte le guerre e di affermazione del dovere di opporsi a tutte le uccisioni e alle guerre tutte, nell'inveramento di quanto sancito dalla Costituzione della Repubblica Italiana all'art. 11, laddove si afferma nitidamente che "L'Italia ripudia la guerra". * Dopo la conclusione della cerimonia il responsabile del Centro ha dichiarato: "Abbiamo voluto ancora una volta ricordare questa decisiva verita': che 'ogni vittima ha il volto di Abele' (Heinrich Boell), e che un sentimento di solidarieta' unisce tra loro tutti gli esseri umani poiche' tutti fanno parte di una medesima famiglia, condividono una medesima storia, sperimentano una medesima vicenda, e sono tutti ugualmente preziosi. Abbiamo voluto ancora una volta ricordare questa decisiva verita': che tutte le grandi tradizioni di pensiero, come il piu' intimo sentire di ciascuna persona, affermano che ogni essere umano ha diritto di vivere, che nessuno deve essere ucciso. Ricordare e onorare degnamente le persone uccise dalle guerre esige ed afferma l'impegno ad opporsi a nuove guerre, a salvare altre possibili vittime. Tutti siamo chiamati a impegnarci a costruire la pace, condizione necessaria per la civile convivenza, per il riconoscimento della dignita' umana di tutti gli esseri umani. La guerra e' nemica dell'umanita', e dopo Auschwitz ed Hiroshima tutti sappiamo che qualunque guerra puo' provocare la distruzione della civilta' umana. E quindi tutti siamo chiamati ad opporci ad ogni omicidio, e a quel cumulo di omicidi di cui la guerra consiste, e agli strumenti di morte e agli apparati assasssini ad essa ordinati. Mai piu' guerre, mai piu' uccisioni, mai piu' eserciti, mai piu' armi: ogni vittima ha il volto di Abele". 3. MEMORIA. MASSIMO L. SALVADORI: UN IMMENSO MASSACRO [Dal quotidiano "La Repubblica" del 4 novembre 2008 col titolo "L'inutile massacro avveleno' l'inizio del '900" e il sommario "Novant'anni fa si concludeva la Grande guerra, un conflitto che cambio' l'assetto del mondo. Secondo Freud mai un evento storico era stato cosi' dannoso per l'umanita'. Sulle responsabilita' politici e storici hanno alimentato un dibattito veramente infinito"] A esprimere cio' che ha rappresentato la prima guerra mondiale, la quale ha insanguinato l'Europa come mai avvenuto in precedenza, sono stati anzitutto quanti l'hanno vissuta: militari, politici, intellettuali, uomini e donne di ogni ceto. Divisi tra loro nella valutazione del suo significato e nelle posizioni assunte a favore o contro gli obiettivi dei rispettivi paesi, li ha pero' accomunati un unico responso: che essa determino' il crollo di un mondo. Lo percepi' fin dal 1915, con un senso di orrore e spavento, Sigmund Freud, il quale scriveva: "Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il cosi' prezioso patrimonio comune dell'umanita', (...) inabissato cosi' profondamente tutto quanto vi e' di elevato". Ma di chi la responsabilita'? La pubblicistica politica e la storiografia hanno alimentato in proposito un dibattito infinito. Merita in particolare di essere ricordato, per la statura degli studiosi, lo scontro avvenuto negli anni '60 tra Fritz Fischer, sostenitore del ruolo primario avuto dalla Germania nello scatenamento e nel proseguimento della guerra, e Gerhard Ritter, il quale tale tesi ha vigorosamente contestato. Su questa questione, pare a chi scrive che parole quanto mai persuasive abbia scritto il grande storico russo Evgenij V. Tarle, pochi anni dopo la conclusione del conflitto, quando osservo' che "entrambi gli schieramenti delle potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare l'incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che apparisse il piu' idoneo", ma che nell'estate del 1914 la decisione fu presa da Germania e Austria le quali si erano convinte che fosse allora venuta l'occasione per esse piu' favorevole. La "grande guerra", iniziata tra le fanfare e i tripudi di folle osannanti nell'illusione di un conflitto di pochi mesi e durata invece dall'agosto 1914 al novembre 1918, fu cosi' detta perche' mai nel passato ve ne era stata una eguale. Fu una guerra mondiale perche', scatenata allorche' il vecchio continente credeva di poter addirittura accrescere la propria posizione di "centralita'", ebbe come oggetto quale blocco di potenze europe e dovesse tenere il maggior dominio nel globo; e perche' le sue conseguenze coinvolsero l'intera carta geopolitica del mondo. Fu al tempo stesso una guerra europea, in quanto tutto venne giocato nei campi di battaglia europei, anche dopo l'intervento americano nell'aprile del 1917, e quasi tutte le immani devastazioni materiali e la grandissima maggioranza dei morti e feriti riguardarono l'Europa. Fu una guerra che mobilito' come