[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
La domenica della nonviolenza. 174
- Subject: La domenica della nonviolenza. 174
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 27 Jul 2008 12:09:29 +0200
- Importance: Normal
============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 174 del 27 luglio 2008 In questo numero: 1. Eric Hobsbawm: Il mercato uccide le democrazie 2. Eric Hobsbawm presenta "Il caos prossimo venturo" di Prem Shankar Jha 3. Derek Boothman: Eric Hobsbawm 4. Bruno Gravagnuolo: Eric Hobsbawm 1. RIFLESSIONE. ERIC HOBSBAWM: IL MERCATO UCCIDE LE DEMOCRAZIE [Dal "Corriere della sera" del 28 ottobre 2007 col titolo "Il mercato uccide le democrazie" e il sommario "Anticipazione. L'allarme dello storico inglese: le privatizzazioni indeboliscono le istituzioni e la politica. Decadono gli Stati nazionali. E cosi' l'unita' di Italia, Spagna e Gran Bretagna e' a rischio" e la nota biobibliogafica "L'autore e le opere. Timori e interrogativi oltre il Secolo breve. Il testo pubblicato in questa pagina e' un estratto dal nuovo libro di Eric Hobsbawm, La fine dello Stato (traduzione di Daniele Didero, pagine 123, euro 9) in uscita il 7 novembre per Rizzoli. Il volume raccoglie e rielabora alcuni testi in cui lo storico britannico discute problemi cruciali del nostro tempo, dal destino delle nazioni al futuro della democrazia, fino alle nuove forme assunte dalla violenza politica. Eric Hobsbawm, nato ad Alessandria d'Egitto da genitori ebrei austriaci, ha compiuto novant'anni lo scorso 9 giugno. Vive dal 1933 in Gran Bretagna, dove presiede il Birkbeck College dell'Universita' di Londra. Storico di formazione marxista, ha acquisito una grande notorieta' internazionale con i suoi studi sull'eta' contemporanea: Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848 (Laterza), Il trionfo della borghesia. 1848-1875 (Laterza), L'eta' degli imperi. 1875-1914 (Mondadori), Il secolo breve. 1914-1991 (Rizzoli). La sua opera piu' recente tradotta in Italia e' Imperialismi (Rizzoli). Francis Fukuyama, Norbert Elias e Moises Naim sono alcuni degli autori di cui Hobsbawm discute le tesi nei saggi contenuti all'interno del volume La fine dello Stato. Il brano pubblicato qui accanto e' tratto da una conferenza tenuta dallo storico britannico al club Athenaeum di Londra". Eric J. Hobsbawm, storico inglese, nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917, docente, intellettuale impegnato per la democrazia. Ha dedicato libri fondamentali alla rivoluzione industriale, alle rivoluzioni borghesi, all'eta' dell' imperialismo e del colonialismo, al movimento operaio, alla storia del Novecento. Opere di Eric J. Hobsbawm: segnaliamo particolarmente le grandi ricostruzioni Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, L'eta' degli imperi. 1875-1914, edite in italiano da Laterza, Roma-Bari; le tre vivaci raccolte di saggi su I banditi, I ribelli, I rivoluzionari, edite in italiano da Einaudi, Torino; Studi di storia del movimento operaio, Einaudi, Torino 1973; Storia sociale del jazz, Editori Riuniti, Roma 1982; ed i piu' recenti Lavoro, cultura e mentalita' nella societa' industriale, Laterza, Roma-Bari 1986; Echi della Marsigliese, Rizzoli, Milano 1991; Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1992; (con Terence Ranger),L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1994; (a cura di), Gramsci in Europa e in America, Laterza, Roma-Bari 1995; Il secolo breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano 1997, 2000; De historia, Rizzoli, Milano 1997; Storia economica dell'Inghilterra. La rivoluzione industriale e l'impero, Einaudi, Torino 1997; Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma-Bari 1999; Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli, Milano 2001; l'autobiografia Anni interessanti, Rizzoli, Milano 2002, 2004; L'uguaglianza sconfitta. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2006; Gente non comune, Rizzoli, Milano 2007; Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007; La fine dello Stato, Rizzoli, Milano 2007] Oggi "il popolo" e' il fondamento e il punto di riferimento comune di tutte le forme di governo statali eccetto quella teocratica. E cio' non e' soltanto qualcosa di inevitabile, ma e' qualcosa di giusto, perche' per avere un qualunque scopo il governo deve parlare in nome e nell'interesse di tutti i cittadini. Nell'epoca dell'uomo comune, ogni governo e' un governo del popolo e per il popolo, anche se chiaramente non puo' essere, in nessun senso funzionale, un governo esercitato direttamente dal popolo. Tale principio non si basa solo sull'egualitarismo dei popoli, che non sono piu' disposti ad accettare una posizione di inferiorita' in una societa' gerarchica governata da uomini superiori "per diritto naturale", ma anche sul fatto che finora i sistemi sociali, le economie e gli Stati nazionali moderni non hanno potuto funzionare senza l'appoggio passivo, ma anche la partecipazione attiva e la mobilitazione, di moltissimi dei loro cittadini. Questo principio rappresenta l'eredita' del XX secolo. Ma sara' ancora la base dei governi popolari, incluso quello liberaldemocratico, nel XXI? La mia tesi e' che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo sta minando alle radici, e che cio' avra' - anzi, sta gia' avendo - serie implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa oggi. L'odierna politica democratica, infatti, si fonda su due assunzioni, una morale - o, se preferite, teorica - e l'altra pratica. Moralmente parlando, essa richiede il supporto esplicito del regime da parte della maggioranza dei cittadini, che si presume costituiscano il grosso degli abitanti dello Stato. Ma per quanto fossero democratici gli ordinamenti in vigore per la popolazione bianca nel Sudafrica dell'apartheid, un regime che privava permanentemente del diritto di voto la maggior parte della sua popolazione non puo' essere considerato come democratico. Gli atti con cui si esprime il proprio assenso alla legittimita' di un sistema politico, come votare periodicamente alle elezioni, possono essere poco piu' che simbolici. Di fatto, e' da molto tempo un luogo comune tra i politologi dire che solo una modesta minoranza di cittadini partecipa costantemente e attivamente alla vita del proprio Stato o di un'organizzazione di massa. Cio' torna a vantaggio di coloro che comandano; e, in effetti, e' da tempo che i pensatori e i politici moderati si augurano la diffusione di un certo grado di apatia politica. Ma questi atti sono importanti. Oggi ci troviamo di fronte a un'evidentissima secessione dei cittadini dalla sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici. Se le elezioni popolari sono il primo criterio di rappresentativita' democratica, in che misura e' possibile parlare di legittimita' democratica per un'autorita' eletta da un terzo dell'elettorato potenziale (la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti) o, come e' avvenuto di recente per le amministrazioni locali britanniche e il Parlamento europeo, da qualcosa come il 10 o il 20% dell'elettorato? O per un presidente americano eletto da poco piu' di meta' del 50% degli americani che hanno diritto di voto? Sul lato pratico, i governi dei moderni Stati nazionali o territoriali - qualunque governo - si basano su tre presupposti: primo, che abbiano piu' potere di altre unita' operanti sul loro territorio; secondo, che gli abitanti dei loro territori accettino, piu' o meno volentieri, la loro autorita'; e terzo, che tali governi siano in grado di fornire ai cittadini quei servizi ai quali non sarebbe altrimenti possibile provvedere, perlomeno non con la stessa efficacia (come "legge e ordine", per riprendere un'espressione proverbiale). Negli ultimi trenta o quarant'anni, questi presupposti hanno progressivamente perso la loro validita'. In primo luogo, pur essendo ancora di gran lunga piu' potenti di qualunque rivale interno, anche gli Stati piu' forti, piu' stabili e piu' efficienti hanno perso il monopolio assoluto della forza coercitiva, non ultimo grazie alla marea di nuovi strumenti di distruzione portatili, oggi facilmente accessibili ai piccoli gruppi dissidenti, e all'estrema vulnerabilita' della vita moderna di fronte agli sconvolgimenti improvvisi, per quanto leggeri possano essere. In secondo luogo, hanno iniziato a vacillare anche i due pilastri piu' solidi di un governo