La domenica della nonviolenza. 185



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 185 del 12 ottobre 2008

In questo numero:
1. Ermanno Olmi. Il sentimento della realta'. Libro intervista di Daniela
Padoan
2. Gianni Canova: Ermanno Olmi (2003)

1. LIBRI. ERMANNO OLMI. IL SENTIMENTO DELLA REALTA'. LIBRO INTERVISTA DI
DANIELA PADOAN
[Ermanno Olmi e' uno dei maggiori registi cinematografici viventi, e - con
gli utensili della poesia - di pietas, di morale autentico maestro.
Daniela Padoan e' una prestigiosa giornalista e saggista femminista. Dalla
bella rivista "Via Dogana" riprendiamo la seguente scheda di presentazione:
"Daniela Padoan collabora con la televisione e la stampa, in particolare con
'Il manifesto'. Nel pensiero della differenza ha trovato un tassello
mancante, degli elementi in piu' per la lettura di avvenimenti attuali e
storici come la vicenda delle Madres de la Plaza de Mayo ("la lotta politica
forse piu' radicale di questi decenni"), o la Shoah, che Daniela ha indagato
in un suo libro, attraverso tre conversazioni con donne sopravvissute ad
Auschwitz (Come una rana d'inverno, Bompiani, Milano 2004)". Opere di
Daniela Padoan: Miti e leggende del mondo antico, Sansoni scuola, Firenze
1996; Miti e leggende dei popoli del mondo, Sansoni scuola, Firenze 1998; (a
cura di), Un'eredita' senza testamento, Quaderni di "Via Dogana", Milano
2001; (a cura di), Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti delle Madres
de Plaza de Mayo, Quaderni di "Via Dogana", Milano 2003; Come una rana
d'inverno, Bompiani, Milano 2004; Le Pazze. Un incontro con le Madri di
Plaza de Mayo, Bompiani, Milano 2005; Ermanno Olmi. Il sentimento della
realta', Editrice San Raffaele, Milano 2008]

E' prezioso questo libro curato da Daniela Padoan (Ermanno Olmi. Il
sentimento della realta', Editrice San Raffaele, Milano 2008, pp. 140, euro
15). Ed e' prezioso per molte ragioni.
La prima: che e' ancora un passo lungo un percorso che Daniela Padoan da
anni viene compiendo di confronto col dolore del mondo, di ascolto di voci
che testimoniano e resistono, di restituzione di splendente umanita'.
Abbiamo molto amato i precedenti libri di Daniela Padoan di conversazioni
con donne sopravvissute alla Shoah e con le Madres di Plaza de Mayo; questo
dialogo con Ermanno Olmi e' ancora in quel solco, in quella ferita.
La seconda: nel raccontarsi e nel ragionare con Daniela Padoan il grande
regista offre di se', del suo lavoro, della sua meditazione, un'immagine ad
un tempo nitida e densa, rivelando motivi e vicende, esperienze e
riflessioni, che chi ha amato i suoi film di conoscere e' grato, tanto
assetato ne era.
La terza: qui due esseri umani muovendo dall'opera di Ermanno Olmi e dalla
profondita' di sguardo dell'autrice-interlocutrice-ascoltatrice che ogni
vibrazione coglie e nuove suscita interrogazioni, ed altre, ulteriori vie
ermeneutiche passo dopo passo apre, si confrontano con la storia, il lavoro,
l'arte, la creaturalita', il mistero del male, la cognizione del dolore,
l'umana dignita'. E a questo colloquio chi legge si sente fraternamente,
sororalmente invitato.
E' un libro dialogico che risente altresi' della lezione alta del pensiero
novecentesco che ha combattuto contro l'orrore di Auschwitz e di Hiroshima;
e' un libro che reca le tracce delle filosofie della responsabilita' e della
nascita, dell'alterita' che fonda il noi e del riconoscimento che il noi
conferma, della solidarieta' e della liberazione comune, della resistenza ad
ogni menzogna e ad ogni oppressione; del pensiero delle donne, e della
nonviolenza.
E' un libro bello. E buono. Kalos kai agathos. Come le due persone le cui
voci vi risuonano.

2. PROFILI. GIANNI CANOVA: ERMANNO OLMI (2003)
[Dal mensile "Letture", n. 593, gennaio 2003, col titolo "Ermanno Olmi" e il
sommario "Da La circostanza a L'albero degli zoccoli, fino al recente
capolavoro Il mestiere delle armi, quello di Olmi e' un cinema umanista, che
posa il suo sguardo sui "cuori semplici" e pone di fronte alla
transitorieta' della vita"]

Il cinema di Ermanno Olmi si dibatte da sempre fra due tentazioni
contrapposte ma complementari: da un lato si da' come "epifania di un
inizio", annuncio di un esordio (la nascita di Gesu' in Cammina Cammina; la
vocazione e la formazione di un pontefice in ...E venne un uomo; la bildung
di un impiegato in Il posto e quella di un adolescente in Lunga vita alla
signora); dall'altro e' cinema che si costruisce sulla "fenomenologia di
cio' che si estingue", sulla messa in scena di cio' che sta per scomparire
(la fine di un barbone in La leggenda del santo bevitore; la fine della
civilta' contadina lombarda in L'albero degli zoccoli; la fine di un amore
in I fidanzati). Talora, le due tentazioni dello sguardo di Olmi si
sovrappongono come in una dissolvenza incrociata e producono film in cui
l'estinzione di qualcosa si accompagna (e confligge, e fa attrito) con la
formazione di qualcos'altro (come nella dialettica che contrappone i
protagonisti di Il tempo si e' fermato, I recuperanti o La circostanza).
