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Voci e volti della nonviolenza. 256
- Subject: Voci e volti della nonviolenza. 256
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 4 Nov 2008 15:07:41 +0100
- Importance: Normal
============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 256 del 4 novembre 2008 In questo numero: Annamaria Rivera: Per una postura relativista ANNAMARIA RIVERA: PER UNA POSTURA RELATIVISTA [Ringraziamo di cuore Annamaria Rivera (per contatti: annamariarivera at libero.it) per averci messo a disposizione il seguente saggio "Per una postura relativista. Oltre il dualismo natura/cultura" pubblicato in Bruno Barba (a cura di), Tutto e' relativo. La prospettiva in antropologia, Seid, Firenze 2008, pp. 19-34. Annamaria Rivera, antropologa, vive a Roma e insegna etnologia all'Universita' di Bari. Fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani di tutti gli esseri umani, ha sempre cercato di coniugare lo studio e la ricerca con l'impegno sociale e politico. Attiva nei movimenti femminista, antirazzista e per la pace, si occupa, anche professionalmente, di temi attinenti. Al centro della sua ricerca, infatti, sono l'analisi delle molteplici forme di razzismo, l'indagine sui nodi e i problemi della societa' pluriculturale, la ricerca di modelli, strategie e pratiche di concittadinanza e convivenza fra eguali e diversi. Fra le opere di Annamaria Rivera piu' recenti: (con Gallissot e Kilani), L'imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001; (a cura di), L'inquietudine dell'Islam, Dedalo, Bari 2002; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003; La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull'alterita', Dedalo, Bari 2005] 1. Una premessa quasi-politica Le controversie pubbliche sono figlie del loro tempo. Lo e' anche la polemica contro il relativismo culturale, che negli anni piu' recenti e' ritornata in voga sull'onda del "nuovo ordine mondiale", delle dottrine e delle guerre volte a consolidarlo. E' indubbio che oggi le relazioni delle potenze egemoni e dei loro apparati ideologici con le aree e i paesi subalterni o dominati siano tornate ad essere marcate da una crescente, se non radicale, asimmetria, che si riflette, anche e pesantemente, nella dialettica interna ai paesi occidentali fra le maggioranze e le minoranze sociali e culturali: la polemica contro il relativismo serve, fra l'altro, a colmare lo smarrimento e il vuoto concettuale e progettuale di fronte all'eterogeneita' e alla complessita' culturali delle societa' occidentali odierne. Non e' casuale, quindi, che proprio oggi il relativismo sia divenuto il bersaglio di assolutisti d'ogni genere: clericali e neoconservatori, ma anche universalisti e razionalisti dogmatici. Il ritorno del tema antirelativista nelle polemiche pubbliche sembra essere, almeno in Italia, l'effetto della convergenza di due filoni principali: la condanna del relativismo morale da parte di alte gerarchie cattoliche - un motivo vetusto, che riemerge periodicamente - e l'offensiva contro il relativismo culturale mutuata dalla nuova destra americana e dalla sua dottrina della superiorita' della "civilta' occidentale", da difendere ideologicamente e praticamente con ogni mezzo. Nel lessico neoconservatore statunitense, infatti, il rifiuto del relativismo equivale all'asserita indiscutibilita' del fondamentalismo cristiano e della dottrina, per alcuni versi correlata, della guerra preventiva e globale. Infine, una matrice secondaria e' costituita dal vecchio etnocentrismo di marca evoluzionista e positivista, che permane fra i nostalgici, anche di sinistra, delle grandi narrazioni. La variante francese di questo genere di querelle da' un altro nome al medesimo bersaglio, definendolo "comunitarismo". La polemica anticomunitarista - piu' diffusa, costante e martellante di quanto non sia in Italia quella antirelativista - assolve una funzione analoga: stabilisce il discrimine fra le identita' inaccettabili e l'identita' accettabile se non obbligatoria, quella "repubblicana" (v. Levy 2005); connota in senso peggiorativo manifestazioni identitarie e rivendicazioni di minoranze svantaggiate o discriminate, implicitamente affermando che la sola comunita' legittima e' quella nazionale; stigmatizza come degenerazione comunitarista ogni istanza di riconoscimento che si sottragga allo "spirito francese" e al linguaggio dominante. Uno dei temi che caratterizzano entrambe le polemiche e' il riferimento negativo al multiculturalismo all'anglosassone, rappresentato, soprattutto in Francia, come la sentina di ogni deviazione particolarista e "tribalista". La finalita' e' difendere ed esaltare la superiorita' del modello d'integrazione "repubblicano", che, com'e' noto, poggia su una concezione della cittadinanza che postula, in sostanza, un cittadino astratto, atomizzato, spogliato da ogni particolarita'. Il riferimento polemico ad una formula, "relativismo culturale", che fino a tempi recenti era confinata nei lessici specialistici si colloca nel solco di un'esaltazione dell'universalismo che da alcuni decenni si manifesta tanto piu' sfrenatamente quanto piu' esso va rivelandosi come una maschera del dominio. La pretesa di esportare i valori universali sulla punta dei missili a lunga gittata e la reazione nei termini di una controffensiva, di segno islamista, ugualmente e simmetricamente fondata su verita' assolute e indiscutibili, hanno creato un ambiente internazionale del tutto ostile alle