stabile, ossia (nei Paesi che godono di una legittimita' popolare) la lealta' dei cittadini e la loro disponibilita' a servire gli Stati, e (nei Paesi dove questa legittimita' popolare manca) la pronta obbedienza a un potere statale schiacciante e indiscusso. Senza il primo pilastro, le guerre totali basate sulla coscrizione obbligatoria e sulla mobilitazione nazionale sarebbero state impossibili, cosi' come sarebbe stata impossibile la crescita degli introiti erariali degli Stati fino all'odierna percentuale dei Pil (introiti che possono oggi superare il 40% del Pil in alcuni Paesi e il 20% anche negli Stati Uniti e in Svizzera). Senza il secondo pilastro, come ci mostra la storia dell'Africa e di ampie regioni dell'Asia, piccoli gruppi di europei non avrebbero potuto mantenere per generazioni il controllo sulle colonie a un costo relativamente modesto. Il terzo presupposto e' stato minato non solo dall'indebolimento del potere statale ma anche, a partire dagli anni Settanta, da un ritorno, tra i politici e gli ideologi, a una critica dello Stato basata su un laissez-faire ultraradicale, secondo la quale il ruolo dello Stato stesso dev'essere ridimensionato a tutti i costi. Questa critica afferma, piu' per una sorta di fede teologica che non sulla base di evidenze storiche, che ogni servizio che le autorita' pubbliche possono fornire o e' qualcosa di indesiderabile, oppure potrebbe essere fornito in modo migliore, piu' efficiente e piu' economico dal "mercato". A partire da quel periodo, la sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati o privatizzati e' stata massiccia. Attivita' caratteristiche di un governo nazionale o locale come gli uffici postali, le prigioni, le scuole, l'approvvigionamento idrico e anche i servizi assistenziali e previdenziali sono stati ceduti a (o trasformati in) imprese commerciali; i dipendenti pubblici sono stati trasferiti ad agenzie indipendenti o rimpiazzati con subappaltatori privati. Anche alcune parti dell'apparato bellico sono state subappaltate. E, naturalmente, il modus operandi delle aziende private - che mirano alla massimizzazione dei profitti - e' diventato il modello al quale ogni governo aspira a uniformarsi. E nella misura in cui cio' avviene, lo Stato tende a fare affidamento su meccanismi economici privati per sostituire la mobilitazione attiva e passiva dei propri cittadini. Allo stesso tempo, e' impossibile negare che nei Paesi ricchi del mondo gli straordinari trionfi dell'economia mettono a disposizione della maggior parte dei consumatori piu' di quanto i governi o l'azione collettiva abbiano mai promesso o fornito in tempi piu' poveri. Ma il problema sta proprio qui. L'ideale della sovranita' del mercato non e' un complemento, bensi' un'alternativa alla democrazia liberale. Di fatto, esso e' un'alternativa a ogni sorta di politica, poiche' nega la necessita' di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi personali. Si aggiunga che il continuo processo di discernimento per scoprire che cosa vuole la gente, processo messo in atto dal mercato (e dalle ricerche di mercato), deve per forza essere piu' efficiente dell'occasionale ricorso alla grezza conta elettorale. La partecipazione al mercato viene a sostituire la partecipazione alla politica; il consumatore prende il posto del cittadino. Francis Fukuyama ha di fatto sostenuto che la scelta di non votare, cosi' come la scelta di fare la spesa in un supermercato anziche' in un piccolo negozio locale, "riflette una scelta democratica fatta dalle popolazioni. Esse vogliono la sovranita' del consumatore". Senza dubbio la vogliono, ma questa scelta e' compatibile con cio' che abbiamo imparato a considerare come un sistema politico liberaldemocratico? Cosi', lo Stato territoriale sovrano (o la federazione statale), che forma la cornice essenziale della politica democratica e di ogni altra politica, e' oggi piu' debole di ieri. La portata e l'efficacia delle sue attivita' sono ridotte rispetto al passato. Il suo comando sull'obbedienza passiva o il servizio attivo dei suoi sudditi o cittadini e' in declino. Due secoli e mezzo di crescita ininterrotta del potere, del raggio d'azione, delle ambizioni e della capacita' di mobilitare gli abitanti degli Stati territoriali moderni, quali che fossero la natura o l'ideologia dei loro regimi, sembrano essere giunti al termine. L'integrita' territoriale degli Stati moderni - cio' che i francesi chiamano "la Repubblica una e indivisibile" - non e' piu' data per scontata. Fra trent'anni ci sara' ancora una singola Spagna - o un'Italia, o una Gran Bretagna - come centro primario della lealta' dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto cio' non puo' non influire sulle prospettive della democrazia. 