mai prima sotto il controllo crescente dello Stato le risorse economiche - e anzitutto quelle industriali - preposte a fornire, in quantita' gigantesche, agli eserciti di terra fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto a motore, alle flotte navi moderne e sottomarini, armi nuove come gli aerei e i carri armati, equipaggiamenti di ogni genere; e le risorse umane tese allo spasimo, segnando l'ingresso nella produzione di fabbrica su una scala senza precedenti della mano d'opera femminile. E la vittoria ando' al campo in grado di fornire tali risorse nel maggior grado. Fu una guerra che provoco' un immenso massacro. Le cifre dei caduti furono di 1.800.000 tedeschi, tra i 1.700.000 e i 2.500.000 sudditi dell'impero zarista, 1.350.000 francesi, 1.300.000 appartenenti all'impero austro-ungarico, 750.000 britannici e 190.000 appartenenti ai dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi. Fu una guerra che maciullo' i corpi e avveleno' gli spiriti degli europei. I corpi dei soldati furono martoriati nelle grandi battaglie e negli scontri crudeli tra le opposte trincee e intossicati dai gas usati per la prima volta, come fu narrato in maniera indimenticabile da scrittori come Eric Maria Remarque in All'Ovest niente di nuovo e da Emilio Lussu in Un anno sull'altipiano e in chiave cinematografica da registi come Lewis Milestone nel film tratto dal libro di Remarque e da Stanley Kubrick in Orizzonti di gloria, e documentato dalle cineprese dei corrispondenti di guerra. Gli spiriti vennero avvelenati sia da schiere di propagandisti e giornalisti al servizio dei governi e degli Stati Maggiori sia da intellettuali anche grandissimi i quali, con poche eccezioni tra cui Romain Rolland che ne denuncio' l'asservimento al potere e l'accecamento, esaltarono chi la Kultur dei popoli germanici e chi la Civilisation dei popoli liberali occidentali. Vi furono poi i piu' aspri conflitti tra i militaristi-imperialisti e i pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti rivoluzionari intesi a sovvertire l'intero ordine costituito e i loro vari oppositori e nemici. Vi furono le chiese benedicenti gli eserciti, prima e dopo che Benedetto XV parlasse nel 1917 dell'"inutile strage", e contadini, operai e soldati di tutti i fronti maledicenti. I tribunali militari lavorarono a pieno ritmo; soldati ribelli o troppo stanchi vennero decimati, fucilati, imprigionati, mentre i futuristi italiani parlavano di "estetica della guerra" e si compiacevano della "bella guerra virile e tecnologica". Le classi dirigenti operarono per "nazionalizzare le masse", per porle al totale servizio di una guerra in cui "la morte di massa" - ha scritto Mosse - "fu innalzata nel regno del sacro". Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali che - poco curanti di essere alleate con l'impero russo autocratico e carcere di popoli - sventolavano la bandiera della democrazia e delle libere nazionalita' e gli imperi centrali, alleati della Turchia, che alzavano quella di un vero ordine fondato su gerarchie solidali e affidato alla guida di monarchi, alti burocrati e militari. Fu una guerra che lascio' un'eredita' spaventosa. Il valore della vita umana risulto' annullato, si diffusero uno spirito di violenza e una disponibilita' a ricorrere ad essa che avrebbero fatto sentire i loro effetti virulenti in futuro e che toccarono i punti estremi nelle pratiche del bolscevismo, dei fascismi e del militarismo nipponico. Fu una guerra che tradi' la promessa tanto agitata di essere l'ultima, quella che avrebbe assicurato pace, democrazia, benessere. Provoco' il crollo dell'impero germanico, dell'impero asburgico e dell'impero zarista; creo' le condizioni per la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia e lo scatenamento di un'ondata di convulsioni politiche e sociali destinate a durare un'intera epoca storica e a sconvolgere la societa' europea; fece nascere molti nuovi fragili Stati; porto' all'emergere della potenza di un'America che presto volto' le spalle alla "pazza" Europa e si richiuse nell'isolazionismo. Per l'Italia la guerra fu la "quarta guerra di indipendenza", ma essa mise in ginocchio il paese e vi attivo' conflitti distruttivi. Come vide fin dal 1919 John Maynard Keynes, celebre autore de Le conseguenze economiche della pace, le potenze vincitrici dettarono ai vinti una pace cartaginese "senza nobilta', senza moralita', senza intelletto", la quale semino' nuovo disordine, nuovi conflitti e nuove guerre. In riferimento all'animo con cui agirono in particolare i governanti francesi e inglesi, che si imposero su un Wilson forte nella retorica ma debole in concreto, Keynes osservava: "La vita futura dell'Europa non li riguardava", la loro mente era tutta rivolta alle frontiere, agli equilibri di forza, agli ingrandimenti imperialistici, "al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla vendetta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli insostenibili pesi finanziari". Cosi' avvenne che si coltivassero i germi patogeni di un secondo e ancora piu' catastrofico 1914: il 1939. 