piccole verita' esitanti e provvisorie, perseguite attraverso l'impervia strada del dubbio, del ripensamento critico, del confronto con altri punti di vista. Le guerre postmoderne, asimmetriche e non-convenzionali per eccellenza, piu' che mai prive di legittimita' normativa e d'ogni prospettiva di riconoscimento dell'avversario, quindi di negoziato, non possono che accompagnarsi con l'enfatica enunciazione di assoluti totalitari. Nella guerra preventiva, totale e infinita, l'avversario diviene Nemico, a tal punto destoricizzato da assumere le sembianze di un fantasma ontologico: e' il male assoluto, l'avversario dell'umanita', se non una sorta di catastrofe naturale endemica che va combattuta con ogni mezzo. Correlativamente anche l'altro interno assume sfumature da nemico ed entrambi sono spesso definiti secondo categorizzazioni di tipo metafisico o naturalistico (1). * 2. Contro le dicotomie artificiose, per una postura dubbiosa e relativista In questo trionfo di fondamenti e di assoluti, e' davvero esiguo lo spazio riservato alle ontologie minori, alle epistemologie dubbiose, ai processi di conoscenza che privilegiano vissuti e biografie, contesti locali e memorie soggettive, mediante una riflessivita' guadagnata lasciandosi umilmente attraversare dagli sguardi altrui. Percio' questo spazio va saggiamente amministrato, come fosse un orticello prezioso da ripulire e coltivare ogni giorno, e da lasciare ai posteri a testimonianza di un microcosmo che seppe resistere all'assedio di fondamentalismi e assolutismi. Lo spazio del relativismo culturale, divenuto l'etichetta spregiativa di cio' che tenta di sfuggire alle ingiunzioni assolutistiche del nuovo ordine globale, deve essere esso stesso sottratto alla nicchia senza storia e senza spessore problematico in cui e' stato relegato. E forse e' bene che sia liberato dal peso del proprio stesso nome, che non gli appartiene piu', pervertito come e' dalle ingiurie del tempo e da polemiche pubbliche strumentali e grossolane. Queste, fra l'altro, caricano l'espressione "relativismo culturale" di un significato pesantemente etico, nel migliore dei casi con l'intento di criticare concezioni del mondo reputate deboli o addirittura scettiche, nel peggiore, allo scopo di screditare tutto cio' che cerca di sfuggire all'ordine del discorso dominante. Per sottrarre il relativismo alla cappa ideologica e alle connotazioni sommarie e grossolane che gli sono polemicamente attribuite, e' opportuno ricordare - per cominciare - che l'orientamento filosofico che gli e' opposto non e' l'universalismo ne' il razionalismo, ma la convinzione della superiorita' e del valore di modello della propria forma di vita, la concezione della conoscenza come sistema di verita' assolute, definitive, astoriche, la credenza in principi altrettanto assoluti e immutabili in campo morale. Il dispositivo retorico del quale si serve la polemica antirelativista, infatti, mira ad insinuare l'idea che dubitare che la propria forma di vita particolare possa essere assunta a metro di misura universale significhi svendere i propri modelli, principi e valori, dichiarare che essi sono infondati o intercambiabili, disconoscere le conquiste della razionalita' occidentale, rifiutare ogni principio universale, assumere un atteggiamento scettico o nichilista in campo morale. D'altra parte, non si puo' negare che posizioni radicalmente relativiste corrono il rischio di vedere differenze ove vi sono ineguaglianze sociali o addirittura di produrre ineguaglianze sociali attribuendo differenze. Esse, inoltre, possono scivolare verso una concezione statica e deterministica delle culture ed occultare il dato di fatto che qualsiasi cultura e' attraversata da relazioni di potere, asimmetrie e conflitti fra le classi, le caste, i generi, le generazioni. Ma questi sono gli esiti possibili, non ineluttabili, del relativismo che, come qualsiasi orientamento, puo' irrigidirsi, divenire dogmatico, trasformarsi da disposizione epistemica, in posizione dottrinale. Sarebbe forse necessario inventare un altro termine per nominare quella pratica, quello sguardo, quella postura - postura, non posizione, come precisa saggiamente Francois Jullien (2006) - che ha permesso a generazioni di ricercatori di cogliere e di restituire qualche frammento dell'infinita varieta' delle forme di vita; che ha fatto si' che la cultura europea fosse attraversata, nel corso di tutta la sua storia, dalla linea feconda del dubbio, dell'incertezza di se', del senso della propria limitatezza, della critica del proprio particolare, del desiderio e del riconoscimento dell'altro: una vena che, scorrendo da Protagora a Montaigne, da Rousseau a Levi-Strauss, continua tuttora a fluire, benche' da sempre minacciata da guerre di religione, ordini totalitari, scontri di civilta'. Inventare un altro nome da dare a quella postura potrebbe servire a liberare cio' che finora abbiamo chiamato "relativismo culturale" dalla gabbia delle dicotomie cui e' stato incatenato: relativismo versus universalismo, razionalismo, oggettivismo, "continuismo" e costruttivismo culturali, come recita una retorica diffusa anche in ambienti specialistici. Soffermiamoci su qualcuna di tali artificiose dicotomie. Benche' il relativismo culturale sia storicamente legato ad una filiazione culturalista - quella boasiana - che in effetti ha finito, in alcuni casi, per intendere le culture come totalita' autonome, compatte, autosufficienti, incomunicanti, perfino incommensurabili, sul