Voci e volti della nonviolenza. 245



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 245 del 17 ottobre 2008

In questo numero:
1. Mario Gamba ricorda Mauricio Kagel
2. Gianni Manzella ricorda Leo De Berardinis
3. Cristina Piccino ricorda Gil Rossellini
4. Gianpasquale Santomassimo ricorda Giuliano Procacci
5. Emanuele Trevi ricorda David Foster Wallace
6. Bo Yang
7. Leopoldo Elia
8. George M. Fredrickson
9. Isabel Menzies
10. Tad Mosel
11. Horatiu Radulescu
12. Humberto Solas
13. Richard Wright
14. Hector Zazou

1. LUTTI. MARIO GAMBA RICORDA MAURICIO KAGEL
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 20 settembre 2008 col titolo "L'arte
sovversiva della composizione" e il sommario "Contemporanei. E' morto
Mauricio Kagel, magnifico interprete del tempo. Nato a Buenos Aires nel
1931, famiglia ebraica di origini tedesche e russe, diviene protagonista
dell'avanguardia argentina prima di trasferirsi in Germania nel 1957.
Iconoclasta, ironico, indocile alle regole, lavora sulla coesione di
materiali e modi di essere eterogenei e sradicati. Estraneo alla visione del
melodramma, si era occupato anche di teatro-danza, radio e cinema"]

Iconoclasta. Sovversivo. Ironico. Tutti aspetti verissimi della personalita'
artistica di Mauricio Kagel. Le regole non gli sono mai piaciute. Perche'
inventava altri modi di comporre, pero'. Non per gusto della trasgressione
in forma di happening. Sarebbe un errore imperdonabile lasciare in ombra
l'interesse per il pensiero espresso con evidenza da questo immenso
musicista, uno dei massimi del secolo scorso e di quello presente, uno dei
reali contemporanei in quanto vivacemente attivo nell'oggi, musicale e
sociale. Ogni tipo di provocazione, di divertimento traumatizzante, figura
nel catalogo dei suoi titoli. Sempre in stretta unione con un'arte
sopraffina della composizione, intesa non come una successione ordinata di
note sul pentagramma ma come affermazione della coesione tra materiali (e
modi di essere) sconnessi, eterogenei, sradicati.
Kagel e' morto l'altro ieri a Colonia, citta' dove viveva dal 1957. Era in
ospedale da qualche giorno. L'Ansa non ha dato la notizia. Ennesima prova
della miseria culturale delle fonti informative italiane, specie quando si
tratta di musica che non sia quella pop. Eppure Kagel in Italia ha avuto
spesso ottima accoglienza. E proprio in questi giorni e' qui, in questo
paese disastrato, che a lui si sono dedicate e si preparano importanti
iniziative, gia' previste da tempo. A Bressanone ieri sera per la rassegna
Transart 08 si e' tenuta l'anteprima del concerto-ritratto che Kagel stava
preparando con l'Ensemble Modern per i prossimi giorni a Francoforte. Il 6,
7, 8 e 19 ottobre il Bologna Festival presentera' una "monografia"
stimolante del compositore. Che avrebbe dovuto essere presente, con la sua
gentile e sorniona disponibilita'. E invece tutto si svolgera' in memoriam.
Era nato il 24 dicembre 1931 a Buenos Aires. Famiglia ebraica di origini
tedesche e russe. Uno dei lavori in programma a Bologna (8 ottobre) si
intitola, appunto, ... den 24.XII.1931. Una bella versione diretta
dall'autore si e' ascoltata alla Biennale Musica del 2007. Un baritono
"racconta" che cosa e' successo di importante nel giorno della nascita di
Mauricio: spicca una rivolta di prigioneri politici in un carcere della
capitale argentina. E intorno si snoda una musica imprevedibile e composita,
fatta con uno strumentario che comprende sirene, campane, fischietti, cubi
di legno ruotanti, stivali usati come bacchette per marimbe. Si sentono
anche melodie soavi, scatti swing, marce militari, ma e' mirabile il disegno
compositivo, il desiderio di proporre come costituenti eventi sonori
insorgenti, "disordinati".
Presto protagonista negli ambienti dell'avanguardia musicale argentina,
Kagel si era trasferito in Germania nel 1957. Enorme la sua produzione,
improntata spesso a una vena teatrale (teatro della crudelta', teatro
dell'assurdo, teatro epico da camera), non necessariamente bisognosa della
scena. Nell'anno fatale 1968, per esempio, Kagel scrisse una vera piece
sadiana tutta affidata a musicisti (non piu' di quattro polistrumentisti,
spesso anche lui era della partita). Acustica e' un brano di scrittura con
improvvisazione che utilizza, insieme a una tastiera elettronica, piccole
ghigliottine, raganelle, scatole sonore, un violino con ponticello di ferro,
lamelle di metallo. E la musica di rumori, quasi sempre violenti, sinistri,
oppure fascinosamente persi in incanti di perversione, procede afferrando
alla gola, chiedendo rivolta. Un altro lavoro per dire chi era Kagel. Anche
questo in programma al festival bolognese (6 ottobre), anche questo messo in
scena - perche' qui la scena c'e', eccome! - alla Biennale veneziana del
2005. Mare nostrum (1975) e' la storia di una colonizzazione alla rovescia.
Evoluti amazzonici invadono, anche con intenti di conversione religiosa, i
selvaggi popoli monoteisti dell'Europa e dintorni. Strani strumenti a corda
e a percussione, in piu' tante bellissime melodie semplici eppure mai
sentite. Kagel sperimentale con una canzoncina, un lied da cabaret. Come e'
sperimentale, ben lontano dal populismo o dal terzomondismo demagogico, anzi
decostruttivo e leggero, in Exotica (1970-71) per strumenti non occidentali.
Oppure in Variete' (1976-77) per sei strumenti, un raffinato, irresistibile
gioco coltissimo intorno ai piaceri della musica "di consumo".
Compositore di suoni del tutto estraneo alla visione tradizionale del
melodramma, tuttora molto forte tra gli autori "dotti", Kagel si e' occupato
anche di teatro-danza. Nel modo che, specie durante gli anni Settanta, si
poteva aspettarsi da lui: irriverenza a piene mani. Un suo lavoro
fondamentale del 1971 si intitola Staatstheater ed e' un balletto per
non-danzatori. Poi si e' occupato di radio: sempre improntato alla poetica
dell'assurdo e' Ein Aufnahmezustand (1969). Non poteva trascurare il cinema.
E qui ha fatto nuovamente centro. Attenzione al titolo: Ludwig van (1969),
che ne sapesse qualcosa Stanley Kubrick ai tempi di Arancia meccanica? In
ogni caso e' un film in bianco e nero, regia di Kagel, girato per infrangere
il mito dell'autore eroico che per un sacco di tempo, e ancora oggi, si e'
abbinato all'opera di Beethoven.

