[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
Nonviolenza. Femminile plurale. 184
- Subject: Nonviolenza. Femminile plurale. 184
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 22 May 2008 08:39:36 +0200
- Importance: Normal
============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Numero 184 del 22 maggio 2008 In questo numero: 1. Alcuni estratti da "Cacciatori di corpi" di Sonia Shah 2. Letture: Giovanna Pajetta, Nati l'11 settembre 3. Letture: Silvia Pochettino, Chernobyl. Una storia nascosta 4. Riletture: Anna Maria Cappelletti, Didattica interculturale della matematica 5. Riletture: Anna Maria Fracassi, L'arcobaleno negato 6. Riedizioni: Esther Cohen, Con il diavolo in corpo 7. Riedizioni: Linda Colley, Prigionieri 1. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "CACCIATORI DI CORPI" DI SONIA SHAH [Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da Elisabetta Cavalli) dal libro di Sonia Shah, Cacciatori di corpi. La verita' su farmaci killer e medicina corrotta, Edizione Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena (Bo) 2007 (edizione originale: The body hunters: Testing new drugs on the world's poorest patients, 2006). Sonia Shah (New York, 1969) e' ricercatrice, giornalista d'inchiesta, saggista. Tra le opere di Sonia Shah: (a cura di), Between Fear and Hope, 1992; (a cura di), Dragon Ladies, 1997; Untying the knot, 2001; Crude: The Story of Oil, 2004; The Body Hunters (2006); in traduzione italiana: Oro nero. Breve storia del petrolio, Mondadori, Milano 2005; Cacciatori di corpi, Edizione Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena (Bo) 2007] Indice del libro Prefazione di John Le Carre'; Introduzione; 1. La sperimentazione clinica prende la via della globalizzazione; 2. Il controllo mediante placebo; 3. Big Pharma: nascita di un monolito; 4. Cavie senza gabbia; 5. L'Hiv e la soluzione di seconda scelta; 6. Sudafrica: esperimenti clinici e negazionismo dell'Aids; 7. L'esternalizzazione verso l'India: la politica del miliardo di corpi; 8. Come ti aggiusto i codici etici; 9. Il re e' nudo: stranezze del consenso informato; 10. Tenere la bilancia in equilibrio; Conclusioni; Note ai capitoli; Ringraziamenti. * Da pagina 15 La sperimentazione clinica prende la via della globalizzazione Era una grigia giornata di ottobre del 2003. Un gruppetto di medici e scienziati si incontro' in una sala riunioni priva di finestre nel seminterrato di un hotel di Washington, DC. Li' John Wurzlemann, Md, mostro' a un pugno di colleghi, proiettandola su uno schermo bianco, una fotografia della Polonia di oggi. La scena era un paesaggio urbano qualsiasi, con scintillanti edifici di vetro e acciaio, circondati da ampi marciapiedi di cemento. Wurzlemann, un uomo in abiti dimessi e dal tono di voce pacato, sorrise mestamente. "Gran parte della Polonia non e' cosi'", fece notare con voce raschiante. "La maggior parte del paese appare ancora come era nel 1939", prima dell'invasione nazista e poi di quella sovietica. "Mio padre fece un viaggio in Polonia dieci anni fa; al suo ritorno raccontava che nulla era cambiato dagli anni '30. Tutto era semplicemente diventato piu' vecchio". E piu' malato. Quanto l'Europa dell'Est sia oggi piu' ammalata di ieri era appunto l'argomento della relazione di Wurzlemann quel tardo pomeriggio. Poveri, malnutriti e in preda a un'attrazione fatale per le sigarette, gli abitanti dell'Europa dell'Est stavano morendo a frotte, disse il dottore al suo uditorio. Mentre negli Stati Uniti il numero di morti per malattie cardiovascolari e' andato costantemente diminuendo dagli anni '60, nell'Europa dell'Est questo tipo di malattie e' cresciuto con estrema rapidita' fino a raggiungere proporzioni epidemiche e a uccidere molto piu' in fretta. Wurzlemann era soltanto molto franco. "Malattia per malattia - disse -, le loro probabilita' di morire aumentano". Wurzlemann passo' rapidamente la sua presentazione in powerpoint, corredandola con una valanga di dati e cifre sconvolgenti. "L'Ungheria ha il tasso piu' alto di mortalita' per cancro della cervice uterina... L'incidenza del cancro alla mammella e' piu' alta... In Polonia, tra la popolazione maschile, la mortalita' per una qualche forma di cancro e' la piu' alta di tutta l'Europa Orientale. La frequenza dei suicidi e' molto piu' alta". Si soffermo' un po' piu' a lungo su una diapositiva che mostrava una mappa dell'Europa, in cui i tassi delle diverse cause di morte erano segnati in rosso sangue. "Cio' che si vede chiaramente", disse Wurzlemann mentre il pubblico fissava in silenzio la mappa, "e' che man mano che si procede verso Est, i tassi di mortalita' aumentano". Difatti, la mappa della Russia appariva come se vi avessero versato sopra una boccetta d'inchiostro rosso. La macchia si estendeva a tutti i paesi dell'Europa dell'Est, mentre la Francia, l'Italia e la Spagna erano pressoche' intatte, appena deturpate, qua e la', da qualche macchiolina. Le frontiere nazionali segnavano un confine tra vita e morte, tracciato in linee nere esili come un sospiro. Gli abitanti