Voci e volti della nonviolenza. 252



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 252 del 28 ottobre 2008

In questo numero:
1. Jean-Marie Muller: Momenti e metodi dell'azione nonviolenta (parte prima)
2. Et coetera

1. JEAN-MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA (PARTE PRIMA)
[Riproponiamo ancora una volta il testo di un opuscolo edito dal Movimento
Nonviolento che a sua volta riproduceva anastaticamente un capitolo di una
piu' ampia opera. L'opuscolo e': Jean-Marie Muller, Momenti e metodi
dell'azione nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, s. i. l. 1981;
il libro e' Jean-Marie Muller, Strategia dell'azione nonviolenta, Marsilio,
Venezia-Padova 1975 (il capitolo e' il settimo, alle pp. 73-99). Noi
riproduciamo qui il testo di Muller senza le note dell'autore e senza la
presentazione del traduttore Matteo Soccio (uno dei maggiori studiosi ed
amici della nonviolenza in Italia), rinviando per la lettura del testo
integrale all'acquisto dell'opuscolo, disponibile presso il Movimento
nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212,
e-mail: azionenonviolenta at sis.it, sito: www.nonviolenti.org]

In questo capitolo vorremmo precisare quali sono i diversi momenti di una
campagna di azione nonviolenta tipo, e quali sono le modalita' di ognuno di
questi momenti. Anche se non abbiamo intenzione di dare delle ricette che
basterebbe applicare alla lettera in ogni situazione per raggiungere il
successo, non ci sembra inutile riunire gli insegnamenti tratti dalle azioni
compiute in passato e classificarli secondo un ordine che risponde a una
certa logica. Non si rende sterile l'immaginazione se le offriamo uno schema
in cui essa, come ci ha dimostrato l'esperienza, abbia le maggiori
possibilita' di esercitarsi utilmente. Se anche queste indicazioni non ci
garantissero il successo dell'azione, esse almeno dovrebbero evitarci
numerosi errori che ci assicurerebbero il fallimento.
*
1. Analisi della situazione
E' essenziale che prima di decidere l'azione si abbia una conoscenza esatta
della situazione in cui s'inserisce quell'ingiustizia che si vuole
denunciare e combattere. Se i responsabili dell'azione dimostrassero di non
essere sufficientemente a conoscenza dei fatti, cio' discrediterebbe
gravemente il movimento. Inoltre, e' molto importante esprimere sui fatti un
giudizio razionale e coerente che miri alla maggiore obiettivita' possibile.
Sappiamo quanto grande sia la tentazione d'ingigantire i fatti e di
esagerarne la gravita', nella presentazione che ne viene data, fino al punto
di rendere ridicola la posizione dell'avversario. Credere pero' che questo
stratagemma possa avere una qualche efficacia e' un'illusione. Al contrario,
sara' allora facile all'avversario far valere, servendosi di argomenti
convincenti, l'aspetto esagerato delle accuse mosse contro di lui, e dare
cosi' l'apparenza di potersi giustificare totalmente. Invece la conoscenza
rigorosa dei fatti e la loro esatta presentazione costituiscono una carta
vincente per la posizione dei responsabili del movimento. La possibilita' di
giustificare ogni volta, con prove alla mano, le affermazioni addotte e' un
elemento di prim'ordine nel rapporto di forze che si va creando tra gli
avversari.
Si tratta percio' di fare un'inchiesta e di preparare un dossier sui fatti
per essere sicuri della fondatezza di tutte le informazioni ricevute sui
motivi delle lamentele sollevate e tener conto solo di quelle che hanno
potuto essere verificate. In questo lavoro, non e' sufficiente limitarsi ai
fatti: e' importante capirli al fine di sapere come e perche' l'ingiustizia
si e' manifestata e si e' mantenuta. Conviene in particolare conoscere quali
sono le forze sociali, politiche ed economiche implicate nella situazione,
quali sono gli atteggiamenti pratici delle parti in gioco e quali le
giustificazioni teoriche che ne vengono date. E' importante analizzare la
struttura di potere che predomina nelle relazioni tra le diverse parti allo
scopo di individuare chi detiene il potere di decisione. Inoltre, e'
opportuno sapere cosa dice la legge a proposito delle controversie che
oppongono le parti in causa. A questo proposito non si potra' fare a meno di
consultare un giurista competente.