2. LUTTI. GIANNI MANZELLA RICORDA LEO DE BERARDINIS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 settembre 2008 col titolo "Leo de
Berardinis, l'irregolare della scena"]

Quante immagini si affollano nella testa ora che Leo de Berardinis se ne e'
andato per sempre oltre il palcoscenico del mondo, la' dove "il resto e'
silenzio". Quel silenzio in cui da tempo l'attore era precipitato, dopo uno
sventurato intervento chirurgico. Perche' Leo e' stato davvero il cuore e la
mente del nuovo teatro italiano, dagli anni Sessanta in poi del secolo
scorso e fin dentro questo. Artefice di spettacoli memorabili ma ancora
prima severo maestro d'arte e di vita per piu' di una generazione che nel
teatro cercava non solo lo spettacolo, piuttosto un mezzo di conoscenza.
Quante immagini anche dissonanti. Balzano fuori a frammenti dal
caleidoscopio della memoria. Un veggente dagli occhi bendati che si aggrappa
al sassofono, il poeta adolescente folgorato dalla bellezza amara dell'arte.
Un Pulcinella tragico, sul punto di appendersi a un cappio. Un bellimbusto
dall'aria guappa fra le luminarie di una festa. Un clown dal cappello troppo
piccolo, attonito emulo di Buster Keaton. Un re Lear dalla lunghissima barba
bianca. La maschera beffarda di Toto' impressa sul volto del principe
Amleto. E forse era questa, da ultimo, l'immagine che con piu' convinzione
Leo aveva voluto legare a se'. Toto' principe di Danimarca come titolava uno
dei suoi lavori piu' belli che mescolava le storie e trasportava la tragedia
nella farsa napoletana. Quasi un suo doppio.
Thelonious Monk e Toto'. Per chi a sera arrivava a casa di Leo de
Berardinis, in certi anni, il sonoro volentieri era quello, amplificato
dallo stereo o dal videoregistratore. Il pianoforte di Monk, misterioso; la
parlata napoletana di Toto', in uno qualsiasi dei suoi tanti film. Dico gli
anni bolognesi in cui metteva radici il Teatro di Leo e si discuteva di un
teatro nazionale di ricerca (poi anche qui hanno fatto di tutto per
dimenticarlo, nello spazio da lui creato ci hanno messo dentro una scuola di
circo). Il grande jazzista era stato per Leo fin dagli inizi il modello
dell'attore ideale, e non solo come ricerca di un "fraseggio jazz", come
ricerca di timbri, dall'uso del microfono come fosse uno strumento a quello
del dialetto come "intonazione concreta" da inserire per frammenti nella
composizione.
Significava piuttosto essere teatro come il jazzista e' musica. Una sintesi
di autore e interprete capace di esprimere se stesso in scena annullando
ogni distinzione con il personaggio. Fino a un teatro improvvisato che
lasciava larghi spazi di liberta', fino all'approdo all'improvvisazione
totale, determinando una aggregazione diversa a seconda della serata. Quando
ormai lo spettacolo non c'era piu'. Era cominciato allora l'avvicinamento
alle radici della tradizione teatrale, ad artisti come Petrolini e Viviani,
grandi istintivi del teatro che tradizionali certo non erano. Anomali anzi,
e a lungo snobbati dalla cultura alta. Perche' se pure la scelta e' per un
teatro anomalo, deve esserci comunque la consapevolezza di una intera
tradizione - o il sentimento della sua mancanza. La scelta di un passato da
ritrovare nel proprio corpo. E nel gioco delle "reincarnazioni" a un certo
punto era comparsa la maschera di Toto'.
Per Leo, Toto' rappresentava la "poesia comica", l'espressione di un'arte
scenica raffinata e popolare, nutrita dalla linfa della maggiore tradizione
teatrale del nostro paese e di una realta' sociale non artefatta, la stessa
che Leo era andato a riconquistarsi in prima persona insieme a Perla
Peragallo negli anni dell'esilio a Marigliano, quando era fuggito da Roma e
da un teatro vissuto come errore, rivolto cioe' a un pubblico sbagliato (a
Milano non l'hanno mai amato, si sa). Anni di risse con gli spettatori,
quando contaminava Shakespeare con la sceneggiata, reinventandosi 'O
Zappatore o anagrammando Lear con Lacrime napulitane.
Ma l'evocazione dei grandi irregolari dell'arte andava delineando anche una
situazione espressiva ed esistenziale, in cui piu' segretamente l'attore
poteva riconoscersi. Il tema della solitudine dell'artista torna fuori nel
piccolo mondo immobile di The Connection con cui si apriva la sua seconda
vita artistica, rinascere come uomo nuovo dopo aver affrontato il rischio
dell'autodistruzione nell'alcol. E tanto peggio se qualcuno gia' colorava di
un segno negativo l'idea di una "guittesca autobiografia teatrale". L'attore
autore e' autobiografico, ha ripetuto spesso Leo. E' sempre un trasmettitore
di se stesso. Radicato in un sapere che fa del teatrante un sapiente in
grado di incontrare altre persone per scambiare un'esperienza; nel
riconoscimento della solitudine dell'artista che fa di lui un veggente;
nella coscienza di una tradizione da far rivivere che ne fa un maestro.
Oggi l'itinerario di Leo de Berardinis appare esemplare, se e' vero che
sulla via dell'arte non ha interesse la cronologia ma e' importante la curva
dello sviluppo artistico, l'allontanarsi o il deviare da essa, le tappe del
percorso. Esemplare, non solo per non aver mai ceduto al compromesso
commerciale. Dagli inizi demoniaci alla ricerca di una zona di
pacificazione, dopo aver compiuto le dodici stazioni del suo zodiaco;
dall'uscita dal tragico per andare verso il comico, come l'attore descritto
da Zeami che percorre la via dell'arte passando dai gradi medi al livello
piu' alto e poi al basso. Al centro si staglia nella memoria
quell'emozionante cavalcata fra le luci e le ombre di un secolo che fu lo
straordinario Novecento e Mille, dove a fianco dei sei personaggi
pirandelliani e dei vagabondi di Beckett puo' starci di diritto lo scrivano
di Miseria e nobilta' o il malizioso duetto di "levat'a cammesella"
immortalato da Siamo uomini o caporali.