4. MEMORIA. BRUNA BIANCHI: LE VITTIME DIMENTICATE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 novembre 2008 col titolo "4 novembre. Le vittime dimenticate della Grande guerra" e il sottotitolo "Una celebrazione intrisa di retorica ufficiale"] Nel corso della Grande guerra furono mobilitati sessantacinque milioni di uomini; quasi nove milioni ebbero la vita stroncata, ogni palmo di terra costo' un'ecatombe. Uomini strappati alle loro occupazioni, agli affetti, alle prospettive della vita, furono scagliati in un mondo di violenza e orrore. Il disorientamento di fronte alla distruzione meccanizzata della vita, la brutalita' della disciplina militare, le sofferenze fisiche, ebbero conseguenze profonde sulla vita e la mente dei combattenti. Per resistere agli effetti devastanti della vita di trincea, mantenere i legami con il proprio passato, dare ordine e senso agli eventi, essi si affidarono alla scrittura. Durante gli anni del conflitto, nelle lettere, e soprattutto nei diari, annotarono riflessioni e sentimenti, proponendosi di ritornarvi in futuro. Nell'immediato dopoguerra, tuttavia, i reduci che trovarono le parole per descrivere la propria esperienza non furono molti; il linguaggio non riusciva a descrivere l'angoscia, il paesaggio irreale, l'orribile sporcizia della trincea e pertanto sembrava tradire la memoria dei compagni caduti. Nello stesso tempo, la poderosa opera di costruzione ideologica volta a trovare una giustificazione a tante sofferenze, aggiunse ulteriori difficolta' all'elaborazione dei ricordi. Solo a partire dal 1928 iniziarono ad apparire numerose le memorie della vita di guerra; la piu' nota e' certamente la trasposizione letteraria di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il tema centrale di questa e di molte altre memorie e' la consapevolezza di essere vittime stritolate da un meccanismo al di fuori del proprio controllo. Parole di sconcerto e disperazione descrivono la morte temuta, subita, inflitta; parole di indignazione e rabbia descrivono le esecuzioni sommarie, la mancanza di considerazione dei comandi per i patimenti dei soldati, le sofferenze e gli orrori che li portarono a disertare, disobbedire, ribellarsi. Accanto ai ricordi laceranti, grande spazio e' dedicato dai combattenti ai valori in cui trovarono sostegno psicologico: la solidarieta' con i compagni, la fratellanza cui si aggrapparono per sopportare la vita di trincea. Pur nella molteplicita' di esperienze, i combattenti non danno di se' un'immagine eroica, al contrario si descrivono come uomini fragili, talvolta come vittime. Quando dalle loro parole traspare un sentimento di fierezza, e' la fierezza di chi e' riuscito a convivere con la morte, e non ha rinunciato ai valori umani neppure in situazioni estreme. Nel dopoguerra questi ricordi non trovarono un terreno favorevole alla pubblicazione. Furono le memorie dei volontari ad essere considerate significative dell'esperienza bellica. Nella celebrazione pubblica la morte venne trasfigurata e trascesa: da morte sofferta e aborrita, a morte simbolica, impersonale, donata. Era il martirio della nazione ad essere celebrato, e in quel mito le esperienze individuali si dissolvevano. Anche il cameratismo subi' un processo di mitizzazione. Oggetto di culto non divenne il vincolo di amicizia che si era sviluppato nelle trincee, bensi' il legame all'interno delle unita' militari, funzionale all'esercizio organizzato della violenza. Possiamo individuare un analogo processo di costruzione del mito nella promozione di una memorialistica ideologicamente orientata, nei cimiteri e nei monumenti eretti nel dopoguerra e che ancora occupano lo spazio pubblico. In Italia il culmine della retorica fu raggiunto negli anni del regime. Solo a partire dalla fine degli anni '60 l'interpretazione patriottica della guerra consacrata dal fascismo e' stata messa in discussione. Nel 1968 il volume di Forcella e Monticane, Plotone di esecuzione, basato sulla documentazione giudiziaria, dimostrava in modo inconfutabile che se c'era stata obbedienza, questa era stata ottenuta con metodi spietati. Cadeva il mito del "fante obbediente". Da allora la celebrazione pubblica ha attenuato i toni, ma la retorica del sacrificio necessario ancora tace gli aspetti piu' aberranti della giustizia militare: le condanne a