Quest'analisi deve permetterci di fare con cognizione di causa una scelta
politica con cui si potra' decidere quali saranno i nostri alleati e quali i
nostri avversari nel conflitto in corso.
*
2. Scelta dell'obiettivo
In base all'analisi della situazione, si dovra' scegliere l'obiettivo da
raggiungere attraverso l'azione. La scelta dell'obiettivo e' essenziale
poiche' da essa soltanto puo' dipendere la riuscita o l'insuccesso del
movimento. Converra' scegliere un obiettivo preciso, limitato e possibile.
Nella scelta di questo obiettivo bisognera' tenere conto dei diritti
dell'avversario e fare in modo - per quanto e' possibile - che egli non
debba perdere la faccia nell'accettare le rivendicazioni che gli sono state
fatte. L'obiettivo deve essere determinato in modo tale da iscriversi in una
prospettiva futura che permetta se non proprio una reale riconciliazione -
questa, secondo ogni verosimiglianza, non potra' raggiungersi che piu'
tardi -, per lo meno una coesistenza pacifica tra le due parti. L'obiettivo
deve apparire allora come un contributo positivo per l'avvenire di tutta la
comunita'.
Le rivendicazioni del movimento devono essere realistiche e suscettibili di
essere accettate dall'avversario. Conviene percio' distinguere cio' che
sarebbe auspicabile da cio' che e' possibile. Il successo di un'azione e'
raggiunto solo quando si sia ottenuto cio' che si e' rivendicato; chiedere
l'impossibile significa inevitabilmente andare incontro al fallimento. Una
sola campagna di azioni non bastera' a sopprimere un'ingiustizia
profondamente radicata nelle strutture e nelle mentalita'. Saranno
necessarie in seguito altre campagne con obiettivi via via piu' ambiziosi.
E' importante, nel momento iniziale, che la campagna d'azione non si trovi
ridotta a una campagna di proteste a causa di un obiettivo sproporzionato
rispetto ai mezzi di cui dispone il movimento. E' essenziale per questo
movimento vincere il confronto, soprattutto per poter dare piena coscienza
della loro forza e piena fiducia a quelli che fino a quel momento sono stati
le vittime rassegnate dell'ingiustizia. E' opportuno quindi stabilire cio'
che deve essere preteso in modo che non si debba fare alcuna concessione nel
corso dei futuri negoziati. La strategia della nonviolenza non e' una
strategia di mutue concessioni. Il piu' delle volte, si pretende piu' di
quanto si vuole, per essere certi di raggiungere cio' che si vuole. In
questo caso invece ci si sforza di fissare sin dall'inizio cio' che deve e
puo' essere richiesto, e si resta fermi su questa posizione per tutta la
durata della lotta, senza fare concessioni.  Nella lotta nonviolenta,
sottolinea Gandhi, "il minimo e' anche il massimo, e siccome e' un minimo
irriducibile, non si puo' parlare di ritirata. Il solo movimento possibile
e' un avanzamento". Qui pertanto, non si tratta di esigere l'impossibile per
ottenere il possibile ma si tratta di esigere il possibile e di attenersi ad
esso senza mai transigere, a meno che non si debbano riconoscere e
soddisfare certe eventuali rivendicazioni dell'avversario che, durante il
conflitto, fossero comprese come giuste.
*
3. Primi negoziati
Conviene entrare al piu' presto possibile in contatto diretto con
l'avversario, prima di portare la controversia sulla pubblica piazza, allo
scopo di tentare tutto cio' che e' possibile per risolvere il conflitto
senza dover ricorrere alla prova di forza. Si tratta allora di far conoscere
ai rappresentanti della parte avversa le conclusioni a cui l'analisi della
situazione ha condotto e di far valere le rivendicazioni del movimento
precisando l'obiettivo che questo ha deciso di raggiungere. Sin da questo
momento e' importante dar prova della piu' rigorosa cortesia nei confronti
dell'avversario. In particolare e' opportuno evitare di far pesare sui
propri interlocutori minacce destinate a "incutere paura". Conviene invece
sforzarsi di far capire che il cambiamento della situazione cosi' com'e'
ricercato e', tutto sommato, meno minaccioso per l'avversario del
mantenimento dello status quo. Il clima che si istaurera' durante questi
primi negoziati determinera' in buona parte il clima di tutto il conflitto.
