Minime. 609



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 609 del 15 ottobre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Gli assassini e i loro complici
2. Enrico Piovesana: Gli americani ammettono di non poter vincere la guerra
in Afghanistan
3. Enrico Piovesana: Gli Usa intensificano la guerra in Pakistan
4. Le due maschere
5. Dario Mencagli: Dal metodo che ha fallito al dono della pace
6. Angela Dogliotti Marasso: Le nuove frontiere dell'educazione alla pace
7. Mariano Croce intervista Seyla Benhabib
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. GLI ASSASSINI E I LORO COMPLICI

"Non possono piu' chiedere pieta' gli assassinati
e muto e' d'essi il coro.
Furenti la pretendono invece gli assassini
mentre continuano ghignanti l'opra loro.
Chi gli assassini serve le lor vittime ancide
e nulla giova poi tardivo ploro"
(Persio Malestri)

La guerra terrorista e stragista in Afghanistan prosegue.
La guerra terrorista e stragista, imperialista e razzista, mafiosa e
totalitaria.
La guerra cui l'Italia partecipa in scellerata, infame, flagrante violazione
del diritto internazionale e della legalita' costituzionale.
La guerra che e' il crimine supremo.
La guerra che e' il terrorismo dei terrorismi.
La guerra in Afghanistan prosegue.
*
Sappiamo i nomi degli assassini, e dei loro complici.
Tra essi assassini vi sono i dirigenti e i parlamentari di tutti i partiti
politici italiani che in questi anni la partecipazione alla guerra hanno
deliberato nei consigli dei ministri e in parlamento.
E tra i loro complici vi sono quei sedicenti "pacifisti" - e peggio: anche
quei sedicenti "nonviolenti" - che si sono prostituiti al servizio della
propaganda di guerra, al servizio della violazione della legalita'
costituzionale, al servizio delle stragi.
Che tra costoro ve ne siano alcuni che senza vergogna pronunciano i nomi di
Mohandas Gandhi e di Rosa Luxemburg dimenticando che per opporsi alle stragi
l'una e l'altro preferirono subire aggressioni e carcere e persecuzioni fino
ad essere uccisi, la dice lunga su questo momento tragico e assurdo
dell'umanita', e di quanto abissale possa arrivare ad essere la menzogna e
la tracotanza una volta asservitisi alla corruzione onnicida.
*
Cessi la partecipazione italiana alla guerra.
Torni l'Italia al rispetto della sua legge fondamentale.
S'impegni l'Italia contro la guerra.
*
E abbandonino per sempre la rappresentanza politica e la pubblica
amministrazione gli assassini.
E tacciano per sempre i loro complici, le cui parole suonano ingiuria alle
vittime delle stragi: o abbiano la capacita' di pronunciare finalmente una
parola di pentimento. Che non resuscita i morti, non muta la realta', ma
almeno varrebbe come dichiarata dismissione della disumana protervia di cui
si son resi preda e strumento.

2. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: GLI AMERICANI AMMETTONO DI NON POTER
VINCERE LA GUERRA IN AFGHANISTAN
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
articolo del 13 ottobre 2008 col titolo "Trattiamo con i talebani" e il
sommario "Afghanistan, gli Usa cercano il negoziato".
Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la
zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in
qualita' di inviato]

Stiamo perdendo la guerra in Afghanistan: dobbiamo trattare con i talebani.
E' questo, in sintesi, l'allarme lanciato nei giorni scorsi dai comandanti
delle truppe anglo-americane in Afghanistan. Anche a Washington i politici
iniziano a parlare di "riconciliazione" con i talebani.
*
Una guerra che non si puo' vincere
Il primo a far sentire la sua voce era stato, una settimana fa, il generale
Mark Carleton-Smith, comandante del corpo di spedizione britannico nel sud
dell'Afghanistan. "Non ce la faremo a vincere questa guerra: l'insurrezione
potra' concludersi solo sedendoci a un tavolo con i talebani e trovando con
loro un accordo politico".
"Le cose in Afghanistan non stanno andando nella giusta direzione e
continueranno a peggiorare", ha avvertito il capo di Stato Maggiore delle
forze armate Usa, ammiraglio Mike Mullen.
*
Bisogna trattare con il nemico
Pochi giorni dopo, il comandante delle forze Usa in Afghanistan, generale
David McKiernan, ha dichiarato di non credere nemmeno lui a una "soluzione
militare" di questo conflitto, auspicando invece una "soluzione politica".
Lo stesso generale David Petraeus, che dal primo novembre guidera' la
strategia militare Usa in Afghanistan come capo del Centcom, concorda sulla
necessita' di trattare con il nemico "come abbiamo fatto in Iraq".
Giovedi' scorso, perfino il ministro della Difesa Usa, Robert Gates, ha
dichiarato che "gli Stati Uniti sono pronti alla riconciliazione con i
talebani".
*
Ma i talebani non hanno interesse a trattare
Seppur con toni e sfumature diverse, e' evidente che gli Stati Uniti e i
loro alleati si sono resi conto che in Afghanistan rischiano di fare la
stessa brutta fine dei russi negli anni Ottanta, e che quindi gli conviene
scendere a patti con il nemico.
Peccato che i talebani, ben consapevoli della loro posizione di forza, non
abbiano nessun interesse a trattare.