3. LUTTI. CRISTINA PICCINO RICORDA GIL ROSSELLINI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 ottobre 2008, col titolo "Filmare in pr
ima persona, l'enigma della malattia" e il sottotitolo "Lutti. E' morto Gil
Rossellini, regista e produttore"]

La nuova parte del suo diario della malattia sara' presentata al prossimo
festival di Roma (sezione Altro cinema), Kill Gil vol. 2 e 1/2, perche' la
sedia a rotelle su cui era stato costretto da un crudelissimo stafilococco
aureo non l'ha lasciata piu', come invece sperava di poter raccontare in un
numero 3 della serie "documentaria" in cui aveva filmato tutta la sua
storia. Anzi, negli ultimi giorni i medici erano stati costretti ad
amputargli una gamba, e pero' Gil Rossellini, con quell'ostinazione che
schierava contro il male, solo pochi mesi fa scriveva: "Ho perso le mie
gambe ma ho trovato tanti amici e tutto sommato credo che sia un buon
affare. Per onesta' nei confronti dei miei amici e della mia famiglia non mi
resta che fare il meglio che posso prendendo la vita un giorno alla volta".
Forse per questo, anche se era costretto a letto fino a rimpiangere la sedia
a rotelle amica/nemica, aveva in mente una regia cinematografica (insieme a
Stefania Casini), L'Indiano ConTurbante, ed era stato supervisore a un
documentario, El Sur De Vuelta, girato nel sud del Libano durante la guerra.
Della malattia dopo quest'ultimo capitolo aveva deciso che non voleva piu'
parlarne. Gil Rossellini invece se ne e' andato ieri, a Roma, al Rome
American Hospital dove era ricoverato da tempo, e di questo suo Kill Gil vol
2 e 1/2 sappiamo cosi' purtroppo gia' la fine.
*
Era nato a Bombay nel 1956, figlio di Sonali Das Gupta, moglie di Roberto
Rossellini, che lo adotto'. Il 7 giugno di quest'anno Gil aveva deciso di
farsi battezzare col rito cattolico scegliendo il nome di Francesco.
Regista, produttore, aveva cominciato a frequentare i set giovanissimo
insieme al padre Roberto, collaborando poi negli anni '80 con Martin
Scorsese (Re per una notte) e Sergio Leone (C'era una volta in America).
Nell'83 produce Lontano da dove, film "epocale" nell'allora deserto italiano
delle nuove generazioni anni '80 - lo firmavano Stefania Casini e Francesca
Marciano. Continua a lavorare e a viaggiare, realizza documentari in tutti i
continenti dall'Himalaya al Rio delle Amazzoni alla Casa Bianca, e' sempre
in giro, sempre su un aereo. Ci parla della natura, investiga la politica,
filma le guerre nei Balcani. Nell'89 scrive, realizza e interpreta Il
poliedro di Leonardo producendo anche vari film come Ferrari: The Quest of
Speed per la Imax. Si occupa della Rossellini & Associates, collabora con la
Miramax e cura la distribuzione.
Infaticabile insomma fino al novembre del 2004, l'anno della Principessa del
Monte Ledang, il film malese che era stato presentato a Venezia, e che lui
aveva prodotto. Era a Stoccolma per l'anteprima e in albergo sviene. Tre
settimane di coma, una ventina di operazioni e dopo due mesi il
trasferimento in Svizzera dove comincia la rieducazione. Nel luglio
dell'anno seguente, il 2005, Rossellini torna a Roma su una sedia a rotelle.
Nel frattempo ha filmato con puntiglio e passione ogni momento della sua
vita dopo quel giorno. Nasce cosi' Kill Gil vol. 1, narrazione toccante e
sconvolgente ma non senza ironia, almeno verso di se', di sofferenza, paura,
angosce, tensioni dove il regista si esponeva senza pudori ma neanche
compiacimenti, spostando il suo vissuto a una dimensione collettiva quale e'
la malattia.
Era per questo un documento violento, ma Gil aveva trasformato il cinema nel
suo campo di battaglia. Lo spazio cioe' per condividere la sua esperienza
senza cedere alla depressione, e alla sconfitta, quasi un esorcismo a quel
male, e un ringraziamento continuo a chi aveva partecipato a questo suo
viaggio. Prezioso il contributo della sorella Isabella, che in Kill Gil 1 e'
stata operatore e anche interprete, ma anche del centro svizzero, di medici,
infermieri, oltre naturalmente lui stesso quasi sempre con la videocamera in
mano.
Kill Gil 2 continua questa ricerca, andando indietro, alla cesura dell'11
settembre, le Torri Gemelle che crollano a New York, e lui, Gil, insieme
alla moglie ci vivono, vivono il panico e la disperazione della citta'.
"Pensavo che sarebbe stata la grande linea di demarcazione della mia vita
invece dopo e' arrivata questa malattia. Il controllo che abbiamo sul nostro
destino e' tutto sommato molto relativo" dice. I funerali si svolgeranno
lunedi' a Roma, alla cappella di San Giuseppe della civilta' cattolica.