2. LIBRI. ERIC HOBSBAWM PRESENTA "IL CAOS PROSSIMO VENTURO" DI PREM SHANKAR JHA [Dal quotidiano "La Repubblica" del 7 luglio 2007 col titolo "Capitalismo: l'ultima crisi" e il sommario "Sul saggio di Prem Shankar Jha. L'India sara' il fulcro del XXI secolo. Anticipiamo parte dell'introduzione che ha scritto per Il caos prossimo venturo dell'economista indiano Prem Shankar Jha (Neri Pozza, pp. 688, euro 25, traduzione di Andrea Grechi e Andrea Spila)". Prem Shankar Jha e' uno dei maggiori economisti indiani; ha studiato filosofia, politica ed economia a Oxford, ha lavorato dal 1961 al 1966 per le Nazioni Unite a New York ed e' poi tornato in India, dove ha collaborato come editor e giornalista alle pagine dell'"Hindustan Times", del "Times of India", dell'"Economic Times" e del "Financial Express". Tra il 1986 e il 1990 e' stato il corrispondente indiano dell'"Economist", e nel 1990 e' diventato collaboratore del primo ministro V. P. Singh. Dal 1997 al 2000 ha insegnato all'Universita' della Virginia. Tra le opere di Prem Shankar Jha, In the Eye of the Cyclone: The Crisis in Indian Democracy, Viking, New Delhi, 1993; The Perilous Road to the Market: The Political Economy of Reform in Russia, China and India, Pluto Press, U.K., 2002; Kashmir 1947: the Origins of a Dispute, Oxford University Press, 2003; in italiano: Il caos prossimo venturo, Neri Pozza, Vicenza 2007] In questi primi anni del XXI secolo si stenta a ricordare l'ottimismo, per non dire il trionfalismo, con cui il crollo del comunismo fu accolto nelle nazioni ricche del Nord del mondo. Dov'e' la "fine della storia" teorizzata da Fukuyama? Oggi, anche i politici e gli ideologi di quei paesi sono molto cauti nelle loro previsioni di un futuro di pace e prosperita' per un mondo che appare in evidente crisi. Il valore di un libro sull'attuale situazione del pianeta, tuttavia, non si misura nel suo essere speranzoso o disincantato, ma nell'aiutarci a capirla, ovvero nel fornire una comprensione storica della crisi presente. Il libro straordinariamente intelligente, lucido e problematico di Prem Shankar Jha supera questa prova a pieni voti. E' una lettura fondamentale per la prima decade di questo terzo millennio. L'autore considera la crisi attuale come l'ultima in ordine di tempo nello sviluppo secolare di un capitalismo per sua propria natura sempre piu' globalizzato. A suo giudizio, questa e' la quarta volta che il capitalismo infrange il suo "contenitore" economico, politico e istituzionale, nel corso di una storia le cui origini egli fa risalire al Medioevo. Come nel passato, la fine di ciascuno di questi cicli di espansione ha segnato il crollo delle istituzioni e un prolungato conflitto tra gli stati e al loro interno, nonche' quello che e' stato definito "caos sistemico"... Ciascuna delle precedenti fasi di espansione capitalistica, sostiene Jha, fu contrassegnata dall'egemonia di un centro economico predominante, e collegata sin dal XVII secolo a un'innovazione di portata storica: lo "stato-nazione" su base territoriale all'interno di un sistema di potere internazionale. Dopo quella che considera l'era delle citta'-stato medievali, dopo l'egemonia economica dei Paesi Bassi seguita da quella della Gran Bretagna, oggi siamo al termine del "secolo americano". Ma nel suo ritmo accelerato, la globalizzazione ha travalicato i limiti della cornice relativamente stabile e flessibile che il capitalismo aveva generato - nello specifico lo stato-nazione con le sue istituzioni e il suo sistema internazionale - e che aveva consentito ad esso di svilupparsi senza esplodere o implodere e di riprendersi dalle crisi della prima