3. PAKISTAN. ENRICO PIOVESANA: GLI USA INTENSIFICANO LA GUERRA IN PAKISTAN
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
articolo del 13 ottobre 2008 col titolo "Pakistan, un'escalation per McCain"
e il sommario "Forze Usa sempre piu' attive nelle Aree tribali"]

Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si avvicinano, e
l'amministrazione repubblicana uscente e' decisa a ottenere qualche
clamoroso risultato nella "Guerra al Terrorismo" da poter spendere nella
campagna elettorale di McCain come asso nella manica dell'ultimo minuto. Nel
mirino del Pentagono c'e' l'obiettivo mediatico per eccellenza: Al-Qaeda.
Non potendo puntare su Osama Bin Laden (oramai da tutti dato per morto) la
scelta cade necessariamente sul numero due dell'organizzazione, il medico
egiziano Ayman Al-Zahahiri, che se ne sta nascosto da anni sulle montagne
delle Aree tribali pachistane (Fata), al confine con l'Afghanistan.
*
Un intervento sempre piu' diretto
L'urgenza di ottenere questo obiettivo politico spiegherebbe, secondo i
principali giornali pachistani, l'escalation dell'intervento militare
statunitense in Pakistan delle ultime settimane.
Un intervento sempre piu' diretto e sempre meno delegato alle forze armate
di Islamabad, poco affidabili in quanto costrette con il ricatto a
combattere in casa propria una guerra di cui farebbero volentieri a meno. La
settimana scorsa il ministro della Difesa pachistano Kamran Rasool ha
pubblicamente ammesso che il Pakistan non ha altra scelta se non eseguire
gli ordini di Washington, perche' altrimenti il Paese (da mesi in preda a
una gravissima crisi economica - ndr) collasserebbe nel giro di tre giorni
senza il sostegno finanziario statunitense.
*
Prossimo obiettivo: Nord Waziristan
Dopo due mesi di guerra, costati migliaia di morti e mezzo milione di
profughi, l'esercito pachistano non e' ancora riuscito a riprendere il
controllo dell'area tribale di Bajaur. Ciononostante, secondo la stampa
locale, i generali pachistani hanno ricevuto l'ordine di preparare una nuova
offensiva in Nord Waziristan, dove secondo la Cia sono rifugiati Al-Zawahiri
e compagni.
Ma questa volta, vista la necessita' di ottenere risultati rapidi, gli Stati
Uniti non lasceranno fare ai pachistani e scenderanno direttamente in campo.
Non solo intensificando i raid missilistici dei droni "Predator" contro i
presunti covi di Al-Qaeda (gia' diventati di frequenza quasi quotidiana), ma
anche agendo direttamente sul terreno dalle nuove basi operative Usa
allestite in zona.
*
Usa basati tra Tarbela e Hasanpur
A fine settembre, trecento militari delle forze speciali Usa sono arrivati
nel quartier generale della Special Operation Task Force pachistana sul lago
di Tarbela, una ventina di chilometri a nord di Islamabad. Ufficialmente si
tratta di consiglieri militari con compiti di addestramento. Come centro
operativo delle attivita' delle forze Usa in Pakistan sarebbe stato scelto
il vicino aeroporto di Hasanpur, poco piu' a valle, che nelle scorse
settimane e' stato sottoposto a lavori di ingrandimento, con miglioramenti
alla pista e costruzione di nuovi hangar, bunker ed edifici. Tutto farebbe
pensare a qualcosa di piu' di un semplice centro di addestramento.

4. LE ULTIME COSE. LE DUE MASCHERE

Un giorno col volto costernato dalla televisione annunciano il ferimento di
uno dei nostri: ed allora la guerra e' esecrabile necessita', dolore che il
cuore dei forti virile sostiene, l'inevitabile male che colpisce tutti noi
peccatori.
Il giorno dopo dalla televisione annunciano giubilanti l'uccisione di cento
dei loro: ed allora la guerra e' grande gioco, banchetto degli eroi,
indiscutibile ordalia.
Ed e' sempre la stessa guerra, nemica dell'umanita'. E' sempre la stessa
guerra, fatta di uccisioni e uccisioni e uccisioni di esseri umani.
E chi l'ha voluta e la fa continuare e' un assassino.