dell'Europa Orientale, spiegava Wurzlemann, si ammalano non soltanto perche' l'aria e' inquinata, il cibo meno abbondante e l'acqua piu' contaminata. Si ammalano anche perche' la quantita' di denaro che il governo polacco sborsa per la salute di ogni cittadino e' circa un quarto di quella che si spende mediamente nell'Europa occidentale. L'esiguita' di questi investimenti caratterizza tutta la regione. Percio' tutti i tipi di tecniche preventive, i metodi per la diagnosi precoce e i trattamenti che in occidente hanno trasformato, nei casi peggiori, malattie mortali in mali cronici controllabili, la' sono rari quanto i grattacieli scintillanti. Wurzlemann non ne fece cenno in quell'occasione, ma si potrebbe dire lo stesso per gran parte del resto del mondo, dato che ben oltre la meta' dell'umanita' e' stata lasciata brutalmente indietro in questa corsa alla salute e alla longevita'. Wurzlemann trasse un respiro profondo, poi si volse verso il pubblico in attesa e racconto' di aver potuto personalmente godere della salute, della ricchezza e dell'istruzione dell'occidente. Tuttavia, due generazioni prima la sua gente aveva dovuto abbandonare la Polonia e la Russia che versavano in condizioni difficili. Sorrise e mormoro' sottovoce, quasi parlando tra se': "E' una cosa che addolora, davvero". Quindi si riprese bruscamente e torno' alla sua presentazione e alla relazione scritta. I relatori che intervennero dopo Wurzlemann riferirono altri racconti dolorosi, che avevano come sfondo l'America Latina, l'Asia e il Sud Africa. Normalmente, un gruppo di medici che venisse a conoscenza di informazioni di questo genere risponderebbe proponendo possibili misure per alleviare il carico di sofferenze umane. Poteva servire impegnarsi nella formazione del personale sanitario? Abbassare i prezzi dei farmaci? Condurre piu' ricerche sull'eziologia delle malattie? Migliorare le tecniche diagnostiche? Ma ne' Wurzlemann ne' gli altri relatori erano venuti quel giorno a Washington, DC, per persuadere i loro colleghi ad aiutare le popolazioni povere e ammalate del Terzo Mondo, perlomeno non nel modo solito in cui i medici cercano di aiutare i pazienti. Quei dottori si erano riuniti perche' le multinazionali farmaceutiche, come Pfizer, Eli Lilly e Merck, avevano un serio problema commerciale da affrontare. Grazie alle nuove tecniche sviluppate negli anni '70 dagli ingegneri genetici e dai biotecnologi, i laboratori delle industrie erano pieni fino a scoppiare di composti nuovi di zecca, e di idee su quali fossero i tessuti umani a cui li si poteva utilmente indirizzare. "Oggi ci sono piu' nuovi farmaci in fase di sviluppo, piu' trattamenti in sperimentazione... di quanti ce ne siano mai stati prima", dichiarava nel 2003 un esultante Mark McClellan - ex commissario della Food and Drug Administration (La Food and Drug Administration, o Fda, e' l'organismo governativo americano preposto alle procedure di autorizzazione e controllo di farmaci, cibi e alimenti, ndt) - in occasione di un meeting di ricercatori che lavoravano per l'industria. Ma proprio mentre la rivoluzione biotech spiccava il volo, il processo per trasformare quei nuovi composti in prodotti da immettere sul mercato iniziava a ingorgarsi. Dimostrare che i nuovi farmaci erano efficaci sull'uomo in base alle norme previste dalle regolamentazioni dell'Fda era diventata un'impresa straordinariamente complessa, costosa e lunga. E cio' era causa di continue lamentele da parte di analisti e ricercatori dell'industria. La sperimentazione clinica era vista come un "profondo canyon" che devitalizzava i nuovi farmaci; una vera "valle della morte", a detta loro. "Le sperimentazioni su grande scala sono diventate la norma", lamentava un analista. "Tutti i professionisti che vi partecipano sono ormai rassegnati all'idea che questo genere di sperimentazioni durera' un'infinita' di tempo e costera' un mare di soldi". A quanto afferma CenterWatch, un portale specializzato nella ricerca clinica svolta dall'industria, per lanciare sul mercato un singolo farmaco un'azienda deve convincere piu' di 4.000 pazienti a sottoporsi a 141 diverse procedure mediche ciascuno, in oltre 65 esperimenti distinti. Prima di tutto c'e' la breve Fase 1, che prevede studi finalizzati a testare la sicurezza di un nuovo composto; quindi si passa alla Fase 2, un po' piu' lunga, in cui si cerca di raccogliere prove dell'efficacia del nuovo farmaco; infine c'e' la lunga Fase 3 con esperimenti tesi a dimostrare l'efficacia di un farmaco con certezza statistica. Piu' di 100.000 persone devono essere convocate per gli screening iniziali, dato che solo una piccola frazione di loro si presentera' davvero all'appuntamento, e solo un'ulteriore frazione di queste avra' i requisiti medici necessari. Considerato che la spesa che comporta trovare un singolo soggetto e tenerlo dentro la sperimentazione si aggira come minimo sui 1.500 dollari, e considerato che circa il 90% dei farmaci sottoposti a sperimentazione clinica finiscono per non ottenere l'approvazione dell'Fda, minimizzare i costi e la durata delle sperimentazioni cliniche era diventato cruciale per la buona salute delle industrie farmaceutiche. Eppure, perlomeno negli Stati Uniti, e' a dir poco difficile trovare un numero sufficiente di volontari per la sperimentazione clinica dei farmaci. Nel lontano 1954, si contarono a milioni gli americani che offrirono i loro bambini come cavie umane per sperimentare il vaccino antipolio di Jonas Salk. Quando i risultati di quell'esperimento di massa furono resi noti, gli annunciatori radiofonici urlarono la notizia ai quattro venti. Le campane delle chiese suonarono a stormo. Il traffico si paralizzo', perche' i guidatori balzarono fuori dalle auto per gridare tutta la loro gioia. Ma non era ancora trascorso molto tempo che il vaccino, approvato in gran fretta dalle autorita' sanitarie, infetto' 220 bambini facendoli ammalare di poliomielite, e la fiducia della gente nella sperimentazione clinica dei farmaci inizio' ad affievolirsi. Seguirono, poi, le rivelazioni su esperimenti condotti nella totale inosservanza delle piu' elementari norme etiche - lo scandalo che nei primi anni '70 accompagno' la scoperta del "Tuskegee Study", uno studio sulla sifilide finanziato con fondi governativi, segno' un minimo storico - e la delusione lascio' il posto a una profonda avversione. Oggi, benche' gli americani acquistino in media all'anno piu' di dieci farmaci su prescrizione medica, meno di un americano su venti si dichiara disposto a partecipare agli esperimenti clinici che fanno la differenza tra farmaci pericolosi e quelli salvavita. * Da pagina 85 Cavie senza gabbie Molto prima che l'industria del farmaco si mettesse a caccia di corpi nei luoghi piu' poveri del mondo, i ricercatori della scienza medica occidentale contavano sui corpi delle fasce vulnerabili della loro stessa popolazione per soddisfare la propria curiosita' scientifica. Il concetto di utilizzare corpi umani per cercare la risposta a domande scientifiche ebbe origine, in parte, dal riconoscimento del fatto che persino le farmacopee piu' sofisticate potevano fare ben poco per alleviare il tributo di morte pagato alle malattie e alle infezioni. Per una serie di secoli maledettamente lunga, nessuno seppe davvero come funzionava il corpo umano o perche' si ammalava. La circolazione del sangue, la pompa del cuore, la pulsazione di nervi ed organi, tutti questi meccanismi nascosti restarono per secoli non svelati e il corpo rimase misterioso quanto gli strani fattori che sembravano portarlo improvvisamente alla malattia. Ma sezionando corpi e guardando cio' che vi era al loro interno, i medici occidentali incominciarono a capirne il funzionamento e che cosa accadeva quando un corpo si ammalava. In un migliaio d'anni la dissezione di corpi umani e la vivisezione - cioe' la mutilazione di esseri umani vivi - portarono poco per volta a rivelare i meccanismi del corpo. Questo lavorio di lame avvenne per la maggior parte sui corpi dei poveri e dei detenuti nelle prigioni, e solo talvolta in pubblico, per dare spettacolo o come marchio di infamia. I travagli di coloro che finivano per diventare "materiale clinico" raramente erano argomento di conversazione fra persone beneducate. E comunque si riteneva che i poveri e la gente di colore fossero, in generale, meno sensibili al dolore. Come il grande fisiologo, e avido dissettore, francese Claude Bernard scriveva nel 1865 nella sua Introduzione allo studio della medicina sperimentale, gli scienziati si ritenevano immuni "alle grida d'orrore della gente alla moda", come lo erano, del resto, anche a quelle della gente che vivisezionavano. La scienza medica si elevava al di sopra della mischia, egli insisteva, e poteva essere giudicata soltanto da chi la praticava. Riguardo agli esseri umani coinvolti negli esperimenti, perche' gli scienziati avrebbero dovuto rispettarne i diritti, se la societa' nel suo complesso non lo faceva? Questi atteggiamenti perdurarono incontestati per quasi un secolo. Infine, uno studio governativo sul decorso della sifilide li svelo' agli occhi di un'opinione pubblica scioccata. La sifilide e' una vecchia malattia americana, portata in Europa dai marinai di Colombo al loro rientro in patria. In alcune persone il Treponema (un batterio spiralizzato, cioe' a forma di cavatappi) non provoca alcun sintomo per anni; in qualche caso la persona puo' non accorgersi neppure di averlo e inavvertitamente puo' trasmetterlo ad altri attraverso il contatto sessuale. In una sfortunata minoranza di casi, il batterio causa una malattia grave. I primi segni sono lesioni genitali, quindi si hanno un'eruzione cutanea generalizzata e ulcerazioni, infine "ascessi rivoltanti che divorano le ossa e distruggono il naso, le labbra e i genitali", secondo le parole usate da Roy Porter, uno storico della medicina. Non trattata, la sifilide e' spesso mortale. (Per riparare il danno dei nasi distrutti dalla sifilide, i chirurghi del XVI secolo cucivano sul volto del malato lembi di pelle presi dalla parte superiore del suo braccio, lasciandolo per tutto il tempo della convalescenza, che poteva durare settimane, col braccio attaccato al naso). La medicina aveva ben poco da offrire. Fino a quando, nel 1908, non furono sintetizzati i farmaci a base di arsenico, i medici prescrivevano l'applicazione di unguenti al mercurio, una terapia del tutto inutile che tuttavia causava la perdita dei denti, l'ulcerazione delle gengive e lo sbriciolamento delle ossa. Il fardello economico di questa malattia gravava pesantemente sugli Stati Uniti del sud negli anni '20 del Novecento. Il contagio era una piaga diffusa fra i neri poveri, la forza lavoro su cui contavano numerose industrie per poter funzionare. Se fosse stato possibile curare in qualche modo gli ammalati di sifilide, "i costi sarebbero stati ampiamente ripagati da un aumento dell'efficienza sul lavoro", affermo' un medico del Public Health Service (Phs), il servizio sanitario pubblico degli Stati Uniti. Era urgente condurre una ricerca medica sul campo. Con il suo prepotente odore di sesso, le deturpazioni che causava e la scia di morte che si lasciava dietro, la sifilide era considerata una malattia sporca, immorale. Gli ammalati di sifilide erano disprezzati a tal punto che, negli Stati Uniti degli anni '30, gli ospedali si rifiutavano di curarli. Nel 1934 un funzionario della sanita' governativo fu buttato fuori da una stazione radio per avere semplicemente osato pronunciare ai suoi microfoni la parola "sifilide". Le persone colpite da malattie veneree erano relegate in istituti speciali, dove i segni della loro indegnita' morale non avrebbero potuto contaminare i malati onesti dei vicini ospedali. Il destino dei ricoverati in queste cliniche non era affatto consolante. All'epoca, il trattamento standard - piu' di un anno di dolorose iniezioni settimanali di arsenico - era costoso, prolungato nel tempo e solo parzialmente efficace. Il senso pubblico di repulsione che circondava i malati di sifilide facilito' in molti modi questo esperimento. Nel 1931 Mark Boyd, che studiava la malaria con fondi della Rockefeller Foundation, inietto' il Plasmodium falciparum - il parassita che causa la malattia - a pazienti neri affetti da demenza dovuta alla sifilide, ricoverati presso un ospedale della Florida. A dire il vero, a quel tempo l'idea di uccidere l'agente batterico della sifilide inducendo alte febbri malariche era una specie di mania terapeutica. Ma mentre ai pazienti bianchi si inoculava di solito il Plasmodium vivax, una forma piu' blanda del parassita, Boyd infetto' i suoi soggetti neri con il Plasmodium falciparum, il cugino con effetti mortali. Nessuna legge ne' consuetudine sociale imponeva a Boyd di richiedere ai pazienti o alle loro famiglie il consenso per questo trattamento, anche se in realta' lo richiese per un'eventuale autopsia sul corpo del defunto. Nel 1929, uno studio di fattibilita' del Public Health Service [servizio sanitario pubblico] giunse a stabilire che era possibile avviare un programma per il trattamento in massa dei lavoratori rurali neri ammalati di sifilide. Ma giunti al 1932 i fondi per finanziare un progetto di tale ampiezza si erano prosciugati, e l'attenzione dei medici governativi si sposto' dal piano della cura a quello della ricerca scientifica. E se avessero inserito gli ammalati di sifilide in uno studio a lungo termine, senza somministrare loro alcun trattamento, limitandosi semplicemente a osservare cio' che sarebbe accaduto? Uno studio del genere avrebbe permesso di dare risposta a parecchi quesiti interessanti, sosteneva l'ideatore del progetto, il dr. Clark Taliaferro del Phs. Forse nei neri il decorso della malattia era differente che nei bianchi, per esempio, o forse non fornire alcun trattamento poteva dare risultati migliori. Ad ogni buon conto, l'esame autoptico dei soggetti che morivano per la malattia mentre erano sotto osservazione poteva contribuire a far luce su queste pressanti questioni. Persino allora, probabilmente, sarebbe stato impossibile condurre un programma del genere - finalizzato a studiare il "decorso naturale" della malattia - su pazienti bianchi, scolarizzati o appartenenti alla classe media. Ma i soggetti di questo studio erano braccianti neri poveri e quasi tutti analfabeti, provenienti da Macon County, Alabama, la contea dove si trova la cittadina di Tuskegee e dove allora il tasso della sifilide era in continua crescita. La scienza americana si era gia' servita della popolazione nera come fonte di materiale clinico, proprio come le piantagioni americane se ne erano servite per i lavori spacca-schiena nei campi. Gli inservienti e gli uomini delle pulizie dalla pelle nera, che ripulivano gli ambienti dopo l'opera degli scienziati americani, sono stati chiamati spesso a fornire corpi - umani e animali - su cui sperimentare. I ragazzini neri potevano essere indotti a catturare e addormentare con l'etere cani da usare negli esperimenti; uomini dalla pelle nera potevano essere usati per accudire gli animali da laboratorio nei bui corridoi delle cliniche; persone di entrambe queste categorie potevano essere avvicinate e indotte a offrire il proprio corpo per esperimenti orribili, come quello in cui i soggetti dovevano ingoiare un tubo lungo piu' di tre metri, che poi veniva gonfiato mentre era dentro le loro viscere. Eppure, i medici governativi ebbero difficolta' a trovare soggetti per il loro studio sulla sifilide in assenza di trattamenti, persino fra quegli operai neri che essi deridevano come pigri e ignoranti nella loro corrispondenza privata, piu' tardi raccolta da Susan Reverby, specialista in storia della medicina del Wellesley College. Alla fine fecero ricorso all'inganno, facendo finta di offrire quello che chiamarono "un trattamento gratuito". Infine entrarono a far parte di quello studio circa quattrocento uomini, tutti braccianti neri che si credevano ammalati di "sangue cattivo" ma che in realta' soffrivano di sifilide all'ultimo stadio, insieme a 201 uomini di pelle nera e in buona salute che dovevano fungere da gruppo di controllo. Poiche' i soggetti ignoravano di essere ammalati di sifilide, i medici governativi non erano sottoposti ad alcuna pressione per offrire quelli che all'epoca erano considerati i trattamenti standard della malattia. Al loro posto offrirono, invece, unguenti al mercurio gia' da tempo in disuso, aspirina, tonici, pranzi gratuiti e un'assicurazione che copriva le spese di sepoltura, limitandosi a osservare i malati e a prendere nota del loro graduale peggioramento. Poiche' era imperativo che i partecipanti a questo studio non ricevessero alcun trattamento farmacologico - che avrebbe contaminato i risultati dell'autopsia sul corpo del sifilitico - i medici governativi si incontrarono con i medici locali "per chiedere la loro collaborazione a non sottoporre quegli uomini ad alcun trattamento", dichiaro' in seguito uno dei ricercatori coinvolti nello studio. Quegli uomini ingannati e lasciati senza cure si reputavano fortunati a partecipare allo studio. "La corsa per e dall'ospedale, su un veicolo con lo stemma del governo sul davanti e guidato da un'infermiera, era per molti di loro un segno di distinzione e si divertivano a salutare i conoscenti quando passavano loro vicino", ricordava l'infermiera assunta per reclutare i soggetti. Convinti di stare godendo del privilegio di cure gratuite da parte dei medici governativi, molti di quegli uomini misero su' famiglia, trasmettendo senza saperlo l'infezione alle mogli e ai figli. * Da pagina 127 Sudafrica: esperimenti clinici e negazionismo dell'Aids Le vite della maggioranza degli occidentali sono cosi' strettamente intrecciate con i rimedi dalla medicina - dai farmaci per il parto all'aspirina quotidiana - che credere nelle sue capacita' curative e' ormai divenuto un dogma di fede. Tuttavia nel resto del mondo le cose non vanno cosi'. Secondo quanto afferma il farmacologo Manfred Hollinger dell'Universita' della California, circa l'80% delle persone che vivono nei paesi in via di sviluppo - che complessivamente comprendono il 64% di tutta la popolazione mondiale - si affida ai guaritori tradizionali, non alla biomedicina occidentale. E nelle parti del mondo in cui la presa della medicina occidentale e', tutt'al piu', debole, sperimentazioni cliniche malfatte possono alimentare una corrosiva sfiducia nei confronti della medicina allopatica in generale, con esiti potenzialmente devastanti. In nessuna parte del mondo questo fenomeno si e' mostrato con maggiore evidenza che in Sudafrica, dove aspre controversie sulle fragili misure di protezione dei soggetti che partecipano alle sperimentazioni cliniche hanno dato periodicamente fuoco a una miscela volatile di rancori razziali e di sfiducia, accumulatasi in quasi cinquant'anni di apartheid. Fra il 1948 e il 1994 la minoranza bianca sudafricana, composta dai discendenti di immigrati olandesi, tedeschi e francesi, ha distribuito diritti e privilegi secondo un sistema schizoide di segregazione razziale, "apartheid" in afrikaans, la lingua simile all'olandese creata da questi coloni. Quando l'Aids fece la sua prima apparizione verso la meta' degli anni '80, i conservatori bianchi manifestarono apertamente la propria soddisfazione. "Se l'Aids arrestasse la crescita della popolazione nera - disse qualcuno - sarebbe come un regalo di Babbo Natale". L'apartheid aveva gia' iniziato un lento genocidio dei neri sudafricani. Fra il 1960 e il 1983 la polizia dello stato costrinse con la forza piu' di tre milioni di sudafricani di colore a lasciare le loro case per spostarsi in "township" e "bantustan", dove vivevano segregati e isolati dal resto della societa'. Mentre il governo destinava il 97% del budget per la sanita' a terapie specializzate di alto livello tecnologico, che nel 1967 culminarono con lo sviluppo di una rivoluzionaria tecnica di trapianto cardiaco presso il Groote Schur Hospital di Citta' del Capo, i neri erano colpiti dalle febbri tifoidi con una frequenza 48 volte superiore ai bianchi e i loro bambini morivano per malattie di facile prevenzione, come il morbillo. Nelle township decine di migliaia di persone potevano dividersi un unico rubinetto per l'acqua. Infuriavano