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Nonviolenza. Femminile plurale. 188
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 188
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 5 Jun 2008 09:25:09 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 188 del 5 giugno 2008 In questo numero: 1. Anna Simone: Judith Butler a Parigi 2. Rete nazionale femminista e lesbica: Una lettera aperta alla Ministra per le pari opportunita' 3. Igiaba Scego presenta "Umalali" 4. Manuela Camponovo intervista Luciana Tufani (2003) 1. RIFLESSIONE. ANNA SIMONE: JUDITH BUTLER A PARIGI [Dal quotidiano "Liberazione" del 29 febbraio 2008 col titolo "Judith Butler: Piu' laicita'? Diventiamo piu' queer" e il sommario "La teorica femminista e lesbica, tra le maggiori allieve di Foucault, interviene da Parigi e dice ai movimenti antiautoritari come non cadere nella rete dell'omologazione: rinuncia delle identita' e fine della contrapposizione tra occidente e oriente". Anna Simone (Altamura, 1971), ricercatrice nell'ambito delle scienze umane, saggista; collabora con l'Istituto di sociologia del dipartimento di Scienze storiche e sociali dell'Universita' di Bari. Opere di Anna Simone: L'oltre e l'altro, Besa, Lecce 2000; Divenire sans papier. Sociologia dei dissensi metropolitani, Mimesis, Milano 2002. Judith Butler, pensatrice femminista americana, nata nel 1956, insegna attualmente retorica e letteratura comparata all'Universita' di Berkeley, California; e' figura di primo piano del dibattito contemporaneo su sessualita', potere e identita'; le sue ricerche rappresentano uno dei contributi piu' originali all'interno dei cultural studies e della queer theory. Dal quotidiano "Il manifesto" del 24 marzo 2003 riprendiamo questa presentazione di Judith Butler scritta da Ida Dominijanni: "Judith Butler e' una delle massime figure di spicco nel panorama internazionale della teoria femminista. Docente di filosofia politica all'universita' di Berkeley in California, ha pubblicato nell'87 il suo primo libro (Subjects of Desire) e nel '90 il secondo, Gender Trouble, testo tuttora di culto nei campus americani, cruciale per la messa a fuoco delle categorie del sesso, del genere e dell'identita'. Del '93 e' Bodies that matter (Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995), del '97 The Psychic Life of Power. Filosofa di talento e di solida formazione classica, Butler appartiene a quello stile di pensiero post-strutturalista che intreccia la filosofia politica con la psicoanalisi, la linguistica, la critica testuale; e a quella generazione del femminismo americano costitutivamente attraversata e tormentata dalle differenze sociali, etniche e sessuali fra donne e dalla frammentazione dell'identita' che ne consegue. Decostruzione dell'identita', analisi del corpo fra materialita' e linguaggio, critica della norma eterosessuale e dei dispositivi di inclusione/esclusione che essa comporta, critica del potere e del biopotere sono gli assi principali del suo lavoro, che sul piano politico sfocia in una strategia di radicalita' democratica basata sulla destabilizzazione e lo shifting delle identita'. Fin da subito attenta ai nefasti effetti dell'11 settembre e della reazione antiterrorista sulla democrazia americana, Butler e' fra gli intellettuali americani maggiormente imegnati nel movimento no-war. 'La rivista del manifesto' ha pubblicato sul n. 35 dello scorso gennaio il suo Modello Guantanamo, un atto d'accusa del passaggio di sovranita' che negli Stati Uniti si va producendo all'ombra dell'emergenza antiterrorista: fine della divisione dei poteri, progressivo svincolamento del potere politico dalla soggezione alla legge, crollo dello stato di diritto con le relative conseguenze sul piano del diritto penale (demolizione delle garanzie processuali) e del diritto internazionale (violazione di trattati e convenzioni). A dimostrazione di come la guerra in nome della liberta' e la soppressione delle liberta' si saldino in un'unica offensiva di abiezione dei 'corpi che non contano', per le strade di Baghdad e nelle gabbie di Guantanamo". Opere di Judith Butler disponibili in italiano: Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1995; La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004; Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004; Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006. Da "Alias" del 7 ottobre 2006 riprendiamo anche la seguente scheda: "Di Judith Butler, filosofa californiana fra le piu' amate e discusse del panorama femminista internazionale, sono disponibili in italiano Scambi di genere (Sansoni 2004, opinabile traduzione di Gender Trouble, il libro del 1990 che l'ha resa famosa, consacrandola come teorica queer), Corpi che contano (Feltrinelli 1996), La rivendicazione di Antigone (Bollati Borighieri 2003), Vite precarie (Meltemi 2003), La vita psichica del potere (Meltemi 2005). Critica della violenza etica testimonia la piu' recente curvatura del percorso di Butler, che la porta ben oltre il dirompente inizio di Gender Truble, come lei stessa argomenta in Undoing Gender (Routledge 2004) di prossima uscita (Meltemi): la sua ricezione italiana, troppo legata alla sua immagine di partenza, dovrebbe giovarsene. Per un confronto fra posizioni diverse