E' percio' essenziale impegnarsi a crearlo in modo tale che disponga
l'avversario non ad inasprire gli antagonismi, ma a ridurli. Questi primi
negoziati devono permettere alle due parti di conoscersi meglio. Conviene a
questo proposito osservare attentamente le reazioni dei propri interlocutori
e gli argomenti che adducono in risposta alle accuse mosse.
Nel momento stesso in cui si da' prova della piu' stretta cortesia e'
importante anche dare prova della massima fermezza e della massima
determinazione. Le manifestazioni di "comprensione", le assicurazioni "di
studiare seriamente il dossier" e magari le promesse di fare "tutto cio' che
e' possibile", che possono essere formulate dall'avversario nel corso di
questi negoziati e' opportuno siano accolte senza processi alle intenzioni.
Nessuna necessita' strategica obbliga a sospettare di malafede queste
manifestazioni di "buona volonta'". La fermezza e il rifiuto di transigere
non guadagnano affatto in forza puntando sulla sistematica diffidenza nei
confronti dell'avversario. Ma deve essere chiaro che il movimento non si
accontenta in nessun momento di promesse, ma che aspetta invece delle
decisioni. Esso accettera' di sospendere la sua azione solo quando sara'
raggiunto un accordo definitivo che metta fine al conflitto.
Cosi', nel corso dei negoziati tra i neri e i bianchi, durante il
boicottaggio degli autobus di Montgomery, "alcuni membri del comitato bianco
ci suggerirono di ritornare a servirci degli autobus e di rimandare la
discussione per un possibile accordo a dopo le feste natalizie, assicurando
che la comunita' avrebbe accolto con maggior simpatia le nostre richieste,
se la protesta fosse stata intanto sospesa. La nostra risposta fu ancora una
volta negativa. Tutti i nostri sforzi, infatti, sarebbero stati vani, se
avessimo sospeso la protesta in seguito ad una vaga promessa di futuri
accordi" (M. L. King).
E' raro che un accordo possa concludersi gia' con i primi negoziati. Questi,
quando si trovano ad un punto morto, devono essere sospesi ma non rotti
definitivamente, perche' e' proprio fine dell'azione diretta la ripresa dei
negoziati. Conviene pertanto, nei limiti del possibile, mantenere continui
contatti con l'avversario per tutta la durata dei conflitto.
Secondo un principio fondamentale della strategia, il tempo dei negoziati
deve essere pure il tempo della preparazione alla prova di forza. I
negoziati devono essere leali, e d'altronde e' interesse del movimento che
essi riescano. Ma si tratta anche di prevedere l'avvenire e di prepararsi.
*
4. Appello all'opinione pubblica
In seguito al fallimento dei primi negoziati, bisognera' sforzarsi di fare
esplodere l'ingiustizia di fronte all'opinione pubblica con tutti i mezzi di
informazione di cui puo' disporre il movimento. Si tratta di ricercare il
massimo di "pubblicita'" nel senso tecnico della parola, e cioe' di
raggiungere il pubblico per fargli conoscere le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. E' molto importante mantenere l'iniziativa dell'informazione e di
vigilare affinche' il senso dell'azione non venga ne' deformato ne'
falsificato. Certo la pubblicita' nasconde tranelli da cui bisognera'
guardarsi, ma non per questo essa, in quanto strumento di comunicazione con
il pubblico, e' meno indispensabile. Facciamo notare che si tratta di
mettere l'opinione pubblica di fronte alle proprie responsabilita', ma non
si tratta di colpevolizzare. Si tratta di farle prendere coscienza
dell'ingiustizia e non invece di attribuirle cattiva coscienza di fronte ad
essa. La cattiva coscienza paralizza piu' di quanto non mobiliti.
Bisognera' cercare di creare un "fatto di cronaca" e redigere a tal fine
comunicati nei quali verranno esposte le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. Si trattera' quindi di informare i partiti, i movimenti, le
organizzazioni e le personalita' suscettibili di dare il loro sostegno
all'azione progettata. Si potra' organizzare una distribuzione di volantini
e potra' essere molto efficace "far parlare i muri" per mezzo di scritte e
di manifesti che espongono in poche parole i dati della situazione e le
soluzioni previste per porvi rimedio.