malattie come il kwashiorkor, una grave forma di denutrizione, ma il sistema sanitario non prendeva la benche' minima misura per combatterlo. I pazienti neri morivano nell'attesa di un'ambulanza, mentre ambulanze riservate ai bianchi erano ferme nei pressi senza far nulla; chi sopravviveva all'attesa a volte moriva fuori da ospedali per bianchi, vuoti, che rifiutavano di lasciarli entrare. Nonostante vi siano state notevoli eccezioni, la classe medica sudafricana, in maggioranza bianca, approvava le restrizioni alla liberta' dei neri imposte dal sistema dell'apartheid. Alcuni ricercatori studiavano apertamente la presunta inferiorita' dei neri e nuovi batteri che fossero in grado di colpirli o ucciderli selettivamente. Il Medical and Dental Council del Sudafrica propugnava il diritto dei medici di "decidere a chi prestare la propria opera nelle situazioni non di emergenza". Vi erano medici che lavoravano per la polizia, presenziavano a fustigazioni e ad altre forme di tortura, firmavano rapporti menzogneri in cui i morti durante gli interrogatori erano dichiarati vittime di un incidente o di un suicidio. Quando il regime dell'apartheid finalmente cadde e il governo passo' all'African National Congress (Anc), nel 1994, il problema dell'Aids rimase fuori dall'agenda ufficiale. Gli esponenti dell'Anc sospettavano che i ricercatori occidentali, razzisti, avessero gonfiato il problema. In effetti tempo addietro, negli anni '80, ricercatori dei Nih avevano fatto circolare rapporti sull'infezione da Hiv nei paesi africani con dati grossolanamente gonfiati - Robert Gallo aveva riferito che due terzi degli studenti dell'Uganda erano infettati dal virus; Robert Biggar, del National Cancer Institute, che una proporzione compresa fra un quarto e la meta' della popolazione keniota era portatrice del virus - il tutto sulla base di test sbagliati. Conclusioni troppo affrettate sul fatto che l'Hiv si sarebbe diffuso a partire da Haiti avevano paralizzato l'industria del turismo di quella martoriata isola. Quando il leader keniota Daniel arap Moi bollo' l'Aids come null'altro che una "nuova forma di campagna d'odio" contro le economie africane, molti esponenti dell'Anc furono d'accordo con lui. "Sembrava inverosimile che una malattia uccidesse proprio gli omosessuali, le prostitute, i drogati e i neri", ricorda un aderente all'Anc. "Sembrava l'avverarsi di un sogno da reaganista sfrenato!". La confortante illusione che l'Aids fosse un non problema su cui si faceva un chiasso esagerato, non sarebbe rimasta intatta a lungo. Alla meta' degli anni '90, l'infuriare del virus nel continente africano era diventato fin troppo chiaro. Ma il sistema occidentale della ricerca sull'Aids apparve ancora una volta distaccato dalle realta' africane. Molti adesso proclamavano che gli africani erano troppo arretrati per la terapia con cocktail di antiretrovirali, una posizione che adombrava una crudele indifferenza per la situazione in cui versavano le popolazioni africane, sempre piu' povere. L'insinuazione che non ci si poteva fidare a somministrare agli africani la terapia a base di antiretrovirali suonava come un'offesa alle orecchie dei nazionalisti sudafricani come Costa Gazi, medico e attivista politico, folta chioma di capelli arruffati. Gazi si e' fatto due anni di carcere durante l'apartheid, e dice di provare nei confronti della battaglia contro l'Aids la stessa passione che lo animava nella lotta contro l'apartheid. "I diabetici che vivono nelle zone rurali vengono sottoposti a test una volta al mese; nessuno dice di lasciarli senza cure!" afferma Gazi. Quando infine, nel 1997, i legislatori sudafricani modificarono il Medicines Act in vigore nel paese in modo da consentire al ministro della sanita' di rendere accessibili i farmaci contro l'Hiv, infrangendo le norme internazionali sui brevetti e acquistando generici a basso costo, gli interessi occidentali apparvero ancora una volta tesi a impedire agli africani l'accesso ai farmaci salvavita. Sebbene la nuova legislazione del paese si applicasse soltanto a casi di emergenza sanitaria o quando il costo dei farmaci brevettati fosse insostenibile, trentanove fra le maggiori industrie farmaceutiche del mondo intrapresero un procedimento legale per impedire che quella legge trovasse applicazione. "E' una legge arbitraria e conferisce al ministro della sanita' troppi poteri", protestava Mirryena Deeb della Phrma (Pharmaceutical Research and Manufacturers of America), l'associazione che rappresenta le industrie farmaceutiche. "Il ministro puo' decidere che un farmaco e' troppo costoso e le aziende produttrici non hanno il diritto di difendersi". L'amministrazione Clinton iscrisse prontamente il Sudafrica nella sua "lista dei sorvegliati speciali" per le violazioni contro il regime dei brevetti. * Da pagina 211 Conclusioni Ascoltate parlare i ricercatori biomedici abbastanza a lungo, come e' successo a me di recente a un congresso scientifico multidisciplinare, e senza dubbio sentirete commenti ammirati sulla sperimentazione clinica dei bei tempi