all'interno di una comune matrice femminista poststrutturalista, cfr. Il resoconto di un recente incontro in Polonia fra Butler e Rosi Braidotti in www.metamute.org". Dal sito della Libreria delle donne di Milano riprendiamo la seguente recentissima scheda: "Judith Butler e' Maxine Elliot Professor nel Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Universita' della California di Berkeley. Ha insegnato in precedenza a Princeton e tiene frequentemente corsi e conferenze a Parigi e Francoforte. Di formazione post-strutturalista, e' una figura-ponte fra la filosofia europea continentale e la filosofia e le scienze umane nordamericane: fra gli autori piu' ricorrenti nei suoi scritti: Hegel, Nietzsche, Foucault, Derrida, Freud, Lacan, De Beauvoir, Irigaray, J. L. Austin. Nota in tutto il mondo per il contributo decisivo che ha dato al pensiero femminista con la teoria della performativita' del genere (Gender Trouble, 1990), lavora al confine fra filosofia politica, psicoanalisi e etica. Muovendo, fin dai primi libri, dalla teoria della sessualita', dalla critica della nozione di identita' e dal rapporto fra costituzione della soggettivita', desiderio e norme, negli scritti piu' recenti si interroga sullo statuto dell'umano e delinea una "ontologia della fragilita'" in risposta alla crisi del soggetto sovrano e della sovranita' statuale. Per Gender Trouble, tradotto in venti lingue, e' stata annoverata dal magazine britannico "The Face" fra le cinquanta personalita' di maggiore influenza sulla cultura popolare negli anni Novanta. Con Precarious Life si e' affermata come una delle piu' impegnate voci critiche del pensiero politico americano del dopo 11 settembre. Attualmente sta lavorando sulla critica della violenza di stato nel pensiero ebraico pre-sionista. Quasi tutta la sua opera e' disponibile in italiano e la sua visita a Roma coincide con la traduzione italiana del suo primo libro, Subjects of Desires, e dell'ultimo, Who Sings the Nation State?, scritto con Gayatri Chakravorty Spivak. Opere di Judith Butler: Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York 1987 (di prossima traduzione presso Laterza); Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London 1990 (trad. it. Scambi di genere. Identita', sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004); Bodies that Matter. On the Discoursive Limits of "Sex", Routledge, London 1993 (trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del "sesso", Feltrinelli, Milano 1996); Exitable Speech: A Politics of the Performative, Routledge, London-New York 1997; The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Stanford University Press, Stanford 1997 (trad. it. La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005); Antigone's Claim. Kinship between Life and Death, Columbia University Press, New York 2000 (trad. it. La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003); Precarious Life. The Power of Mourning and Violence, Verso, London 2004 (trad. it. Vite precarie. Contro l'uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004); Undoing Gender, Routledge, London-New York 2004 (trad. it. La disfatta del genere, Meltemi, Roma 2006); Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005 (trad. it. Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006)"] Parigi. Dinanzi alla politica di Sarkozy centrata sull'identita' nazionale e sulla moltiplicazione delle iniziative ministeriali tese alla valorizzazione delle religioni, il quotidiano "Liberation" titola: "Et la laicite', nom de Dieu!", dichiarando tutto il suo sostegno all'appello lanciato dagli insegnanti francesi per salvaguardare la laicita' della Repubblica. Un appello che, tra l'altro, ha gia' raccolto piu' di centomila firme. Ma che vuol dire laicita' repubblicana? E' sufficiente contrapporla all'idea di uno stato confessionale o pluriconfessionale per capire le matrici del razzismo, del sessismo o dell'omofobia? In un mondo ormai globale come il nostro ha senso contrapporre una delle identita' statuali piu' laiche della storia occidentale, come quella francese, all'idea sarkozyana di un'identita' che, anziche' passare attraverso i valori dell'eguaglianza, della fratellanza e della liberta', passa attraverso la valorizzazione delle religioni? E se provassimo a spostare l'asse della contrapposizione sugli effetti perversi che contiene il concetto stesso di identita'? Oggi il problema della composizione sociale della societa' francese, ma anche di tutte le altre societa' occidentali, non e' "quale identita'" assumere, ma l'idea stessa di "identita'" nella misura in cui quest'ultima si traduce in rapporti di forza assunti come dispositivi attraverso cui consolidare vecchi e nuovi poteri. Che rapporto intercorre tra neoliberalismo, democrazia, liberta' e movimenti sociali? Come contrastare il progetto di disumanizzazione dell'umanita' delle politiche globali contemporanee viste ad Abu Ghraib o a Guantanamo? A queste e ad altre domande cerca di rispondere Judith Butler attraverso un ciclo di seminari organizzati a Parigi da Eric Fassin dell'Ecole normale superieure e da Rose-Marie Lagrave dell'Ecole des hautes etudes dal titolo piuttosto esplicativo: "La politica al di la' dell'identita'. La sessualita', la secolarizzazione e le soggettivita' dei