piano concettuale e' alquanto arbitrario sostenere che esso ineluttabilmente si leghi ad una concezione tipicamente culturalista, dunque essenzialista, discontinuista e determinista. Infatti, si puo' far valere una postura relativista e nondimeno intendere le culture come entita' storiche fluide, mutevoli, collocate in un continuum. Per contro, si puo' sostenere assolutismo e primatismo occidentale e nel contempo concepire le culture come universi autonomi, separati, non comunicanti (il teorema dello "scontro di civilta'" ne e' un esempio). D'altra parte, si puo' propugnare l'universalismo e al tempo stesso ritenere che i "nostri principi e valori universali" debbano essere imposti con la forza a societa' e culture altre, intese come monadi immutabili, sottratte alla storia, irriducibilmente differenti dalla "nostra cultura". Gia' quel "nostri" rivela l'impostura: se l'universale e' proprieta' esclusiva del noi, che puo' esportarlo ed imporlo agli altri, e' dubbio il suo carattere di universalita'. Peraltro, alcuni principi e valori sono si' universalizzabili, ma nella misura in cui si riconoscono gli altri e si ammette che la loro capacita' di enunciare delle verita', per quanto parziali, sia equivalente alla nostra, e se si concede che anch'essi siano portatori di qualche principio o valore degno d'essere universalizzato. Come ha scritto Charles Taylor, "e' ragionevole supporre che quelle culture che hanno dato un orizzonte di significato a un gran numero di esseri umani, dai caratteri e dai temperamenti piu' diversi, per un lungo periodo di tempo - che hanno, in altre parole, dato espressione al loro senso del buono, del santo, del degno di ammirazione - possiedano quasi certamente qualcosa che merita da parte nostra ammirazione e rispetto, anche se e' accompagnato da molte cose che dobbiamo aborrire e respingere. Ma forse possiamo dirlo anche in un altro modo: ci vuole una suprema arroganza per scartare a priori questa possibilita'" (in Habermas e Taylor 1998, p. 62). * 3. L'etnocentrismo critico di Ernesto de Martino Nel tempo in cui l'universalismo rivela sempre piu' il suo carattere formale, astratto, in fondo particolarista "poiche' si riassume nell'affermazione (...) dell'assoluta superiorita' etica e razionale dell'Occidente su tutte le altre culture" (Caille' 1995, p. 196), l'enunciazione a sua volta convenzionale del relativismo culturale potrebbe essere una trappola o una scappatoia illusoria. Alcuni hanno provato ad articolare diversamente, in modo non dicotomico, i termini universalismo/relativismo, cercando nel contempo di sfuggire alla secca e sterile alternativa fra etnocentrismo e relativismo culturale. Fra i contemporanei che hanno tentato l'impresa e' d'obbligo citare Ernesto De Martino e la sua proposta di un "etnocentrismo critico". Conviene premettere che a connotare l'opera demartiniana sono, anzitutto, il pathos col quale egli vive la "pungente esperienza dello scandalo sollevato dall'incontro con umanita' cifrate" (1977, p. 393), e l'ammissione esplicita del proprio disagio, del senso di colpa e del rimorso "davanti al 'fratello separato' e alla dispersione irrelata delle culture sul nostro pianeta" (ibidem). Tutto cio' si riflette nella sua ricerca di campo, nei resoconti etnografici, nella scrittura, conferendo loro un peculiare stile "autobiografico" (Gallini 1977), che anticipa di molti anni il tema e la pratica della riflessivita' (e dell'impegno politico) nella ricerca etnografica: "l'oggettivita' per l'etnografo non consiste nel fingersi sin dall'inizio della ricerca al riparo da qualsiasi passione, col rischio di restar preda di passioni mediocri e volgari e di lasciarle inconsapevolmente operare nel discorso etnografico (...) ma si fonda nell'impegno di legare il proprio viaggio all'esplicito riconoscimento di una passione attuale (...)" (De Martino 1994, p. 20). Inoltre, fin dalle prime opere (almeno da Naturalismo e storicismo nell'etnologia), de Martino aveva condotto una serrata polemica contro il positivismo, il naturalismo, il "realismo ingenuo", rigettando esplicitamente ogni forma di etnocentrismo dogmatico, e i corollari del pregiudizio e del razzismo; a tal punto che alcuni commentatori hanno visto nel libro del 1948, Il mondo magico, un documento relativista, benche' non in contrasto con quella che poi si andra' definendo come la linea principale del suo pensiero: "rigorosamente razionalista e programmaticamente fedele ai valori della civilta' occidentale" (Dei 1987, p. 2). Altri, al contrario, hanno denegato perfino le tracce di un relativismo di tipo gnoseologico e metodologico (2). In ogni caso, con il relativismo culturale di matrice statunitense egli intrattiene un rapporto complesso, ambivalente, perfino tormentato, si potrebbe dire, come emerge soprattutto dalle note raccolte nell'opera postuma, La fine del mondo. In una di queste, per esempio, riprendendo un tema piu' volte visitato, egli riconosce "l'istanza positiva rappresentata dal relativismo e dalla etnopsichiatria proprio come raccomandazione di giudicare integrazione e disintegrazione all'interno di una cultura, e non in base ad un modello astratto della 'natura umana' ricavato dalla civilta' occidentale contemporanea e fatto valere dogmaticamente per tutte le altre possibili culture" (1977, p. 16). In un'altra nota della stessa opera, De Martino si mostra a tal punto critico da additare il relativismo come "il pericolo dell'umanesimo etnografico" (ivi, p. 