4. LUTTI. GIANPASQUALE SANTOMASSIMO RICORDA GIULIANO PROCACCI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 ottobre 2008 col titolo "La passione
civile sui sentieri della storia"]

Allievo di Carlo Morandi, da cui eredito' il gusto della scrittura elegante
e dell'ampiezza di orizzonti, Giuliano Procacci e' stato uno degli storici
italiani piu' aperti alle curiosita' e alle innovazioni. La breve esperienza
di studio in Francia dopo la laurea favori' certo la sua sensibilita' verso
il tema delle permanenze e delle continuita', ma il suo rapporto con la
scuola delle "Annales" fu di tipo "dialettico", come si usava dire nel
linguaggio d'epoca, nutrito di fascinazione e diffidenza, come accadeva a
tutti i giovani storici marxisti del dopoguerra.
Perche' Procacci fu storico senza dubbio "impegnato", se pure con ironia e
distacco sorridente: tra i suoi primi scritti troviamo tanto studi sulla
Francia in eta' moderna, quanto sui dibattiti della socialdemocrazia tedesca
nell'eta' della Seconda Internazionale, ma anche inchieste sugli operai
della Galileo a Firenze. Del resto l'intreccio tra storia e politica, non
privo di innegabili rischi, per questa generazione non rappresento'
accecamento ideologico, ma stimolo a studiare e comprendere la realta' che
si voleva contribuire a mutare.
Gli studi su Machiavelli e il machiavellismo, la fortuna e la leggenda nera
di questo grande pensatore, furono il primo contributo determinante, un
autentico punto fermo storiografico (un interesse che di tanto in tanto si
riaccendeva: "Un Machiavelli per la Delta Force" si intitola uno dei suoi
ultimi scritti, a proposito della versione neocon di Machiavelli proposta al
pubblico americano da Michael Arthur Ledeen). I suoi studi degli anni
Sessanta sul movimento operaio si condensarono alla fine del decennio nel
volume d'insieme La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX,
memorabile per l'equilibrio della trattazione di spontaneita' e
organizzazione (termini fin troppo dibattuti nella polemica del tempo) e per
la delineazione di geografia e struttura del movimento operaio (e
contadino).
Arrivato a questo punto della sua carriera di studioso, muto' completamente
oggetto del suo interesse, inaugurando una serie di studi sull'Unione
Sovietica, che colmavano un vuoto avvertibile e vistoso nella storiografia
comunista. Piu' che i suoi contributi, pure rilevanti, va qui ricordata la
fondazione della prima scuola storiografica italiana che prese ad
approfondire e dibattere in forma scientifica questo tema.
Ormai avviato questo lavoro di scuola, prese ad occuparsi del problema della
pace e della guerra negli anni Trenta, con studi di grande acume critico e
filologico che forse non ebbero il rilievo che avrebbero meritato: la
questione della "pace possibile", dei tentativi dei movimenti internazionali
per arginare la guerra (forse) evitabile, del fallimento doloroso di questi
sforzi.
La sua opera piu' nota e fortunata rimane e probabilmente restera' la Storia
degli italiani, che smentisce il luogo comune della incapacita' degli
storici accademici di farsi leggere e comprendere. Scritta per un pubblico
straniero, muoveva dalla consapevolezza che per gli osservatori esterni
l'Italia e' spesso "il paese di Pulcinella". "Ma Pulcinella - aggiungeva
Procacci - non e', come sappiamo, soltanto un guitto, ma un personaggio, una
'maschera' di grande spessore e verita' umana, che... ha molto vissuto,
molto visto e molto sofferto ... Pulcinella non muore mai, perche' egli sa
che tutto puo' accadere nella storia. Anche che la sua antica fame venga un
giorno saziata". Il libro si apriva con una citazione da La casa in collina
di Cesare Pavese ("Professore, voi amate l'Italia? - No, non l'Italia. Gli
italiani"), e si chiudeva con la descrizione dei funerali di Togliatti,
paragonato a Cavour per lucidita' politica e fermezza, a cui "toccava di
morire in un'Italia gaudente e volgare".
Il libro era datato aprile 1968, la fame antica sarebbe stata ben presto
saziata con voracita' disordinata e bulimica, e l'autore non poteva
immaginare da quale Italia gli sarebbe toccato prendere congedo.
*
Postilla bibliografica. Dalla scoperta delle "Annales" alla Storia degli
italiani, una bibliografia sulle opere di Giuliano Procacci
Tra le opere principali di Giuliano Procacci vanno ricordate, per la storia
moderna, Machiavelli nella cultura europea dell'eta' moderna (Laterza, 1995)
e Niccolo' Machiavelli storico e politico (Istituto Poligrafico dello Stato,
1999). Piu' nutrito il contributo alla storia contemporanea: La lotta di
classe in Italia agli inizi del XX secolo (Editori Riuniti, 1970),
L'aggressione italiana all'Etiopia e il socialismo internazionale (Editori
Riuniti, 1978), Dalla parte dell'Etiopia. L'aggressione italiana all'Etiopia
vista dai movimenti anticolonialisti d'Asia, Africa, America (Feltrinelli,
1984), Premi Nobel della pace e guerre mondiali (Feltrinelli, 1989), Storia
del XX secolo (Bruno Mondadori, 2000), La disfida di Barletta. Tra storia e
romanzo (Bruno Mondadori, 2001), La memoria controversa. Revisionismi,
nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia (AM&D, 2003) e Carta
d'identita'. Revisionismo, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di
storia (Carocci, 2005). E ovviamente la Storia degli italiani, Fayard e
Laterza (1968), piu' volte ristampato. Nel 2006, in occasione dei suoi 80
anni, e' uscito il volume La passione della storia. Scritti in onore di
Giuliano Procacci, a cura di Francesco Benvenuti, Sergio Bertolissi, Roberto
Gualtieri e Silvio Pons (Carocci editore).