meta' del XX secolo. Tale sistema non funziona piu', e nessuna chiara alternativa e' in vista. Bisogna prepararsi a una nuova fase di distruzione e a un caos piu' profondo, prima che le contraddizioni interne ed esterne della crisi attuale della globalizzazione siano superate. Diversamente dalla gran parte delle opere sulla globalizzazione, in genere scritte in Europa o nel Nord America, la voce di Prem Shankar Jha ci arriva dall'India, la regione che probabilmente sara' il fulcro del mondo del XXI secolo, ma il cui spettacolare sviluppo coincide con il "caos sistemico" in cui l'economia globale si trova immersa sin dall'avvio dell'attuale epoca di crisi negli anni Settanta... Gli effetti negativi della globalizzazione sui paesi sviluppati, come anche le conseguenze della loro deindustrializzazione e l'erosione dei loro sistemi di welfare, sono concreti ma lenti, e mitigati dalla ricchezza accumulata in quelle societa'. I terremoti generati in quei paesi sono piccole scosse al fondo della scala Richter economica, ma nel mondo "in via di sviluppo" sono cataclismi. Quando politici e giornalisti dell'Unione Europea parlano di crisi economica, non si riferiscono a quello che Jha giustamente definisce il "tracollo" del 1997-'98, delle cui manifestazioni nel sud-est asiatico fornisce un'acuta analisi; non si riferiscono alle esplosioni sismiche che hanno scosso Brasile, Messico e Argentina a partire dagli anni Ottanta, e che i commentatori occidentali in massima parte giudicarono come la riprova dell'immaturita' degli imprenditori e dei governanti del Terzo mondo rispetto a quelli dei paesi Ocse. Un osservatore appartenente a un paese come l'India, rispetto a quelli dei paesi ricchi, corre meno rischi di confondere gli effetti generalmente benefici dell'industrializzazione e del progresso tecnico-scientifico con le conseguenze assai piu' problematiche della globalizzazione capitalistica incontrollata, vale a dire il drammatico allargamento della forbice tra i redditi pro-capite dei paesi sviluppati e quelli della maggior parte degli altri paesi - e, all'interno di quasi tutti i paesi, il divario tra ricchi e poveri. Soprattutto, e' difficile che non tenga costantemente presente che frasi come "ho fame" o "non ho lavoro" hanno un significato profondamente diverso in paesi con un Pil medio pro capite di 25.000 dollari rispetto a paesi in cui e' di soli 500 dollari. 3. PROFILI. DEREK BOOTHMAN: ERIC HOBSBAWM [Dal quotidiano "Liberazione" dell'8 giugno 2007 col titolo "Hobsbawm, la sua storia dal basso senza le tentazioni del blairismo" e il sommario "Lo storico e intellettuale di spicco della sinistra britannica compie domani novant'anni. Una vita intensa che copre l'arco del '900, 'Il secolo breve', per parafrasare il titolo della sua opera piu' famosa. Ha studiato le vicende degli imperi e del capitalismo". Derek Boothman (Rawtenstall, Gran Bretagna, 1944) e' docente universitario e saggista; acuto studioso di Gramsci, insegna all'Universita' di Bologna, collabora a vari quotidiani e riviste inglesi e italiani. Tra le opere di Derek Boothman: Traducibilita' e processi traduttivi. Un caso: Antonio Gramsci linguista, Edizioni Guerra, Perugia 2004] La storia e' tra i discorsi che caratterizzano la lotta egemonica in Gran Bretagna. E il decano degli storici britannici, nonche' il piu' grande storico marxista vivente, come alcuni lo hanno definito, e' Eric Hobsbawm - tra l'altro, anche presidente onorario di "Terra Gramsci", il network della International Gramsci Society-Sardegna. Domani compiera' 90 anni. Hobsbawm fa parte di un gruppo, per motivi anagrafici ormai molto esiguo, di storici e di altri intellettuali marxisti di altissima levatura, tra cui il critico culturale Raymond Williams tanto per citarne uno, che si iscrissero al Partito comunista britannico verso la fine degli anni '30 e che tanto hanno fatto per rinnovare la cultura nazionale. Nel caso degli storici marxisti, esempio emblematico fu la fondazione, in piena guerra fredda, della rivista "Past and Present". Sebbene si trattasse di una pubblicazione non esclusivamente marxista, inizialmente fu snobbata dai fautori della storia "ortodossa", ma ben presto conquisto' una