396). Solo l'occidente, egli argomenta, "ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso di una esigenza di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e aliene" (ibidem); solo la civilta' occidentale ha "portato alla coscienza il principio conoscitivo e operativo di una origine e di una destinazione integralmente umana dei beni culturali, di una determinazione storica di questi beni, di un ethos specificamente e universalmente umano" (ivi, p. 397). Di conseguenza: "Per un verso (...) e' impossibile dire qualche cosa sul significato delle culture degli etne se non ci si impegna sul senso della civilta' occidentale; per un altro verso proprio questo senso, una volta dichiarato e giustificato, apre al dialogo con il significato delle altre culture in quanto fondato sul postulato della comune umanita'" (ivi, p. 395). Nondimeno, egli assume acutamente il dilemma costituito dalla dialettica soggetto/oggetto e dal tema delle categorie e delle passioni del soggetto osservante. E si chiede come sia possibile sciogliere l'alternativa paradossale che ogni incontro etnografico impone al ricercatore: prescindere totalmente dalla propria storia culturale, rinunciando alle proprie categorie conoscitive e tradendo cosi' la vocazione specialistica, oppure esporsi al rischio di valutazioni etnocentriche. Nell'elaborazione piu' matura della sua proposta, egli risponde che "L'unico modo di risolvere questo paradosso e' racchiuso nello stesso concetto dell'incontro etnografico come duplice tematizzazione, del 'proprio' e dell''alieno'. L'etnografo e' chiamato cioe' ad esercitare una epoche' etnografica che consiste nell'inaugurare, sotto lo stimolo dell'incontro con determinati comportamenti culturali alieni, un confronto sistematico ed esplicito fra la storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale occidentale che e' sedimentata nelle categorie dell'etnografo (...): questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena e' condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il 'proprio' e l''alieno' sono sorpresi come due possibilita' storiche di essere uomo (...). In questo senso l'incontro etnografico costituisce l'occasione per il piu' radicale esame di coscienza che sia possibile all'uomo occidentale (...)" (ivi, p. 391). Ma il "radicale esame di coscienza" dei limiti della razionalita' e dell'umanesimo occidentali per de Martino non puo' condurre oltre i confini della nostra civilta'. Esso deve mirare tanto alla ridefinizione delle categorie, all'allargamento della nostra razionalita' e autocoscienza cosi' da ricomprendervi l'alterita'; quanto ad un rinnovamento dello stesso umanesimo, tale da conferire un "nuovo possibile senso" al "processo di occidentalizzazione in un'epoca in cui l'occidentalizzazione borghese, coloniale, missionaria" e' drammaticamente rifiutata (De Martino 1980, p. 140). Pur posto di fronte alla travolgente critica pratica espressa dai movimenti anticolonialisti, pur acutamente consapevole che la razionalita' strumentale occidentale ha gia' prodotto un'immane sciagura - lo sterminio nazista - e continua a covare in se' i germi della catastrofe (3) - "quella di cui il fungo di Hiroshima ha offerto in scala ridottissima l'immagine reale" (1977, p. 470) - De Martino resta fedele, in fondo, all'idea del primato, razionale e morale, dell'occidente. Rintracciare le ragioni, molteplici e complesse, della sua fedelta' a questa idea esula dal nostro sintetico excursus: possiamo solo alludere frettolosamente allo spettro dell'irrazionalismo, che egli paventa come esito del relativismo, all'incapacita' di trascendere in modo netto la matrice crociana della sua formazione, all'impossibilita' storica d'immaginare una teoria dell'emancipazione dei subalterni e della liberazione dei colonizzati che nasca dal seno della "storia aliena" e che rinnovi la stessa tradizione europea. * 4. Oltre il dualismo e l'universalismo particolare, per un'antropologia simmetrica Altri studiosi hanno egualmente proposto formule volte a liberare il "relativismo" dalle sue concrezioni ideologiche e dalle false dicotomie nelle quali e' stato imprigionato: da chi, come Raimon Panikkar, preferisce adoperare "relativita' culturale", intendendola come la capacita' di pronunciare enunciati che hanno un senso e una pretesa di verita' in relazione ad un contesto definito; a Tzvetan Todorov (1989, p. 513), il quale indica la prospettiva di un umanesimo critico, entro il cui orizzonte l'universalita', sempre soggetta a revisione, sia lo strumento d'analisi, il principio regolatore che permette il confronto fecondo fra particolari; per arrivare ad Alain Caille', Philippe Descola e altri ancora, i quali ricorrono alla formula di universalismo "relativista" o "relativo". Dal canto suo, Bruno Latour (1997), il cui ragionamento si muove su un terreno piu' squisitamente epistemologico, propone l'espressione relativismo "relativo" o "relativista", onde prendere le distanze dal relativismo assoluto e nel contempo rimarcare che la pratica del relativismo mira anzitutto a stabilire relazioni e rendere commensurabili le forme di vita. Quanto a Descola, antropologo specialista delle societa' amazzoniche, la sua opera del 2005, Par-dela' nature et culture, e' attraversata da un'importante riflessione intorno al regime epistemologico, fondatore di tutti gli sviluppi dell'antropologia, che lo stesso Latour ha definito "universalismo particolare". Secondo Descola, per superarlo, l'antropologia deve