Sara' opportuno, per dare forza a questa affermazione, organizzare delle
manifestazioni che sono un confronto diretto con il pubblico, allo scopo di
informarlo e di farlo reagire di fronte agli argomenti sostenuti dai
manifestanti. Queste manifestazioni dovrebbero, inoltre, permettere a quelli
che sono disposti a partecipare all'azione, di contarsi, di conoscersi e di
organizzarsi. E' essenziale che quelli che sono vittime dirette
dell'ingiustizia denunciata possano partecipare a queste manifestazioni.
Questa dovrebbe essere per loro l'occasione di prendere coscienza della
propria forza, di vincere la paura e di sviluppare la volonta' di
resistenza.
Questo confronto del pubblico con le posizioni sostenute dal movimento deve
permettere di correggere cio' che deve essere corretto e di individuare
meglio gli argomenti sui quali e' piu' opportuno insistere. Percio' e'
importante osservare attentamente e registrare le reazioni degli spettatori.
Queste sono delle preziose indicazioni che devono permettere di capire
meglio i rapporti di forza esistenti tra il movimento e la popolazione, e di
orientare meglio l'evoluzione del conflitto.
Nel corso di tutte queste manifestazioni pubbliche, la scelta degli slogan
deve essere compiuta anticipatamente dai responsabili del movimento. Gli
slogan non devono essere numerosi. I partecipanti devono sottomettersi
rigorosamente alla scelta che sara' stata effettuata e in nessun caso
dovranno introdurre nella manifestazione altri slogan di loro scelta. Nella
scelta degli slogan e' un'esigenza strategica quella di cercare la parola
giusta che nomini e qualifichi le situazioni che si cerca di correggere.
L'impatto della parola deriva dalla sua giustezza e non dalla sua violenza.
A questo proposito Danilo Dolci rievoca un fatto tanto minuscolo quanto
significativo. Con un gruppo eterogeneo di giovani, egli aveva promosso una
marcia da Milano a Roma, per manifestare soprattutto la loro opposizione
alla guerra nel Vietnam. Nel raccontare questa marcia, Dolci scrive:
"Poiche' alcuni gruppetti di ragazzi a tratti scandiscono "Johnson torna
alle tue vacche" molti contadini dei borghi che attraversiamo, soprattutto
in Emilia, non sembrano affatto persuasi; sono come offesi: "le vacche non
sono forse importanti?", mormorano. I ragazzi cominciano a comprendere
chilometro dopo chilometro la distinzione tra sfogo rabbioso e capacita' di
penetrare nelle popolazioni affinche' ciascuno si muova ad assumere una
posizione cosciente ed esplicita di fronte alla guerra". Cosi', quando
giungeranno a Roma, gli slogan scelti si riveleranno piu' incisivi e piu'
efficaci.
Conviene sottolineare l'importanza, nel corso di queste manifestazioni
pubbliche, dell'atteggiamento esteriore dei manifestanti che e' un mezzo
essenziale di espressione e di comunicazione. "Al di la' delle parole
scritte e pronunciate, il corpo umano e' impiegato per testimoniare in modo
drammatico i fatti e le verita' legati al problema in questione" (Hildegard
Gos-Mayr). Soltanto un atteggiamento calmo e disciplinato da parte dei
manifestanti potra' dare alla manifestazione un carattere di nobilta' e di
dignita' che le dara' una maggiore forza. Al contrario, un atteggiamento
rilassato e disordinato dei manifestanti non potrebbe non incidere
negativamente sugli spettatori.
Queste prime manifestazioni pubbliche devono essere innanzitutto strumenti
di persuasione capaci di far valere la giustezza della causa sostenuta, ma
esse costituiscono gia' dei mezzi di pressione che preparano la messa in
opera dei mezzi di costrizione.
Senza pretendere di essere esaurienti, citiamo alcuni metodi di
manifestazione pubblica:
- Comunicati. La presa di posizione pubblica di diverse personalita'
attraverso un comunicato rilasciato alla stampa puo' fornire una preziosa
garanzia a questa o a quella rivendicazione. Tuttavia un tale metodo e'
efficace solo se il testo dei comunicato e' sufficientemente forte e preciso
in modo che il fatto di sottoscriverlo sia gia' di per se stesso un impegno.