morte e le esecuzioni sommarie. A tutt'oggi non disponiamo di dati ufficiali sul numero dei fucilati. In base a statistiche redatte nel primo dopoguerra, incomplete e mai rese ufficialmente note, le condanne a morte eseguite sarebbero state 750, un numero ben piu' elevato di quello dei paesi occidentali alleati, Francia e Gran Bretagna, che disponevano di eserciti piu' numerosi e per i quali la guerra era iniziata nel 1914. L'Italia inoltre e' rimasta estranea al movimento che ha condotto alla dichiarazione di innocenza di tutti i fucilati senza processo. A differenza di quanto e' avvenuto nel 1999 in Francia in seguito alle dichiarazioni di Lionel Jospin a Craonne, in Italia non si e' ancora avviato un dibattito sulla necessita' di riabilitare i fucilati. Un cippo, eretto dal comune di Cercivento nel '96 in ricordo dei quattro alpini passati per le armi il primo luglio 1916 per aver chiesto rinforzi nell'imminenza di un'azione bellica che consideravano disperata, e' l'unico segno pubblico della volonta' di tenere viva la memoria della spietatezza della giustizia militare. 5. MEMORIA. DOMENICO GALLO: IL FLAGELLO DELLA GUERRA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 2 novembre 2008 col titolo "4 novembre. Non si torni a glorificare la guerra"] Come tutti sanno il 4 novembre, anniversario della fine della prima guerra mondiale, ricorre la festa delle forze armate e dell'unita' nazionale. Quest'anno la celebrazione della festa del 4 novembre sta diventando qualcosa di straordinario per l'attivismo del ministro della Difesa, La Russa, che ha organizzato una lunga serie di manifestazioni di vario genere e ha previsto, persino, l'invio nelle scuole di ufficiali della Forze Armate per celebrare la ricorrenza con gli studenti. In linea di principio non c'e' niente di strano che un paese celebri una festa delle proprie forze armate per ricordare i caduti di tutte le guerre e non c'e' niente di strano che in Italia questa data venga fissata proprio il 4 novembre, anniversario della resa dell'esercito austriaco e quindi della fine della prima guerra mondiale. Tuttavia e' innegabile che, in Italia, questa festa sconta un peccato originale. Essa e' stata istituita, all'indomani della guerra, per celebrare la "vittoria" di Vittorio Veneto, sotto la spinta dell'esigenza di elaborare il lutto, secondo il vecchio schema della retorica patriottica, trasformando la morte in "sacrificio", in offerta generosa della vita per la salute della collettivita'. Per questo e' stato inventato il rito del "milite ignoto", tumulato nel sacello dell'Altare della Patria il 4 novembre 1921. Nella prima meta' del secolo scorso le nostre piazze e le nostre chiese, i nostri municipi si sono ammantati di lapidi che "celebravano" il sacrificio dei nostri combattenti, caduti per la Patria. Nello stesso tempo quelle lapidi chiudevano la bocca a ogni dissenso che potesse mettere in discussione i meccanismi della politica e del potere che quelle morti avevano prodotto. Morire per la Patria era un evento sacro e generoso: solo con questa trasfigurazione ideologica della morte si poteva rendere accettabile alla coscienza collettiva il peso insostenibile del dolore che aveva devastato la vita di quasi tutte le famiglie italiane (la Grande guerra aveva prodotto circa 750.000 morti, il doppio dei caduti che si sarebbero avuti con la seconda guerra mondiale). Se nella seconda meta' del secolo scorso quelle lapidi non sono state piu' erette, e il culto della morte non e' stato piu' celebrato, cio' e' avvenuto perche' la politica (e la Costituzione) lo ha impedito. Proprio questo vuol dire il ripudio della guerra: che la morte e' stata tolta dagli utensili della politica, che deve perseguire i propri legittimi obiettivi con mezzi diversi dalla violenza bellica. Sotto l'egida della Costituzione repubblicana, il mutato clima culturale, politico e istituzionale ha trasformato il senso delle celebrazioni del 4 novembre rispetto all'impostazione originaria. Senonche' la situazione e' cambiata con l'avvento al governo di un ceto dirigente portatore di una cultura politica estranea, se non configgente, con i valori costituzionali. Con un ministro della difesa che, con riferimento all'Afghanistan, ci ha fatto sapere di non nutrire piu' alcun "pregiudizio" in ordine al ricorso alla guerra come strumento della politica e che ha trasformato le celebrazioni di momenti della resistenza, come l'8 settembre a Roma, in occasioni per l'apologia delle bande repubblichine, e' evidente che tutto quest'ardore celebrativo nasconde un'operazione ideologica. Il rischio e' quello di tornare alle origini e di trasformare nuovamente il 4 novembre in un momento di celebrazione della