posizione autorevole anche tra gli storici di stampo conservatore, tanto che i redattori talvolta dovettero far osservare, molto garbatamente, che alcuni articoli che tali storici sottoponevano al loro vaglio non erano congrui alla linea editoriale di una rivista progressista. "Past and Present" aveva solo pochi anni di vita quando entro' in crisi l'ormai leggendario Historians' Group del Pc, che aveva contribuito a farla nascere. In un suo saggio, Hobsbawm nota che il lavoro unitario dei suoi membri, come storici e come comunisti, entro' in crisi intellettuale e morale di fronte al discorso di Khrushchev e ai fatti di Ungheria, anche se essi furono i primi a criticare la chiusura del partito a seguito di tali eventi. Il gruppo si divise: Christopher Hill, grande storico della rivoluzione seicentesca inglese, ed E. P. Thompson, conosciuto a livello internazionale come storico della formazione della prima classe operaia dell'era industriale, lasciarono il partito; Hobsbawm, insieme a Victor Kiernan, massimo storico dell'imperialismo, come lui fieramente antistalinista, decise di rimanere. Tuttavia questa separazione riguardo' solo la tattica da adottare, non la politica, e quindi non influi' che marginalmente sui rapporti professionali e personali tra i componenti del gruppo. La caratteristica del lavoro degli storici marxisti in Gran Bretagna e' la storia from below ("dal basso"), che vede protagonista la gente: in termini gramsciani, e' la storia delle classi subalterne. Hobsbawm, ad esempio, in un saggio pubblicato nel 1959 fu tra i primi storici non italiani ad occuparsi di Davide Lazzaretti, e fu anche tra i primi marxisti britannici ad occuparsi degli scritti di Gramsci, anche se inizialmente non era a conoscenza dei paragrafi dedicati nei Quaderni del carcere al "profeta dell'Amiata". E' stato Hobsbawm ad aver fatto nel 1958 l'unico intervento "inglese" al primo dei convegni decennali dedicati a Gramsci dall'Istituto Gramsci. E grande merito di Hobsbawm e' di aver saputo, piu' di altri, coniugare la storia "dal basso" con i grandi temi nazionali ed internazionali - l'influsso di Gramsci e' evidente, come ha testimoniato egli stesso di recente in video nelle celebrazioni del settantesimo anniversario della morte indette da International Gramsci Society e Fondazione Istituto Gramsci. Nel periodo a cavallo degli anni '50 e '60, sotto lo pseudonimo di Francis Newton, Hobsbawm curo' la rubrica sul jazz per il laburista "New Statesman", settimanale caro alla coscienza critica dei ceti medi laburisti. E sotto tale nome, preso in prestito dal trombettista comunista nero (il molto sottovalutato Frankie Newton, che suonava accanto alla grande Billie Holliday), pubblico' alla fine degli anni '50 The Jazz Scene, una delle piu' interessanti storie sociologiche del jazz. Originariamente espressione di gruppi subalterni, il jazz e' diventato uno dei principali contributi degli Usa, anzi di una parte sociale di quel paese, alla cultura mondiale: una cultura subalterna diventata egemone. Nella biografia di Hobsbawm c'e' anche il rapporto con l'Italia. Dalle sue prime critiche allo stalinismo fino al suo scioglimento, il Pci fu per molti comunisti antidogmatici dell'Occidente un punto di riferimento privilegiato: i tentennamenti di Togliatti avevano meno importanza delle sue posizioni critiche e della sua autonomia di giudizio. La reputazione del Pci non pote' che crescere dopo le prime traduzioni attendibili di Gramsci che, con la sua finezza di analisi, ebbe un ruolo di primo piano nel rinnovamento della cultura della sinistra. E quando i comunisti italiani fecero il loro grande balzo in avanti alla meta' degli anni '70, troviamo Hobsbawm come interlocutore di Giorgio Napolitano nel libro Intervista sul Pci (The italian road to socialism nella versione anglo-americana), volume tradotto in ben dieci lingue. Sul piano storiografico, Hobsbawm si distingue per la sua conoscenza enciclopedica e per l'ampiezza della sua visione. La sua produzione spazia dai ribelli primitivi, argomento di uno dei suoi primi libri, passando per il nazionalismo, allo studio in tre volumi del capitale e dell'impero. Infatti, dalla meta' degli anni Settanta