5. LUTTI. EMANUELE TREVI RICORDA DAVID FOSTER WALLACE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 settembre 2008 col titolo "L'addio a
David Foster Wallace" e il sottotitolo "Le sue note aprivano altri mondi"]

La statura del grande scrittore, a differenza di tanti suoi coetanei
bisognosi di piu' lenti apprendistati, David Foster Wallace l'aveva gia'
rivelata nel suo libro d'esordio, La scopa del sistema, pubblicato a
venticinque anni. Era il 1987 e l'autore, ex promessa del tennis americano,
era appena uscito dall'Amherst College, la testa piena di Derrida e di
Foucault. Manco fosse un vecchio consumato a tutti gli esperimenti, aveva
gia' sviluppato a un grado mirabile sia le risorse che derivano da uno stato
di incanto, sia quelle che provengono dal disincanto. Nell'esistenza
concreta, tenere in vita questo tipo di contraddizioni e' a dir poco
rischioso. Manierista di razza, David Foster Wallace ha sempre concepito
l'immaginazione come il banco di prova di logiche ulteriori: piu' vere del
vero, e piu' finte del finto.
Qualcosa di simile doveva trovarlo sugli impervi altipiani della teoria
matematica, addentrandosi per esempio in quel concetto di infinito che lo
affascinava tanto da dedicarci un libro intero, illeggibile per i profani.
Infinite Jest, poi, e' anche il titolo del suo capolavoro, uscito nel 1996:
piu' di mille pagine, senza contare - labirinto nel labirinto - le altre
centocinquanta di note, stampate in corpo minutissimo. Ambientato in un
futuro abbastanza prossimo, il romanzo-fiume procede con l'accuratezza della
miniatura, del poeme en prose. A parte le note, che spesso contengono pezzi
di meravigliosa fattura, il saggismo prende spesso e volentieri il
sopravvento, complice la volonta' di tentare l'affresco, la sintesi
significativa del mondo, vent'anni quasi esatti dopo L'arcobaleno della
gravita' di Pynchon. Ma come si vedra' anche meglio in molti racconti
successivi (gli otto di Oblio escono nel 2004), il saggismo di David Foster
Wallace non rappresenta una terraferma, un'isola nella corrente della
visione. Come tanti scrittori prima di lui, anche l'autore di Infinite Jest
ha voluto suggerire, con l'evidenza stessa della mole, un'enciclopedia. Ma
un'enciclopedia davvero contemporanea, qui sta la novita', non puo' che
essere un'enciclopedia senza un punto di vista. Anche il ragionamento piu'
futile potra' produrre sublimi architetture di sillogismi, inaspettate
simmetrie, colpi di scena rivelatori. E' celebre una delle prime scene del
romanzo, nella quale condividiamo, quasi in tempo reale, l'intera ridda dei
pensieri, un vero inferno di ipotesi e di contro-ipotesi, di qualcuno che
aspetta chiuso in casa l'arrivo di una ragazza che ha promesso di vendergli
un certo quantitativo di marijuana. Il realismo grottesco, che e' una delle
grandi risorse di David Foster Wallace, nasce da una precisa e feconda
intuizione: nel nostro mondo non c'e' cosa cosi' sciocca, futile, opinabile
da non generare in alcuni un estremismo, una dedizione esagerata, una specie
di mistica. E' qui che lo scrittore attende al varco la sua umanita', quando
un'acre venatura satirica prende il sopravvento nella sua ispirazione.
David Foster Wallace era un intellettuale coltissimo, una mente prodigiosa
dove sedimentavano una enorme quantita' di lessici, informazioni, citazioni.
Ma non gli sfuggivano le supreme risorse dell'oralita': modi di dire,
accenti locali, livelli sociali e indizi di gravi nevrosi... Si puo' leggere
anche in italiano una lunghissima e appassionante recensione scritta nel
1999 in occasione dell'uscita del Dictionary of Modern American Usage di
Bryan Garner (si trova nel volume di saggi titolato Considera l'aragosta,
Einaudi 2006). Non e' certo un caso se il 1999 e' anche l'anno delle
magnifiche Brevi interviste con uomini schifosi, che in questa direzione
dell'analisi linguistica e' il libro piu' riuscito e memorabile tra quelli
scritti da David Foster Wallace. Alla vocazione enciclopedica di Infinite
Jest, senza rinnegarla, si impone un ritmo diverso, un montaggio rapidissimo
e imprevedibile di stili e registri, un caleidoscopio di prospettive. Si
contano davvero sulla punta delle dita libri contemporanei cosi' liberi e
arditi nell'invenzione della struttura, nelle variazioni di tono che rendono