riconoscere, mettere a distanza ed abbandonare la dicotomia natura/cultura e il paradigma naturalistico moderno che la ha costituita. Ammettere che questo e' solo "l'une des expressions possible des schemes plus generaux gouvernant l'objectivation du monde et d'autrui" (ivi, p. 13) le permettera' d'includere fra i suoi oggetti non solo l'anthropos, ma anche ogni "collettivita' degli esistenti" che gli e' legata e che finora l'antropologia ha sempre considerato solo come parte dell'entourage degli umani (ivi, p. 15). Descola si chiede come sia possibile sottrarsi al dilemma del naturalismo, piu' precisamente, all'oscillazione fra la speranza monista dell'universalismo naturale e la tentazione pluralista del relativismo culturale. E propone di sperimentare una prospettiva che conduca a conciliare le esigenze dell'inchiesta scientifica con "le respect de la diversite' des etats du monde" (ivi, p. 418). A questa prospettiva egli da' il nome di universalismo relativo, precisando, anch'egli, che intende l'aggettivo nel senso di cio' che fa riferimento ad una relazione: "L'universalisme relatif ne part pas de la nature et des cultures, des substances et des esprits, des discriminations entre qualites premieres et qualites secondes, mais des relations de continuite' et de discontinuite', d'identite' et de difference, de ressemblance et de dissimilitude que les humains etablissent partout entre les existants au moyen des outils herites de leur philogenese. (...) L'universalisme relatif n'exige pas que soient donnees au prealable une materialite' egale pour tous et des significations contingentes, il lui suffit de reconnaitre la saillance du discontinu, dans les choses comme dans les mecanismes de leur apprehension, et d'admettre, au moins par hypothese, qu'il existe un nombre reduit de formules pour en tirer parti, soit en ratifiant une discontinuite' phenomenale, soit en l'invalidant dans une continuite'" (ivi, p. 419). Mi sembra che il ragionamento dell'antropologo francese, sorprendentemente affine, nella critica del paradigma naturalistico, al primo De Martino, vada al cuore della questione piu' di altri. Se in apparenza il suo intento principale e' dimostrare che il dualismo natura/cultura, costitutivo anche dell'antropologia, e' relativo ad un contesto del tutto particolare - la modernita' occidentale - ed e' privo di senso per la maggior parte delle culture, in realta' egli tocca, piu' in generale, un nodo decisivo della questione universalismo/etnocentrismo/relativismo. Il pensiero occidentale moderno ha collocato in due sfere ontologiche nettamente distinte il mondo degli umani e quello dei non umani. Cosi' facendo, si e' precluso la possibilita' di compiere un'opera di traduzione e di mediazione, privilegiando cio' che Latour (1997, p. 21) ha definito opera di purificazione. Come gia' aveva rimarcato Levi-Strauss (1978, pp. 69-79) nel discorso in commemorazione di Rousseau pronunciato nel 1962, e' attraverso la separazione radicale fra umanita' e animalita' che l'uomo occidentale inaugura quel "ciclo maledetto" che in seguito sara' la base per escludere dalla sfera dell'umanita' un gruppo umano dopo l'altro e costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre piu' ristrette. Piu' tardi egli avrebbe ripreso lo stesso tema nella famosa conferenza presentata all'Unesco nel 1971 ("Race et culture"), e ripubblicata in Le regard eloigne' (1983), affermando che questa radicale separazione "ha consentito che fossero respinte, al di fuori di frontiere arbitrariamente tracciate, frazioni sempre piu' vicine di umanita'" (1984, p. 46). Anche Levi-Strauss, come de Martino ed altri, auspica la costruzione di un umanesimo "saggiamente concepito", consapevole che nessuna prospettiva davvero universalista puo' nascere dalla radicale messa a distanza e reificazione della natura e da un rapporto con gli altri viventi fatto di violenza e sfruttamento. E' una riflessione che non riguarda solo l'alternativa etnocentrismo/relativismo ma che impone una radicale revisione dello stesso concetto di cultura ed una ridefinizione dello stesso relativismo. La nozione antropologica di cultura si e' modellata, infatti, secondo una logica contrastiva che oppone natura a cultura; e questa a sua volta e' il prodotto di un pensiero dualistico, storicamente assai circoscritto, essendo apparso tardivamente nel corso della stessa storia europea. Se dal piano concettuale passiamo a quello epistemologico, dobbiamo constatare che una postura relativista coerente richiederebbe uno sguardo piu' critico e attento sia verso la pluralita' dei sistemi simbolici per mezzo dei quali le diverse culture umane concettualizzano la continuita' o la discontinuita' fra i viventi, sia verso il fatto che specie diverse dalla nostra conoscono - come gia' trent'anni fa scriveva Edmund Leach - "costumi" e "abitudini", in definitiva, attitudini ed elaborazioni culturali: "(...) probabilmente e' valido per tutte le creature viventi, non semplicemente per l'uomo, il principio secondo cui la comprensione dell'ambiente si ottiene solo attraverso l'esperienza, cioe' passando per la cultura, e non e' qualcosa di insito nella natura biologica dell'animale" (Leach 1980, p. 788). Seguendo questa linea di pensiero, possiamo ipotizzare che lo specismo sia il padre dell'etnocentrismo e che per guadagnare un'efficace postura relativista si debba accettare di mettere in discussione la linea di demarcazione istituita dal pensiero occidentale moderno, che