morte e di glorificazione della guerra: insomma una festa anti-ripudio della guerra. Il 4 novembre bisogna reagire alla fanfara suonata dal pifferaio La Russa, confrontandosi con la memoria storica e mettendo a nudo la falsita' dei miti con i quali si e' corrotta in passato e, oggi, si sta tentando di nuovo di corrompere la coscienza collettiva. Bisogna ricordare che quella guerra e' uscita fuori da ogni schema razionale e che il progresso scientifico applicato all'arte della guerra ha trasformato il conflitto bellico in sterminio di massa e aperto la strada ai fascismi del XX secolo, a ulteriori barbarie e ad altri olocausti. Non si deve dimenticare, ma bisogna di nuovo fare lezione dalle tragedie del passato per evitare che si ripetano nel nostro futuro. La ricorrenza del 4 novembre deve essere utilizzata non per glorificare la guerra, come si accinge a fare il ministro La Russa, ma per celebrare la fine dell'orrendo massacro che ha insanguinato l'Europa e per riproporre l'impegno a salvare le generazioni future dal flagello della guerra che, nel secolo scorso, come recita il preambolo della Carta delle Nazioni Unite, per ben due volte, nel corso della stessa generazione ha causato sofferenze indicibili all'umanita'. 6. CARTEGGI. GIOBBE SANTABARBARA: BREVE UNA LETTERA A PIERINO ENRICHETTI Pierino Enrichetti sostiene che quando la guerra la fanno gli amici suoi sia il male minore (e quindi quasi un bene). Lo racconti agli afgani assassinati. Pierino Enrichetti evidentemente ritiene che quando la Costituzione la violano gli amici suoi non sia piu' reato, ma trascurabile quisquilia. Lo stesso pensano tutti i golpisti. Pierino Enrichetti si stupisce infine e come lui quanti prostituitisi alla guerra e all'illegalita' che le elezioni poi le vinca Berlusconi. Pierino Enrichetti una volta mi sembrava un ingenuo nei suoi stessi errori amabile ora non piu': che fa la differenza il sangue sparso, il sostegno agli uccisori. Quanto vorrei che presto rinsavisse quanto vorrei che infine si pentisse quanto vorrei che potessero tornare in vita della guerra le vittime. 7. RIFLESSIONE. PAUL RICOEUR: NOI TUTTI STRANIERI E IL DOVERE DELL'OSPITALITA' [Dal "Corriere della sera" del 4 novembre 2008 col titolo "Ricoeur: siamo tutti stranieri" e il sommario "Archivi. Una relazione mai pubblicata del filosofo francese scomparso tre anni fa. I diritti di cittadinanza e il concetto di patria. I visitatori, gli immigrati e i profughi: basi nuove per le politiche di accoglienza"] La fantasia che fa di noi gli stranieri dello straniero sfugge al fantastico quando e' sottoposta alla prova del dovere di ospitalita', di cui passeremo in rassegna alcuni esempi concreti. Essi corrispondono a tre situazioni che possiamo classificare in un ordine tragico crescente: "lo straniero da noi" e' prima di tutto il visitatore gradito, poi l'immigrato, per l'esattezza il viaggiatore straniero che risiede da noi piu' o meno suo malgrado, infine e' il rifugiato, il richiedente asilo che auspica, quasi sempre invano, di essere accolto. Quest'ultima occasione di ospitalita' rientra letteralmente nel tragico dell'azione, nella misura in cui lo straniero vi assume l'atteggiamento del "supplice". * Lo straniero come visitatore Questa figura pacifica - nel duplice senso che rende visibile uno stato di pace e moltiplica lo spirito di pace - riveste piu' aspetti, dal turista che circola liberamente sul territorio del Paese che lo accoglie fino al residente che si stabilisce in un luogo e vi soggiorna. Entrambi illustrano l'atto di abitare insieme, condiviso da appartenenti alla nazione e stranieri. Tale figura di straniero ricorda l'importanza delle categorie di territorio e di popolazione per fondare lo status di membro della comunita' nazionale. In questo caso lo straniero e' autorizzato a condividere la dimensione della condizione di membro. Senza diventare cittadino, il visitatore gode dei vantaggi della liberta' di circolare e di commerciare e condivide beni sociali basilari, come la sicurezza, le cure mediche, talvolta l'educazione. Questa piacevole condizione va senz'altro messa in conto alla globalizzazione degli scambi. Ma sarebbe inefficace senza la pratica di quello che Kant, nel Progetto di pace perpetua, definisce il "diritto di visita" e nel quale vede un corollario ben fondato del diritto cosmopolita. (...) Il diritto di visita del viaggiatore o del residente straniero e' lungi dal ridursi a mera curiosita'. E' semplicemente rivelatore dell'essenza stessa dell'ospitalita', che il dizionario francese Robert cosi' definisce: "Il fatto di ricevere qualcuno in casa propria, eventualmente alloggiandolo, nutrendolo gratuitamente". La definizione del Robert sembra