ogni singolo brano un'avventura stilistica a se'. La disarticolazione come
forma suprema e paradossale dell'unita' di un libro: era la strada aperta
dal vecchio Capote, da Musica per camaleonti alle Preghiere esaudite, e solo
un talento supremo come quello di Foster Wallace e' stato capace di
proseguirla.
Girata la boa del nuovo secolo, sono arrivati i racconti di Oblio (alcuni
dei quali della lunghezza di un romanzo breve) a confermare i risultati
raggiunti e insieme a sperimentare nuove strade. Ma quando abbiamo letto
quei libri, avevamo la certezza di ammirare qualcuno con una lunga strada
davanti a se'. Ora e' inevitabile, oltre che molto triste, conferire la
solennita' di una "tappa" ai vari stadi di un avvenire che fino a ieri ci
appariva del tutto aperto, ricco di sorprese, venato di una follia che
poteva sembrare allegra. E in quello che ci era sembrato un passaggio, o una
premessa, siamo adesso costretti a riconoscere un bordo estremo, un
testamento. Con sempre maggiore tenacia David Foster Wallace, nei racconti
degli ultimi anni, aveva sviluppato una prodigiosa tecnica descrittiva,
cesellando dettaglio su dettaglio con precisione fotografica, ai limiti del
maniacale. Era in cerca di quel particolare grado di nitore che
inevitabilmente finisce per suggerire l'allucinazione. Ma quanto piu' la
pagina e' gremita, senza distinzione tra spazi esterni e meandri della
mente, tanto piu' in Wallace si incrina la stabilita' minima richiesta a un
punto di vista - per schifoso che sia. E certo, ogni racconto e' infiltrato
di menzogna, pensiamo di ascoltare un racconto e invece stiamo ascoltando
una menzogna. Ma l'ultima, residua speranza di David Foster Wallace sembra
essere stata riposta nell'involontario eccesso di ricchezza della visione,
nel dettaglio periferico che appare trascurabile e in realta' e' l'inizio di
un altro mondo, il lampo della possibilita' nella prigione della necessita'.
Ed e' scontato che, rileggendo la sua opera, in qualcuno di quei dettagli
riconosceremo l'indizio, l'annuncio - crittato ma evidente - del destino di
chi l'ha scritta.

6. LUTTI. BO YANG
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 30 aprile 2008, col titolo "Addii. Se ne
va lo scrittore cinese Bo Yang"]

Solo da poco i lettori italiani si erano accostati all'opera del cinese Bo
Yang, morto ieri a Taipei a ottantotto anni: nel 2007 infatti la casa
editrice Pisani ha tradotto il suo libro Brutti cinesi, satira affettuosa e
pungente dei difetti dei suoi connazionali. Nato in Cina, nello Henan, nel
1920, e trasferitosi a Taiwan nel 1949, Bo Yang ha criticato aspramente il
regime nazionalista dell'isola e per questo e' stato imprigionato sette
anni. Liberato, si e' battuto per la tutela dei diritti umani a Taiwan dove
ha fondato la sezione di Amnesty International.

7. LUTTI. LEOPOLDO ELIA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 ottobre 2008, col titolo "Lutti.
Leopoldo Elia, da Moro ai referendum"]

Leopoldo Elia e' morto ieri a Roma sulla soglia degli 83 anni. Era stato
presidente della Corte costituzionale dal 1981 al 1985. Professore alla
Sapienza, era stato anche senatore democristiano e poi del Partito popolare,
presidente della commissione affari costituzionali e nel 1993, con il
governo Ciampi, ministro delle riforme istituzionali. Molti i messaggi di
cordoglio. Per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che gli era
amico e' stato un "uomo di straordinaria probita' e mitezza, un maestro del
costituzionalismo italiano per cultura, esperienza vissuta nelle
istituzioni, capacita' di dialogo e fermezza di convinzioni". E davvero
mitezza e fermezza sono stati i caratteri fondamentali dell'impegno politico
di Elia, che da giurista cattolico era stato consigliere molto vicino ad
Aldo Moro. Dopo gli anni della Consulta, l'elezione in parlamento e il
tramonto della Dc, aveva aderito all'Ulivo e si era dedicato alla difesa dei
principi della Costituzione sia nel dibattito parlamentare che in tante
iniziative pubbliche. All'opposizione del "patto della crostata" ai tempi
della bicamerale D'Alema, aveva continuato a respingere le ipotesi di
stravolgimento della Carta fino all'impegno nel comitato per il referendum
che nel giugno 2006 cancello' la riforma voluta dal centrodestra.