egli scrive, uno dopo l'altro, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il trionfo della borghesia 1848-1875, e L'eta' degli imperi 1875-1914, a cui va aggiunto Il secolo breve 1914-1991 (in inglese i titoli danno il senso della visione unitaria del progetto che purtroppo manca in italiano). Nel suo insieme la trilogia, con postilla sul "secolo breve", e' un lavoro strordinario di sintesi storico-culturale e, al contempo, una critica dell'esistente nelle migliori tradizioni del marxismo. A partire dai tardi anni '70 Hobsbawm diventa intellettuale "pubblico" di punta, senza pero' una posizione formale dentro o fuori del Pc britannico. Il suo nome, assieme a quello di Stuart Hall e di Martin Jacques, direttore del mensile comunista "Marxism Today", compare spesso come protagonista nel dibattito degli anni '80 sullo scacco subito dal movimento operaio. Dalla prospettiva acquisita da storico, Hobsbawm, diversamente da alcuni dirigenti sindacali e politici di sinistra, intravvide e capi' che la politica reaganiana e quella thatcheriana rappresentavano una svolta storica. Purtroppo i "rinnovatori" raggruppati intorno ai nomi di Jacques, Hall e Hobsbawm devono fare i conti con il fatto che alcuni giovani intellettuali dell'ultima leva, tra cui militanti seppure per poco tra le fila del Partito comunista, hanno fornito le giustificazioni per la politica blairista. Va da se' che Hobsbawm e gli altri storici ed intellettuali britannici di altre discipline (Hill, Thompson, Kiernan, Williams e via dicendo) sono stati sempre, e non poteva che essere cosi', politicamente minoritari nel proprio paese. Hobsbawm in particolare e' stato oggetto di non pochi attacchi dalla destra, che non gli ha mai perdonato la sua ininterrotta adesione al movimento operaio, progressista ed antimperialista. E' stata sempre ed e' questa, lo si puo' affermare senza temere smentite, l'area politica di appartenenza di questo grande intellettuale, che ha rappresentato in molti casi un anello di congiunzione tra vecchia e nuova sinistra, riuscendo a incidere profondamente sulla cultura nazionale, risultato pregevole in un paese anglosassone. 4. PROFILI. BRUNO GRAVAGNUOLO: ERIC HOBSBAWM [Dal quotidiano "L'Unita'" del 9 giugno 2007 col titolo "Hobsbawm nel segno di Gramsci e del Jazz" e il sommario "Compleanni. Oggi il grande storico compie 90 anni. Una parabola di ricerca sviluppatasi nel solco del marxismo inglese e arricchita dall'incontro con i Quaderni del carcere. Storia, musica e classi subalterne". Bruno Gravagnuolo e' giornalista del quotidiano "L'Unita'"] "Gramsci? Un dono che la campagna ha fatto alla citta'". E' una battuta di Eric Hobsbawm, lo storico gallese e tra i massimi storici britannici, che proprio oggi compie novant'anni. Bella perche' azzeccata, riferita com'e' a una figura ponte tra masse oppresse e alta cultura del '900, un sardo di ascendenze albanesi, capace di ergersi a visioni globali. Ma bella quella frase perche' racchiude tutto il senso delle passioni e del lavoro di Hobsbawm. Ovvero, l'impegno di conoscenza storiografica, volto alla liberazione delle classi subalterne. Nel contesto dello stato-nazione e in quello piu' ampio del mondo unificato dalle rivoluzioni industriali, a partire dalla prima nell'Inghilterra del '700. Ma chi e' Hobsbawm? Lo abbiamo detto, un grande storico e poi un amico e un ammiratore dell'Italia, e del Pci in particolare, alle cui fortune culturali e alla cui (contrastata) "egemonia" e' legata una parte rilevante della sua biografia. Un'Italia incontrata per la prima volta da "emigrante" a due anni, nel passare da Trieste a Vienna. Da cui fuggira' a fine anni Trenta per sottrarsi alla persecuzione nazista. Italia reincontrata negli anni '50, in visita da Londra, con una lettera di presentazione al Pci di Piero Sraffa. Ma a quel tempo Hobsbawm era gia' entrato nel circolo aureo degli storici marxisti di "Past and Present", leggendaria rivista, all'inizio non esclusivamente marxista, a cui prendevano parte Cristopher Hill, studioso della rivoluzione inglese, E. P. Thompson, storico sociale e della classe operaia, Victor Kierman, storico dell'imperialismo. Dunque Hobsbawm comunista e marxista, che