C'e' sempre un attimo in cui il tempo si ferma, nel cinema di Olmi. Ed e'
proprio a partire da quel frammento di tempo congelato che Olmi lavora alla
produzione di quel senso della precarieta' che e' uno dei tratti connotativi
piu' specifici e preziosi del suo cinema.
Nato nel 1931 a Treviglio, in provincia di Bergamo, da una famiglia
cattolica di origini contadine, Olmi appartiene a quella generazione di
cineasti che, come i fratelli Taviani, Elio Petri o Vittorio De Seta,
esordisce alla regia intorno al 1960, guadagnandosi dalla storiografia
cinematografica l'appellativo di "seconda ondata neorealista". In effetti,
molto piu' dei suoi coetanei, Olmi manifesta fin da subito - nell'attenzione
per i dettagli della vita quotidiana, nella predilezione per attori non
professionisti, nella sua attitudine a "mostrare" anziche' "dimostrare" -
una chiara ed esplicita filiazione dall'eredita' neorealista, mediata
soprattutto dalla lezione di un maestro come Roberto Rossellini. I suoi
esordi, in questa chiave, sono quanto mai significativi: assunto a soli 16
anni, nel 1947, dalla societa' Edisonvolta (dove gia' lavorava la madre,
rimasta vedova negli anni della guerra), Olmi, dal 1953, riceve l'incarico
di creare una "sezione cinema" per mostrare attraverso brevi documentari le
principali realizzazioni industriali dell'azienda.
Questo apprendistato consente al futuro cineasta di formarsi attraverso un
severo tirocinio documentaristico che gli insegna il rispetto per la realta'
e lo abitua a esplorare con l'occhio della macchina da presa la centralita'
della figura umana in tutte le pratiche lavorative. La visione umanista e
antropocentrica che caratterizzera' molte delle sue opere successive e' gia'
evidente nella trentina di documentari che Olmi realizza per la Edisonvolta
dal 1953 al 1961, seguendo da vicino il complicato processo di sviluppo
attraverso cui l'Italia si avvia a diventare un Paese industriale moderno.
Il suo lungometraggio d'esordio (Il tempo si e' fermato, 1959), nato come
documentario su una diga in costruzione, risente della sua peculiare
formazione e, nello stesso tempo, mette a fuoco con pudica sobrieta' alcuni
dei tratti connotativi delle sue opere successive (la fenomenologia della
solitudine, il rapporto fra uomo e uomo mediato dalla relazione fra uomo e
natura, la nascita della solidarieta' come forma di relazione non ideologica
ne' volontaristica ma come afflato spontaneo e istintivo fra creature che
condividono la medesima condizione). Girato fra le nevi dell'Adamello, a
2.600 metri d'altezza, nei pressi di una diga realizzata dalla Edisonvolta,
il film racconta 48 ore della vita di due guardiani, un vecchio e un
giovane, rimasti a presidiare il cantiere chiuso nella stagione invernale.
Ma il verbo "racconta" e' eccessivo: Il tempo si e' fermato e' un film dalla
drammaturgia rarefatta e sospesa, in cui non accade praticamente nulla. Tra
il vecchio e il giovane, appena arrivato alla diga per sostituire un altro
guardiano, richiamato a valle dalla nascita di un figlio, ci sono alcune
incomprensioni (il vecchio, ad esempio, e' infastidito dalla musica rock che
il giovane ascolta sul giradischi) che lasciano intravedere un embrionale
conflitto generazionale, ma Olmi insiste piuttosto sul rapporto di entrambi
i personaggi con la natura circostante e con la maestosita' del paesaggio
innevato, ripreso in campi lunghi e lunghissimi di abbagliante bellezza e
semplicita'. L'uso di attori non professionisti e il suono in presa diretta
sembrano ottemperare ad alcuni dei piu' noti precetti neorealisti, ma Olmi
si tiene lontano da ogni intento di denuncia sociale per concentrarsi, con
un rigore stilistico stupefacente in un regista non ancora trentenne, sul
rapporto umano che lega i due protagonisti, sul progressivo liquefarsi della
diffidenza iniziale e sul gesto di disinteressata solidarieta' che porta il
vecchio a caricare sulle sue spalle il giovane febbricitante e a riportarlo
nella baracca riscaldata dopo una violenta e improvvisa tempesta di neve.