privilegiare l'alloggio e il vitto; vorrei aggiungere la conversazione. Non solo perche' e' a tale livello, come si e' detto, che accede al linguaggio la comprensione inizialmente tacita che il membro ha di appartenere alla comunita', ma perche' e' a tale livello di scambio di parole che l'iniziale dissimmetria tra membro e straniero comincia a correggersi concretamente. In proposito, non si evidenziera' mai abbastanza il fenomeno della traduzione da una lingua all'altra quale modello di "parificazione delle condizioni", come avrebbe detto Tocqueville. (...) * Lo straniero come immigrato Il riferimento e' chiaramente alla condizione di lavoratore straniero, condizione indicata anche con il termine Gastarbeiter o Guest workers. (...) Non si dimentichi come si e' formata questa categoria di visitatori forzati. All'origine di questo flusso migratorio di grande portata sta il bisogno di manodopera poco qualificata per posti di lavoro generalmente non ambiti. Dunque e' il lavoro, necessita' ordinaria della vita economica, a caratterizzare questa categoria di stranieri "da noi". Non siamo piu' nel ciclo della liberta' di scelta, come nel caso dei visitatori graditi, ma nel regno della necessita', piu' precisamente quella di sopravvivere e di far vivere famiglie che generalmente rimangono nel Paese d'origine. La vita di questo tipo di stranieri e' definita da altri: attori economici e politici. Certo, abitano lo spazio protetto dallo Stato che li accoglie, circolano liberamente e sono consumatori come noi nazionali; parte della loro liberta' e' dovuta al fatto che partecipano come noi all'economia di mercato; un'altra parte risulta dal loro accesso, entro certi limiti, alla protezione dello Stato provvidenza; sono titolari di diritti sindacali e, in linea di principio, beneficiano degli stessi diritti all'alloggio dei nazionali; ma non sono cittadini e vengono governati senza il loro consenso. Se altrove sono chiamati "ospiti" e' perche' non sono migranti in cerca di una nuova residenza e di una nuova cittadinanza. Si pensa che intendano tornare al loro Paese, una volta scaduti il contratto e il visto. (...) Su tale realta' si innestano i fantasmi dell'opinione pubblica, che si esprimono principalmente nella miscela di lavoratori in regola e stranieri irregolari, minaccia alla sicurezza, persino terrorismo. Sospetto, diffidenza, xenofobia tendono a impregnare la comprensione che chi fa parte della nazione ha della propria appartenenza allo stesso spazio politico. Se, come si e' detto, tale comprensione comporta di per se' una sensazione di differenza rispetto allo straniero, l'esclusione trasforma la differenza in rifiuto. La risposta a una situazione cosi' deteriorata deve avvenire a due livelli. Il primo e' quello della giustizia politica, come scrive Michael Walzer, dovuta ai lavoratori residenti: bisogna inventare qualcosa, una specie di ammissione di primo grado, al di qua dell'ammissione di secondo grado consistente nella naturalizzazione, che eventualmente comporti la partecipazione alle elezioni locali, come avviene in alcune democrazie occidentali. Tale ammissione di primo grado va negoziata con gli Stati di provenienza dei lavoratori stranieri, come hanno cominciato a fare alcune convenzioni gia' esistenti o in corso di negoziazione. Ma la risposta deve avvenire soprattutto a livello del diritto umano di ospitalita', di cui si e' detto parlando della condizione pacifica dello straniero come visitatore. A tale proposito le parole forti di Kant e di Fichte sull'ospitalita' universale dovrebbero contribuire a cambiare le legislazioni e, prima ancora, le mentalita'. Lo stesso diritto delle genti che un tempo regolava guerra e pace tra le nazioni dovrebbe oggi regolare i rapporti tra i Paesi ospiti e quei visitatori loro malgrado che sono gli immigrati del lavoro. * Lo straniero come rifugiato L'attuale diritto dei rifugiati ha alle spalle la tradizione dell'asilo, a sua volta legata a un'antica tradizione di ospitalita' esercitata in favore dei fuggitivi che scappavano dalla giustizia vendicativa del Paese d'origine. L'asilo, com'e' noto, e' presente nelle istituzioni delle nostre principali civilta' fondatrici. Anche in questo caso si evoca il duplice retroterra biblico ed ellenico. L'asilo vi e' definito come luogo di rifugio che, non potendo essere depredato, e' inviolabile. Scrive Grozio nel 1625: "Non si deve rifiutare dimora stabile a stranieri che, scacciati dalla loro patria, cerchino un riparo, purche' si sottomettano al governo legittimo e osservino tutte le prescrizioni necessarie per prevenire le sedizioni" (De jure belli ac pacis, II, 11, 12). Nel XVIII secolo l'asilo diventa politico: in vari punti