lo si connoti come umanesimo occidentale (Levi-Strauss), che lo si definisca come marcato dal paradigma naturalistico (Descola), che se ne individui la matrice fondante nella Grande Partizione (Latour) fra natura e societa', fra oggettivita' e soggettivita'. E' su questa medesima linea che si muove il ragionamento di Latour (1987) che, per quanto non sempre limpido (e talvolta condotto con uno stile formale influenzato dal vituperato scientismo), ha il merito di affrontare in modo non convenzionale la questione relativismo/universalismo, muovendo da una premessa affine: la partizione, egli scrive, fra Noi, gli occidentali, e tutti gli altri, fra la Civilta' e le culture, e' stata possibile perche' si e' istituita una netta partizione fra gli umani e i non umani (ivi, p. 132), e questa, a sua volta, ha permesso la creazione artificiale dello scandalo degli altri (ivi, p. 140). Il relativismo assoluto, continua Latour, mette la natura fra parentesi e presuppone culture separate, incommensurabili, non gerarchizzabili. Con il relativismo culturale la natura entra in scena, ma le culture sono considerate punti di vista piu' o meno precisi su una natura unica e universale. Per l'universalismo particolare e' una sola societa', la nostra, a definire il quadro generale della natura e a collocare le altre societa' in rapporto a questo quadro. Al contrario, il relativismo "relativo" o "relativista" non mette fra parentesi la natura, rende commensurabili i "collettivi natural-culturali" e in tal modo permette la traduzione-mediazione e la negoziazione intorno a degli universali relativi (4). E' praticando quest'ultima forma di relativismo, piu' modesto ma piu' empirista (ivi, p. 153), che l'antropologia puo' diventare simmetrica. Finora gli antropologi - che pure quando studiano gli altri analizzano la totalita' della loro esistenza - allorche' hanno cercato d'indagare sul "noi", si sono limitati ad analizzare gli aspetti sociali e culturali piu' marginali della societa' alla quale appartengono. Per aspirare a divenire davvero simmetrica, l'antropologia dovrebbe, invece, acquisire la capacita' di affrontare non solo le credenze che ci sono estranee, ma soprattutto le conoscenze, anche scientifiche, alle quali noi aderiamo totalmente (ivi, p. 125). * 5. Riflessivita', universali transculturali e nozioni-ponte Tutto cio' rimanda al tema della riflessivita', che, se e' stato ampiamente accolto dall'antropologia, non sempre e' problematizzato a sufficienza, talvolta e' semplicemente enunciato, con il rischio che anch'esso si trasformi in una retorica. Nondimeno, aver messo in discussione l'oggettivita' dello sguardo antropologico e la neutralita' dell'interpretazione e della traduzione, relativizzando le stesse pratiche della disciplina, e' stato un grande passo in avanti verso un'antropologia simmetrica o meno asimmetrica. Almeno da Clifford Geertz in poi, per la gran parte degli antropologi e' ormai scontato che non si tratta piu' di riferire il punto di vista nativo, come sostenevano i primi teorici del relativismo, ma d'interpretarlo, traducendolo in funzione delle concezioni locali e sulla base di una "descrizione densa" delle pratiche, tale da incorporare l'universale nel particolare (v. Ambrosi 2005). L'antropologia ha mostrato che esistono universali - o invarianti - transculturali e translinguistici: tutte le culture cercano di conferire ordine e senso alla natura, alla realta' empirica, alla societa', al cosmo e per questo hanno elaborato sistemi di classificazione e di rappresentazione intelligenti e coerenti. La ricerca e la valorizzazione di tali universali non e' incompatibile con una postura relativista, tutto il contrario: la possibilita' di far emergere degli universali e d'inventare dei dispositivi universalizzanti che rendano possibile la comunicazione e la traduzione fra mondi culturali differenti e' data precisamente dalla capacita' di sospendere le proprie categorie, evitando di proiettarle su quella cultura; o almeno di farne un uso cauto e flessibile, dubbioso e critico, accettando l'ipotesi di rimetterle in discussione, di allargarle o perfino di abbandonarle. Il problema non e' solo che in quelle categorie "e' sedimentata la storia culturale occidentale", per riprendere de Martino, ma che vi si sono depositati impensati o non-ancora-pensati, proprio perche' esse risentono della Grande Partizione, del paradigma naturalistico, e si sono definite senza gli altri o addirittura per opposizione agli altri. Per esempio, non tutte le tradizioni culturali condividono nozioni o concetti quali "dio", "anima", "anima/corpo", "spirito", "persona", "felicita'", "religione". Scoprirne la non universalita', relativizzarli, coglierne la parzialita' e particolarita' permette non solo di decentrarsi e di allargare la propria coscienza, ma e' anche una condizione per la comprensione e l'analisi antropologica. Per esempio, se, di fronte ad un certo sistema di credenze e di pratiche rituali, adopero la categoria "chiusa" di religione, com'e' convenzionalmente definita nell'ambito di studi specialistici, e' possibile che neppure riesca a riconoscere la rilevanza ed a comprendere l'insieme di certe credenze-pratiche che dovrei analizzare. Se invece assumo una postura relativista, insieme a un atteggiamento volto all'empatia, e' probabile che riesca ad elaborare nozioni-ponte, necessarie a tradurre ed a negoziare significati, al fine di comprendere insieme agli altri. Per dirla con Francois