8. LUTTI. GEORGE M. FREDRICKSON
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 marzo 2008 col titolo "E' morto lo
storico George M. Fredrickson]

Lo storico statunitense del razzismo George Marsh Fredrickson e' morto nella
sua casa nel campus della Stanford University. Docente di storia degli Stati
Uniti all'Universita' di Stanford e condirettore dell'Istituto di ricerca
per gli studi comparativi sulla razza e l'etnicita', Fredrickson era noto,
in particolare, nel mondo accademico internazionale per il libro Breve
storia del razzismo, pubblicato nel 2002 (in italiano e' apparso
dall'editore Donzelli), in cui ha sintetizzato quarant'anni di studi sulla
diffusione del pensiero razzista. E' autore di altri cinque lavori sulla
storia delle ideologie razziali: The Black Image in the White Mind, White
Supremacy, The Arrogance of Race, Black Liberation e The Comparative
Imagination. Il libro piu' noto di Fredrickson e' stato pero' La supremazia
bianca (1981). Il saggio proponeva uno studio comparativo sullo sviluppo
dell'apartheid in Sudafrica e il sistema segragazionista in America. Nella
sua Breve storia del razzismo, Fredrickson ripercorre la storia del razzismo
in Occidente dalle sue origini nel tardo medioevo sino ai giorni nostri.
Prendendo le mosse dall'antisemitismo medievale, lo storico statunitense
ricostruisce la diffusione del pensiero razzista sulla scia
dell'espansionismo europeo e dell'inizio della tratta degli schiavi in
Africa, fino a mostrare come l'Illuminismo e il nazionalismo ottocentesco
abbiano creato un nuovo contesto intellettuale per il dibattito sulla
schiavitu' e l'emancipazione degli ebrei.

9. LUTTI. ISABEL MENZIES
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 febbraio 2008, col titolo "Addio a
Isabel Menzies"]

La psicoanalista inglese Isabel Menzies, pionieristica studiosa delle
conseguenze psicologiche della sofferenza nei bambini, e' morta a Oxford a
novantun anni. Esponente di rilievo della Societa' psicoanalitica britannica
e dal '45 al '76 ricercatrice del Tavistock Institute of Human Relations di
Londra, Menzies ha concentrato i suoi studi soprattutto sulla terapia dei
bambini ricoverati in ospedale. E appunto I bambini in ospedale (edito in
Italia da Liguori) si intitola il suo testo piu' noto, nel quale la studiosa
ha messo in rilievo come non solo il bambino, ma la stessa istituzione si
ammala sotto la pressione dello stress connesso con la sofferenza.

10. LUTTI. TAD MOSEL
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 29 agosto 2008 col titolo "Addio a Tad
Mosel, romanziere e innovatore del teatro televisivo"]

Lo scrittore statunitense Tad Mosel, vincitore del Premio Pulitzer per la
sceneggiatura del dramma teatrale All the Way Home, e' scomparso nei giorni
scorsi a Concord, nel New Hampshire. Era nato a Steubenville, Ohio, il primo
maggio del '22 e fin dagli esordi si affermo' come uno fra gli autori
drammatici di maggior talento della sua generazione. La consacrazione
arrivo' nel 1961, con il conferimento del Pulitzer. Autore per il cinema e
la televisione, romanziere, Mosel divenne famoso per le sceneggiature di Tre
donne per uno scapolo (1964), interpretato da Glenn Ford, e Su per la
discesa (1967). Mosel fu tra i pionieri del teatro in televisione, come
testimonia uno dei suoi lavori piu' noti: La festa campestre, pubblicato da
Einaudi nel 1966. Tra gli altri suoi libri, la biografia Leading Lady
dedicata all'attrice Katharine Cornell.

11. LUTTI. HORATIU RADULESCU
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 settembre 2008 col titolo "Radulescu
cosi' 'spettrale'"]

Uno degli autori piu' originali, appartati, exlege della musica
contemporanea e' venuto a mancare due giorni fa. A sessantasei anni, Horatiu
Radulescu, rumeno naturalizzato francese nel 1974 ma cosmopolita, ha
lasciato non solo un repertorio di notevole incisivita', ma anche un solido
sistema di composizione che aveva iniziato a sperimentare negli anni '60. Un
sistema che, rifiutando la divisione dell'ottava in parti uguali, era
fondato sullo spectrum, ovvero su "scordature spettrali", scale armoniche di
intervalli diseguali. Radulescu e' stato l'autore piu' radicale della musica
spettrale francese, di cui sono stati rappresentanti anche Gerard Grisey e
Tristan Murail; non ha mai abbandonato questo metodo compositivo cui si
devono opere in cui il rapporto tra micro e macroforma e l'assoluta
interdipendenza tra altezze e tempo danno risultati di straordinaria potenza
e di rara suggestione. Amava la materia sonora nei suoi costituenti primi e
il continuum musicale come effetto di una complessita' che, nelle sue
parole, appariva sempre semplicissima. E comunicativa, come le sue splendide
partiture manoscritte, belle come opere d'arte. Nella sua musica si
coniugano una materialita' organica, diremmo, e una spiritualita' ideale. A
Radulescu si devono alcune tra le piu' importanti sonate per pianoforte
degli ultimi decenni, ad un tempo energiche e intime, attraversate da toni
drammatici e fiabeschi; opere per ensemble come il plasma sonoro di Iubiri
(1980/81), "Amori" in rumeno; Byzantine Prayer (1988), dedicato a Giacinto
Scelsi, per quaranta flautisti in gruppi concentrici; Inner Time II (1993),
omaggio a Calder per sette clarinetti, un rituale di vibrazioni sonore,
quasi un raga; The Quest (1996), per pianoforte e grande orchestra, una
vasta, luminosa e policroma "vetrata spettrale".