d'Europa ne beneficiano gli esiliati protestanti; e anche Voltaire... Quello che ci preme osservare e' la distorsione che presenta, per le prerogative dello Stato d'accoglienza, la concezione dell'asilo come diritto della persona. E' come eccezione alla regola dell'estradizione che i giuristi dell'inizio del XIX secolo si pongono la questione dell'asilo. Ma fino all'inizio del XX secolo l'asilo resta una questione essenzialmente individuale riguardante persone con un ruolo politico. (...) Dopo gli sconvolgimenti del XX secolo, sotto il nome di rifugiato fa la sua comparsa un concetto nuovo. Il fatto che comporti un diritto d'asilo non deve nascondere la differenza di fondo. Il problema va collocato nel quadro delle grandi migrazioni forzate di massa. Qui ci interessa nella misura in cui, a parte il fatto che il rifugiato beneficia della protezione di un organismo internazionale, e' su un Paese d'asilo - magari il nostro - che ricade la responsabilita' primaria dell'accoglienza. E' a questo punto che la preoccupazione di proteggere i rifugiati entra, piu' o meno apertamente, in conflitto con la preoccupazione di proteggere la sovranita' territoriale degli Stati d'accoglienza. (...) La verita' e' che i Paesi industrializzati, nel loro insieme, tendono a costituirsi in fortezze contro i flussi migratori incontrollati scatenati dai disastri del secolo. Andrebbero esaminate, in proposito, le misure prese su scala europea che, troppo spesso, smentiscono la tradizione di asilo e protezione dei diritti e delle liberta' della persona, a partire dalle misure di lotta agli "abusi" del diritto d'asilo (concetto di richiesta d'asilo "manifestamente infondata"). Tutto cospira ad allontanare il piu' possibile i richiedenti asilo, a tenerli a distanza dalle frontiere occidentali. 8. MONDO. MARINELLA CORREGGIA: PETROLIO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 giugno 2008 col titolo "Il petrolio danna Maputo"] La necessita' di importare combustibili fossili sempre piu' costosi e' un peso schiacciante sulle economie dei paesi impoveriti. E non bastano ad alleviarlo sporadici gesti di solidarieta' da parte di un paese produttore di petrolio come il Venezuela, che offre l'oro nero a prezzi di favore a paesi amici a basso reddito. Allora si potrebbe pensare che la scoperta di giacimenti sia una fortuna per un paese in difficolta'. Eppure, secondo uno studio condotto dal Mozambico, non e' cosi', almeno non subito. In Mozambico una compagnia brasiliana sta rispolverando le miniere di carbone di Moatize, nella provincia di Tete: dopo i decenni di guerra, entro il 2010 la miniera riprendera' a funzionare. Il governo si propone di utilizzarne i proventi per sradicare la miseria: i quattro quinti della popolazione (20 milioni di mozambicani) vivono con meno di 2 dollari al giorno secondo le Nazioni Unite. Oltre a cio', cinque anni fa la compagnia sudafricana Sasol ha iniziato le prospezioni nei giacimenti di gas naturale nella provincia di Inhambane; irlandesi e sudafricani scavano titanio nella provincia di Gaza (200 km a nord di Maputo); e una schiera di americani, brasiliani, canadesi, norvegesi, italiani e malesi stanno esplorando le riserve petrolifere. Se troveranno il petrolio, il profilo economico del Mozambico e' destinato a cambiare drasticamente. Secondo il Ministero della pianificazione e dello sviluppo, anche piccole riserve potranno far crescere le esportazioni del paese da 6,5 miliardi di dollari a 10 miliardi, da qui al 2020; e qualora se ne trovasse di piu', il valore totale dell'export potrebbe arrivare a 60 miliardi di dollari. Eppure, come riferiva "Irin News", l'agenzia dell'ufficio Onu per gli affari umanitari, la prospettiva suscita piu' costernazione che euforia... Possibile? Si', se si guarda a casi africani come Angola, Nigeria, Guinea Equatoriale e Sudan: grandi riserve e nessun miglioramento delle condizioni di vita dei piu'. I timori si riflettono in uno studio commissionato dallo stesso Ministero mozambicano della pianificazione e sviluppo ("Esplorare le risorse naturali del Mozambico: benedizione o maledizione?"). Analizzando i dati di altri paesi africani ben dotati dal punto di vista fossile e minerale, lo studio ha osservato che, in media, il rapporto fra ricchezza minerale nazionale e prodotto nazionale lordo e' negativo. Peggio: e' ugualmente negativa la correlazione fra ricchezza petrolifera e l'indice di sviluppo umano elaborato dall'Onu. E' il ben noto "anatema delle risorse naturali": tra gli effetti negativi delle ricchezze del sottosuolo sul benessere dei piu' bisogna includere, oltre alle conseguenze ambientali, anche aspettative miopi e irrazionali da parte dei governi interessati, con