Purtroppo cio' non e' il caso della maggior parte dei comunicati a cui siamo
abituati, soprattutto in Francia. Troppi intellettuali e artisti "di
sinistra" - in pratica sempre gli stessi - si accontentano di firmare
regolarmente comunicati che protestano per principio contro questo o
quell'attentato alla democrazia, senza che cio' abbia in genere la minima
incidenza sul fatto in questione. Precisiamo tuttavia che non si deve
rimproverare a questa elite di fare questo, ma le si deve rimproverare di
far soltanto questo.
- Petizioni. Promuovere una petizione significa raccogliere il maggior
numero di firme in fondo a un testo che denunci una certa ingiustizia e
richieda una certa soluzione appropriata. Questo testo verra'
successivamente spedito, o consegnato direttamente da una delegazione, a
quelli che hanno il potere di decidere in merito al problema posto. Questa
procedura puo' rivelarsi efficace nel caso in cui sia possibile raccogliere
un numero rilevante di firme. Tuttavia la facilita' con cui si firma un
testo rischia di ridurre la portata di una tale iniziativa.
Facciamo notare a questo punto che le due prime azioni politiche di Gandhi
furono appunto la redazione e l'invio di due petizioni. Infatti, nel 1894
quando Gandhi, su proposta dei compatrioti residenti nel Sud-Africa,
accetto' di rinviare il suo ritorno in India per condurre sul posto la lotta
contro il razzismo che gravava sulla comunita' indiana, la prima decisione
che egli prende e' di redigere una petizione, rivolta all'Assemblea
legislativa del Natal, per chiedere di respingere il progetto di legge che
privava gli indiani del diritto di voto. "I giornali - ricorda Gandhi nella
sua autobiografia - la riportarono con commenti favorevoli, impressiono'
anche l'assemblea, fu discussa alla Camera. (...) Pero' la legge fu
approvata". Questa prima petizione fu dunque un insuccesso. Ma essa permise
agli indiani, fino allora rassegnati e passivi, di mobilitarsi in difesa dei
loro diritti. "Questa petizione - scrive Gandhi - fu la prima ad essere mai
stata spedita dagli Indiani ai legislatori sudafricani. Era il primo
tentativo da parte degli indiani di usare una tale procedura e un'ondata di
entusiasmo attraverso' tutta la comunita'".
Allora Gandhi non si scoraggio' e decise di far giungere al governo inglese
"una petizione fiume". Bisogna tuttavia sottolineare che Gandhi decise "di
non accettare una sola firma se il firmatario non avesse prima capito a
pieno il significato esatto della petizione". In quindici giorni furono
raccolte diecimila firme: un successo considerevole. La petizione fu spedita
a Lord Ripon, allora segretario di Stato alle Colonie. Inoltre, "ne erano
state stampate un migliaio di copie per farle circolare e per distribuirle;
era la prima volta che si informava la popolazione indiana di quali fossero
le sue condizioni nel Natal. Inviai copie a tutti i pubblicisti di mia
conoscenza. "The Times of India", in un articolo di fondo sulla petizione,
difendeva a spada tratta le richieste indiane. Furono inviate copie anche ai
periodici e pubblicisti di diversi partiti in Inghilterra: il "Times" di
Londra si dichiaro' favorevole alle nostre rivendicazioni e cominciammo a
sperare che alla legge fosse posto il veto". Infatti il governo di Londra,
impressionato dalla campagna di Gandhi, oppose il veto al progetto di legge
ritenendo che esso stabiliva una discriminazione razziale nei confronti di
una minoranza dell'Impero. Gandhi otteneva cosi' il suo primo successo.
Tuttavia questo non fu che parziale, perche', alla fine, i bianchi del Natal
seppero aggirare l'ostacolo che Londra aveva messo sulla loro strada: essi
formularono la loro legge in termini che non potevano piu' essere
qualificati come razzisti. Questo progetto di legge, cosi' emendato, ma che
portava agli stessi risultati pratici, fu approvato e votato. Gandhi doveva
riprendere la lotta ma era sicuro, questa volta, di poter contare sulla
determinazione dei suoi compatrioti che avevano preso coscienza della loro
forza e vinto la loro paura.
- Sfilata. Si parla di sfilata quando i manifestanti formano un corteo e
percorrono a piedi la citta' da un punto all'altro. Cartelli e slogans
informano gli spettatori sulle ragioni obiettive della manifestazione. La
sfilata e' il metodo piu' classico della manifestazione pubblica. Cosi',
quando viene annunciato che il tal partito, il tal sindacato o il tale
movimento invita la popolazione a partecipare ad una manifestazione, si
tratta generalmente di una sfilata.