E' tuttavia con il successivo Il posto (1961), presentato alla Mostra del
cinema di Venezia, che Olmi si afferma - anche sul piano del riconoscimento
critico - tra le personalita' piu' originali del cinema italiano dei primi
anni Sessanta. Ambientato a Milano, nella citta' che sta per diventare la
capitale del boom economico e del neocapitalismo industriale italiano, il
film racconta con arguzia psicologica e finezza interpretativa il processo
di integrazione di un ragazzo di famiglia operaia originario di Meda assunto
come fattorino in una grande azienda che, come ha scritto Lino Micciche',
"vive i suoi primi giorni di lavoro tra lo stupore di un primo incontro
sentimentale e i modesti sogni di una carriera impiegatizia" (Il cinema
italiano: gli anni '60 e oltre, Marsilio, Venezia 1975, pag. 227).
Straordinario ritratto, dai toni quasi gogoliani, del mondo alienante e
disumanizzato del lavoro impiegatizio, contrapposto alla purezza e
all'autenticita' del "cuore semplice" del giovane protagonista prima di
essere "integrato" nella logica del "posto fisso" e del "lavoro sicuro", il
film documenta con sguardo asciutto e sorridente l'impatto della modernita'
su una grande citta' come Milano (con le vetrine piene di merci, abiti,
elettrodomestici e automobili, e con piazza San Babila sventrata per i
lavori di costruzione della metropolitana), mette alla berlina la sociologia
dei test attitudinali adottati dalle grandi aziende in vena di
modernizzazione e tratteggia un "romanzo di formazione" piccolo-borghese che
sfocia in una visione segnata da un amaro e caustico pessimismo. La Milano
di Olmi e' lontanissima dal turgore melodrammatico e dai conflitti esplosivi
che lacerano la citta' ambrosiana nel quasi contemporaneo Rocco e i suoi
fratelli (1960) di Luchino Visconti, e tuttavia finisce per comporre un
affresco realistico dei processi di trasformazione e di cambiamento in atto,
fornendo un quadro non comune della realta' grigia e anonima degli impiegati
di una grande azienda.
Il mondo del lavoro e' al centro anche del successivo I fidanzati (1963),
dove la vicenda di un operaio milanese in trasferta in Sicilia si articola
in un complesso andirivieni memoriale che porta il protagonista a rievocare
a piu' riprese la fidanzata e l'anziano padre rimasti a Milano, in una serie
di flashback che rompono la linearita' del racconto e lo rendono simile a un
labirinto in cui il personaggio si perde. Anche in questo caso Olmi si tiene
lontano dai toni della denuncia o dalle tentazioni della sociologia,
puntando su un "realismo dell'interiorita'" (mutuato, in parte, dal cinema
di Antonioni), che gli consente di scavare dentro l'intimita' dei suoi
personaggi, alla ricerca di valori umani e relazionali dal carattere
tendenzialmente universale. E tuttavia, proprio questo rifiuto del mimetismo
sociologico fa si' che il suo film diventi una straordinaria testimonianza
della solitudine e dell'incomunicabilita' che colpiscono i soggetti sociali
piu' disparati negli anni di incubazione del cosiddetto "boom economico".
Fedele all'imperativo - etico oltre che estetico - di non imbrigliare la
realta' rappresentata dentro schemi interpretativi aprioristici o gabbie
ideologiche precostituite, Olmi finisce per essere uno dei piu'
significativi e lucidi testimoni di quella stagione difficile e delicata
della nostra storia recente che ha visto l'affermarsi della cultura e delle
pratiche della modernita'.
*
La poetica della circostanza
Fin dai suoi primi film, Olmi si caratterizza come uno dei cineasti piu'
coerenti e indipendenti del cinema italiano degli anni Sessanta. Schivo e
solitario, estraneo alle mode come ai clan e alle lobbies del cinema
istituzionale, difende con orgoglio la sua posizione appartata come quella
di un "artigiano" che si colloca consapevolmente ai margini del sistema
produttivo. Come ha scritto Christian Depuyper (Ermanno Olmi. Un cineaste
solitaire, in AA. VV., Ermanno Olmi, "Etudes cinematographiques" , n.
187-193, 1992, p. 9): "Venuto da fuori (sociologicamente, culturalmente),
Olmi resta orgogliosamente fuori (geograficamente, professionalmente)". La
sua produzione tra il 1964 e il 1974 conferma l'originalita' e l'autonomia
della sua ricerca espressiva. Nel 1965, con ...E venne un uomo, confeziona
una puntigliosa biografia di papa Giovanni XXIII, da poco deceduto,
ricostruendo le tappe di una vita che va dall'infanzia bergamasca e
contadina fino al pontificato, in un film tanto anomalo quanto appassionato
e sincero. La critica accusa il regista di eccessiva sudditanza nei
confronti del soggetto trattato e c'e' perfino chi, anche in ambito
cattolico, rimprovera Olmi di essersi fermato a un livello aneddotico, senza
saper rendere l'aspetto innovativo del pontificato giovanneo.
Ma Olmi non si da' per vinto e continua con coerenza la sua ricerca sui
"cuori semplici" che animano la storia e la societa' contemporanea. Cosi',
dopo alcuni lavori per la televisione, torna a un realismo minore ma intriso
di echi umanistici con I recuperanti (1969), scritto con Tullio Kezich e
Mario Rigoni Stern, elegiaca descrizione di un mondo rurale che sta
scomparendo visto con gli occhi di due uomini che per sopravvivere
raccolgono ordigni bellici sull'altopiano di Asiago, mentre con Un certo
giorno (1968) si confronta di nuovo con i conflitti e le contraddizioni
della societa' industriale lombarda attraverso la vicenda di un
pubblicitario milanese indotto da un incidente a ripensare alle sue scelte
di vita e a rimettere in discussione quel feticismo del successo e della
carriera su cui aveva costruito tutta la sua esistenza. Lo stile sobrio e
meditativo e l'attenzione alle distorsioni disumanizzanti della societa'
industriale collegano questo film ai temi e ai motivi de Il posto, qui
affrontati con maggior attenzione all'interiorita' del protagonista e una
tensione morale ancor piu' rigorosa e austera.
Dopo un altro film televisivo (Durante l'estate, 1971), e' la volta di un
capolavoro come La circostanza (1974), cruda radiografia della crisi di una
famiglia borghese vista sullo sfondo della crisi parallela che colpisce
tutta la societa' italiana del periodo. L'intreccio ha i toni di un apologo
etico-sociale che mostra come, in pochi giorni, la routine della famiglia
Liberti possa essere scossa in profondita' da circostanze impreviste: il
padre rischia di venir licenziato dalla sua azienda ed e' costretto a
partecipare a ridicoli seminari di aggiornamento, la madre - delusa e
affranta per il difficile rapporto coi figli - si attacca morbosamente a un
ragazzo vittima di un incidente, mentre i figli cercano con fatica la
propria identita' (uno diventa padre, un'altra ha la sua prima esperienza
sessuale), traumatizzati dal pensiero del mattatoio a cui vengono
incessantemente condotte le bestie dell'allevamento di famiglia. Il
montaggio, firmato dallo stesso Olmi, da' al racconto un andamento libero e
ondivago, procede per associazioni e analogie, scardina la linearita'
dell'intreccio e mescola tempi ed eventi secondo un ordine interiore che
trova nel frammento la misura perfetta per rendere l'idea di una crisi che
e' si' occasionata da circostanze particolari, ma che investe e coinvolge il
modo stesso di percepire le relazioni familiari da parte dei personaggi.
Modernissimo nella confezione, impietoso e insieme partecipe e solidale,
capace di dar respiro a ogni singolo personaggio sullo sfondo di una risolta
e compiuta coralita', La circostanza mostra la piena maturita' raggiunta dal
regista e apre la strada al progetto ambizioso e ancora una volta
assolutamente anomalo de L'albero degli zoccoli.
Presentato nel 1978 al Festival di Cannes, L'albero degli zoccoli vince la
Palma d'oro e regala a Olmi un'imprevista e inattesa popolarita' sul piano
internazionale. "Interpretato da contadini e gente della campagna
bergamasca", come recita una didascalia iniziale, il film non concede nulla
a quella logica dello spettacolo che di solito favorisce il successo di un
film. Al contrario, i dialoghi sono in dialetto bergamasco, al limite della
comprensibilita'; non c'e' nessuna star di rilievo; l'azione corale si snoda
lenta e solenne, seguendo il ritmo monotono del lavoro quotidiano nei campi.
Eppure, proprio questa dichiarata inattualita' conferisce al film gran parte
del suo fascino e fa si' che il pubblico dei tardi anni Settanta, nel
periodo piu' fosco degli "anni di piombo" (in Italia le Brigate Rosse
sequestrano e uccidono Aldo Moro proprio pochi giorni prima della vittoria
di Olmi a Cannes), trovi nel respiro antico ma autentico de L'albero degli
zoccoli una possibile alternativa alla traumatica conflittualita' del
presente. Intendiamoci: il film di Olmi non ha nulla di elegiaco o di
nostalgico. Non sfocia nell'acritica celebrazione di un passato ruralista
perduto, ma celebra la fatica del lavoro contadino con uno sguardo epico e
lirico che richiama la lezione di un Robert Flaherty (L'uomo di Aran, 1934)
e, prima ancora, la vocazione realista di un autore letterario molto amato
da Olmi come Alessandro Manzoni.
Girato in una cascina della bassa bergamasca, L'albero degli zoccoli
racconta la vicenda di alcune famiglie contadine nel periodo fra l'autunno
1897 e la primavera 1898. Impegnati nel lavoro dei campi per conto del
padrone, a cui devono i due terzi del raccolto, i personaggi del film vivono
in una condizione di promiscuita' in cui individuale e collettivo si
mescolano incessantemente, spingendo tutto il gruppo a partecipare alle
vicende personali di ciascuno. L'intreccio procede per scene giustapposte,
come seguendo il ritmo lento dei cicli della natura: la raccolta del
granturco, l'uccisione del maiale, la semina del grano, l'attesa della
maturazione dei pomodori. La regia di Olmi colpisce per la precisione con
cui descrive i gesti e rappresenta gli attrezzi del lavoro campestre, oltre
che per l'efficacia con cui sublima la materialita' della fatica attraverso
la solennita' della musica di Bach e il ricorso a un'iconicita' intrisa di
echi e rimandi alla miglior lezione della pittura realista del tardo
Ottocento. Non succede quasi nulla, nel film. Le uniche due azioni rilevanti
sono il matrimonio fra Stefano e Maddalena (e il viaggio di nozze nella
Milano fin de siecle, agitata da tumulti operai e dalle cannonate di Bava
Beccaris) e la decisione di Batisti' di tagliare di nascosto un albero di
proprieta' del padrone per ricavarne un nuovo paio di zoccoli per il figlio
Minek. Entrambi i fatti preludono a un'uscita dal mondo primigenio della
cascina, o a un esodo verso un mondo esterno saturo di pericoli e di
minacce. Se Stefano e Maddalena tornano a casa, dopo il viaggio a Milano,
con un bimbo adottato, Batisti' paga il suo gesto di disobbedienza con
l'espulsione dal mondo in cui e' cresciuto: il padrone lo caccia dal podere,
e il film si chiude con l'immagine dei membri della famiglia di Batisti' che
abbandonano la fattoria, con un atto di allontanamento che segna - in
prospettiva metaforica - l'inizio della fine della civilta' contadina
lombarda.
Il cinema umanista di Olmi, denso di richiami alla lezione di Rossellini e
alla parte piu' viva della poetica neorealista, raggiunge con L'albero degli
zoccoli uno dei suoi risultati piu' alti, anche a livello stilistico. Ha
scritto acutamente Rene' Predal: "Olmi non resta mai per troppo tempo a
grande distanza (dal suo mondo, ndr). Piuttosto, si muove verso l'uomo:
parte da una veduta d'insieme e si avvicina, secondo un movimento contrario
allo straniamento brechtiano che e' proprio dello zoom all'indietro [...]. I
suoi movimenti di macchina non spingono alla riflessione ma alla conoscenza.
Egli vuole comunicare con i suoi personaggi. Per questo la sua macchina da
presa e' sempre ad altezza d'uomo [...]. Olmi non adotta lo sguardo di Dio.
I suoi personaggi sono suoi fratelli, non sue creature. Egli e' osservatore
e non demiurgo". (L'arbre aux sabots. Une vision spiritualiste prise dans la
materialite' de l'espace et du temps, in AA. VV., Ermanno Olmi, "Etudes
cinematographiques", n. 187-193, 1992, p. 67). Questo senso della
fraternita' (dell'autore con i personaggi e dei personaggi tra di loro) ha
indotto alcuni critici a citare il nome di Virgilio. Del grande poeta
latino, autore delle Bucoliche e delle Georgiche, Olmi sembrerebbe
recuperare alcune idee-chiave: soprattutto quelle di labor e di pietas.
Labor - scrive Morando Morandini - e' "la dignita' del lavoro manuale, il
sentimento sacro della terra, l'importanza che l'agricoltura ha per la
civilta'", mentre pietas e' "un atteggiamento armonioso e unitario verso il
prossimo, la famiglia, il paese, la divinita': e' una concezione della vita"
(Ermanno Olmi. Il mestiere del cinema, in AA. VV., Ermanno Olmi.
L'esperienza di Ipotesi Cinema, Le mani Editore, Genova 2001, p. 16).
Risultano percio' forzate e pretestuose le accuse mosse al film di aver
calcato eccessivamente la mano sul registro idillico, dissimulando la
grettezza e l'avidita' del mondo contadino e dandone una rappresentazione
pregiudizialmente depurata da conflitti: il mondo contadino lombardo de
L'albero degli zoccoli e' quello che, anche storicamente, viene prima
dell'esplosione dei conflitti di classe e di cultura che lo dilanieranno a
partire dall'inizio del nuovo secolo. Del resto, lo stesso Olmi non manca di
sottolineare la presenza delle tre forze che si contenderanno l'egemonia su
quel mondo: la Chiesa, il movimento socialista e il mercato. Tutte e tre
appaiono nel film in sequenze analoghe: il prete che predica dal pulpito, il
socialista che tiene un comizio notturno nella piazza del paese e
l'imbonitore che tenta di vendere un unguento per curare l'artrite,
anticipando le regole di un merchandising gia' strutturato sui linguaggi
dello spettacolo. Come dire: nel "piccolo mondo antico" di Olmi gia' si
annidano i germi di quel mercantilismo che finira' per dissolverlo.