un'accumulazione di debiti. Lo studio nota che in certi paesi perfino le spese per l'istruzione diminuiscono e la corruzione arriva a mangiarsi gran parte degli incassi a titolo di royalties. I grandi progetti minerari in corso nello stesso Mozambico sono li' a dimostrarlo. Ma allora, come evitare l'anatema? Gli autori dello studio raccomandano un approccio cauto allo sviluppo di nuove riserve. Insomma, non avviare estrazioni finche' non c'e' un piano preciso di controllo delle spese, finche' non e' incoraggiata la diversificazione economica, e non si mette in piedi un sistema per il contenimento della corruzione. In Mozambico, concludono, occorre piu' pianificazione e piu' dibattito. Del resto, dicono, il petrolio avra' sempre (piu') valore; e non scappa da nessuna parte. 9. MONDO. MARINA FORTI: DIAMANTI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 ottobre 2008 col titolo "La fame e i diamanti"] "Cercatori informali di diamanti nella provincia di Manicaland, nello Zimbabwe orientale, stanno cercando di resistere ai tentativi della polizia di sgomberarli in un crescendo di scontri violenti", informa un dispaccio di "Irin News", agenzia di notizie dell'ufficio dell'Onu per gli affari umanitari. I cercatori "informali" scavano diamanti per guadagnarsi da vivere in un periodo di crisi nera, spiega "Irin". Il dispaccio cita il quotidiano "The Herald" (di proprieta' governativa), che riferisce dell'ultimo episodio: alcuni agenti sarebbero stati uccisi due settimane fa in uno scontro a fuoco dai cercatori di diamanti, che sono armati. Abitanti della zona aggiungono che anche un minatore e' stato ucciso dalla polizia. Stiamo parlando di una zona remota. I giacimenti di diamanti di Chiadzwa, nel distretto di Marange, hanno attratto migliaia di cercatori negli ultimi due anni. Il giacimento e' del tipo alluvionale, dove i diamanti non vanno cercati in profondita' nel sottosuolo (cosa che implica macchinari per lo scavo) ma sono trascinati nel letto dei fiumi dalle grandi piogge stagionali, cosi' che cercarli puo' essere un'impresa "in proprio": bastano pale e setacci, e giornate passate con i piedi a mollo nel fango a scavare e setacciare. Un lavoraccio, in cui il cercatore puo' sperare di trovare una singola pietra da pochi carati al giorno - ma puo' sempre sperare nel colpo di fortuna. Insomma, bisogna essere spinti dalla disperazione per buttarsi nell'impresa: ma questo e' il caso dello Zimbabwe. E il giacimento dev'essere consistente, perche' Gideon Gono, governatore della Banca centrale (Reserve Bank) dello Zimbabwe, dice che il contrabbando di quei diamanti nel 2007 e' valso circa 400 milioni di dollari sottratti alle casse dello stato. Il dispaccio di "Irin News" da' qualche idea della vita di questi cercatori "in proprio". Cita tale John Sakarombe, 24 anni, che cammina zoppicando per un proiettile sparato dalla polizia tre mesi fa, durante un altro scontro a fuoco: "C'e' una guerra a Chiadzwa. La polizia e i soldati che pattugliano la zona ci hanno avvertito che hanno ordine di sparare a vista se le cose prendono una piega violenta. Ed e' cosi', abbiamo da poco seppellito uno dei nostri, e un altro sta lottando tra la vita e la morte a casa sua", ha detto il giovane a un corrispondente di "Irin": "Uno preferisce morire a casa... perche' nel momento in cui entri in ospedale prima di curarti ti interrogano per sapere come ti sei ferito, in che circostanze, e se parli e' il momento che chiamano i babylons", termine dello slang locale per indicare i poliziotti. Un lavoro duro e una vita pericolosa: ma il miraggio di arricchirsi continua a richiamare uomini - del resto l'80% degli zimbabweani sono disoccupati, l'inflazione nel paese e' tra le piu' alte al mondo (ufficialmente 231 milioni per cento). Non che i cercatori informali si arricchiscano. I "makorokoza" - cosi' vengono chiamati in lingua shona - vendono le pietre grezze a intermediari che poi le contrabbandano fuori dal paese: tutto il business avviene in valuta straniera, che e' in se' un vantaggio. I cercatori piu' fortunate non se la passano male - il corrispondente di "Irin" cita persone che possono comprare auto sudafricane, pagarsi cure mediche, mangiare bene mentre milioni di compaesani sono ridotti alla fame. Un benessere molto precario pero'. E una vita breve. Chissa' se anche i preziosi contrabbandati dallo Zimbabwe vanno sotto la definizione di "diamanti insanguinati", come quelli estratti dall'Angola in guerra. Forse si': la descrizione di "Irin" non assomiglia a una guerra? 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 630 del 5 novembre 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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