Facciamo solo presente che, dal punto di vista della strategia della
nonviolenza, l'organizzazione di una sfilata deve soddisfare le esigenze
caratteristiche dell'azione nonviolenta. Si puo' ragionevolmente pensare che
queste esigenze non saranno soddisfatte se non sara' in precedenza deciso
che debbano esserlo, e se non vengano prese precauzioni particolari perche'
lo siano effettivamente. Pensiamo in particolare alla scelta degli slogan e
all'atteggiamento dei manifestanti nei confronti delle forze di polizia.
- Marcia. Si parlera' di marcia quando i manifestanti percorrono a piedi
lunghe distanze da una citta' all'altra attraverso uno o piu' paesi. Il fine
e' di sensibilizzare la popolazione delle regioni attraversate
sull'ingiustizia che si vuole denunciare. Cartelli e striscioni con qualche
semplice scritta e volantini che diano maggiori spiegazioni devono
permettere agli spettatori di essere informati sulle ragioni e sugli
obiettivi della marcia. In ciascuna citta'-tappa si possono organizzare
delle riunioni pubbliche per informare gli abitanti e per provocare un
dibattito pubblico sul problema in questione. Sara' utile stabilire dei
contatti con le personalita' e i movimenti capaci di prendere posizione in
favore dei manifestanti e di promuovere a loro volta delle manifestazioni.
Delegazioni possono chiedere di essere ricevute dalle autorita' locali per
far valere nei loro confronti il punto di vista dei manifestanti.
La marcia puo' avere il fine preciso di richiamare l'attenzione dei pubblico
su un'azione che avverra' al termine di essa. Un esempio particolare e' dato
dalla famosa "marcia del sale" intrapresa da Gandhi allo scopo di preparare
il popolo indiano a violare la legge con la quale il governo faceva pagare
ad ogni indiano una forte tassa per ogni acquisto di sale. Dopo aver
percorso a piedi 380 chilometri attraverso l'India prendendo la parola in
ogni villaggio attraversato per invitare la popolazione alla resistenza
contro la legge ingiusta, giunse in riva al mare e compi' il gesto simbolico
di raccogliere un po' di sale. Da quel momento Gandhi diventava ribelle
dell'impero britannico. Per effetto della marcia, tutta l'India aveva gli
occhi puntati su di lui ed era pronta a ribellarsi.
Nel 1971 venne promossa, dal leader nonviolento spagnolo Gonzalo Arias e da
numerosi suoi compatrioti, una "marcia sul carcere", da Ginevra a Madrid,
allo scopo di esprimere la propria solidarieta' con l'obiettore Jose' Beunza
detenuto allora a Valenzia, e di far pressione sul governo perche' venisse
riconosciuto uno statuto legale a lui e agli altri obiettori. La marcia, a
cui partecipavano pure manifestanti di diversi paesi, dovette interrompersi
al posto di frontiera di Bourg-Madame dove gli spagnoli furono arrestati e
gli altri marciatori respinti verso la Francia. Ma la stampa riferi'
abbondantemente dell'avvenimento e il fine dell'azione, che era innanzitutto
quello di informare l'opinione pubblica sulla situazione degli obiettori
spagnoli, fu raggiunto.
- Sciopero della fame limitato. Quando lo sciopero della fame si iscrive
nella strategia dell'azione nonviolenta ripugna chiamarlo con il suo nome:
si preferisce allora parlare di digiuno. Ma pensiamo che cio' sia un errore.
Ci sembra importante distinguere il digiuno intrapreso per motivi di ordine
religioso o terapeutico dallo sciopero della fame intrapreso per motivi di
ordine politico. Di conseguenza, il digiuno e' un'azione privata, mentre lo
sciopero della fame e' un'azione pubblica.
Lo sciopero della fame limitato a qualche giorno, tra i 3 e i 20 giorni,
mira a denunciare pubblicamente un'ingiustizia e ad informare l'opinione
pubblica su di essa. Si tratta di un'azione di protesta che di per se stessa
non potra' generalmente pretendere di sopprimere l'ingiustizia. Ma essa puo'
avere un effetto considerevole sull'opinione pubblica e cio' in particolare
se la personalita' di chi la compie e' importante. Facciamo pero' notare che
il moltiplicarsi sconsiderato degli scioperi della fame rischia di stancare
l'opinione pubblica e di screditare questo mezzo.  Percio' e' opportuno
ricorrervi con molta cautela.