si cimenta con la "storia dal basso": brigranti, ribelli, emarginati, profeti popolari e contadini. Ad esempio studia il Davide Lazzaretti ribelle "escatologico" del Monte Amiata, ignorando che di li' a poco ne avrebbe ritrovato la figura in un'opera destinata a cambiare la sua vita intellettuale: I Quaderni del carcere. E' Gramsci infatti che muta il suo approccio dottrinario benche' mai stalinista. Gramsci che lo persuade che la rivoluzione e' un processo complesso, variegato, "chimico". Che risente delle "onde d'urto" internazionali e le ritraduce nei contesti nazionali. Con rivoluzioni attive, rivoluzioni passive, arretramenti, esplosioni, avanzamenti. Ecco allora che la scoperta di Gramsci e del Pci, fanno di Eric Hobsbawm quasi un propagandista della "diversita'" di entrambi nel mondo comunista. Un lavoro di sdoganamento e rilancio del marxismo in sede politica e storiografica che parte nel gallese dall'amore per quei Quaderni, su cui relaziona al primo dei grandi convegni gramsciani, quello del 1958. E cosi', fecondate da quelle letture, arrivano le grandi opere di Eric Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, 1789-1848; Il trionfo della borghesia, 1848-1875; L'eta' degli imperi, 1875-1914. Ed ancora, gli studi sui briganti, cartografia sociale e antropologica della rivolta endemica di classi sottomesse che stano ai margini e incalzano, ma non si fanno "dirigenti". E poi, il saggio introduttivo alla Storia del marxismo Einaudi, mappa minuta e ancor valida per orientarsi nel dedalo dei marxismi novecenteschi. Infine il suo capolavoro, quello che ha fatto tanto parlare, uscito in Italia da Rizzoli: Il Secolo breve, 1914-1991. Qual e' l'idea di fondo, gramsciana, e compendiata gia' nel titolo? Qualla di un '900 come "eta' degli estremi", tra massacri di massa e progresso della scienza e dei diritti. Di un mondo unificato dalla tecnica, tra barbarie ed emancipazioni collettive. Dove un punto di svolta e' dato dalla prima guerra mondiale, in cui precipitano in lotta gli imperialismi dei grandi stati-nazione. E il punto finale sta nell'ammainabandiera al Cremlino, nel natale del 1991. Periodizzazione criticata quella di Hobsbawm, specie sul "terminus ad quem". Visto che la dinamica di guerre e imperialismi, dopo quella data, e' ricominciata sotto forma di nazionalismi, guerre di civilta' e nuovo disordine mondiale, all'ombra dell'unipolarismo americano. E tuttavia proprio Hobsbawm, ragionandone con Antonio Polito in una intervista Laterza del 1999 (Intervista sul nuovo secolo) si e' mostrato ben consapevole che il suo secolo "breve" si allunga, riproducendo all'infinito, e con maggiore espansione delle forze produttive, tutti i fenomeni in precedenza descritti e avviati dal 1914: lo squilibrio tra stati-nazione e cosmopolitismo globale, non governato. Due volte gramsciano Hobsbawm, nell'indicare quello squilibrio, e nel segnalare la prima volta in cui si manifesta e cioe' la prima guerra mondiale. E oggi? Oggi Hobsbawm e' in bilico tra disicanto, difesa illuminista dell'universalismo, e rivendicazione di cio' che resta dell'utopia comunista. Intesa come capacita' di resistenza al dominio planetario sui diseredati. E del resto, pur nel disincanto, Hobsbawm si oppose, da comunista italiano "acquisito", alla svolta dal Pci al Pds. E il giudizio sul comunismo reale? Per lo storico fu decisivo, malgrado le oppressioni e i fallimenti, a favorire e stabilizzare il Welfare in occidente. E a "con-causare" l'eta' dell'oro: il cinquantennio che va dal 1945 alla meta' dei Novanta. Ultimo appunto: Hobsbawm e' anche un grande amante del Jazz, "musica nera dei subalterni". E scrisse col nome di Frank Newton, tromba di Billie Holiday, The Jazz scene, una storia del genere. Lo incoraggio' Gramsci, quando in carcere predisse: "un giorno berremo il caffe' al mattino col jazz". ============================== LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA ============================== Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 174 del 27 luglio 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: Minime. 529
- Next by Date: Minime. 530
- Previous by thread: Minime. 529
- Next by thread: Minime. 530
- Indice: