Nonviolenza. Femminile plurale. 187



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 187 del 4 giugno 2008

In questo numero:
1. Anna Bravo: Prima della 194
2. Adele Cambria: Prima della 194
3. Olivia Fiorilli: Una lotta che continua
4. Eleonora Cirant: Lo svuotamento della legge dall'interno
5. Beatrice Busi: Donne in liberta' provvisoria

1. RIFLESSIONE. ANNA BRAVO: PRIMA DELLA 194
[Dal quotidiano "La repubblica" del 21 maggio 2008 col titolo "Domani il
trentennale della legge sull'aborto".
Anna Bravo, storica e docente universitaria, vive e lavora a Torino, dove ha
insegnato Storia sociale. Si occupa di storia delle donne, di deportazione e
genocidio, resistenza armata e resistenza civile, cultura dei gruppi non
omogenei, storia orale; su questi temi ha anche partecipato a convegni
nazionali e internazionali. Ha fatto parte del comitato scientifico che ha
diretto la raccolta delle storie di vita promossa dall'Aned (Associazione
nazionale ex-deportati) del Piemonte; fa parte della Societa' italiana delle
storiche, e dei comitati scientifici dell'Istituto storico della Resistenza
in Piemonte, della Fondazione Alexander Langer e di altre istituzioni
culturali. Luminosa figura della nonviolenza in cammino, della forza della
verita'. Opere di Anna Bravo: (con Daniele Jalla), La vita offesa, Angeli,
Milano 1986; Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991;
(con Daniele Jalla), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della
deportazione dall'Italia,  Angeli, Milano 1994; (con Anna Maria Bruzzone),
In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995,
2000; (con Lucetta Scaraffia), Donne del novecento, Liberal Libri, 1999;
(con Anna Foa e Lucetta Scaraffia), I fili della memoria. Uomini e donne
nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000; (con Margherita Pelaja, Alessandra
Pescarolo, Lucetta Scaraffia), Storia sociale delle donne nell'Italia
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna
2003; A colpi di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008]

Chi avrebbe immaginato, nel 1968, '69, '70, che nel giro di qualche anno in
Italia si sarebbe varata una normativa per la legalizzazione dell'aborto?
All'epoca il tema non rientra negli obiettivi dei movimenti, e neppure del
preoccupato Pci. Per la Democrazia Cristiana e per la Chiesa quasiasi forma
di depenalizzazione e' inconcepibile. L'opinione pubblica, oltre che divisa,
sembra pigra. A sollevare la questione, il Movimento di liberazione della
donna, vicino al Partito Radicale, alcuni dei primi gruppi femministi,
qualche giornale di impegno civile, qualche esponente socialista, in prima
fila Loris Fortuna. Non e' poco, ma non basta.
Eppure su come vanno le cose si sa tutto o quasi. Le donne abortiscono
clandestinamente, il che, se qualcuno l'avesse dimenticato, voleva dire
ricerca affannosa di un medico, un'ostetrica, una praticona, soldi da
trovare, appartamenti-scannatoio senza nome sul campanello, prezzo pagato in
anticipo, un tavolo da cucina come letto operatorio, metodi pericolosi, a
volte letali. In questi anni si puo' morire perche' non si riesce a ottenere
un intervento piu' sicuro. E perche' la Repubblica non ha ancora trovato
modo di abrogare la legge fascista, che fa dello Stato il titolare della
fecondita' nazionale, persegue l'aborto come delitto contro l'integrita' e
la sanita' della stirpe, e con l'articolo 553 del Codice penale vieta
l'infomazione sugli anticoncezionali, assimilati a materiale pornografico.
Senza questi dati elementari, oggi sarebbe difficile capire il senso di
slogan come "io sono mia", oppure "l'utero e' mio e lo gestisco io", cosi'
simili al "potere studentesco" del '68 nell'utopismo sovrano e nella
capacita' di rendere lo spessore della storia.
Un corpo sociale minimamente sensibile vedrebbe l'aborto clandestino come
una ferita, una classe poltica  e intellettuale responsabile come
un'urgenza. Ma tutto resta fermo finche' non si fa strada il movimento delle
donne, piu' variegato, ampio, influente, di quanto si aspettavano le stesse
femministe. La campagna per la depenalizzazione e' anzi in tutto l'occidente
la svolta verso una dimensione di massa - anche le legislazioni democratiche
criminalizzano l'aborto, sia pure con motivazioni diverse da quelle del
codice fascista - e verso un nuovo clima piu' benevolo e solidale.
L'interessante e' che la lotta esplode quasi contemporaneamente in paesi
molto diversi, e che segue una strategia per certi aspetti simile. Spesso si
parte da un processo altamente scandaloso per la condizione dell'accusata -
giovane eta', gravidanza in seguito a stupro, problemi economici o di
salute - e se ne fa un "caso" capace di scuotere l'opinione pubblica. In
Italia spiccano il processo del '73 alla giovane Gigliola Pierobon, e
l'incriminazione nel '74 a Trento di 273 donne. E' comune anche il passaggio
alla pratica degli obiettivi, come si diceva allora, con la creazione di
Centri in cui si praticano aborti o si organizzano viaggi in Inghilterra e
Olanda.
L'impalcatura delle leggi proibizioniste crolla dovunque piu' rapidamente
del previsto. Perche' i tempi sono cambiati, ma soprattutto perche' fra le
donne ha prevalso una strategia saggia, visibilita' e provocazione da un
lato, realismo dall'altro, vale a dire ancoraggio all'esperienza. E' grazie
a questo legame che il femminismo sostituisce alla contrapposizione
aborto/non aborto quella fra aborto legale e aborto clandestino, che insiste
sul destino dei figli non voluti, che si interroga sul concetto di diritto
all'aborto, sul senso stesso di una legge.
E qui le strade divergono. Nei gruppi del femminismo storico si teme che
quel concetto riduca l'aborto a una tappa fra le altre nell'allargamento dei
diritti civili; ci si chiede se sia il caso di sostenere una legge che
pretenda di decidere sul corpo delle donne, cui spettano invece "la prima
parola e l'ultima". L'Udi preme per una regolamentazione, salvando pero' la
facolta' di decidere delle donne. Le femministe della "nuova sinistra", che
puntano alla depenalizzazione e insistono sul gap di classe, vedono nella
lotta sull'aborto anche l'amata opportunita' di uscire "all'esterno"; e
uscita all'esterno vuol dire raccolte di firme, grandi manifestazioni,
lavoro nei quartieri a fianco delle donne. E risultati. Una legge lo e'.
Sara' una buona legge, non la migliore possibile.
*
Questo e' un pezzo di storia studiato e chiarito. Ce n'e' un altro piu' in
ombra, fitto di contraddizioni. Lo schieramento per la depenalizzazione -
femministe, poltici, intellettuali - insiste quasi in blocco sui costi
fisici e psichici dell'aborto, fino a fare del dolore femminile un assoluto.
Non e' sempre stato cosi': nel '71 una femminista nota, Elvira Banotti (La
sfida femminile, De Donato, 1971), aveva sostenuto che l'aborto puo' essere
anche un momento di liberta' e di pienezza; che se qualcuna lo vive come un
trauma, e' perche' da secoli lo si considera un peccato e un crimine: una
tesi che semplifica l'insemplificabile, e che viene accantonata senza
discuterla. Nel medesimo schieramento, si parla delle donne come di vittime,
ma senza spiegare se siano o no le uniche. Si definisce mortifero l'aborto,
ma lo si dice in senso simbolico.
Si crea cosi' un modello di racconto, un copione in cui la donna soffre e
agisce per stretta necessita'. E questa diventa l'unica cifra socialmente
accettabile per raccontare un'esperienza che e' invece carica di
ambivalenze, a cominciare dal rapporto con il feto.
Dietro quel copione ci sono buone ragioni di ordine politico. Il fronte
antidepenalizzazione assimila l'aborto all'omicidio, alcuni gruppi "pro
life" usano (e osano) mostrare fotografie di minuscoli feti con braccia
gambe testa, bambini in miniatura. I partiti di sinistra esitano; piu' che
una mediazione si profila un compromesso. Ma ci sono anche altre
inquietudini. Parlare di aborto implica definire cos'e' vita, quando
comincia, in che rapporto stia con la coscienza, e forse concentrarsi sul
dolore e' un modo per non chiedersi chi o cosa lo provoca, chi o cosa viene
rimpianto. A dispetto delle sue molte voci, su questo punto il femminismo
rimane quasi del tutto silenzioso, le donne rischiano di consegnare il
monopolio dell'etica ai credenti, alla Chiesa - o ai suoi politici di
fiducia.
Eppure fra i due estremi del feto-persona e del feto-grumo di cellule, anche
in questi anni c'e' uno spazio in cui lavorare. Fra le studiose americane di
filosofia morale, qualcuna si confronta seriamente con gli argomenti "pro
life", ma spostando l'attenzione dalle caratteristiche del feto al suo
rapporto con la donna. Passaggio importante: una cosa e' attribuirgli i
diritti fondamentali, altra cosa e' sancire il suo diritto specifico a
ricevere tutto quel che gli e' necessario per vivere. Judith Jarvis Thomson
ricorre a un paradosso: ammettiamo, scrive, che un cittadino prezioso, per
esempio un violinista inarrivabile, possa restare in vita solo se una
donna - quella e nessun'altra - accetta di metterglisi al fianco e di
restarci ininterrottamente, collegata a lui da una macchina. Per lei, dire
di si' diventa un obbligo morale? O, piu' sensatamente, e' un'opzione che e'
libera o no di scegliere, anche se il rifiuto porta alla morte di lui?
Troppo astratto, aveva detto qualcuna all'epoca.
Ma anni dopo se ne trova eco in un atto unico di Jane Martin, Keely and Du,
dove una giovane donne violentata dal marito e decisa ad abortire viene
rapita da un prete e dalla sua aiutante, che per scongiurare quello che
giudicano un omicidio decidono di tenerla incatenata fino al parto, ridotta
a puro contenitore del feto. "Per amore", dicono, e l'autrice, raccontando
la relazione che nasce fra le due donne, lascia capire che, per quanto
deviato, e' in parte reale. Programmato in Italia a marzo, Keely and Du e'
stato ben accolto. Segno, forse, che la disponibilita' a misurarsi con il
nucleo etico dell'aborto e' aumentata. Qualcuno lo considera un guadagno:
parlando degli anni Settanta, un uomo raccontava tempo fa di aver
sottoscritto tutti gli appelli per la depenalizzazione. Oggi li avrebbe
firmati ugualmente, spiegava, ma dopo aver pensato di piu' e a molte piu'
cose di allora.

2. MEMORIA. ADELE CAMBRIA: PRIMA DELLA 194
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 5 gennaio 2008 col titolo "La storia della
194. Prezzemolo e cucchiai d'oro: l'Italia ai tempi delle mammane"
Adele Cambria, intellettuale femminista, giornalista, scrittrice, ha
collaborato a molti giornali e alla Rai; e' stata cofondatrice e direttrice
di "Effe", ha diretto il quotidiano "Lotta Continua"; partecipa
all'attivita' del Teatro La Maddalena a Roma ed e' autrice di vari testi
teatrali. Tra le opere di Adele Cambria: Maria Jose', Longanesi, 1966; Amore
come rivoluzione, Sugarco, 1976; In principio era Marx, Sugarco, 1978;
L'Italia segreta delle donne, Newton Compton, 1984; Nudo di donna con
rovine, Pellicano Libri, 1986; Isabella. La triste storia di Isabella Morra,
Osanna Venosa, 1997;  Storia d'amore e di schiavitu', Marsilio, 2000]

C'e' qualcuno che si e' incaricato di svegliare le coscienze, a cominciare
da quelle delle donne incinte, le donne con la pancia... Ma avete mai
sentito parlare di quei rituali primitivi in cui i maschi della tribu'
mimano le doglie del parto, nel momento in cui la loro donna le affronta?
Avete mai sentito parlare di invidia (maschile) della gravidanza? E' un
pensiero che, lo ammetto, ha avuto il potere di riportarmi indietro di oltre
quarant'anni. Una curiosita', pero', vorrei che qualcuno me la
sciogliesse... La moratoria delle pance, chiamiamola cosi', e perdonate se
noi donne fummo materialiste ben prima di Carlo Marx, come si ottiene? Con
un filtro magico alla Harry Potter che congelera' tutte le pance femminili
gravide - e non solo quelle italiane ma pare anche europee - in attesa che
"si riapra il dibattito"?
La questione dell'aborto. Quella era, lo scrissi su "Tempo presente" nel
1974, "una lotta arretrata in un Paese arretrato, come nell'ultimo scorcio
dell'Ottocento lo erano state le lotte operaie e contadine al grido di 'Pane
e lavoro'". Quando di aborto si arrivo' a discutere pubblicamente - avevano
cominciato a farlo i radicali e le donne del Movimento di liberazione della
donna - io avevo gia' avuto la fortuna di incontrare una ginecologa
(triestina), che nel 1962, dopo la nascita del mio secondo bambino, mi aveva
svelato l'esistenza del diaframma (piu' tardi avrei letto Il gruppo,
istruttivo e divertente romanzo di Mary McCarthy, pubblicato in Italia
soltanto nel '64). Avevo potuto quindi rendermi conto dell'enorme privilegio
costituito dall'informazione, specie per le donne, anche se il titolare e i
commessi dell'unica farmacia romana in cui il diaframma era in vendita -
dietro presentazione di una ricetta medica ovviamente ambigua - ti porgevano
l'oggetto e, periodicamente, la crema di cui era necessario rifornirsi
girando la testa dall'altra parte...
*
E fu cosi' che in un pomeriggio nuvoloso del 1967, mi ritrovai al sit-in
organizzato dai radicali e dall'Mld (Movimento di liberazione della donna)
in piazza Montecitorio, anzi seduta per terra attorno all'obelisco, insieme
a forse una dozzina di donne: c'era Edda Billi, pioniera del femminismo
romano, con un cartello dal significato parzialmente oscuro ai celerini che
ci sorvegliavano, "Aborto libero e vasectomia" ("Signora, che cos'e' la
vasectomia?", mi chiese uno di loro). E c'era una giovanissima Eugenia
Roccella, credo sedicenne, con sua madre. L'impegno politico di Wanda si
sarebbe presto rivelato costante: dalle labbra rosse del poster che disegno'
per dire un gigantesco "No" alla abolizione referendaria della legge che
introduceva il divorzio in Italia, alla partecipazione militante al centro
antiviolenza di Palazzo Nardini al Governo Vecchio, occupato, nel 1976, per
l'iniziativa della figlia.
I pochi uomini del Partito Radicale presenti quel giorno al sit-in, e che
scandivano insieme a noi gli slogan - "Anticoncezionali gratuiti per non
abortire, aborto libero per non morire" - ricordo che erano giovanissimi, ma
non saprei dire se ci fosse, tra loro, anche Francesco Rutelli.
Nel 1970, al suo primo congresso, il Movimento di liberazione della donna
lancia il dibattito politico sull'aborto, affermando: "La lotta per la
liberalizzazione dell'aborto viene scelta dall'Mld come una battaglia per
scardinare la sudditanza sociale della donna".
Il 1973 fu una data importante: con la pubblicazione di "Effe", il mensile
che, fin dal primo numero, esprimeva la doppia anima del movimento
femminista italiano: quella "rivendicazionista" e l'altra, di ancor piu'
lungo periodo, di trasformazione culturale. Tra le prime rivendicazioni, la
fuoriuscita dall'aborto clandestino di massa. Il codice penale (Codice
Rocco, licenziato nel 1931 in regime fascista, e tuttora in gran parte
vigente) definiva l'aborto un reato, e comminava 5 anni sia per la donna che
abortiva - nel caso fosse sopravvissuta alle pratiche delle mammane - sia
per chi la faceva abortire. Nello stesso Titolo X, "Dei delitti contro la
sanita' e l'integrita' della stirpe", era incluso il reato di "Incitamento a
pratiche contro la procreazione". Fino al 1971, quando una sentenza della
Corte Costituzionale ha abolito questo articolo, il 553, e liberalizzato gli
anticoncezionali.
*
E sempre nel 1973, quando il movimento delle donne cominciava gia' a
disturbare la quiete pubblica, il Tribunale di Padova decise di "dare un
esempio": conducendo sul banco degli imputati una ragazza "colpevole" di
avere abortito quando aveva sedici anni, Gigliola Pierobon. La legge, pur
severissima, restava fino allora largamente inapplicata, perche' si era ben
consapevoli, anche da parte degli stessi magistrati, di quanto fosse
inapplicabile: in un Paese in cui si stimavano da 800.000 a due milioni di
aborti volontari all'anno. "I processi per aborto che si celebravano ogni
anno erano si' e no uno ogni 10.000 aborti procurati" scrivono Elena
Marinucci e Laura Remiddi in un testo, Guida all'aborto legale, edito da
Marsilio nel 1978, che ricostruisce anche la storia di "Otto anni di lotte
in parlamento e nel paese".
Per Gigliola Pierobon cominciammo a raccogliere le firme con la seguente
dichiarazione: "Ho abortito e/o ho aiutato un'altra donna ad abortire". Ne
furono raccolte cinquemila. Consegnate al settimanale "L'Espresso", non
ricordo se furono mai pubblicate. Personalmente fui incaricata di telefonare
a donne vip. Attrici, imprenditrici, collezioniste d'arte... Alcune si
sottrassero protestando giustificazioni puerili. Monica Vitti: "Firmerei
subito, ma i miei genitori stanno a Citta' del Messico, se leggono la
notizia sul giornale gli prende un colpo!". Luisa Spagnoli: "Non posso
coinvolgere l'impresa che ha il mio stesso nome". Avrei capito meglio un
rifiuto leale. Come quello, comprensibile, di non poter aderire alla formula
proposta perche' non rispondente ai fatti del proprio vissuto.
Il processo a Gigliola divento' comunque il primo processo politico del
movimento femminista italiano: i magistrati se la cavarono con una sentenza
di "perdono giudiziale", perche' all'epoca la ragazza era minorenne; le
militanti femministe piu' coraggiose, dalla Grande Madre del movimento
romano, Alma Sabatini, alle piu' giovani Lara Foletti ed Antonella Del
Mercato, si schierarono in prima fila tra il pubblico, e cominciarono a
scandire lo slogan che ho citato. Furono fermate e poi denunciate.
Accelero il ritmo del mio calendario. Il 1975 vede un'immensa manifestazione
di donne a Firenze... Ricordo una ragazza dai riccioli fulvi in gonnellone
fiorito arrampicata sul Davide di Michelangelo, con il cartello "Piu'
devianze meno gravidanze", ma c'e' anche una giovanissima Emma Bonino... Il
corteo protesta contro l'arresto di un medico, Canciani, che con il Cisa,
fondato dalla radicale Adele Faccio, pratica l'aborto militante con il
metodo Karman. L'arresto di Adele Faccio avverra' in pubblico, il 26 gennaio
1975, sul palcoscenico del cinema Adriano a Roma. Con lei si consegna alle
forze dell'ordine il segretario del Partito Radicale Gianfranco Spadaccia.
*
Nel 1976 accetto l'invito delle donne dell'Mld a candidarmi alle politiche
in Calabria e in Puglia. Avevo detto si' perche' donne che stimavo me
l'avevano chiesto. Eppure vivevo un momento di rifiuto della "festa"
femminista. Sentivo la fatica dell'appartenenza ad un popolo di vittime.
Vittime dell'aborto clandestino. Nel mio viaggio di ritorno al Sud, dovunque
ci fosse anche un piccolo gruppo di ragazze vibranti di passione
intellettuale ed esistenziale per la scoperta del femminismo, c'era
purtroppo quasi sempre una richiesta di aiutare una compagna che non poteva
permettersi di avere un bambinoÖ E non potevo non ammirare il coraggio e la
solidarieta' delle ragazze dell'Mld che intervenivano con l'aborto
militante... Le storie di aborti che ormai raccoglievo da anni non le ho
dimenticate. Ne cito soltanto due: una giovane donna della Magliana, a Roma,
venne a trovarmi a casa e mi racconto' l'incredibile comportamento dei
medici: le avevano diagnosticato un "utero bicorne", per cui una ulteriore
gravidanza - aveva gia' due figli - avrebbe messo a rischio la sua vita, e
poi, senza darle informazioni sui contraccettivi, l'abbandonavano in pratica
in mano alle mammane. La seconda storia me la racconto' Maria Occhipinti,
l'eroina siciliana della rivolta dei "non-si-parte" (l'avrebbe poi scritta
in un suo libro di racconti, Il carrubo). Una contadina della campagna
vicino a Ragusa,aveva avuto sette figli e fatto altrettanti aborti dalla
levatrice. Ma poiche' suo marito "non si contentava" - mi raccontava
pudicamente Maria - una notte scese nella stalla e senza mutande si sedette
sullo strame, per prendere una infezione che la rendesse sterile.
Ancora a proposito di Sicilia: quando il Pci decise di impegnarsi su una
legge che consentisse l'interruzione legale della gravidanza, Giglia
Tedesco, donna indomita, parti' per l'isola per parlare con le donne. "Ma lo
sai che moltissime, tra le donne del popolo, sostenevano che la legge
dell'aborto c'era gia', pero' l'aborto dovevano farlo con le mammane,
perche' erano povere?!".
*
Dopo, nel 1978, fu la legge, la 194. Confermata dal referendum del 1981.
Come i radicali (e anche tante femministe, a cominciare da Lidia Menapace),
credevo che sarebbe stata meglio, innanzitutto per le donne, la
"fuoriuscita" dal codice penale del reato d'aborto. Senza nessun'altra
normativa se non quella che includesse l'intervento, in determinate
condizioni di reddito, nell'ambito delle prestazioni riconosciute dal
Servizio sanitario nazionale.
Oggi sono persuasa - come del resto Umberto Veronesi ha scritto ieri su "La
Repubblica" - che l'informazione sulla contraccezione sia fondamentale. Ed
aggiungo che - almeno per le cittadine italiane adulte, e ancora piu' per i
loro partner - ormai non dovrebbe essere accettata la "distrazione" in
materia... Da anni, poi, ritengo che la pillola RU486 aiuti qualsiasi donna
ad assumersi la piena responsabilita' della sua scelta. Senza voci
soprattutto maschili a frastornarla.

3. RIFLESSIONE. OLIVIA FIORILLI: UNA LOTTA CHE CONTINUA
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul
quotidiano "Liberazione" del 21 maggio 2008 col titolo "Le cattive ragazze
che anche oggi non smettono di lottare".
Olivia Fiorilli, intellettuale e giornalista femminista, e' redattrice de
"Il paese delle donne"]

La liberta' di scegliere se interrompere o meno una gravidanza, garantita -
pur tra molte difficolta' - dalla legge 194 e' stata, negli ultimi
trent'anni, continuamente messa in discussione nei fatti - attraverso un
progressivo "svuotamento" della norma - e a parole. Le femministe, ormai, ci
hanno "fatto il callo". Questo attacco perpetuo ha spesso "inchiodato" i
movimenti femministi all'urgenza del momento e li ha costretti a stare sulla
difensiva. Anche il Sommovimento femminista e lesbico - nato con una grande
manifestazione contro la violenza sulle donne - si e' sviluppato in
contemporanea all'ennesima offensiva contro la liberta' di aborto. E non
poche hanno espresso la volonta' di non lasciarsi dettare l'agenda dai
continui attacchi all'autodetrminazione delle donne e alla legge 194. Anche
se la consapevolezza dell'importanza di difendere lo spazio di liberta'
aperto da questa norma, sudato frutto della lotta dei movimenti femministi
negli anni '70, resta diffusa. Come e' diffusa l'idea che la messa in
discussione di questa legge - in questo momento - non potrebbe che essere
molto pericolosa. Eppure avanza la percezione di un'importante svolta nella
forma degli attacchi all'autodeterminazione delle donne in tema di aborto.
"La legge 194 non va cambiata, ma applicata in ogni sua parte". Questo leit
motiv e' diventato ormai a dir poco "sospetto" per quante mantengono uno
sguardo vigile sugli spazi di autodeterminazione delle donne. Nonostante gli
ultimi "affondi" del papa e del settimanale "Famiglia cristiana",
nell'ultimo periodo l'attacco a questa liberta' sembra passare di preferenza
attraverso l'uso di alcune parti di una legge che, non a caso, e' intitolata
"Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria
della gravidanza". Anche la campagna di Giuliano Ferrara a favore di una
"moratoria sull'aborto", uno degli attacchi alla liberta' di aborto piu'
eclatanti dell'ultimo periodo, non ha mai avuto come obiettivo una modifica
del testo della legge. "L'elefantino" ha sempre sostenuto che la sua e' una
battaglia culturale contro la "barbarie" dell'aborto ed il "maltrattamento
disumanizzante della vita umana". La neoministra delle pari opportunita',
Mara Carfagna, e' riuscita - con un ragionamento contorto e con un
linguaggio francamente inquietante - a dare ragione a Benedetto XVI, pur
sostenendo di essere contraria alla revisione della legge. "Condivido le
parole del Papa quando afferma che la 194 e' una ferita, che oggettivamente
ha fatto perdere all'Italia milioni di vite provocando un danno spirituale e
demografico al Paese" ha scritto la ministra, "questo e' dovuto soprattutto
ad una cattiva e incompleta applicazione della norma".
Che la legge 194 offra piu' di una sponda ai progetti degli anti-abortisti
nostrani, l'ha notato da tempo anche il collettivo femminista milanese
Maistat@zitt@, che all'assemblea nazionale del sommovimento femminista e
lesbico del 12 gennaio scorso ha riproposto, come parola d'ordine, la
"depenalizzazione dell'aborto", gia' appartenuta ad una parte dei femminismi
degli anni 70. "Adesso che siamo circondate da malintenzionati che vogliono
entrare e spaccare tutto possiamo anche gridare 'non si fa!', ma forse
sarebbe stato meglio, quando lo si poteva fare, rimetterci mano e aggiustare
le serrature", scrivono le Maistat@zitt@, che dalla Regione Sagrestia - come
e' stata ribattezzata la Lombardia di Formigoni - hanno assistito a piu' di
un tentativo di "sfondamento" portato avanti "forzando un po'" la 194. A
partire dal limite temporale per effettuare un aborto terapeutico, fissato
dalla Regione a 22 settimane (al momento il Tar ha sospeso il provvedimento,
ma la Regione ha fatto ricorso al Consiglio di Stato). In questo caso la
giunta Formigoni ha approfittato del fatto che la 194 non pone dei limiti
temporali per l'aborto terapeutico, ma - all'articolo 6 - specifica che
questo puo' essere praticato solo se l'eta' gestazionale non permette la
sopravvivenza del feto (salvo nel caso in cui la vita della donna sia in
pericolo): limite che varia insieme alle evoluzioni della tecnica.
Ma la 194 offre anche la sponda all'ingresso dei volontari anti-abortisti
nei consultori (articolo 2) e, soprattutto, al dilagare dell'obiezione di
coscienza, prevista dall'articolo 9. E' per fare un "passo avanti", oltre la
mera difesa della legge, che le Maistat@zitt@ hanno lanciato la campagna
"obiettiamo gli obiettori". Si tratta di organizzarsi non solo per
rivendicare, ma anche per praticare dei diritti. Il collettivo milanese ha
infatti proposto di raccogliere informazioni negli ospedali e nei
consultori, individuando i medici obiettori e boicottando le strutture dove
questi sono piu' presenti.
La campagna e' stata accolta da piu' parti in Italia. "La legge 194 e' una
conquista per le donne, per la loro liberta' di scelta, per la loro salute,
ma la legge in questione va cambiata" scrive il collettivo Malefimmine di
Palermo, che ha condotto un'inchiesta sui consultori del capoluogo siciliano
per monitorare la presenza degli obiettori al loro interno. "La legge 194
sancisce il diritto di ogni donna di decidere della propria vita e poi, con
un assurdo controsenso, limita lo stesso permettendo a dei bigotti
clerico-fascisti di decidere al posto della donna, opponendo il veto alla
richiesta di aborto, rifiutandosi quindi di fornire un servizio. (...) Siamo
pienamente convinte che si debba lottare per abolire l'art. 9 e si debba
eliminare la figura dell'obiettore. Il contratto di lavoro dovrebbe
vincolare il medico a rispettare la salute di ogni donna!".
Anche il gruppo donne dell'ex Snia Viscosa di Roma, che da anni lavora
all'interno dei consultori e ultimamente ha dato vita ad un'assemblea delle
donne all'interno di quello di piazza dei Condottieri, si e' posto il
problema dell'obiezione di coscienza e sta cercando soluzioni. Ma la messa
in discussione di una legge che negli ultimi trent'anni ha garantito - bene
o male - la possibilita' di ricorrere all'interruzione volontaria di
gravidanza fa ancora paura. Soprattutto di questi tempi.

4. RIFLESSIONE. ELEONORA CIRANT: LO SVUOTAMENTO DELLA LEGGE DALL'INTERNO
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul
quotidiano "Liberazione" del 21 maggio 2008 col titolo "Obiettori di
coscienza e demonizzazione, cosi' ne fanno carta straccia".
Eleonora Cirant, intellettuale femminista, ricecatrice, impegnata
nell'Unione femminile nazionale, nell'Associazione Osa-Donna Osservatorio
Donne Salute, nella Libera universita' delle donne di Milano e in varie
altre esperienze del movimento delle donne; e' tra le fondatrici del
coordinamento "Usciamo dal silenzio"; collabora con l'agenzia stampa
"Delt@", scrive su "Pedagogika", "Il Paese delle donne", "Towanda!",
"Liberazione", suoi saggi sono apparsi in testi collettivi. Opere di
Eleonora Cirant: Non si gioca con la vita. Una posizione laica sulla
procreazione assistita, Editori Riuniti, Roma 2005]

La piu' tormentata delle leggi italiane e' di certo la 194 "per la tutela
sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza".
Ciclicamente se ne invoca la piena applicazione, tanto da parte dello
schieramento pro-scelta, quanto dagli avversari "pro-life". Gli uni
sottolineano i punti della legge che garantiscono liberta' di scelta, tutela
della salute e della dignita' della donna, tempi rapidi e metodiche
efficaci; gli altri si appellano all'articolo 2, che prevede l'impegno per
la rimozione delle cause che inducono la donna ad abortire, anche tramite
convenzioni tra i consultori e le associazioni di volontariato.
Tirata da una parte e dall'altra, la corda pende a sinistra o a destra a
seconda delle stagioni politiche e dei rapporti di forza presenti nel paese.
Lo sgretolamento della legge dal suo interno e' un processo che dura da
anni, non appariscente, forte di procedure consolidate. Quali? La mancata
applicazione della legge in alcune sue parti (artt. 8, 9, 15), la negligenza
rispetto ad altre leggi collegate (la 405 sui consultori, il Progetto
obiettivo materno-infantile) con il depauperamento dei consultori pubblici e
il sostegno economico a consultori di matrice cattolica che sollevano
"obiezione di coscienza di struttura", la criminalizzazione delle donne che
scelgono di abortire, l'inserimento del concetto di vita sin dal
concepimento in leggi e regolamenti regionali (fino ad obbligare alla
sepoltura dei feti). La fuga di ginecologhe/i di recente formazione, che
rifiutano in massa di praticare l'interruzione volontaria della gravidanza
(Ivg) prediligendo altri e piu' gratificanti percorsi; l'abbandono di
politiche di prevenzione nelle scuole con la diffusione di una cultura della
sessualita' responsabile, rispettosa di se' e dell'altra/o.
I tempi di attesa tra la certificazione e l'intervento dimostrano il poco
conto in cui sono tenuti gli articoli 8 e 9 della 194. Dopo una settimana
dal suo rilascio, il documento che attesta la volonta' della donna di
abortire costituisce per legge "titolo per ottenere in via d'urgenza
l'intervento". In pratica, una donna su 5 attende piu' di 3 settimane,
mentre solo il 54,2% riesce ad abortire entro le due settimane. Questo
grazie all'aumento del personale obiettore, rilevato anche nell'ultima
relazione del ministero della Salute per tutte le professionalita', con i
ginecologi al 69,2% (rispetto al 59,6% della precedente relazione), gli
anestesisti al 50,4% (rispetto a 46,3%) e 42,6% per il personale non medico
(39% nella precedente relazione). Questi valori raggiungono percentuali
particolarmente elevate nel sud Italia, con una media del 71,5%. Al nord,
Lombardia e Veneto si difendono bene, rispettivamente con un 68,6% e 79,1%.
La situazione e' variabile all'interno delle regioni, dove il monitoraggio
dell'obiezione di coscienza e' realizzato solo per iniziativa di
associazioni e movimenti.
Poco conta che l'art. 9 della legge obblighi gli enti ospedalieri e le case
di cura autorizzate ad "assicurare l'espletamento delle procedure previste",
sottolineando che "la Regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche
attraverso la mobilita' del personale". Le liste d'attesa suggeriscono che
la mobilita' sia soprattutto quella delle donne, costrette a migrare da una
citta' all'altra.
La legge e' ignorata anche dal punto di vista dell'aggiornamento della
tecnica e della formazione del personale (art. 15). Rimane infatti
inaccessibile l'aborto medico, raccomandato dalla Commissione europea nel
periodo tra la quinta e la settima settimana di gestazione. Il metodo Karman
(con aspirazione) e' il metodo piu' sicuro per l'interruzione nel primo
trimestre, ma il 35% delle Ivg e' ancora effettuato con strumento metallico
(raschiamento) e l'anestesia generale e' praticata nell'85% dei casi, quando
e' dimostrato che aumenta i rischi.
Questi ed altri sono i punti su cui intervenire per una migliore
applicazione della legge 194 secondo le linee guida pubblicate a marzo di
quest'anno dall'ex ministro della Salute.
Ma il governo Berlusconi sembra andare in tutt'altra direzione come hanno
annunciato alcune sue esponenti: "informare le madri sulle strade
alternative e sulla prevenzione all'aborto" per Giorgia Meloni; impedire la
diffusione della RU486 per la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella;
promuovere "una normativa a favore della famiglia che incentivi le nascite"
per la ministra alle Pari opportunita' Mara Carfagna.

5. MEMORIA. BEATRICE BUSI: DONNE IN LIBERTA' PROVVISORIA
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente articolo apparso sul
quotidiano "Liberazione" del 21 maggio 2008 col titolo "Le donne dicono
basta alla liberta' provvisoria".
Beatrice Busi, intellettuale femminista, giornalista e saggista, impegnata
nell'esperienza di "A/Matrix", collabora con varie testate]

E' l'estate del 1971. Il codice penale Rocco, ereditato dal fascismo,
considera l'aborto "delitto contro l'integrita' e la sanita' della stirpe",
nessuna deroga e' consentita, le pene previste sono durissime. I documenti
dell'epoca stimano che sono ventimila all'anno le donne che muoiono per
aborto in Italia. Se non bastasse, ogni anno vengono denunciate centinaia di
donne, a decine sono processate.
"Sessualita' femminile e aborto", uno dei primi documenti del femminismo
radicale italiano, chiarisce immediatamente qual e' la posta politica in
gioco nella lotta per l'aborto libero e gratuito. "Noi di Rivolta femminile
sosteniamo che da uno a tre milioni di aborti clandestini calcolati in
Italia ogni anno costituiscono un numero sufficiente per considerare
decaduta di fatto la legge antiabortiva. (...) Ci rifiutiamo oggi di subire
l'affronto che poche migliaia di firme, maschili e femminili, servano da
pretesto per richiedere dagli uomini al potere, dai legislatori, quello che
in realta' e' stato il contenuto espresso da miliardi di vite di donne
andate al macello dell'aborto clandestino. Noi accederemo alla liberta' di
aborto, e non a nuova legislazione su di esso, a fianco di quei miliardi di
donne che costituiscono la storia della rivolta femminile".
Nel 1973 inizia il processo a Gigliola Pierobon, una data che rimane una
pietra miliare nella storia del movimento femminista italiano degli anni
'70. E' il primo processo per aborto che diventa "fatto politico". Lola
aveva abortito nel 1967, quando aveva 17 anni. Nel frattempo e' diventata
femminista. Quando le comunicano il rinvio a giudizio, ne parla con le sue
compagne. Decide di allargare il suo caso a tutte le donne, trasformare la
sua condizione soggettiva per ritrovare il "comune" della condizione
femminile. E insieme alle sue compagne decise di fare del processo un "fatto
politico".
Il 5 giugno, a Padova, arrivano centinaia di donne da tutta Italia.
Contemporaneamente si svolgono assemblee e sit-in anche in altre citta', a
Roma, Firenze, Venezia, Milano, Trieste. Le donne, fuori e dentro l'aula,
gridano "Noi tutte abbiamo abortito!". "Noi donne siamo tutte in liberta'
provvisoria", scrive Lotta femminista, gruppo nato dall'esodo delle donne
dalle strutture della nuova sinistra. "Lo Stato mantiene le donne in
liberta' provvisoria per costringerle a tenere piegate le loro teste e a
tenere chiuse le loro bocche. E la Chiesa gli da' man forte. Il 5 giugno a
Padova le donne accusarono pubblicamente lo Stato di strage continuata e
aggravata rispetto a tutte le donne che sono morte e muoiono per le
condizioni disumane in cui avviene l'aborto clandestino. E accusarono
pubblicamente la Chiesa di complicita'".
Da li' in poi, la lotta si generalizza, i cortei si ingrossano, cresce la
partecipazione maschile, esplodono le contraddizioni. Il collettivo di via
Cherubini, di Milano, il 18 gennaio 1975 scrive "Noi sull'aborto facciamo un
lavoro politico diverso" e si domanda quale sia il senso di una presenza
maschile nella lotta per l'aborto libero e gratuito senza che ci sia una
messa in discussione dei comportamenti sessuali.
A febbraio un altro documento, "Procreazione e lotta di classe", del
Comitato triveneto per il salario al lavoro domestico rincara la dose. "La
stessa richiesta che sia 'gratuito' in bocca ad Avanguardia operaia, Pdup
per il comunismo, o Lotta continua e gli altri non si capisce che senso
abbia se non di uno dei tanti 'servizi' che devono essere gratuiti. Ma
l'aborto non e' un 'servizio', restare incinte contro la propria volonta' e'
l'incidente sul lavoro di chi e' destinata nelle condizioni capitalistiche
alla procreazione, alla riproduzione della forza lavoro. (...) La donna che
abortisce allora deve non solo poterlo fare in modo gratuito ma ricevere
un'indennita' per infortunio sul lavoro".
Il 6 dicembre del 1975 piu' di 20.000 donne sfilano a Roma per l'aborto
libero, gratuito e assistito. E' un corteo separato, gestito secondo i
"criteri dell'autonomia organizzativa femminista".
Le mobilitazioni del movimento femminista mirano alla depenalizzazione e non
a una legislazione ad hoc sull'aborto. Una posizione comune sia al Movimento
di liberazione della donna, inizialmente federato al Partito radicale e poi
resosi autonomo, sia al Movimento femminista romano, che nel 1976 scrive:
"Noi ribadiamo la nostra posizione per la totale abrogazione del reato di
aborto. Qualsiasi forma di legislazione sull'aborto, anche la piu' ampia,
presuppone un controllo sulla donna".
I motivi li descrive bene il documento "Autodeterminazione: un obiettivo
ambiguo", contenuto nel Sottosopra rosa del gennaio 1976, che entra nel
merito della legge sull'aborto proposta in parlamento ed esprime la
posizione di molti altri gruppi di autocoscienza di Milano, Torino, Firenze:
"L'unica cosa che vogliamo da una legge e' la cancellazione del reato,
dunque la depenalizzazione". L'autodeterminazione, dice quel documento, non
e' piu' tale se ci si subordina agli interessi dei partiti - il conflitto
con il Pci fu accesissimo - e della logica parlamentare; se ci si affida
alla regolamentazione esterna dello stato; se, una volta ottenuta la legge,
si impiegano le energie in una lotta difensiva le cui regole sono date dalle
istituzioni ospedaliere, giudiziarie, amministrative. Niente di piu' vero,
la storia successiva, soprattutto quella piu' recente, da' ragione e corpo a
tutti questi dubbi.
Nel 1978, la "nuova unita' nazionale" viene suggellata anche sul corpo delle
donne. Il 22 maggio, tredici giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo
Moro in via Caetani, la Camera approva definitivamente la legge 194
sull'interruzione volontaria di gravidanza con 308 voti contro 275. Votano
si' Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e gli Indipendenti di sinistra. Viene cosi'
sventato il "pericolo" del referendum, fissato per giugno, che chiedeva
l'abrogazione delle norme fasciste del codice penale, compresa quella
sull'aborto, promosso dalle 500.000 firme presentate dal Partito radicale.
Nel 1987 la Libreria delle donne di Milano, in Non credere di avere dei
diritti, scrive: "Quando la legge fu approvata ed entro' in vigore, le donne
stesse che l'avevano voluta si resero conto che essa rispecchiava fedelmente
le esigenze, le preoccupazioni e i compromessi di coloro che l'avevano
fatta, uomini, con l'occhio attento a un corpo sociale dove il punto di
vista maschile era ben chiaro e prevalente".
Infatti, la lotta contro l'aborto clandestino, e' stata una lotta a tutto
campo, di certo non liquidabile con l'idea di rivendicare e ottenere un
"diritto". Parlare pubblicamente di aborto ha significato innanzitutto una
radicale messa in discussione della sessualita' e dei rapporti tra uomo e
donna, nel personale e nel politico, come ha fatto soprattutto Rivolta
femminile. Ha significato praticare la consapevolezza e la riappropriazione
del proprio corpo attraverso strutture e relazioni diverse, come hanno fatto
i centri per la salute delle donne, i consultori autogestiti o le cliniche
Cisa (Centro italiano sterilizzazione aborto) aperte dalle campagne di
"disobbedienza civile" del Movimento di liberazione della donna. Ha
significato una battaglia politica sul terreno della riproduzione come
lavoro, come hanno fatto i gruppi di Lotta femminista che intrecciavano la
richiesta del salario "contro" il lavoro domestico alla denuncia dell'aborto
come "infortunio sul lavoro".
La lotta per l'aborto libero, gratuito e assistito e' stata radicale,
costellata di occupazioni - la piu' eclatante quella del Duomo di Milano nel
1976 -, di autodenunce, di processi, arresti, cortei caricati dalla celere,
attaccati dai fascisti ma anche dai servizi d'ordine dei "compagni", come
quello di Roma nel 1975. Ma ha portato con se' anche la reinvenzione del
pubblico, la costruzione di nuove istituzioni dal basso, attraverso
l'apertura dei consultori autogestiti, dei centri di medicina delle donne e
delle cliniche in cui si effettuavano gli aborti con il nuovo metodo
dell'aspirazione importato dalla Francia. Ha significato tutto questo
insieme, perche', in quegli anni, tutte volevano tutto.
Il 14 gennaio 2006, in 250.000, in maggioranza donne, hanno manifestato a
Milano in difesa della 194, per il diritto all'autodeterminazione. Perche'
la legge 194 e' l'istituzionalizzazione di questa grande esperienza di
conflitto e invenzione. Un conflitto che cova sotto la cenere, sempre pronto
a riaccendersi.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 187 del 4 giugno 2008

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