movimenti sociali". Dopo aver discusso i limiti normativi dell'ideologia multiculturale, la disumanizzazione dell'umano esplicitata attraverso l'uso della tortura ad Abu Ghraib, Judith Butler si e' soffermata su un tema piuttosto complesso e cioe' sul rapporto che intercorre tra minoranze sessuali e minoranze religiose (ebraiche e musulmane) presenti in occidente, nonche' su come la produzione dei "discorsi" dell'occidente tende a contrapporre entrambe le minoranze strumentalizzandole nell'ottica di fomentare una contrapposizione, sempre piu' feroce, tra laici repubblicani e religiosi. Per minoranza si possono intendere piu' cose, a dire il vero mai del tutto chiare nei testi e nelle conferenze tenute da Butler. C'e' l'idea di "minoranza" intesa foucaultianamente come lotta ai dispositivi della norma e della "condotta delle condotte", che a partire dal '68 ha saputo incarnarsi nei movimenti femministi, gay, queer, dell'antipsichiatria (in poche parole in tutti i movimenti antiautoritari) mostrando come la "lotta di classe" non puo' essere l'unico orizzonte di riferimento, pena costruire una soggettivita' rivoluzionaria monologica, astratta e tendenzialmente conservatrice sul piano delle condotte, e l'idea di "minoranza" legata ai cosiddetti post-hegeliani o post-francofortesi. Questi ultimi, Honneth in primis, tendono infatti a fare della minoranza un progetto politico identitario che tende al "riconoscimento" pubblico sulla scia della famosa metafora del servo che vuole diventare padrone. In poche parole mentre l'idea di minoranza diviene in Foucault una pratica di resistenza che si sottrae alla logica della contrapposizione dialettica e dualistica fondata su basi identitarie, per i post-francofortesi avviene l'esatto contrario: le minoranze devono rivendicare un riconoscimento per entrare come gli altri all'interno dello spazio pubblico. Se nei testi di Butler appare poco chiara la sua propensione per l'una o l'altra teoria, nella conferenza sembra essersi delineata una propensione maggiore verso l'impianto di Michel Foucault. Piu' che parlare delle minoranze religiose - intendendo con esse solo cio' che eccede la norma occidentale e cioe' l'Islam - e delle minoranze sessuali, lei ha cercato di rovesciare il problema ponendosi in primis la seguente domanda: a partire da queste soggettivita' solitamente considerate "anormali" come possiamo pensare oggi la liberta' e la democrazia radicale? Solitamente quando si pensa la politica in relazione alle rivendicazioni delle minoranze si pensa anche al progetto riformista che dovrebbe elargire nuovi diritti a gruppi specifici di persone, mentre quando si pensa alla liberta' sessuale delle donne, dei gay, delle lesbiche etc. si pensa sempre alla modernita' e all'illuminismo da contrapporre all'Islam, che cosi' appare sempre come l'Altro assoluto tendenzialmente barbaro e premoderno. Butler si chiede: il discorso dell'occidente, nel momento in cui comincia a stabilire chi sono i migranti accettabili e chi no, nel momento in cui si pone nell'ottica della risoluzione di problemi come quello dei simboli religiosi o dell'infibulazione non finisce con il costruire sempre dei processi di normalizzazione delle condotte altrui sulla base di norme culturali prima decise per se' e poi imposte al resto dell'universo? Inoltre la normalizzazione delle differenze culturali, nel momento in cui diventa la pre-condizione della cittadinanza, non finisce con l'essere paradossale? Il principio del paradosso e' chiaro: concedere la cittadinanza e i diritti ad essa connessi, tra cui il diritto alla liberta', a condizione che la tua condotta diventi come la mia. Inoltre la liberta' si puo' decidere a priori o, invece, va compresa a partire dai singoli "posizionamenti" incarnati? E' evidente che Butler propende per un'idea di liberta' "posizionata" anche perche' e' un dato oggettivo delle societa' contemporanee quello secondo cui qualsivoglia progetto di integrazione o di pluralismo culturale si traduce irrimediabilmente in un progetto di assimilazione coercitiva. Altro problema. Solitamente l'eurocentrismo di certo femminismo e delle politiche statuali o europee che dir si voglia tende a sostenere la tesi secondo cui le lotte dei movimenti lgbtq vanno lette in un'ottica anti-islamica. Errore grossolano, ci dice Judith Butler. Queste lotte non sono anti-islamiche perche' assai simili alle lotte del femminismo contemporaneo e dei movimenti lgbtq rispetto al punto di partenza: agire affinche' vengano decostruite le matrici del potere di normalizzazione delle condotte avendo, tra l'altro, come nemico comune proprio i dispositivi di sicurezza e quell'idea di liberta' compassionevole elargita dal neoliberalismo. Quest'ultimo non lavora nell'ottica dell'accesso alle liberta' individuali ma tende, invece, a controllare e a produrre eccedenze e scarti da punire o da normalizzare nel momento in cui gli si rivoltano contro o si sottraggono, resistendo, ai suoi diktat. Non c'e' nesso alcuno cioe' tra neoliberalismo e liberta'. Anzi. Tanto e' vero che l'universalismo della misoginia sembra essere del tutto innervato all'interno di questo progetto su scala globale. Ma il liberalismo, si sa, non e' solo di destra. Al liberalismo de gauche, politically correct rispetto al multiculturalismo, ai movimenti lgbtq, al femminismo etc., Judith Butler consiglia di riguardare le modalita' attraverso cui si costruiscono i "discorsi" che, a loro volta, "producono" i soggetti. Modalita' sempre dettate da un'idea di emancipazione intesa come civilizzazione delle abitudini altrui, come se le proprie lo fossero sempre state o lo siano oggi. La storia coloniale dell'occidente ne e' l'esempio piu' paradigmatico. Anche quando ci interroghiamo sulla violenza partendo dal presupposto secondo cui l'Islam e' sempre piu' violento dei nostri discorsi sbagliamo. La domanda va in questo caso posta in modo differente e a tutto tondo: in nome di chi e di cosa produciamo violenza? E allora che fare? Judith Butler suggerisce due ipotesi, una vecchia e una nuova. Ritorna sul concetto di "agency" intendendo con cio' una pratica politica di resistenza al progetto neoliberista che, contemporaneamente, ci mette su un piano di soggettivazione e di azione in grado di costruire un progetto globale di democrazia radicale al di la' degli Stati nazionali e al di la' di certo marxismo autistico nei confronti delle pratiche di resistenza di altre soggettivita' come, per esempio, il femminismo (si veda anche a tal proposito un bellissimo pamphlet scritto insieme a Gayatri Spivak appena tradotto in Francia, L'Etat global, Payot, pp. 108, euro 12). E un'ipotesi nuova. La costruzione da parte dei movimenti di contestazione della norma e di controcondotta di una nuova idea di liberta' "posizionata" in grado di criticare tutte le forme di strumentalizzazione per fini astratti e bellicisti della stessa idea di liberta', cosi' come ci viene propinata a partire dall'illuminismo, passando per il repubblicanesimo sino al neoliberalismo. La conferenza finisce e comincia il dibattito. Una giovane studente interviene e dice: d'accordo, pero' come facciamo per "aiutare" le donne islamiche a togliersi il velo o a non praticare l'infibulazione? Judith Butler sorride e risponde: noi non dobbiamo "aiutare" le donne islamiche, ma dobbiamo lavorare affinche' il femminismo diventi un progetto transnazionale in grado di decostruire la presunta superiorita' della donna bianca. Impossibile darle torto. 2. DOCUMENTI. RETE NAZIONALE FEMMINISTA E LESBICA: UNA LETTERA APERA ALLA MINISTRA PER LE PARI OPPORTUNITA' [Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano (www.universitadelledonne.it) riprendiamo la seguente lettera aperta della Rete nazionale femminista e lesbica alla ministra delle pari opportunita'] Egregia Ministra Carfagna, abbiamo letto con attenzione la Sua "lettera al direttore" del quotidiano "La Repubblica" nella quale descriveva le Sue considerazioni sulla questione della violenza alle donne. Di queste considerazioni non condividiamo quasi nulla. Il contenuto della lettera ci ha invece indotto a scriverLe per introdurLa ad una differente lettura dei dati statistici sulle violenze contro le donne che certamente Le sono noti. Una lettura che trova d'accordo le 150.000 donne, femministe e lesbiche che hanno partecipato al corteo contro la violenza maschile dello scorso 24 novembre. La causa delle violenze degli uomini non risiede nella presunta fragilita' delle donne e di sicuro non va ricercata nel minore interesse a realizzare "la famiglia, quale cellula primaria della societa' italiana". Noi sappiamo che la famiglia e' effettivamente il luogo all'interno del quale si realizzano le piu' atroci violenze. Sembra invece piu' credibile quanto Lei afferma circa il fatto che la famiglia, in quanto "ammortizzatore sociale" necessiterebbe di tutela. E' infatti noto che il welfare italiano chiede alla famiglia di supplire alle carenze di uno Stato che non provvede alla risoluzione della precarieta' di tante persone non in grado di emanciparsi dal bisogno ed essere autosufficienti. Il fatto che la famiglia sia eletta ufficialmente al ruolo di "ammortizzatore sociale" ci rende molto chiaro quale sia il ruolo che viene attribuito alle donne in un contesto che richiede surrogati di servizi, figure palliative obbligate ad assolvere ai ruoli di cura che altrimenti nessuno svolgerebbe. Sappiamo che le scelte economiche del nostro paese in relazione al lavoro hanno come immediata conseguenza quella di riportare a casa le donne obbligandole ad una dipendenza che di sicuro non le aiuta a sottrarsi a situazioni di violenza. Invece crediamo che la famiglia, qualunque essa sia e da chiunque sia composta, debba essere una "scelta" e non un obbligo. Di sicuro non riteniamo che la famiglia sia "un luogo di realizzazione". Lei non puo' negare che la famiglia sia il luogo per eccellenza, a parte poche eccezioni, in cui le donne subiscono violenze. Cio' e' possibile per una distorsione di quella stessa cultura della quale Lei si fa portatrice. Promuovere una politica familista all'interno della quale e' ammesso un unico modello di sessualita' - secondo quanto da millenni qui in Occidente la Chiesa cattolica impone, e altrove analogamente fanno altre religioni - e' il modo migliore per legittimare una mentalita' discriminatoria e sessista di per se' veicolo di violenza. E' poi estremamente pericoloso che Lei assegni alle separazioni, ai divorzi e all'affidamento dei figli e delle figlie la causa delle tensioni che determinano gravissime tragedie all'interno dei nuclei familiari. Una simile considerazione non tiene conto dei dati storici che dimostrano proprio che la maggior parte delle violenze da ex coniugi avviene in occasione degli incontri tra padre e madre per lo scambio del figlio. Stiamo parlando di quei tanti casi in cui l'affido condiviso e' stato concesso nonostante la presenza di denunce per violenze e maltrattamenti nei confronti del coniuge e si permette cosi' all'ex di avere l'opportunita' di continuare a fare del male a moglie e figlio. Lei evidentemente non sa che se e' vero che l'umore degli uomini violenti si appesantisce in presenza di fattori di stress e' anche vero che questi non derivano di sicuro soltanto dalle separazioni e dagli affidi di figli e figlie. Ha Lei forse intenzione di semplificare la vita di queste persone in ogni aspetto? Gli uomini non picchiano perche' fremono dal desiderio di vedersi affidato il figlio dopo una separazione. Sapra' certamente che il padre troppo spesso non versa gli alimenti ne' adempie al proprio ruolo di genitore nonostante vi sia ampia disponibilita' da parte delle madri. Capita anzi che i bambini e le bambine vengano uccisi assieme alle loro mamme proprio da quei padri che intendono l'intera famiglia quale proprieta'. Ed e' questo l'aspetto fondamentale sul quale la cultura non interviene: il possesso. Non sono passati molti anni da quando e' stata eliminata la figura del capofamiglia. Non e' trascorso molto tempo neppure dal momento in cui il padre e' stato privato dello ius corrigendi, il diritto di correzione di ogni membro della famiglia. E' di quella modalita' che stiamo parlando, prima legalizzata e ora culturalmente legittimata. Bisogna intervenire sulla cultura. Bisogna impedire che vi sia una attribuzione di ruoli alle donne che devono poter autodeterminare le proprie esistenze. Ed e' a questo punto che siamo obbligate a ricordarLe che e' Lei per prima a dare un messaggio distorto sul ruolo e le funzioni delle donne. Siamo certe che e' in grado di capire che sostenere la Sua posizione contraria all'interruzione di gravidanza equivale a dire che le donne non possiedono il proprio corpo e non hanno il diritto di autodeterminarsi. Delegittimare le donne nelle proprie scelte rafforza quella visione che le immagina bisognose di tutori che decidano per loro quasi non fossero in grado di intendere e volere. Il messaggio che Lei trasmette e' che le uniche donne che non meritano di essere picchiate o, peggio, uccise, sono quelle che si dedicano alla famiglia come luogo primario di realizzazione e che accettano supinamente di fare dei figli. Secondo questi parametri e' facile che gli uomini si sentano in diritto di dover esercitare su di noi una sorta di controllo sociale, come fossero aguzzini che ci tengono a bada mentre adempiamo ai nostri ruoli, o che si sentano autorizzati a dover reintrodurre il loro sistema di correzione per insegnarci ad essere ben educate, protese alla cura delle esigenze familiari e mai in contraddizione con i ruoli che proprio questa cultura patriarcale ci assegna. Bisogna anche intervenire praticamente, siamo d'accordo, ma non nel modo che intende Lei. Di sicuro non ci sembra un gran segno di "concretezza" il fatto che il governo tagli il fondo di 20 milioni di euro per la prevenzione e il sostegno alle vittime della violenza sessuale. Anzi questo ci dimostra che avevamo ragione: il governo usa i nostri corpi per legittimare la propria politica razzista e poi ci sottrae fondi indispensabili per attuare una politica contro la violenza. Ecco invece quanto noi intendiamo per "concretezza": 1. E' necessario puntare su una politica che rafforzi le possibilita' di autodeterminazione delle donne. Non serve un sistema di leggi che rafforzino il modello securitario. Dentro le nostre case serve che noi siamo in grado di difenderci, di individuare i pericoli per prevenirli, di avere luoghi ai quali poter fare riferimento per andare via prima che si possano verificare mille tragedie, di avere diritto ad una abitazione e ad un lavoro che ci permettano di vivere autonomamente senza dover restare piegate alla dipendenza economica dai mariti. 2. Abbiamo bisogno che i centri antiviolenza non dipendano dagli umori degli amministratori locali ma che vengano stanziati fondi nazionali che ne garantiscano l'operativita'. 3. Abbiamo bisogno di interventi strutturali che stabiliscano delle priorita' difficili, certamente non plateali come l'adozione di eserciti o centinaia di poliziotti che in ogni caso non saranno mai in grado ne' avranno mai il diritto di pattugliare le nostre case. 4. Abbiamo bisogno che i genitori non siano prescrittivi nei confronti delle preferenze sessuali delle proprie figlie e dei propri figli. Non ci deve essere nessun genitore autorizzato ad accoltellare una figlia perche' e' lesbica. Il suo obiettivo come Ministro per le pari opportunita' e' garantire che le opportunita' siano veramente "pari" per tutte le donne. Le azioni del Ministero delle pari opportunita' devono essere improntate a riconoscere e promuovere le nostre reali necessita'. Sia garante della concreta promozione dei diritti umani delle donne, primo tra tutti il diritto ad una vita libera dalla violenza, il diritto alla scelta su cosa fare della nostra vita e dei nostri corpi, cosi' come voluto dalle principali convenzioni internazionali. Cordiali saluti Rete nazionale femminista e lesbica 3. MUSICA. IGIABA SCEGO PRESENTA "UMALALI" [Dal quotidiano "Il manifesto" del primo giugno 2008, col titolo "Umalali, il ritmo e' donna" e il sommario "Nei segreti del popolo garifuna. Un disco che travalica l'aspetto musicale e si mette sulle tracce di una cultura orale fatta di sangue e speranza. Cinquanta le voci femminili coinvolte nel progetto". Igiaba Scego, "somala di origine, italiana per vocazione", figlia di Ali Omar Scego, ex-ministro degli esteri somalo, e' nata a Roma nel 1974, dopo che i suoi genitori si sono rifugiati in Italia, fuggendo del colpo di stato di Siad Barre. Laureata in letterature straniere presso la Sapienza di Roma, divide il suo tempo fra la scrittura e la ricerca (dottorato in pedagogia all'Universita' Roma Tre). Le sue opere, come proprio la sua stessa identita', sono sempre in equilibrio sullo sfumato confine tra le sue due culture, quella materna e quella adottiva, che le permettono di guardare tutte e due dalla distanza e dalla vicinanza allo stesso tempo. Nel 2003 vince il premio Eks&Tra di scrittori migranti con il suo racconto 'Salsiccia' e pubblica il suo romanzo di esordio. Opere di Igiaba Scego: La nomade che amava Alfred Hitchcock, Sinnos, 2003; Rhoda, Sinnos, 2004; (con Gabriela Kuruvilla, Ingy Mubiayi), Pecore nere. Racconti. Laterza, 2005. Da "Il manifesto" del 29 luglio 2007 riprendiamo la seguente breve scheda: "Alla diaspora somala appartiene anche Igiaba Scego, nata a Roma nel 1974, dopo che i suoi genitori si erano rifugiati in Italia, in seguito al colpo di stato di Siad Barre. Dopo avere vinto nel 2003 il premio letterario Eks&Tra dedicato agli scrittori migranti con il racconto 'Salsiccia', ha pubblicato con l'editore romano Sinnos il suo romanzo di esordio, La nomade che amava Alfred Hitchcock, seguito da Rhoda per la stessa casa editrice. Il suo terzo romanzo uscira' all'inizio del 2008 per Donzelli. Sui temi dell'immigrazione collabora a diverse testate, fra cui 'Nigrizia', 'Latinoamerica' e 'Carta'"] Umalali in lingua garifuna significa voce. Umalali e' anche il nuovo progetto discografico (targato Cumbancha e Stonetree records), tutto al femminile, di storie e suoni della cultura garifuna. Il progetto segue il grande exploit dell'album Watina di Andy Palacio, morto il 19 gennaio scorso a soli 47 anni. Vincitore del prestigioso Womex Award 2007 e del Bbc Radio 3 Awards 2008, Watina e' stato considerato uno degli album piu' suggestivi e commoventi del 2007. Andy Palacio attraverso la sua voce onirica ha ridato dignita' a un popolo che ha sempre difeso strenuamente la propria identita' meticcia e il proprio percorso di lotta. * La storia di questo popolo solare e battagliero parte da una nave portoghese salpata dal porto di Goree nel 1635. Non era una nave qualsiasi, da Goree non si partiva certo per fare una villeggiatura. Nelle stive uomini e donne neri in catene pronti per essere venduti nei mercati di Nord e Sud America. Un carico di carne umana che i portoghesi volevano far fruttare a loro beneficio. Ma una tempesta arrivo' a sconquassare i piani e a portare la liberta' agli incatenati. Gli africani infatti approfittarono della situazione per uccidere gli schiavisti. Approdarono nella vicina San Vicente, un'isola delle Antille minori davanti al Venezuela, dove vivevano indios, dediti alla pesca, chiamati Callipona. Gli indios, da tempo in lotta con i colonizzatori francesi e inglesi, accolsero i nuovi arrivati. Anche perche' erano assai debilitati dalle malattie e avevano bisogno di alleati in forze. Inizio' cosi' una convivenza che porto' ad un mix di sangue nero e auraco, un popolo nuovo che chiamo' se stesso Garinagu o Garifuna. Un popolo che si dipingeva il corpo alla maniera callipona, che coltivava la yuca, che mangiava il casabe, ma che conservava dell'Africa il culto per los antepasados, la gestione collettiva della terra e l'uso del tamburo nelle funzioni religiose. San Vicente ben presto divenne anche il rifugio degli schiavi che scappavano dalle piantagioni delle Barbados in cerca di liberta'. Le autorita' coloniali non potevano accettare che ci fosse una societa' nera e libera, per questo i garifuna, come succedera' ai quilombos in Brasile, furono strenuamente combattuti. Soprattutto gli inglesi furono tra gli acerrimi nemici di questo popolo. Imposero loro trattati umilianti e li osteggiarono in tutti i modi. La data che cambio' (in peggio) la storia dei garifuna fu il 1795. Joseph Chatoyer, uomo dalle idee libertarie e influenzato dal giacobinismo della rivoluzione in corso in Francia, fu ucciso e il suo popolo disperso. I garifuna furono cacciati come lepri: demolite le case, distrutta la cultura, uccisi, torturati. Dopo questo genocidio, i pochi rimasti furono deportati prima nell'isola di Balliceaux, dove molti morirono per le febbri, e successivamente nell'isola di Roatan. Da allora hanno popolato quasi tutta la costa atlantica dell'Honduras, del Guatemala e parte dell'attuale Belize, mantenendo la propria autonomia, vivendo in armonia con la madre terra e gestendo le risorse della natura secondo la cosmovisione tradizionale. Ancora oggi la vita dei garifuna non e' facile. Minacce di tutti i tipi li assediano. Lottano soprattutto per salvare da un turismo selvaggio le loro terre incontaminate e la gestione collettiva delle medesime. Leader garifuna come Alfredo Lopez hanno pagato con sette anni di carcere il proprio impegno. Anche l'Italia ha contribuito a rendere impossibile la vita di questo popolo. Come non ricordare le polemiche che creo' la scelta del set dell'Isola dei famosi edizione 2005. Set che si trovava a Cayo Palma una delle isole dell'arcipelago nord dell'Honduras, zona di pesca dei garifuna. Il reality con la sua troupe rischiava di mettere a repentaglio il fragile ecosistema dell'arcipelago. * Oggi i garifuna stanno lavorando per preservare la propria cultura e soprattutto la propria musica. Se Watina ha rappresentato la punta di diamante di un lavoro che affonda le sue radici mobili nei secoli, Umalali e' certamente il degno successore. Ripescare la musica garifuna ha due artefici principali. Uno e' Jacob Edgar: etnomusicologo, talent scout, ex ricercatore della Putumayo world music, capo della casa discografica Cumbancha (nata nel 2005, Cumbancha significa festa, divertimento). E' lui ad aver dato l'avvio ad un percorso di ricerca dando alla musica garifuna uno spazio mainstream. L'altro e' il giovane Ivan Duran musicista del Belize che ha prodotto i lavori garifuna e a cui ha dato letteralmente la caccia, soprattutto alle voci femminili. Infatti e' dal 1997 che Duran viaggia di villaggio in villaggio alla ricerca di queste voci. Il suo e' stato un lavoro certosino che lo ha portato a registrare negli ambienti quotidiani delle donne, dalle cucine ai soggiorni, dai cortili ai templi, fino ad arrivare a spiagge di una silenziosa bellezza. Dall'Honduras al Guatemala sono state cinquanta le donne coinvolte nel progetto Umalali e dodici i brani presenti nel disco. Donne portatrici di una cultura orale dove la storia e' fatta di carne, sangue, liquido amniotico e speranze. Si ricorda, attraverso un ritmo serrato di paranda, gunjei e hungu-hungu la difficolta' di un travaglio, la ricerca di un amore, la devastazione dell'uragano Hattie. Su tutte si stagliano sovrane le voci di Sofia Blanco e della giovanissima Desere Diego, una bella ventenne dotata di potenza ed espressivita'. Le dodici tracce e le immagini dei video ci catapultano in un mondo dove le tribu' ibo, yoruba e ashanti dell'Africa si fondono con i ritmi Arawak degli indios e le influenze franco-spagnole che hanno sempre dominato il Centroamerica. Come nella migliore tradizione della paranda le percussioni la fanno da padrone. Le donne nei loro abiti colorati ballano la punta, condendo con movimenti giocosi e sensuali questa danza funebre che accompagna la vita che e' stata con quella che verra'. Ascoltando Umalali si capisce che salvaguardare la musica garifuna non significa metterla sottovetro come un reperto archeologico, anzi e' vero tutto il contrario. Conservare qui significa mantenere il movimento dei flussi, delle influenze, dello scambio. Quello che si vuole salvaguardare e' lo spirito della collettivita' che insieme crea, insieme canta, insieme ama. 4. ESPERIENZE. MANUELA CAMPONOVO INTERVISTA LUCIANA TUFANI (2003) [Dal "Giornale del popolo" del 17 aprile 2003 col titolo "Edizioni al femminile anche un po' svizzere. Intervista con Luciana Tufani, che dirige l'omonima casa editrice" e il sommario "Nata nel 1996 dall'esperienza della rivista 'Leggere Donna' (creata nel 1980), la Luciana Tufani Editrice pubblica nelle sue collane opere solo di donne e/o su donne. Dall'incontro casuale con Annemarie Schwarzenbach e' iniziato l'interesse anche per le scrittrici elvetiche". Manuela Camponovo, giornalista, responsabile dell'inserto culturale settimanale del "Giornale del popolo". Su Luciana Tufani dal sito della sua preziosa casa editrice www.tufani.it riprendiamo la seguente scheda: "Luciana Tufani, nata a Trieste da madre slovena e padre napoletano, ha vissuto nei primi anni in diverse citta' e paesi per poi approdare prima a Milano, dove ha frequentato le scuole elementari e medie e infine a Ferrara dove ha frequentato il liceo classico e poi l'universita', laureandosi in chimica. Ha poi insegnato per anni in molte scuole della citta' e della provincia, sia medie che superiori, materie scientifiche: da matematica a biologia, chimica e geografia. Sempre a Ferrara, ha fondato nel 1980 il Centro Documentazione Donna che tuttora dirige. La sua casa editrice pubblica la rivista bimestrale "Leggere Donna", fondata nel 1980, e, dal 1996, libri di narrativa, saggistica e fumetti. Oltre che editrice e' anche direttrice editoriale sia della rivista che della casa editrice. Ha ideato e organizza la Biennale internazionale dell'umorismo "Le donne ridono". Ha scritto diverse bibliografie tra cui Leggere donna. Guida all'acquisto dei libri di donne: la prima edizione, comprendente le scrittrici di lingua inglese e tedesca, e' stata pubblicata dalle Edizioni e/o, e la seconda, completa, dalla Luciana Tufani Editrice. Tra le opere di Luciana Tufani: Bibliografia sulla condizione femminile, Bovolenta, Ferrara 1977 (pubblicato anche con il titolo Proposte di letture sulle donne, insieme a Notizie sulla stampa femminile, in Perche' la stampa femminile?, Bovolenta, Ferrara 1977); Leggere donna. Guida all'acquisto dei libri di donne, Edizioni e/o, Roma 1994; LeggereDonna. Nuova guida all'acquisto dei libri di donne, Tufani, Ferrara 1996; Prefazione a Zaide, Tufani, Ferrara 1997; "Le preziose. Le scrittrici e l'ironia. La meta' migliore del delitto", in Pensare un mondo con le donne, a cura di Franca Cleis e Osvalda Varini, Associazione Dialogare, Lugano 2001"] Luciana Tufani ha fondato a Ferrara, nel 1996, l'omonima casa editrice che si occupa esclusivamente di scrittura femminile; in quest'ambito troviamo anche un filone svizzero, inaugurato con Annemarie Schwarzenbach (La valle felice, ma anche la biografia di Areti Georgiadou, La vita in pezzi), proseguito con Corinna Bille (Eterna Giulietta, La damigella selvaggiª) e Mariella Mehr (Il marchio). * - Manuela Camponovo: Signora Tufani, come e' nata l'idea di creare una casa editrice dedicata a scritti solo di e/o su donne? - Luciana Tufani: Sono sempre stata una grande appassionata di letteratura in generale, per molti anni ho affrontato libri di ogni genere ma sentivo che mi mancava qualcosa a livello emozionale. Poi, quasi per caso, ho cominciato a leggere in maggior numero libri di donne e da quel momento non ho piu' smesso perche' finalmente mi sentivo "completa" nella lettura, nel senso che trovavo che molte idee di queste autrici mi appartenevano. Proprio da questa passione e' nata prima l'idea della rivista, volevo far conoscere alle altre persone il mondo sconfinato della letteratura al femminile e, successivamente, e' nata l'idea della casa editrice. E' un lavoro impegnativo e faticoso ma mi da' una grande soddisfazione poter dare voce ad autrici di talento. * - Manuela Camponovo: Non c'e' il rischio di creare una sorta di "effetto apartheid" o comunque di contrassegnare una differenza che spesso le stesse scrittrici negano? - Luciana Tufani: Partendo dal punto di vista che viviamo in una societa' ancora prettamente maschilista e che esistono culture in cui la donna viene ancora "annullata" come essere umano, privata cioe' di ogni suo fondamentale diritto, direi che pubblicare libri di donne, e quindi dare loro voci e spazi, non costituisce una forma di apartheid, anzi... La vera ghettizzazione, e non solo delle donne, e' operata da tutti coloro che si sentono in diritto di considerarsi "elementi superiori" della societa'; l'indipendenza della donna e' ricca di storie e di lotte, il nostro passato e' sicuramente differente da quello degli uomini eppure non criminalizziamo l'uomo per tutta la violenza che ci ha riservato nel corso dei secoli. Siamo cresciute, siamo maturate, abbiamo avuto la forza di ritagliarci i nostri spazi. Non vogliamo essere come gli uomini, siamo donne, credo che il negare la differenza fra i sessi sia sbagliato. Le scrittrici che lo fanno, probabilmente, non hanno ben chiara l'idea di indipendenza. Dell'uomo invidiano quella forma di potere distruttivo che ha regnato per secoli, vorrebbero essere uomini per poter dominare. La nostra e' una sensibilita' diversa, i nostri occhi vedono le cose in modo diverso. E questo non e' un discorso che riguarda solo uomini e donne nel senso stretto della parola, le differenze culturali, religiose, sessuali, eccetera, esistono, l'importante e' non creare barriere, entrare in contatto con il mondo che ti si presenta davanti, comunicare e confrontarsi. * - Manuela Camponovo: Nella scrittura femminile vi sono differenze di stile e di contenuti? - Luciana Tufani: Non penso esista uno stile diverso, o per meglio dire penso che tutti gli stili siano differenti ma non e' una questione di sesso. Piuttosto, per le donne, parlerei di un punto di vista differente da quello maschile proprio per via della storia che ci accompagna, esprimere emozioni e sensazioni o esperienze che si conoscono bene e che magari si sono vissute sulla propria pelle e' certamente differente dall'immaginarlo. * - Manuela Camponovo: Lei ha iniziato la sua avventura "svizzera" con Annemarie Schwarzenbach: com'e' avvenuto questo incontro? E, in generale, le caratteristiche che ne fanno un personaggio hanno inciso sul grande interesse editoriale suscitato dalla sua opera? - Luciana Tufani: A dire il vero la scoperta di Annemarie Schwarzenbach e' stata una cosa piuttosto casuale, mi sono avvicinata a questa autrice per volere di una mia collaboratrice. Certo credo che la vita "avventurosa e dannata" di Annemarie abbia contribuito moltissimo a creare il suo personaggio e quindi a farla apprezzare come scrittrice. Per quanto mi riguarda io ho avuto l'opportunita' di conoscere il mondo delle scrittrici svizzere. Non credevo ce ne fossero tante e la maggior parte con un gran talento e questo mi ha aiutato a superare anche lo stereotipo di "ordine e correttezza" che avevo della Svizzera. Molte autrici mettono in evidenza la loro parte piu' oscura. Fra quelle che preferisco ci sono sicuramente Corinna Bille e Alice Rivaz. * - Manuela Camponovo: Quali altre scrittrici svizzere vorrebbe far tradurre e pubblicare? - Luciana Tufani: Ce ne sono molte, nel mio futuro, fra le quali Ruth Schweikert e Catherine Safonoff. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 188 del 5 giugno 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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