5. OGNI GIORNO LA NONVIOLENZA. DARIO MENCAGLI: DAL METODO CHE HA FALLITO AL
DONO DELLA PACE
[Ringraziamo Dario Mencagli (per contatti: dario.mencagli at gmail.com) per
questo intervento per la Giornata internazionale della nonviolenza]

Quando ci sono problemi difficili da risolvere, tra singole persone, tra
gruppi di persone, tra stati, spesso si sente dire: "Bisogna essere
realisti: altro che chiacchiere". In cosa consiste questo realismo? Nel
cominciare a menare: cazzotti, schiaffi, mazzate, coltellate, pistolettate,
fucilate, cannonate, bombe di tutti i tipi... solo l'imbarazzo della scelta.
Da quanto tempo si usa questo sistema, che, secondo i "realisti", dovrebbe
essere il migliore per risolvere i problemi? Da migliaia di anni. Forse,
dopo migliaia di anni di esperienza, varrebbe la pena di chiedersi: Ma,
questo metodo, funziona? Risolve i problemi sul serio, oppure li accantona,
li nasconde, li rinvia a piU' tardi?
Le nostre esperienze, vissute negli ultimi 60 anni, quindi non soltanto per
sentito raccontare, ci dicono che di soluzioni definitive, i metodi
violenti, ne hanno portate poche. E questo senza calcolare i costi umani,
enormi, pagati soprattutto da chi, in queste faccende, contava poco, o
niente addirittura.
Mi sono chiesto varie volte, e l'ho chiesto anche ai sostenitori dei metodi
violenti: Visto che questo sistema non funziona bene da migliaia di anni,
non varrebbe la pena tentare di usare un metodo diverso, magari un metodo
nonviolento?
Una volta, quando andavano con clava in spalla e pelle di leopardo addosso,
gli esseri umani usavano (forse) risolvere le controversie a mazzate. Poi
con i villaggi sono arrivati i consigli degli anziani. Poi con le citta'
sono arrivati i tribunali. Poi, con gli stati unitari sono arrivati i
giudici nazionali. Tutti vietavano di farsi giustizia da se'. Chi ha letto I
tre moschettieri (o visto il film), ricorda che le guardie del cardinale,
spesso, correvano dietro ai tre moschettieri che continuavano a fare duelli
(giustizia privata) dietro il convento delle Carmelitane!
Sembra che, invece di cambiare metodo, molte persone siano convinte che la
soluzione verra' perfezionando gli armamenti e aumentando la quantita' di
armi. Dopo la caduta del muro di Berlino in molti hanno (abbiamo) pensato
che ormai le armi potevano essere riconvertite in cose utili a costruire, e
non a distruggere, e che la vita poteva essere vissuta in pace, per tutti i
popoli. Eppure, invece di diminuire, le spese militari aumentano.
Il tentativo di arrivare ad un tribunale internazionale, che eviti la
violenza tra stati, ha fatto molta strada. Ma si e' bloccata qualche anno
fa. Quando questo tribunale prendera' il posto delle armi di distruzione,
sara' un gradino in piu' nel progredire della storia umana. Come lo sono
stati gli altri passaggi: dalla clava, dai duelli, dagli scontri di gruppi,
in una parola, dalla giustizia privata a quella pubblica.
Per i credenti, inoltre, sara' anche segno dellíavvicinarsi della profezia
biblica: "Trasformeranno le spade in falci e le lance in aratri". E del
realizzarsi del dono di Gesu' Cristo, che viene ricordato in ogni
celebrazione della Messa: "Vi lascio la pace, vi do' la mia pace", "La Messa
e' finita: andate in pace".

6. OGNI GIORNO LA NONVIOLENZA. ANGELA DOGLIOTTI MARASSO: LE NUOVE FRONTIERE
DELL'EDUCAZIONE ALLA PACE
[Ringraziamo Angela Dogliotti Marasso (per contatti: maradoglio at libero.it)
per averci messo a disposizione la sua relazione sul tema "Le nuove
frontiere dell'educazione alla pace" tenuta al quarto convegno
internazionale "Se vuoi la pace educa alla pace" svoltosi a Reggio Emilia il
22-25 maggio 2008]

L'educazione alla pace, fin dalla sua origine, si e' sempre caratterizzata
per alcune specificita', connesse con le particolari finalita' di un'azione
formativa di questo tipo.
"Pace" e', infatti, un concetto complesso e anche controverso; se poi per
"pace" si intende non solo l'assenza di guerra (pace negativa), ma la pace
positiva, la nonviolenza come orizzonte personale e politico, etico e
pragmatico, ancor piu' evidenti diventano gli elementi caratterizzanti: il
rapporto di interconnessione tra livelli micro e macro; il carattere di
inter-trans-disciplinarita'; lo stretto collegamento tra
ricerca-educazione-azione; la necessaria omogeneita' tra contenuti e
metodologie.
Ma ogni stagione ha anche il suo specifico contesto. Se negli anni Sessanta
e Settanta del secolo scorso erano comunque in primo piano, da un lato,
l'aspetto contenutistico che ha portato a sviluppare i diversi ambiti del
"cono della pace" (l'educazione al disarmo; ai diritti umani, alla
giustizia, alla differenza, alla sostenibilita'...) e dall'altro il richiamo
alla qualita' della relazione, oggi mi pare che le trasformazioni avvenute a
livello globale nel mondo contemporaneo, in questi decenni di passaggio tra
un secolo e l'altro, aprano nuovi orizzonti e nuove frontiere all'educazione
alla pace. Due mi paiono le sfide piu' significative per l'oggi: la prima e'
quella di sviluppare piena consapevolezza del contesto in cui ci muoviamo,
caratterizzato da problemi complessi e situazioni drammatiche, che mettono a
rischio la sopravvivenza di intere popolazioni se non dell'intera specie
umana; la seconda, a questa collegata, e' di come riuscire ad agire in modo
efficace su piu' livelli, da quello profondo, interiore, a quello macro,
globale, per produrre effettivo cambiamento.
*
1. Una cultura di pace trova oggi il suo primo fondamento nella ineludibile
necessita' di passare "dal modello del dominio a quello della partnership"
(Riane Eisler, 2004) (1).
Nonostante questa espressione appaia quasi ovvia e scontata, nulla e' piu'
lontano da una simile prospettiva nella realta' contemporanea, sia a livello
culturale che strutturale, sia  nelle relazioni interpersonali che nei
processi macroeconomici e sociali.
Il paradigma conflittuale fondato sul gioco a somma zero, sul vincere o
perdere (possibilmente vincere a tutti i costi...) e' tuttora quello
dominante nella cultura profonda e, se possibile, sembra coinvolgere
dimensioni e ambiti via via piu' vasti, in primo luogo quello del rapporto
con i sistemi naturali, nei confronti dei quali l'azione umana si pone in
una relazione di sfruttamento e di dominio sempre piu' intensi.
Tra le diverse visioni del mondo presenti, gli atteggiamenti e i
comportamenti prevalenti sembrano essere ancora quelli che denotano una
volonta' di controllo e di dominio, nonostante la palpabile incertezza che
connota le nostre "societa' del rischio" (o forse proprio per questo), con
tutte le nefaste conseguenze del caso.
Si crea cosi' una situazione sempre piu' insostenibile e gravida di
conflitti a tutti i livelli.
Diventa percio' necessario mettere a fuoco gli elementi strutturali che
portano a questa situazione, ampliando lo sguardo a livello temporale e
spaziale. Cio' fa emergere nodi e  vincoli.
Il nodo fondamentale della mancanza di equita' nella distribuzione delle
ricchezze, che mette in pericolo la sopravvivenza a livello globale,
perche', in un contesto di finitezza del pianeta, e in assenza di limiti
allo "sviluppo", scatena la concorrenza sulle risorse, come le guerre del
nuovo secolo mettono in evidenza.
Educare alla pace e alla nonviolenza mi pare, allora, che in primo luogo
oggi significhi rovesciare questo paradigma: prendere coscienza della
costitutiva fragilita' degli esseri umani, della loro interdipendenza gli
uni dagli altri e della dipendenza di tutti dalla natura che ci accoglie e
ci sostiene (2). Solo cosi' potrebbe nascere una nuova etica della cura e
della partnership che renda sostenibile (sustinere, "tenere da sotto",
mantenere, avere cura di...), ora e nel futuro, la presenza delle comunita'
umane sulla Terra, capaci di con-vivere con se stesse, con gli altri esseri
e con l'ambiente naturale.
La nonviolenza e' la cultura del futuro proprio perche' e' fondata su questo
paradigma e fa della debolezza una forza e del limite un criterio. La
nonviolenza e' infatti la forza del debole, che sa di non dover cercare la
"vittoria" sull'altro, perche' ogni "vittoria" e' l'inizio di una nuova
guerra. Che accoglie il conflitto come una risorsa a patto di saperlo
nutrire di ascolto, empatia, assertivita', comunicazione nonviolenta,
perche' solo in questo modo si realizza pienamente e fino in fondo
l'umanita' di ciascuno e si entra in relazione con l'umanita' profonda
dell'altro, anche quando si e' in conflitto con lui. Che sceglie la
semplicita' volontaria perche' e' consapevole che il ben-essere di ciascuno
non puo' che essere in relazione con il ben-essere di tutti. Che accoglie il
limite come elemento costitutivo dell'esperienza umana e come condizione per
una vita sostenibile per tutti.
*
2. Per acquisire la consapevolezza necessaria in questo contesto e agire in
modo efficace e' essenziale sviluppare la dimensione interiore
dell'educazione alla pace, trovare le strade che connettono al proprio Se'
piu' profondo, incontrare l'essenza della comune umanita' e condividerla.
Certamente e' importante sviluppare tutte le competenze relazionali
necessarie, offrire tutti gli elementi che a livello cognitivo possono
portare a nuove consapevolezze e produrre cambiamento.
Ma sappiamo che il solo livello cognitivo non e' sufficiente. Nelle
situazioni in cui si sviluppano paure e atteggiamenti discriminatori, la'
dove ci sono forti disparita' e ingiustizie che originano sofferenza e
alimentano rancore, in tutte le situazioni di conflitto e' indispensabile
confrontarsi con le basi emotive profonde che irrigidiscono le posizioni e
ostacolano le trasformazioni, ma che possono invece essere anche una risorsa
per connettersi con le energie che ci possono riportare all'unita' nel
rispetto delle diversita', all'armonia come risultato della pluralita'.
Trovare le vie di accesso a queste basi profonde e' allora indispensabile.
Ciascuno trovera' le proprie strade. L'essenziale e' mettersi su questo
cammino.
Nel primo numero del 2008 del "Journal of Peace Education", la rivista della
Commissione sull'Educazione alla Pace dell'International Peace Research
Association, c'e' un articolo che sottolinea l'importanza di lavorare in
profondita' per costruire attitudini di pace nei giovani, seguendo percorsi
che tentano una sintesi tra principi delle scienze del comportamento
sviluppate nella cultura occidentale e principi che sono patrimonio
millenario di culture e  filosofie orientali (3).
E' quanto viene sperimentato nel progetto svedese Dodg ("The dream of the
good") fondato su due principi-chiave.
Il primo sottolinea l'importanza di "comprendere la connessione tra se' e
cio' di cui si fa esperienza, vale a dire che la nostra esperienza del mondo
dipende intimamente da noi stessi e puo' dunque cambiare. Una accresciuta
consapevolezza della connessione tra il se' e l'altro motiva a cercare la
pace in se stessi, invece che limitarsi a combattere contro condizioni
esterne spiacevoli" (4). Tale principio mette in luce l'influenza che
l'inconscio puo' avere sui nostri pensieri, sentimenti, comportamenti, rende
consapevoli di come le emozioni negative possano essere proiettate sul mondo
esterno e di quanto le nostre attuali esperienze siano collegate a pensieri,
emozioni e comportamenti passati.
Il secondo principio-chiave e' quello di potenziare le capacita' di
concentrazione e l'esperienza di una mente calma attraverso diversi metodi
di rilassamento, per contrastare i pensieri e le emozioni negative. La
concentrazione e la calma ci aiutano ad accedere alle nostre risorse
interiori e la maggiore consapevolezza rafforza la comprensione di quanto le
nostre esperienze dipendono da noi stessi (primo principio).
Nella "cassetta degli attrezzi" del progetto Dodg ci sono percio' diversi
metodi di rilassamento centrati sulla relazione mente-corpo, come la pratica
del silenzio e della meditazione, lo yoga, il quigong, oppure la pratica del
dialogo in piccoli gruppi su questioni esistenziali. La comune esplorazione
di questioni di senso crea un setting idoneo per esaminare i propri pensieri
e sistemi di valori, per superare rigide percezioni reciproche, per
sviluppare sentimenti di interdipendenza e di empatia e aumentare la
consapevolezza della connessione. D'altra parte, sviluppare lo spazio
interiore rende possibile accedere al significato e trasformare gli "eventi"
esterni in "esperienze" vissute e consapevoli.
Anche da noi ci sono sperimentazioni che vanno in una direzione analoga. Una
di queste e' l'esperienza della pratica del silenzio come feconda dimensione
di incontro tra arte, pedagogia e scienza, vissuta dal gruppo che si e'
ritrovato intorno alla monaca buddista di tradizione zen Dinajara Doju
Freire a Torino (5).
Tra le metodologie didattiche innovative, i giochi di ruolo come quelli
ideati dal gruppo di Ricerca e didattica delle scienze naturali coordinato
da Elena Camino, dell'Universita' di Torino, per affrontare situazioni
complesse e controverse (6), sono strumenti idonei per attivare diverse
modalita' e processi di apprendimento che coniugano dimensione cognitiva ed
emotiva,  lavoro a livello personale e comprensione di dinamiche
conflittuali a livello macro; che sviluppano capacita' di decentramento e di
empatia, creativita' e rispetto delle regole, nella consapevolezza delle
proprie attitudini e modalita' relazionali.
Lo stretto collegamento tra micro (cambiamento personale) e macro
(cambiamento strutturale), che e' una specificita' dello statuto
dell'educazione alla pace, e' dunque oggi ancor piu' evidente e richiede un
approfondimento che faccia emergere il nucleo centrale in entrambe le
direzioni: ricercare e contrastare i meccanismi che producono violenza a
livello individuale (7) e allo stesso tempo individuare e contrastare i nodi
cruciali che sono all'origine della violenza diretta, strutturale e
culturale nel mondo contemporaneo, per sviluppare atteggiamenti,
comportamenti e azioni di pace.
Le due sfide sono intimamente collegate tra loro: per poter passare dal
modello del dominio a quello della partnership e' indispensabile "trovare il
proprio centro", entrare in contatto con le basi profonde ed emotive che
possono dare la stabilita' necessaria per riconoscere i legami che ci
connettono agli altri e al mondo esterno, aprendoci ad una relazione di
solidarieta' e di partnership, unica condizione che puo' rendere possibile
un futuro vivibile per tutti.
Il superamento del mito dello yogi (credere che sia sufficiente cambiare la
persona umana per cambiare la societa') e del commissario (credere,
all'opposto, che basti cambiare le strutture sociali perche' tutta la
societa' sia diversa), che propone Galtung (8), va allora inteso non solo
nel senso che occorre agire contemporaneamente sui due livelli, ma che essi
sono interdipendenti, al punto che non e' possibile l'uno senza l'altro,
perche' tutto avviene in un continuum, senza nette separazioni di campo. In
altri termini cio' significa sostenere che si puo' immaginare un mondo
diverso, ma questo non si realizza finche' non viene "praticato", qui e ora,
nelle forme e dimensioni immediatamente possibili, dunque a partire da se',
dai propri atteggiamenti, pensieri, relazioni, mettendo in campo tutta la
responsabilita' e il potere che e' nelle nostre mani, perche', come afferma
Gandhi, nonviolenza e' essere consapevoli che "dobbiamo diventare il
cambiamento che vogliamo vedere".
*
Note
1. Riane Eisler, Ron Miller, Educating for a culture of peace, Portsmouth,
2004.
2. G. Ferrara, La vita buona e i conflitti ambientali, intervento al
convegno Conflitti ambientali: analisi e trasformazione nonviolenta (Modena,
30 novembre - primo dicembre 2007).
3. Ole Henning Sommerfelt, Vidar Vambheim, "The dream of the good". A peace
education project exploring the potential to educate for peace at an
individual level, in "Journal of Peace Education", 5, n. 1, march 2008,
Routledge, Taylor&Francis, 2008, pp. 79-95.
4. Op. cit., p. 83.
5. AA. VV., Di silenzio in silenzio, Anima Mundi Editrice, 2007.
6. Si veda, ad esempio, di Colucci-Camino, Gamberetti in tavole: un problema
globale, Ega, 2000, oppure, sul conflitto arabo-israeliano: A. Dogliotti
Marasso - M. C. Tropea, La mia storia, la tua storia, il nostro futuro, Ega,
2003.
7. Si veda in particolare, in questo ambito, l'ultimo testo di Pat Patfoort,
Difendersi senza aggredire, Ega, 2006.
8. Citato anche nell'ultimo libro di Alberto L'Abate, Per un futuro senza
guerre, Liguori, 2008.

7. RIFLESSIONE. MARIANO CROCE INTERVISTA SEYLA BENHABIB
[Dal quotidiano "Il manifesto" dell'11 ottobre 2008 col titolo "Cittadini
del mondo" e il sommario "La presenza dei migranti nelle societa'
capitaliste pone con forza il problema di un equilibrio tra eguaglianza e
rivendicazione della diversita'. Per questo dobbiamo imparare a vivere
insieme"]

"Imparare a vivere insieme". E' la frase che la studiosa Seyla Benhabib ama
ripetere spesso, quando parla della ridefinizione in atto del concetto di
cittadinanza a partire da quei flussi di migranti che stanno cambiando il
panorama delle societa' capitaliste, e non solo. Ritenuta una delle piu'
acute studiose della crisi del melting pot nelle democrazie occidentali,
Seyla Benhabib e' autrice di importanti studi sulla tensione tra eguaglianza
e diritto alla diversita' culturale; e ha preso piu' volte la parola sulla
necessita' di una democrazia cosmopolita e sulla centralita' di quella
emergente opinione pubblica globale nella sua costruzione. Recentemente e'
stata ospite del Centro studi americani, nell'ambito del "Colloquium
Philosophy & Society", organizzato da Alessandro Ferrara: in questo ambito
ha tenuto un seminario sui temi che da sempre ricorrono nelle sue ricerche,
al termine del quale ci ha concesso una intervista, che ha subito preso la
direzione dell'attualita', affrontando la presenza dei migranti, che da
molti e' considerata come un attacco alla sicurezza nazionale.
*
- Mariano Croce: In Italia come in molti altri paesi, la crescita della
presenza di migranti e' stata usata dai partiti di destra nella campagna
elettorale. E gli elettori si sono dimostrati assai sensibili al tema,
decretando la loro vittoria. Negli ultimi tempi, oltre tutto si sono
intensificate le iniziative contro i migranti. Crede davvero che siamo di
fronte a una "emergenza immigrazione"?
- Seyla Benhabib: Ho letto questa interpretazione dei risultati elettorali.
Non conosco pero' cosi' bene il vostro paese per dire se ci sia uno
specifico italiano sull'immigrazione. Tuttavia, l'immigrazione e' solo la
punta dell'iceberg i cui temi attirano l'attenzione soprattutto perche' gli
immigrati sono facilmente individuabili tra la popolazione, in virtu' delle
loro differenze. Ma cio' che occorre chiedersi e': cosa sta dietro i
problemi dell'immigrazione? Spesso la disoccupazione e gli immigrati sono
visti come "ladri di lavoro". Inoltre, i migranti sono considerati come il
simbolo del deterioramento della qualita' della vita nelle societa'
capitalistica. Tuttavia, qualsiasi economia capitalistica avanzata - e
l'Italia non fa eccezione - si basa per una larga parte sul lavoro degli
immigrati. Quando penso all'albergo dove sono ospite non posso che pensare
alle donne della Colombia o ai camerieri dello Sri Lanka che vi lavorano.
*
- Mariano Croce: Eppure negli ultimi anni va prendendo piede il paradigma
del cosiddetto "scontro delle civilta'". In questa ottica sono proprio le
"forme di vita" e il loro semplice venire a contatto a scatenare i
conflitti. Lei invece sembra assegnare una centralita' ai conflitti
economici, di potere...
- Seyla Benhabib: L'espressione "scontro di civilta'" non dice granche',
giacche' le civilta' sono profondamente interconnesse le une con le altre.
Non voglio assolutamente affermare che non siano presenti pressanti problemi
di tipo culturale o religioso, conflitti religiosi e culturali che occorre
affrontare e risolvere proprio in ragione del fatto che oggi viviamo sempre
piu' nello stesso mondo. Dobbiamo gestire cioe' la rivendicazione
dell'identita' culturale che emerge, per esempio, quando si analizza la
condizione delle donne dinanzi al diritto islamico, i diritti dei popoli
indigeni, la molteplicita' dei linguaggi. Non penso che questi problemi
siano tutti l'esito di sotterranei conflitti politici o economici. Dobbiamo
cioe' imparare a vivere l'uno assieme all'altro.
*
- Mariano Croce: Ma qual e' allora lo scenario civile e politico in cui si
potrebbe "imparare a vivere l'uno assieme all'altro"? In altri termini, in
situazioni di conflitto culturale, lo stato di diritto deve essere
considerato come superiore alla volonta' della maggioranza di una
popolazione?
- Seyla Benhabib: Credo che la democrazia non sia mai la semplice regola
della maggioranza. La democrazia e' sempre basata su un insieme di principi
istituzionali e costituzionali, garanzie per i diritti umani, che non
possono essere violati in forza di un risultato elettorale di qualsiasi
sorta. Questo e' un problema che si sta affrontando nel contesto europeo, in
cui l'Italia e' inserita. Oggi la politica dell'immigrazione viene negoziata
direttamente tra l'Unione Europea e gli Stati, presi individualmente. La
questione della sicurezza e' di competenza dell'Unione: il numero dei
cittadini non-europei e' un problema che va affrontato con politiche
coordinate. Eppure, i singoli Stati conservano ancora ampi margini di
autodeterminazione circa le politiche sull'immigrazione. La questione e' che
i diritti umani degli immigrati, degli apolidi, dei rifugiati sono garantiti
dalla Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle liberta'
fondamentali. Quindi, una maggioranza democratica non puo' violare questi
impegni o, se lo fa, e' destinata a subire una serie di conseguenze. La
situazione in Italia sembra simile a quanto accadde qualche anno fa in
Austria con l'elezione di Joerg Haider. Haider si muoveva su una piattaforma
nazionalista e proponeva il taglio di alcuni diritti degli immigrati e dei
residenti stranieri. Ma l'Unione Europea ha posto determinati limiti: limiti
che hanno dato il via a una serie di discussioni relative a quanto essi
fossero giusti. Proprio qui sta il nodo della tensione che corre tra stato
di diritto e diritti umani. Ipotizziamo che in uno Stato venga eletto un
partito promotore di un programma tutto centrato sulla eccessiva presenza
degli immigrati: cosa significherebbe? Se quello stesso Stato avesse
intenzione di ridurre il livello di immigrazione in entrata da 800.000 a
600.000, non sarebbe la fine del mondo, ma io ovviamente mi opporrei da un
punto di vista politico a tale proposta. Proporrei tutti i possibili
argomenti per contrastarla, ma affermare "non puoi farlo, e'
antidemocratico, e' contro i diritti umani" sarebbe errato.
*
- Mariano Croce: Ma questo sembra voler dire che tra la volonta' politica di
una maggioranza e le rivendicazioni dei migranti e' la prima che deve avere
la meglio...
- Seyla Benhabib: Secondo me la questione e': quali sono i limiti? Cosa si
puo' e cosa non si puo' fare? A mio avviso, il vero problema e' che in
alcune circostanze le questioni dell'immigrazione vengono tradotte in
termini di criminalita' e sicurezza. In Italia, ci saranno pure migranti che
compiono reati, ma molti di piu' saranno i migranti che non infrangono la
legge. Negli Stati Uniti sta accadendo che gli immigrati vengono sempre piu'
identificati con il rischio potenziale di terrorismo. Ecco, credo che quando
si comincia a fare coincidere con tanta disinvoltura gli immigrati, o le
persone che in generale sembrano altro da noi, con la criminalita' o con il
terrorismo, gia' si cominciano a violare i diritti civili. E' qui che emerge
davvero il problema ed e' qui che la maggioranza va fermata. Non so se si
stia andando in questa direzione. Sto solo cercando di operare una
distinzione teorica tra cio' che rimane ancora tra le prerogative di
un'entita' sociale che si autodetermina e il limite che a essa pongono i
diritti umani, i diritti degli altri.
*
- Mariano Croce: Una domanda sulla Cina e sul Myanmar. In che modo i
principi della democrazia cosmopolitica da lei difesi potrebbero applicarsi
a questi due casi?
- Seyla Benhabib: La Cina mi pare una realta' molto complessa dal punto di
vista politico. Certo, il caso del Myanmar e' particolarmente doloroso e ha
rappresentato anche un incredibile disastro umanitario, tanto che il
ministro degli esteri francese Bernard Kouchner ha fatto appello al
cosiddetto "obbligo di protezione".
*
- Mariano Croce: Lei ritiene fosse possibile giustificare un intervento?
- Seyla Benhabib: La vera tragedia e' che il tentativo di intervenire per
proteggere i diritti umani in Myanmar avrebbe potuto scatenare un conflitto
militare. La marina francese era alle porte, con rifornimenti pronti. Anche
i sottomarini americani erano li' pronti a intervenire. Ma al di la'
dell'obbligo morale, su cui tutti siamo d'accordo, nella situazione concreta
un intervento sarebbe equivalso a un intervento militare. Ora potremmo
chiederci: "Perche' no?". Del resto siamo di fronte a un regime illegittimo.
La mia opposizione all'intervento in Myanmar dipende dal fatto che in una
situazione del genere non so quali conseguenze si sarebbero potute
determinare. Inoltre, in simili contingenze, l'"ingerenza umanitaria"
rischia di avviare progetti neocolonialisti, come e' accaduto in Iraq.
Questo e' il vero dilemma. Dobbiamo ammettere che l'intervento della marina
americana o francese avrebbe scatenato un conflitto militare e che i primi a
venirne coinvolti sarebbero stati i civili. Percio' credo che il ruolo delle
organizzazioni non governative sia essenziale: esse devono poter intervenire
in senso costruttivo. Vedo con molto favore il ruolo degli attori non
statali in queste situazioni e persino il governo del Myanmar era piu'
incline ad accettare un intervento di queste organizzazioni. Queste
dovrebbero anche fare pressioni su paesi come l'India e la Cina, che
intrattengono relazioni diplomatiche con il Myanmar e che sostengono il
regime.
*
- Mariano Croce: Tuttavia, anche la Cina costituisce un problema dal punto
di vista del rispetto dei diritti umani...
- Seyla Benhabib: Si', ma il caso cinese mi pare assai differente. Vedo
infatti un movimento per la democrazia in Cina che cresce e diventa sempre
piu' forte. Dobbiamo lavorare in tal senso, penso per esempio a quanto sta
facendo la Yale University che ha aperto le "Human Rights Clinics" per la
diffusione della cultura dei diritti umani.
*
- Mariano Croce: La sua famiglia sembra aver avuto una storia travagliata.
Crede che la sua storia personale abbia inciso sul suo modo di concepire e
di inquadrare la relazione tra le culture e la realta' sociale?
- Seyla Benhabib: La risposta a questa domanda potrebbe essere molto lunga,
ma la risposta sintetica che voglio dare e' la seguente. Le radici della mia
famiglia rimandano all'Inquisizione spagnola. Alla mia famiglia fu concesso
di entrare nell'impero ottomano ed essa si stanzio' a Istanbul. Sono sempre
stata consapevole dell'ironia che contrassegna la storia europea. Siamo
partiti dalla Spagna e poi la Spagna scopre gli Stati Uniti d'America; gli
spagnoli ospitano la prima Inquisizione contro gli ebrei e noi finiamo per
trovare protezione in una regione di cultura musulmana. La storia della mia
famiglia risale per oltre cinque secoli in Turchia, e' una storia molto
lunga, ma ho sempre tenuto a mente chi noi fossimo. Avere alle spalle una
storia simile e crescere imparando quattro lingue ti rende per sempre
consapevole del tipo di relazione che sussiste tra la cultura e la realta'
sociale, rendendoti sensibile ai diritti degli altri.
*
Postilla biobibliografica: In difesa dei diritti degli "altri"
Nata a Istanbul, Seyla Benhabib e' "Eugene Meyer Professor" di Political
Science and Philosophy alla Yale University. I suoi libri piu' importanti
sono La rivendicazione dell'identita' culturale. Eguaglianza e diversita'
nell'era globale (il Mulino, 2005) e I diritti degli altri. Stranieri,
residenti, cittadini (Cortina, 2006). Convinta che l'immigrazione sia
necessaria ai paesi capitalisti, Benhabib ritiene inoltre che il principio
della volonta' popolare - che pure va preservato - debba essere integrato e
limitato dai principi giuridici del rispetto dei diritti umani.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 609 del 15 ottobre 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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