*
Fiabe, parabole e allegorie
Invece di sfruttare la popolarita' acquisita con la vittoria di Cannes, Olmi
si impegna in un progetto che sfida tutte le regole del cinema commerciale:
Cammina cammina (1982), rivisitazione in chiave allegorica della leggenda
dei Magi, esige quattro anni di lavoro intenso e impegnativo. Il regista
cura personalmente tutte le fasi di lavorazione (dalla scrittura al
montaggio), vive per mesi in mezzo ai suoi attori non professionisti,
fabbrica con loro le scenografie e i costumi, immagina ogni scena a partire
da un'osmosi continua tra la finzione e la realta'. Quel che ne deriva e',
ancora una volta, un film anomalo nel panorama italiano, dove la fede nel
messaggio evangelico si fonde con una cultura del dubbio che spiazza molti
spettatori, e dove il realismo dei corpi e dei volti degli attori stride
volutamente con il registro di fiaba che la regia imprime al racconto.
Benche' incompreso dalla critica e dal pubblico, Olmi si conferma l'unico,
vero "poeta degli umili" nel cinema italiano contemporaneo. Ma la sua vita
e' a una svolta: dopo Milano '83 (1983), rigoroso documentario sulla
capitale lombarda che e' un implicito atto d'accusa contro il nascente
edonismo degli anni '80, Olmi si ammala gravemente. E' una malattia che
colpisce il sistema nervoso, immobilizzandolo per parecchi mesi e facendogli
fare, come egli stesso rivelera' in seguito, "l'esperienza della morte".
Olmi ne esce profondamente cambiato. Si ritira sull'altopiano di Asiago e si
dedica alla formazione di giovani cineasti attraverso una scuola (Ipotesi
Cinema) da lui fondata a Bassano del Grappa. Quando torna dietro la macchina
da presa, nel 1987, il suo stile e' diverso: la vocazione neorealista lascia
il posto a un'evidente propensione per la parabola e la metafora, e il suo
sguardo si fa piu' caustico e pungente. Lunga vita alla Signora! (1987)
disegna una sorta di favola sul passaggio dall'adolescenza alla maturita'
attraverso il racconto allegorico (venato di reminiscenze felliniane)
dell'esperienza di un ragazzo assunto come cameriere in un pranzo di gala
allestito in un albergo di lusso per festeggiare una vecchia signora
decrepita: l'impatto con il mondo degli adulti, pieno di rituali fasulli e
di cerimoniose ipocrisie, e' violento e traumatico, tanto che il ragazzo
fugge via confuso e disorientato. Olmi e' piu' sarcastico e graffiante che
in passato (il film puo' essere letto anche come una caustica parabola sul
potere e sulla ferocia delle gerarchie istituzionalizzate), ma non rinuncia
a posare uno sguardo tenero sugli umili, sui "cuori semplici", su coloro che
percepiscono il mondo con il cuore prima che con la ragione.
In questo senso si muove anche il successivo La leggenda del santo bevitore
(1988), premiato con il Leone d'oro al Festival di Venezia: tratto
dall'omonimo racconto di Joseph Roth e girato a Parigi con attori
professionisti (Rutger Hauer e Anthony Quayle), il film rilegge la vicenda
del clochard parigino che riceve da uno sconosciuto 200 franchi, a patto che
li restituisca alla chiesa dedicata a santa Teresa di Lisieux, come una
versione moderna della parabola evangelica dei talenti, oltre che come un
apologo sulla speranza e sull'amore del prossimo. Dopo questo film, Olmi si
dedica all'insegnamento, fedele anche in questo alla lezione rosselliniana.
Quando torna alla regia, con Il segreto del bosco vecchio (1993), tratto
dall'omonimo racconto di Dino Buzzati, incappa in quello che per molti e'
l'unico vero passo falso della sua carriera: il tono da fiaba appare troppo
didascalico e programmatico, i rari momenti lirici galleggiano in
un'atmosfera oratoria che induce molti recensori a parlare di crisi di
ispirazione. Anche il successivo Genesi. La creazione e il diluvio (1994)
non convince fino in fondo: Olmi mette in immagini i primi capitoli della
Genesi biblica con un linguaggio di severa semplicita' che non sempre evita
la caduta nell'illustrazione estetizzante o nel didascalismo retorico. Ma di
nuovo una grave malattia porta il cineasta a sfiorare l'esperienza della
morte. Olmi la supera ancora, ma i piu' ritengono chiusa la sua esperienza
artistica. E invece, a sorpresa, sette anni dopo la Genesi, Olmi firma con
Il mestiere delle armi (2001) quello che e' probabilmente il suo film piu'
bello e compiuto: al contempo un testamento spirituale e la summa di
un'estetica rigorosa che si fa riflessione sul cinema e sul senso della
vita.
Il mestiere delle armi sembra collocarsi, a un primo sguardo, tra i film di
Olmi che mettono in scena una scomparsa, o che lavorano alla
rappresentazione di un processo di estinzione: attraverso il racconto non
lineare degli ultimi giorni di vita del capitano di ventura Giovanni dalle
Bande Nere, colpito a tradimento sul campo di battaglia da una "botta di
falconetto" (una nuova e potentissima arma da fuoco ceduta ai Lanzichenecchi
di Zorzo Frundsberg dal tradimento di Alfonso d'Este, duca di Ferrara), Olmi
disegna un solenne e struggente poema visuale non solo sulla fine di un uomo
e di un soldato, ma anche sul tramonto di un mondo, di un codice d'onore, di
un modo di intendere e di praticare la guerra. Nello stesso tempo, tuttavia,
proprio nella misura in cui si fa racconto di un morire, Il mestiere delle
armi finisce per essere la radiografia di un personaggio che (come gia' era
accaduto all'Andreas de La leggenda del santo bevitore) solo nella morte
trova e definisce la propria identita'. Non a caso, il film inizia con il
primo piano di un elmo dietro cui il protagonista nasconde il proprio volto
e lo rende anonimo, e finisce con un analogo primo piano in cui lo stesso
protagonista mostra il proprio viso scoperto, mentre piange incrociando lo
sguardo di un bimbo che lo osserva dietro un'inferriata. Come dire: e' solo
morendo, solo affrontando quel momento di crisi in cui il tempo si ferma
definitivamente, che Giovanni dalle Bande Nere nasce compiutamente come
personaggio e riesce a offrirsi sullo schermo, rossellinianamente, nella
fragile e precaria consapevolezza della propria identita'. Inizio e fine si
incrociano: il morire e' sempre anche un rinascere, cosi' come il nascere
(di un uomo, di un personaggio) implica il suo morire in quanto ruolo
stereotipato (cioe', in questo caso, in quanto elmo, armatura brunita,
corazza vuota). Il mestiere delle armi e' una sorta di requiem non tanto
sulla guerra (e su un certo modo di intenderla e di combatterla), quanto
sull'inevitabile precarieta' di ogni esistenza. Fatto di ellissi e di buchi,
di addensamenti e di rarefazioni narrative, di ricordi struggenti (il torneo
cavalleresco a Mantova) e di visioni deliranti (le soggettive di Giovanni
morente sugli affreschi di Palazzo Te'), e' un film che procede per
inquadrature frontali, immagini fisse e pose statuarie: quasi una "sacra
rappresentazione", o una via crucis che accompagna la cronaca di un
martirio.
*
La transitorieta' dell'esistere
Le immagini del film trasudano bellezza. Nei paesaggi decolorati e coperti
di neve. Nelle foreste di alabarde che delimitano il campo di battaglia. Nei
volti di donne e di bimbi che osservano straniati e impietriti le tragedie
della Storia. C'e' tanto cinema, nel film di Olmi (il Rossellini de L'eta'
del ferro o de La lotta dell'uomo per la sua sopravvivenza, o l'Ejzenstejn
della battaglia sul lago ghiacciato di Aleksandr Nevskij), ma anche tanta
pittura (le inquadrature sulle lance e sulle alabarde richiamano dettagli di
Paolo Uccello, i primi piani in interni a volte hanno qualcosa di Simone
Martini) e tanta letteratura (dalla frase di Tibullo citata in esergo, alla
scelta di uno scrittore come l'Aretino nei panni del cronista-commentatore
fino alla citazione del "Machiavello" sulla scarsa affidabilita' delle
truppe mercenarie). E' come se Olmi filtrasse la storia che racconta
attraverso tutti i linguaggi possibili: a dispetto del luogo comune che
vuole il suo cinema improntato alla semplicita', Il mestiere delle armi
dispiega sullo schermo una complessita' polifonica e plurilinguistica che
nasce dall'attrito fra i vari codici della messinscena e trova nei segni
piu' che nelle cose (o nelle cose nella misura in cui diventano segni) gli
organismi testuali capaci di produrre senso. Cosi', ad esempio, l'armatura
vuota appesa a penzolare su un treppiede di legno diventa segno della
spersonalizzazione della guerra introdotta dalle armi da fuoco; ma allo
stesso modo e' lo zoom sulla nudita' femminile di un dipinto - non di un
corpo - a farsi segno del delirio desiderante di un uomo che sta per morire;
ed e' la statua lignea del Cristo a cui i soldati pontifici strappano le
braccia per bruciarle e proteggersi dal freddo, a significare la
complessita' di una visione religiosa lontana da ogni forma di dogmatismo o
di ortodossia. La stessa statua amputata e deturpata finira' sulle spalle di
un profeta folle e urlante che la trascinera' per la pianura nebbiosa e
gelata gridando: "Voi non siete che ombre, vuoti simulacri...".
E' in questa immagine che Olmi deposita il senso ultimo del film: Il
mestiere delle armi celebra la transitorieta' dell'esistere e, insieme, la
fiducia nel cinema e nella sua capacita' di rivelazione. Le cose sono la'.
Cosi' gli uomini, le guerre, le armi, le armature. E' il cinema che le (e
li) rivela. E' la luce del cinema che le (e li) fa rivivere. Rimettendo in
moto il tempo che inevitabilmente si ferma. Introducendo asimmetrie la' dove
sembra non esserci che ordine e rigore. Come nella navata della cattedrale
in cui si celebrano le esequie di Giovanni delle Bande Nere: una rigorosa
simmetria funerea e scultorea sembra dominare la disposizione degli uomini e
l'architettura delle cose. Finche' l'apertura della porta, sul fondo, non fa
irrompere la luce. Che spezza, sposta, cambia, muta. E rimette il tempo in
moto. Rendendo di nuovo precario - ma vivo e cangiante - l'oggetto del
nostro guardare. Forse, Il mestiere delle armi e' un solenne e struggente
epicedio sulla transitorieta' di ogni rappresentazione. E sull'infinita ma
indispensabile precarieta' del cinema.
*
Le tappe di una vita al servizio del cinema
1931 Ermanno Olmi nasce a Treviglio, in provincia di Bergamo, il 24 luglio,
da genitori cattolici di origine contadina. Suo padre, ferroviere
antifascista, muore durante gli anni della guerra. Sua madre fa l'operaia in
una filatura dall'eta' di 12 anni.
1947 A 16 anni, dopo aver frequentato senza entusiasmo i primi anni del
liceo scientifico e poi del liceo artistico, Olmi interrompe gli studi ed e'
assunto dalla societa' Edisonvolta, dove gia' lavora sua madre. All'inizio
e' collocato all'ufficio approvvigionamenti, comincia poi a occuparsi delle
attivita' ricreative dell'azienda dirigendo una piccola compagnia
filodrammatica che mette in scena per i dipendenti testi di autori teatrali
come Moliere e Anouilh.
1953 Olmi convince la Edisonvolta a creare un "Servizio Cinema" e ad
affidargliene la gestione. In questo ruolo, dal 1953 al 1961, realizza una
trentina di documentari industriali che costituiscono il suo prezioso e
peculiare apprendistato al mestiere di regista.
1959 Il tempo si e' fermato segna l'esordio di Olmi alla regia di un
lungometraggio.
1961 Il secondo film di Olmi, Il posto, e' presentato con successo al
Festival di Venezia e vince il David di Donatello per la miglior regia.
Nello stesso anno, assieme al critico Tullio Kezich, Olmi fonda la societa'
di produzione "22 dicembre", che negli anni successivi realizzera' film di
registi quali Eriprando Visconti, Damiano Damiani, Lina Wertmuller e
Gianfranco de Bosio.
1963 Olmi sposa Loredana Detto, interprete di Il posto. Dal matrimonio
nasceranno tre figli: Fabio, Elisabetta e Andrea. I fidanzati vince il
Premio Ocic al Festival di Cannes.
1964 Inizia la collaborazione di Olmi con la Rai, che si traduce nella
realizzazione di numerose inchieste filmate su temi d'attualita' politica e
sociale.
1969 I recuperanti vince il Festival del cinema di Montagna a Trento. Olmi
lascia Milano e si trasferisce con la famiglia sull'altopiano di Asiago.
1978 L'albero degli zoccoli vince la Palma d'oro a Cannes e il Cesar per il
miglior film straniero.
1982 Olmi fonda a Bassano del Grappa la scuola "Ipotesi Cinema", da cui
usciranno registi quali Mario Brenta, Giacomo Campiotti, Maurizio Zaccaro,
Piergiorgio Gay e Alberto Rondalli. La filosofia della scuola e' improntata
a un'idea di cinema come testimonianza del presente e come moralita'.
1984 Una grave malattia tiene a lungo il regista lontano dal set e gli fa
sfiorare l'esperienza della morte.
1987 Lunga vita alla signora! vince il Leone d'argento a Venezia.
1988 La leggenda del santo bevitore e' premiato a Venezia con il Leone
d'oro.
2001 Dopo una nuova lunga malattia, Olmi torna alla regia con Il mestiere
delle armi, che si afferma come il film italiano dell'anno.
*
Per saperne di piu'
Jeanne Dillon, Ermanno Olmi, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze
1985.
Tullio Masoni, Adriano Piccardi, Angelo Signorelli, Paolo Vecchi (a cura
di), Lontano da Roma. Il cinema di Ermanno Olmi, La casa Usher, Firenze
1990.
Autori Vari, Ermanno Olmi, "Etudes cinematographiques", n. 187-193, 1992.
Elisa Allegretti e Giancarlo Giraud (a cura di), Ermanno Olmi. L'esperienza
di Ipotesi Cinema, Le mani, Recco Genova 2001.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 185 del 12 ottobre 2008

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