andati, quando esperimenti audaci, liberi da regolamentazioni gravose, producevano risultati spettacolari. Quel tipo di sperimentazione, vi diranno i ricercatori, purtroppo non e' piu' possibile "per via delle preoccupazioni sul piano etico". Per via delle preoccupazioni sul piano etico. Ho sentito questa frase piu' volte nel corso di un singolo congresso nell'arco di una settimana. E' una formulazione interessante, che pare riservata quasi esclusivamente alle violazioni dell'etica nel campo biomedico. E' difficile, infatti, immaginare una qualunque persona parlare di lavoro in nero, sversamenti di petrolio in mare o appropriazione indebita da parte delle multinazionali, come di cose non possibili "per via delle preoccupazioni sul piano etico". Queste cose sono considerate semplicemente sbagliate sul piano morale e socialmente illegittime, per cui sono punibili dalla legge. Ma quando i ricercatori clinici ingannano i pazienti, sfruttano la loro poverta', o dirottano scarse risorse verso la sperimentazione sottraendole alla cura, tutto cio' non e' considerato un male, punto e basta. L'attivita' principale della ricerca medica - migliorare la salute, salvare vite umane - le fa passare in secondo piano. Lo sfruttamento e le violazioni dei diritti umani sono "effetti collaterali", ne' piu' ne' meno. Per eliminare tali "effetti" occorre in primo luogo mettere da parte la mitologia sulla ricerca medica, la stessa che da' origine a quegli "effetti collaterali". Come spiega il bioeticista Solomon Benatar, "La ricerca condotta nei paesi in via di sviluppo... non va realmente a vantaggio di queste persone [i soggetti]. Puo' succedere che lo faccia, per i pochi abbastanza fortunati da entrare nella prova. Ma la ragione per cui il ricercatore arriva in quel paese e', il piu' delle volte, perche' c'e' qualcuno disposto a pagare per quello studio. Qualcuno vuole trovare una risposta a una certa domanda. I dati hanno valore sia sul piano accademico che su quello commerciale". In altre parole, lo scopo principale della ricerca clinica non e' migliorare o salvare vite, ma acquisire una cosa ben precisa: dati. E' un'industria, non un servizio sociale. Le persone che finanziano e dirigono gli esperimenti clinici lo fanno per i dati, non per soddisfare i pazienti o per soccorrere strutture sanitarie in difficolta', aiutandole a rafforzarsi, anche se a giustificazione delle proprie attivita' possono indicare questi effetti secondari. Le loro motivazioni non ne fanno ne' dei corrotti ne' dei mercenari, solo degli esseri umani normali che cercano di proteggere i propri interessi, come fa anche il resto di noi. Ma se la ricerca clinica e' un'industria che fa i propri interessi, allora non c'e' motivo di riconoscerle una liberta' d'azione tutta speciale, con la possibilita' di girare lo sguardo da un'altra parte quando dribbla o addirittura viola le regole. Se pensiamo che i soggetti di un esperimento dovrebbero essere informati e che la loro partecipazione dovrebbe essere consensuale, dovremmo chiedere che il consenso informato sia rafforzato e ben controllato. Se cio' e' impossibile, allora dovremmo chiedere che la ricerca clinica si fermi. Dovremmo chiedere che i vantaggi per i soggetti - come, ad esempio, l'accesso al farmaco in studio dopo che l'esperimento e' terminato - siano garantiti qui e ora, non in un futuro ipotetico in cui i prezzi cadranno, o non ci sara' piu' poverta' e altri applicheranno soluzioni migliori. Queste condizioni, che potrebbero essere incluse nelle regole della Fda, sarebbero dei correttivi razionali a quell'industria competitiva e guidata dal profitto in cui oggi si e' trasformata la ricerca clinica. Ma cio' impone, come petizione di principio, la domanda se desideriamo adottare questo modello. Anziche' limitarci a dissolvere i miti sulla ricerca, potremmo incominciare a chiedere alle aziende farmaceutiche e ai ricercatori clinici di essere all'altezza di quei miti. La promessa della ricerca medica e' di alleviare le sofferenze e di salvare vite umane, ma i ricercatori in realta' si assumono la responsabilita' soltanto per una minima parte di questo compito: raccogliere i dati. Quando si tratta di dare attuazione agli scopi piu' vasti, scrollano le spalle: quello e' compito di qualcun altro. Questa mancanza di connessione potrebbe essere accettabile per la scienza di base, ma se vogliamo che la ricerca medica sia davvero in grado di alleviare sofferenze e di salvare vite, allora dobbiamo giudicare le responsabilita' degli scienziati quando producono poco di piu' che articoli interessanti o "farmaci fotocopia", e valutare se cio' sia eticamente ammissibile oppure no. Arrivare a dare attuazione pratica a questo genere di responsabilita' non e' facile. In primo luogo, l'opinione pubblica non dispone di alcuno strumento per incidere sulle priorita' della ricerca; non abbiamo nessun modo per esprimere quello che vogliamo piu' di tutto dalla ricerca medica, e come lo useremmo se lo avessimo. A parte alcuni progetti di ricerca finalizzati, e' il mercato a decidere e la