12. LUTTI. HUMBERTO SOLAS
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 settembre 2008 col titolo "Scompare il
regista cubano Humberto Solas"]

E' morto all'Avana il regista cubano Humberto Solas, all'eta' di 66 anni. A
quattordici anni aveva preso parte all'insurrezione contro Batista e non
pote' continuare gli studi di architettura. Realizzo' il suo primo film
sperimentale nel 1959, l'anno della rivoluzione, a 17 anni, ed entro' alla
scuola di cinema, l'Icaic, e nella redazione di "Cine cubano". Il suo
esordio, La Huida, lo fa con la supervisione di Joris Ivens, quindi realizza
documentari, cortometraggi, attualita' latinoamericane e parti
dell'Enciclopedia popolare. Dopo aver realizzato film sperimentali tra cui
Casablanca, realizzato con Octavio Cortazar, e Manuela, realizza quello che
e' considerato il suo capolavoro, Lucia, incontro di tre diverse epoche, uno
stile che riprende in altri due film con la tecnica dei tableaux vivants:
Simparele, e Cantata de Chile ('75), messa in scena della storia e della
mitologia del Cile con una forte presenza coreografica ad affermare la lotta
popolare. Tra gli ultimi film Miele par Ochun e Barrio Cuba (2005). Solas ha
fondato il "Festival del Cine pobre" che dal 2003 si tiene a Gibara, su un
golfo della costa nordatlantica, riservato ai film a basso costo,
"indipendenti e libertari".

13. LUTTI. RICHARD WRIGHT
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 settembre 2008 col titolo "I Pink
Floyd senza Wright"]

Richard Wright, tastierista dei Pink Floyd gia' al momento della creazione
del leggendario gruppo rock a meta' degli anni Sessanta a Cambridge, e'
morto ieri all'eta' di 65 anni a causa di un tumore. Il musicista ha avuto
un ruolo importante - sotto il profilo creativo ed esecutivo - in una serie
di grandi album della band, come The dark side on the moon e Wish you were
here. Per il primo disco, fu l'autore di alcune canzoni come The great gig
in the sky e Us and them (1973). Wright ha continuato a far parte dei Pink
Floyd in tutte le loro varie incarnazioni, anche dopo l'uscita di Roger
Waters nel 1985. Ha dato anche un contributo importante alla nascita
dell'ultimo grande album dei Pink Floyd, The division bell. Il musicista
aveva incontrato gli altri membri fondatori del gruppo, Roger Waters, Nick
Mason e Syd Barrett, che usci' dopo circa due anni, al college dove erano
tutti studenti. Fondarono prima un altro gruppo che si chiamava Sigma 6,
successivamente diventato Pink Floyd. Lascio' la band agli inizi degli anni
'80 per dedicarsi all'attivita' di solista, per poi rientrare nel gruppo nel
1987 per partecipare al nuovo cd, A momentary lapse of reason.

14. LUTTI. HECTOR ZAZOU
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 10 settembre 2008 col titolo "Morto a 60
anni Hector Zazou"]

Noto per le sue sperimentazioni fra musica colta ed elettronica, e' morto a
60 anni dopo una breve malattia il compositore francese Hector Zazou. Una
carriera contraddistinta da collaborazioni importanti, fra cui quelle con
Bjork e i Japan di David Sylvian, e con un album appena terminato dal titolo
In the house of mirrors, che verra' pubblicato postumo nelle prossime
settimane. Nato in Algeria da padre francese e madre spagnola, Zazou ha
cavalcato negli anni stili e tendenze; rock negli anni '60 insieme alla band
dei Barricades e poi l'elettronica nei '70 nel duo Znr, al fianco di Joseph
Racaille, le contaminazioni africane negli anni '80. Dai '90 in poi Zazou
realizza una serie di album a suo nome, quasi tutti concept. Lo splendido
Les nouvelles polyphonies corses ('92), con la partecipazione di Ryuichi
Sakamoto, Manu Dibango, John Cale e Jon Hassell, e il successivo Sahara blue
('92) a cui presero parte Cheb Khaled, David Sylvian, Bill Laswell, Dead Can
Dance e l'attore Gerard Depardieu. In Chansons des mers froid ('95) le voci
di Bjork, Suzanne Vega, Siouxsie, Jane Siberry e Varttina. Piu' di recente
Zazou ha collaborato con la vocalist americana Sandy Dillon, e prestato il
suo talento ai lavori del galiziano Nunez, la cantante tibetana Yungchen
Lamo, la uzbeka Sevara Nazarkhan e i PgrR di Giovanni Lindo Ferretti e
Ginevra de Marco (2002). A Zazou si devono anche colonne sonore per film ed
esibizioni multimediali.

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 245 del 17 ottobre 2008

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