Al termine di queste manifestazioni, converra' ripresentare all'avversario
delle proposte precise in vista di un regolamento negoziato dei conflitto.
E' possibile che la pressione esercitata dall'opinione pubblica sia
abbastanza forte da costringere l'avversario a non portare avanti uno
scontro di cui puo' temere che torni a suo svantaggio. In un regime
democratico (certo, tutto e' relativo, e si potrebbe avanzare che nessun
regime e' veramente democratico, ma diversi confronti che si impongono
permettono di dire che certi lo sono e certi non lo sono affatto), la "forza
dell'opinione pubblica" e' reale e puo' far maturare certi problemi fino a
che le soluzioni desiderabili diventino possibili. Ci sembra pero' che molti
liberali, a cui ripugna per temperamento il ricorso all'azione diretta,
tendano a sopravvalutare questa forza. Quando si tratta di opporsi a una
decisione del governo, non basta il piu' delle volte che l'opinione pubblica
si esprima perche' la pressione esercitata su di esso sia abbastanza forte
per costringerlo a cedere. Sara' allora necessario ricorrere all'azione
diretta, o almeno lasciar capire chiaramente che si e' decisi a farlo.
*
5. Invio di un ultimatum
Di fronte al fallimento degli ultimi tentativi di negoziato, diventa
necessario fissare all'avversario un ultimo termine al di la' del quale
saranno date disposizioni di ricorrere all'azione diretta. L'ultimatum, che
ricorda le ragioni e gli obiettivi dei movimento, i tentativi precedenti di
negoziare e i loro fallimenti, puo' essere considerato come l'ultimo passo
in vista di un accordo negoziato. Effettivamente, la prova di forza
incomincia con l'ultimatum. Questo in effetti e' piu' un mezzo di
costrizione che un mezzo di persuasione. E' d'altronde verosimile che
l'avversario si rifiuti di cedere di fronte a cio' che bisogna pur chiamare
una minaccia e che egli considerera' un "inammissibile ricatto". Egli
rifiutera' l'ultimatum sostenendo di non temere la prova di forza. Inoltre,
l'ultimatum e' un appello all'opinione pubblica per invitarla a mobilitarsi
in vista dell'azione. Conviene percio' rendere pubblico il testo
dell'ultimatum e, a questo scopo, farlo pervenire alla stampa, ai movimenti
e alle personalita' suscettibili di solidarizzare con quelli che sono decisi
ad agire.
Nel racconto della lotta condotta nel Sudafrica, Gandhi spiega a lungo in
quali condizioni, nel 1908, egli spedi' un ultimatum al generale Smuts.
L'azione che stava conducendo allora era diretta contro l'Atto asiatico,
detto anche l'"Atto Nero", che rendeva obbligatorio a tutti gli indiani di
iscriversi nei registri del governo. Questa legge stabiliva che "quasi in
ogni momento o luogo, gli indiani potevano essere invitati ad esibire il
certificato di registrazione; gli esperti di polizia potevano entrare nelle
case degli Indiani per esaminare i permessi". Gandhi giudico' questa legge
contraria alla dignita' degli indiani e invito' i suoi compatrioti a
combatterla fino a che non fosse abolita. Dopo una prima prova di forza,
durante la quale gli indiani si erano rifiutati di farsi registrare, Gandhi
accetto' il compromesso un po' paradossale propostogli dal generale Smuts a
nome del governo. Questo permetteva di abolire l'Atto asiatico se gli
indiani si fossero impegnati a iscriversi volontariamente. Gandhi ci tenne a
iscriversi per primo e chiese ai suoi compatrioti di fare altrettanto in
conformita' agli impegni presi. Gandhi aveva pero' commesso l'errore di
accettare un accordo sospendendo l'azione diretta davanti ad una semplice
promessa: infatti il generale Smuts non mantenne il suo impegno e rifiuto'
ostinatamente di abolire l'"Atto Nero". A quel punto Gandhi si trovo'
costretto a riprendere l'offensiva rilanciando l'azione diretta. Egli si
decise allora a spedire un ultimatum al generale Smuts. "Infine - riferisce
nel suo racconto - fu spedito un ultimatum al governo. Non adoperammo la
parola "ultimatum", ma fu cosi' che il generale Smuts chiamo' la lettera che
gli spedimmo in cui veniva espressa la determinazione della comunita'". Il
testo dell'ultimatum ricordava l'accordo raggiunto precedentemente e
precisava: "La comunita' ha spedito numerosi comunicati al generale Smuts e
preso tutte le iniziative legali possibili per ottenere giustizia, ma esse
finora non hanno portato ad alcun risultato. Siamo spiacenti di dover
affermare che se l'Atto asiatico non verra' abolito in conformita'
all'accordo, e se la decisione del governo a riguardo non sara' comunicata
agli indiani entro una data stabilita (la data fu fissata per il 16 agosto),
i certificati ritirati dagli indiani verranno bruciati e gli stessi ne
sopporteranno le conseguenze umilmente ma con fierezza".
Gandhi e i suoi esitarono molto prima di spedire questo ultimatum: "Ci
furono molte discussioni - egli racconta - quando fu spedito l'ultimatum. La
richiesta di una risposta entro un termine stabilito non sarebbe stata
considerata insolente? Non avrebbero avuto l'effetto di irrigidire il
governo e di portarlo a respingere i nostri termini che altrimenti avrebbe
potuto accettare?". Ma alla fine tutti gli indiani della comunita' africana
decisero di spedire l'ultimatum: "Dovemmo - continua Gandhi - correre il
rischio di essere accusati di mancanza di cortesia, e pure quello di vedere
il governo rifiutare, per risentimento, cio' che altrimenti avrebbe potuto
accordare. (...) Dovemmo adottare un atteggiamento diretto senza esitazione.
(...) Il linguaggio dell'ultimatum si inseriva in una progressione naturale
e appropriata".
Per il giorno in cui doveva scadere l'ultimatum, Gandhi organizzo' una
manifestazione per bruciare i certificati nel caso in cui il governo si
fosse ostinato a rinnegare l'impegno che aveva assunto. Smuts respinse
l'ultimatum con disprezzo: "Quelli - egli disse allora - che hanno rivolto
una simile minaccia al governo non si rendono conto della sua potenza. Mi
dispiace che qualche agitatore stia tentando di eccitare dei poveri indiani,
che si troveranno sul lastrico se soccomberanno ai loro incitamenti". Quando
la manifestazione stava per incominciare, Gandhi ricevette un telegramma nel
quale era detto che "il governo si doleva della decisione della comunita'
indiana, ma non poteva cambiare la propria linea di condotta". La
manifestazione incomincio' e Gandhi insistette sulle gravi conseguenze che
potevano derivare dal fatto di bruciare il proprio certificato e chiese ai
presenti di calcolare i rischi che stavano per assumersi. Ma i partecipanti
furono unanimi nel decidere di passare ai fatti e piu' di duemila
certificati furono bruciati. Infine, dopo molte altre peripezie, l'"Atto
Nero" venne annullato.
(Parte prima - continua)

2. ET COETERA

Jean-Marie Muller, filosofo francese, nato nel 1939 a Vesoul, docente,
ricercatore, e' tra i più importanti studiosi del pacifismo e delle
alternative nonviolente, oltre che attivo militante nonviolento. E'
direttore degli studi presso l'Institut de Recherche sur la Resolution
non-violente des Conflits (Irnc). In gioventu' ufficiale della riserva, fece
obiezione di coscienza dopo avere studiato Gandhi. Ha condotto azioni
nonviolente contro il commercio delle armi e gli esperimenti nucleari
francesi. Nel 1971 fondo' il Man (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Nel 1987 convinse i principali leader dell'opposizione
democratica polacca che un potere totalitario, perfettamente armato per
schiacciare ogni rivolta violenta, si trova largamente spiazzato nel far
fronte alla resistenza nonviolenta di tutto un popolo che si sia liberato
dalla paura. Tra le opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Momenti e
metodi dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981; Lessico
della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza della
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Desobeir a' Vichy, Presses
Universitaires de Nancy, Nancy 1994; Vincere la guerra, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 1999; Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004; Dictionnaire
de la non-violence, Les Editions du Relie', Gordes 2005.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 252 del 28 ottobre 2008

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