Jullien (2006), non si tratta semplicemente di abbandonare le mie categorie per provare a pensare con la mente dell'altro, ma di compiere l'esercizio di de-categorizzare per ri-categorizzare. Facciamo un esempio, partendo da una premessa. Uno degli argomenti preferiti da certi detrattori del relativismo non troppo rozzi consiste nel porre la domanda retorica: "Si deve essere relativisti anche nei confronti di pratiche come le mutilazioni dei genitali femminili?" (5). Per accettare la sfida di una domanda simile, conviene intanto premettere che cercare di rendere intelligibili un certo sistema simbolico, un certo costume, una pratica sociale differenti dai nostri non equivale a condividerli, ad approvarli, ad accettarli, ma a decifrarne le logiche concettuali, simboliche, sociali ed a ricostruirne la genesi e i mutamenti storici. Per procedere con cautela ed intelligenza, conviene interrogarsi sulla stessa sigla Mgf: l'etichetta "mutilazioni dei genitali femminili", legittimata dagli organismi internazionali, che vi comprendono gradi e forme le piu' varie d'intervento, nella sua fredda, apparente oggettivita' allude ad una deturpazione, ad una deformazione. Al contrario, per chi guardi dal punto di vista della tradizione somala, per esempio, la circoncisione o cucitura (com'e' denominata nelle lingue locali) - che e' parte di un cerimoniale di passaggio - e' volta a rimodellare i corpi femminili secondo un ideale socialmente condiviso di bellezza e di purezza. Infatti, le stesse idee di mutilazione e di integrita'/non-integrita' dei corpi sono relative ai diversi contesti sociali e culturali. In un buon numero di societa' occidentali, per esempio, sottoporsi a mutilazioni chirurgiche, anche assai gravi, al fine di correggere o mutare il proprio sesso anatomico, e' socialmente accettato e/o legittimato come un diritto personale. Quest'opera di decentramento e quindi di relativizzazione delle diverse forme di modellizzazione dei corpi, comprese le proprie, e' preliminare ad ogni tentativo di comprensione e di analisi, ma non e' affatto sufficiente. Limitarsi ad evocare la tradizione locale, rifugiarsi nel guscio della descrizione e del riferimento al contesto, quando si tratta degli altri, puo' essere l'indizio di una forma piu' sottile di etnocentrismo o almeno un'espressione di benevolenza venata da implicita presunzione della propria superiorita' culturale e morale; in ogni caso, puo' essere un espediente per sfuggire ai dilemmi conoscitivi e morali di fronte a valori, costumi e comportamenti collettivi diversi dai nostri, perfino perturbanti. La pratica delle modificazioni dei genitali femminili, dunque, andrebbe descritta e analizzata tenendo conto non solo delle tradizioni locali e delle loro implicazioni socio-culturali, ma anche dei mutamenti, in alcuni casi drammatici e sconvolgenti, che investono le aree in cui un tempo essa era ampiamente diffusa, socialmente accettata e legittimata, con l'attivo consenso delle donne. Insomma, sarebbe d'obbligo analizzarne gli sfrangiamenti, la parziale perdita di legittimita', il rifiuto attivo da parte di gruppi di donne che, in vari paesi africani, si organizzano per persuadere altre donne ad abbandonarla e a contrastarla. E non solo: come ho scritto altrove (Rivera 2005, pp. 81-85), sarebbe opportuno assumere, rendere espliciti, mantenere aperti, come parte della stessa ricerca, i dilemmi epistemologici e morali che questa pratica, come altre, ci impone. Una volta compresa, per approssimazione, la logica concettuale, simbolica e sociale di questo costume, una volta indagate le dinamiche attuali e il punto di vista dei vari attori/attrici sociali, in primo luogo le donne, potremmo proporne un'interpretazione negoziata. Potremmo perfino azzardarci a valutare, insieme ai soggetti direttamente interessati, se, in contesti d'immigrazione, il tentativo di "ridurre il danno" delle Mgf, favorendone un'estrema stilizzazione, anche con il sostegno - consapevole, discreto, rispettoso - di strutture sanitarie pubbliche, costituisca un compromesso accettabile fra etnocentrismo e relativismo, fra rispetto dei diritti umani e riconoscimento di peculiarita' culturali. L'ipotetico antirelativista potrebbe obiettare polemicamente che io stessa ho adoperato finora categorie che, pur pretendendo d'essere neutre, puramente descrittive, recano l'impronta di una tradizione intellettuale particolare: "sistema simbolico", "credenze", "costume", "sistema cerimoniale", "rito di passaggio"...; e che probabilmente sono estranee ai contesti locali cui appartengono le cosiddette Mgf. Sarebbe un'obiezione fondata: se, infatti, volessi intraprendere una con-ricerca sulla pratica delle Mgf in situazioni d'immigrazione dovrei predispormi a negoziare con le mie interlocutrici aggiustamenti, correzioni, revisioni di quelle categorie che ci permettano di intenderci, di dialogare e di elaborare un'interpretazione condivisa. Tutto cio' senza pretendere una traduzione reciproca perfetta: i malintesi, le contraddizioni, le smagliature, i dilemmi morali ed epistemologici, come ho detto, vanno integrati, resi espliciti, tematizzati all'interno della stessa ricerca. * 6. A parziale conclusione (politica ed epistemologica) In una frase folgorante, a conclusione del suo intervento su "Razzismo e cultura", pronunciato al primo Congresso degli scrittori e degli artisti neri (Parigi, 1956), Frantz Fanon indica una strada per la soluzione del dilemma universale/particolare: "Per concludere, l'universalita' risiede in questa decisione di accettare la reciproca relativita' di culture diverse, una volta abolito irreversibilmente lo statuto coloniale" (Fanon 2006, p. 55). A giusta ragione, egli parla non di universalismo ma di universalita', non di relativismo ma di relativita', e subordina la possibilita' del mutuo riconoscimento della relativita' della propria cultura ad una condizione politica: l'abolizione dello statuto coloniale. Sarebbe scorretto astrarre il ragionamento di Fanon dalle condizioni storiche nelle quali fu prodotto - la rivoluzione anticoloniale algerina. Eppure quello scritto contiene un nucleo di verita' (una verita' parziale, se volete) non solo politica ma anche epistemologica: ammettere la relativita' della propria cultura e' l'esito di una decisione reciproca, che presuppone una certa simmetria fra i soggetti che la assumono; questa simmetria e' possibile in virtu' di un processo politico: il superamento del rapporto di dominazione. Oggi difendere cio' che ho definito postura relativista e' anzitutto un atto politico, non solo perche' e' il tentativo di resistere ad una polemica pubblica di segno autoritario ed etnocentrico, ma soprattutto perche' e' il frutto di una consapevolezza guadagnata nella pratica di campo: le condizioni storiche per sviluppare un'antropologia simmetrica e riflessiva risiedono, in definitiva, nella prospettiva - che in gran parte trascende la volonta' e la facolta' dell'antropologo/a - di stabilire relazioni umane, sociali, politiche, quindi epistemologiche, connotate da relativa uguaglianza e simmetria. La difesa del relativismo da parte degli antropologi puo' ben poco di fronte al disordine mondiale, all'assolutismo imperiale ed ai loro riflessi in ogni nicchia del vivere sociale, quindi in ogni ambito della pratica etnografica; cosi' poco da correre in ogni momento il rischio di tramutarsi in vana declamazione retorica. Per evitare questo rischio, non si puo' che tenere sempre aperta la dialettica fra empatia e conoscenza, fra relativizzazione e riconoscimento reciproci, e sempre viva la tensione performativa fra la comprensione del particolare-singolare-locale e la coscienza del non-realizzato dell'universale. * Note 1. Conviene ricordare, a tal proposito, che la naturalizzazione del sociale e del culturale e' uno dei dispositivi basilari del razzismo. 2. E' la posizione di Placido Cherchi (1997), il quale rifiuta anche "la distinzione tra un De Martino relativista sul piano gnoseologico e un De Martino relativista sul piano etico-deontologico" (p. 24, nota 9). 3. De Martino non sembra, pero', sfiorato dall'idea che la catastrofe del nazismo, della persecuzione e dello sterminio sia stata precisamente la figlia legittima della razionalita' strumentale, delle norme e degli strumenti messi a disposizione dallo sviluppo della modernita', come efficacemente ha ricordato Zygmunt Bauman (1992). Egli sembra condividere l'idea, corrente al suo tempo, del nazismo come "barbarie", come irruzione di pulsioni arcaiche e idee irrazionaliste. 4. Egli scrive: "Etablir des relations; rendre commensurable; regler des instruments de mesure; instituer des chaines metrologiques; rediger des dictionnaires de correspondances ; discuter de la compatibilite' des normes et des standards; etendre des reseaux calibres; monter et negotier les valorimetres, voila' quelque-uns des sens du mot relativisme (Latour 1997, p. 153). 5. Scelgo non per caso questo esempio. A riproporre la polemica antirelativista e' stata, fra le altre, la controversia pubblica che si accese nel 2004 intorno alla proposta del medico dell'ospedale fiorentino di Careggi, Omar Abdulcadir, direttore del "Centro per la prevenzione e la cura delle complicanze legate alle Mgf": egli aveva suggerito di sperimentare nelle strutture sanitarie pubbliche un'estrema stilizzazione dell'infibulazione - una puntura di spillo - come male minore di fronte al rischio del perdurare delle forme piu' estreme di quella pratica. La proposta di Abdulcadir, che aveva ricevuto sostegni istituzionali autorevoli, una volta rimbalzata sulla scena mediatica divenne oggetto di una querelle dai toni molto accesi ed infine fu sconfitta. Per una ricostruzione critica della controversia, si veda Pasquinelli 2007. Piu' in generale, per un'analisi antropologica delle modificazioni dei genitali femminili, si vedano la stessa Pasquinelli e Fusaschi 2003. * Riferimenti bibliografici - Ambrosi Elisabetta, (a cura di), 2005, Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio - I libri di Reset, Venezia. - Caille' Alain, 1995 (1993), "Per un universalismo relativista. Oltre il razionalismo e il relativismo", in: Id., Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, Dedalo, Bari, pp. 191-225. - Cherchi Placido, 1996, Il peso dell'ombra. L'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli. - Dei Fabio, 1987, Le zucche del missionario Grubb. Ernesto De Martino fra razionalita' e relativismo, in "Annali della Facolta' di Lettere e Filosofia dell'Universita' di Siena", vol. VIII. - De Martino Ernesto, 1996 (1941), Naturalismo e storicismo nell'etnologia, introduzione e cura di S. 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La reflexion francaise sur la diversite' humaine, Seuil, Paris. ============================== VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 256 del 4 novembre 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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