ricerca si dirige verso qualunque prodotto che, a giudizio delle aziende farmaceutiche, vendera' bene; oppure sono gli sponsor a decidere caso per caso, e qualunque richiesta di fondi verra' finanziata se appare piu' interessante. Immaginate, al posto di tutto questo, un controllo sistematico e un dibattito pubblico forte, indipendente, aperto, su dove la ricerca medica ci ha portato finora e dove vogliamo che ci porti, un dibattito che non resti chiuso solo fra specialisti e avvocati, ma che coinvolga tutti noi. E' difficile dire dove ci potrebbe condurre un tal esercizio. Forse ci renderemmo conto che la ricerca staccata dalla societa' ha poco significato. I paesi poveri potrebbero, a ragione, considerare prioritario dare finalmente attuazione ai risultati di ricerche ormai vecchie, anziche' preferire la corsa a sempre nuove sperimentazioni. 2. LETTURE. GIOVANNA PAJETTA: NATI L'11 SETTEMBRE Giovanna Pajetta, Nati l'11 settembre. I bambini, le famiglie e le scuole nei sei anni che hanno sconvolto il mondo, Manifestolibri, Roma 2007, pp. 144, euro 8,90. Un libro-inchiesta: intorno al cratere dell'11 settembre 2001 la vita quotidiana destrutturata e ristrutturata dal ritorno della guerra e del razzismo, il trauma nel trauma di genitori e insegnanti e bambini; Giovanna Pajetta, giornalista e saggista acuta e vibratile, incontra persone e vicende - in giro per l'Italia e non solo, nelle scuole e non solo - ed ascolta e descrive con viva empatia. Una lettura - e un'esperienza - a tratti enigmatica e sconcertante, un libro polifonico e sorprendente. Che merita di essere letto. 3. LETTURE. SILVIA POCHETTINO: CHERNOBYL. UNA STORIA NASCOSTA Silvia Pochettino, Chernobyl. Una storia nascosta, Nuova iniziativa editoriale, Roma 2006, pp. 176, euro 5,90 (in suppl. a "Liberazione" e a "L'Unita'"). In forma narrativa ma fondandosi sui dati documentari l'autrice (giornalista che da oltre dieci anni dirige la rivista "Volontari per lo sviluppo" ed ha gia' pubblicato due volumi per la Emi sulla situazione internazionale e i diritti umani) ricostruisce le testimonianze, le ricerche, le riflessioni, le denunce, l'azione di Vassili Nesterenko, Yuri Bandazhevsky e Galina Bandazhevskaya, e le persecuzioni subite per il loro impegno di verita' sul disastro di Chernobyl e di solidarieta' con le vittime. 4. RILETTURE. ANNA MARIA CAPPELLETTI: DIDATTICA INTERCULTURALE DELLA MATEMATICA Anna Maria Cappelletti, Didattica interculturale della matematica, Emi, Bologna 2000, 2001, pp. 96, euro 6,20. Un volumetto della collana dei "Quaderni dell'interculturalita'" destinato alle scuole elementari; alcune proposte di lavoro (e di gioco) interessanti e piacevoli. Per richieste alla casa editrice: Emi, via di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027, fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito: www.emi.it 5. RILETTURE. ANNA MARIA FRACASSI: L'ARCOBALENO NEGATO Anna Maria Fracassi, L'arcobaleno negato. Ai ragazzi e alle ragazze del mondo. Percorsi didattici sulla condizione dell'infanzia nel mondo, Emi, Bologna 1999, pp. 80, lire 7.000. Una proposta di lavoro per le scuole medie sulla condizione dell'infanzia nel sud del mondo; la gran parte dei materiali qui raccolti sono stati elaborati da studenti di scuole medie italiane. Con la collaborazione di Gianni Tarquini e Massimiliano Tarullo, postfazione di Mauro Bolognese. Per richieste alla casa editrice: Emi, via di Corticella 179/4, 40128 Bologna, tel. 051326027, fax: 051327552, e-mail: sermis at emi.it, stampa at emi.it, ordini at emi.it, sito: www.emi.it 6. RIEDIZIONI. ESTHER COHEN: CON IL DIAVOLO IN CORPO Esther Cohen, Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento, Ombre corte, Verona 2005, "Il giornale", Milano s.d., pp. 182, euro 5,90 (in supplemento al quotidiano "Il giornale"). Una raccolta di saggi che indagano l'altra faccia del Rinascimento europeo, e non il dionisiaco in cui l'apollineo obliquo si rispecchia, ma la barbarie del totalitarismo dell'ideologia dominante, la ferocia dell'azione repressiva del potere, la persecuzione spietata dell'alterita' di ogni ricerca ed esperienza autonoma e diversa, la dominazione che pur si congiunge al Rinascimento piu' luminoso: l'incipit della modernita' nei suoi aspetti piu' foschi. La grande luce, e l'ombra profonda. 7. RIEDIZIONI. LINDA COLLEY: PRIGIONIERI Linda Colley, Prigionieri. L'Inghilterra, l'impero e il mondo, Einaudi, Torino 2004, "Il giornale", Milano s.d. ma 2008, pp. XVI + 460, euro 6,90 (in supplemento al quotidiano "Il giornale"). Nelle testimonianza di europei altrove prigionieri, si riflette quell'immane prigionia che l'Europa colonialista e razzista impose ai popoli d'interi continenti. ============================== NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE ============================== Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 184 del 22 maggio 2008 Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
- Prev by Date: Minime. 463
- Next by Date: Minime. 464
- Previous by thread: Minime. 463
- Next by thread: Minime. 464
- Indice: