La domenica della nonviolenza. 164



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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 164 del 18 maggio 2008

In questo numero:
Alcuni estratti da "Nati per comprare" di Juliet B. Schor

LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "NATI PER COMPRARE" DI JULIET B. SCHOR
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti (scelti da
Elisabetta Cavalli) dal libro di Juliet B. Schor, Nati per comprare.
Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicita', Edizione Apogeo, Milano
2005 (edizione originale: Born to buy, 2004).
Juliet B. Schor (1955), economista e sociologa, docente di sociologia e di
studi di genere all'Universita' di Harvard, saggista; tra i vari
riconoscimenti ottenuti, il "George Orwell Award" per i suoi contributi
all'onesta' e alla charezza nel linguaggio pubblico, il "Leontief Prize" del
Global Development and Environment Institute. Tra le opere di Juliet B.
Schor: Born to Buy: The Commercialized Child; The New Consumer Culture; The
Overworked American: The Unexpected Decline of Leisure; The Overspent
American: Upscaling, Downshifting and the New Consumer; Do Americans Shop
too Much?; ha inolte curato in colaborazione: The Golden Age of Capitalism:
Reinterpreting the Postwar Experience; The Consumer Society Reader;
Sustainable Planet: Solutions for the 21st Century; in italiano: Nati per
comprare, Edizione Apogeo, Milano 2005]

Indice del volume
Nota dell'autore; Ringraziamenti; Capitolo 1: Introduzione; La
commercializzazione dell'infanzia; Una prospettiva storica sui bambini e
sulla cultura del consumo; Capitolo 2: Il mondo del consumo infantile in
trasformazione; La mostruosa macchina del marketing; L'esplosione della
corsa all'acquisto dei giovani; La "Kid-fluence"; "Vincolati alla marca"; Il
monopolio della vita reale; Giocare di meno e comprare di piu'; L'infanzia
postmoderna: la generazione elettronica; Come stanno i bambini; Capitolo 3:
Da Tony Tigre a Slime Time Live; Il contenuto dei messaggi pubblicitari; La
psiche del bambino secondo gli operatori del marketing; Il marketing del
cool; Comandano i bambini: Nickelodeon e il giovanilismo; La age
compression; Il Dual Messaging: quando a bambini e genitori piacciono cose
diverse; Il Pester Power; Il trans-toying; Valutare i messaggi: in che modo
influenzano i bambini? La consapevolezza dei bambini di fronte alla
pubblicita'; Capitolo 4: La diffusione del virus; Quando la pubblicita'
pervade la vita quotidiana; Pox: la battaglia sconosciuta; Il buzz marketing
e la transformation of friendship; Al di sotto del radar: 101 modi per
camuffare una pubblicita'; La corruzione dell'informazione; Arruolare le
organizzazioni piu' credibili; Capitolo 5: Non per libera scelta; La
commercializzazione delle scuole pubbliche; Imporsi con la forza: Channel
One e l'obbligo di una visione giornaliera; La Shop-Rite Gym, la Exclusive
Coke e la Sweet Tart Art: sponsorizzazioni, pubblicita', concorsi e accordi
fiscali; Le corporation redigono i programmi di studio; Sotto l'aura di "non
dannosita'"; Capitolo 6: Anatomia del bambino consumatore; Nuove forme di
ricerca intrusiva; La svolta etnografica; Il nuovo lavoro infantile: il
bambino come esperto; Nella mente dei bambini; La ricerca tradizionale;
Scorrettezze etiche; Capitolo 7: Le cattive abitudini; Vendere ai bambini
junk food, droga e violenza; La portata e l'ampiezza della pubblicita'
alimentare; Confessioni di una ex addetta al marketing rivolto ai bambini;
Dal falso cibo all'arena politica; La reazione delle aziende; Di chi e' la
colpa, dei genitori o della pubblicita'? Tabacco, alcol e Marketing di
droga; Vendere la violenza; Capitolo 8: Come la cultura del consumo insidia
il benessere dei bambini; La ricerca sui bambini, i media e la cultura del
consumo: premesse; Il coinvolgimento nel consumo fra i bambini; Esempi di
uso dei media; Valutare il benessere dei bambini; Genitori e figli; Dalla
correlazione alla causalita'; Risultati statistici: il coinvolgimento nel
consumo insidia il benessere dei bambini; Interpretare i risultati;
Materialismo e sofferenza psicologica: le prove si accumulano; Capitolo 9:
Arricchiti o sedotti? Il dibattito sulla pubblicita' e sul marketing rivolto
ai bambini; Il nuovo discorso della responsabilizzazione; I benefici
strumentali delle pubblicita'; L'industria attribuisce la colpa ai genitori;
I dubbi dei pubblicitari; Capitolo 10: Decommercializzare l'infanzia; Oltre
Big Bird, Bratz Dolls e i Back Street Boys; Il consumatore ne sa di piu'; Il
dilemma del prigioniero: il punto debole nell'argomentazione liberista;
Andare a fondo: il problema per le aziende; Regolamentazione federale delle
pubblicita' e dei media; Scuole libere dalla pubblicita'; La necessita'
della cooperazione sociale; I limiti del protezionismo; L'invenzione
dell'infanzia moderna; La scomparsa dell'infanzia e la responsabilizzazione
dei bambini; Decommercializzare la cultura: cibo, media e spazi all'aria
aperta; Decommercializzare la famiglia: testimonianze da Doxley; Unisciti al
movimento che si oppone all'infanzia costruita dalle corporation; Appendice
A: Dati; Ricerca sui bambini, i media e la cultura del consumo; Fattore di
coinvolgimento nel consumo; Valutazioni; Appendice B: Le organizzazioni;
Organizzazioni in Italia; Appendice C: Il Parent's Bill of Rights di
Commercial Alert; Note: Capitolo uno: Introduzione; Capitolo due: Il mondo
del consumo infantile in trasformazione; Capitolo tre: Da Tony Tigre a Slime
Time Live; Capitolo 4: La diffusione del virus; Capitolo 5: Non per libera
scelta; Capitolo 6: Anatomia del bambino consumatore; Capitolo 7: Le cattive
abitudini; Capitolo 8: Come la cultura del consumo insidia il benessere dei
bambini; Capitolo 9 Arricchiti o sedotti? Capitolo 10: Decommercializzare
l'infanzia; Bibliografia.
*
Da p. 9
Introduzione
Quella americana e' la societa' piu' orientata al consumo al mondo. Le
persone lavorano piu' che in ogni altro paese industrializzato. I tassi di
interesse sono i piu' bassi. Il credito al consumo e' esploso, e ogni anno
circa un milione e mezzo di famiglie va in bancarotta. Nel paese ci sono
oltre 46.000 centri commerciali, due terzi in piu' rispetto al 1986.
Nonostante la media dei componenti per famiglia sia diminuita, le dimensioni
delle case crescono rapidamente, e aumentano le nuove costruzioni con cabine
armadio e garage per tre/quattro automobili, dove viene accumulata un'enorme
quantita' di oggetti. Secondo alcune stime, l'adulto medio americano
acquista quarantotto capi d'abbigliamento l'anno e smette gli abiti a ritmi
record, in confronto ai precedenti storici. Gli americani possiedono piu'
apparecchi televisivi degli abitanti di ogni altro paese - quasi un
apparecchio a persona. Gli osservatori ritengono la televisione responsabile
della diminuzione dell'impegno civico, dell'aumento della poverta' e del
declino della socializzazione quotidiana nelle comunita'. Si registrano alti
tassi di ascolto televisivo e un'esposizione alla pubblicita' senza
precedenti. E gli annunci pubblicitari sono proliferati oltre lo schermo
televisivo, occupando di fatto ogni istituzione sociale e spazio pubblico,
nei musei e negli zoo, nei campus universitari e nelle classi delle scuole
elementari, nelle toilette dei ristoranti e sui menu, negli aeroporti e
perfino in cielo.
Gli architetti di questa cultura - le societa' che producono,
commercializzano e pubblicizzano prodotti di consumo - hanno ora messo gli
occhi sui bambini. Nonostante i bambini partecipino da tempo al mercato del
consumo, fino a ora sono stati attori modesti, acquirenti di beni a basso
costo. Attiravano solo in parte le attenzioni e le risorse dell'industria e
venivano avvicinati fondamentalmente attraverso le mamme. Tutto questo e'
cambiato. I bambini e gli adolescenti sono diventati oggi l'epicentro della
cultura americana del consumo. Attirano l'attenzione, la creativita' e il
denaro dei pubblicitari. I loro gusti guidano le tendenze del mercato. Le
loro opinioni danno forma alle strategie di marchio. Eppure sono pochi gli
adulti che riconoscono la portata di questo cambiamento e le sue conseguenze
per il futuro dei nostri figli e della nostra cultura. Ho studiato per
vent'anni le questioni relative al consumo. Economista per formazione e
inclinazione, ho cominciato a interessarmi alla commercializzazione
studiando la cultura del lavoro. Il mio primo libro, The Overworked
American, riportava le mie conclusioni sul fenomeno misconosciuto e inatteso
dell'aumento delle ore lavorative. Rispetto a trent'anni fa, l'impiegato
medio trascorre ogni anno 200 ore in piu' sul posto di lavoro, vale a dire
cinque settimane extra di lavoro. Cinquant'anni fa, le ore lavorative di un
americano erano molto inferiori a quelle di un lavoratore dell'Europa
occidentale; oggi le superano di piu' di 100 l'anno (circa tre settimane).
Perfino il Giappone, il paese piu' stacanovista al mondo quando iniziai la
mia ricerca nei primi anni Ottanta, conta oggi meno ore lavorative annuali
degli Stati Uniti.
Le prime analisi dei miei libri sulle ragioni dell'aumento delle ore
lavorate rivelavano che questo fenomeno era determinato dall'aumento del
costo del lavoro e dalla persistenza di culture corporative all'interno
delle aziende quali l'extralavoro e il face time (tempo trascorso dagli
impiegati in rapporti interpersonali). Mi sono resa conto che i datori di
lavoro erano restii a permettere ai lavoratori di negoziare il reddito in
cambio del tempo e che, durante l'ultimo mezzo secolo, la maggior parte
delle persone ha percepito salari piu' alti ma ha anche lavorato piu' a
lungo. Cio' che non capivo era perche' cosi' pochi dipendenti avessero
scelto di opporsi a questi programmi. I sondaggi mostravano che la maggior
parte delle persone erano soddisfatte del rapporto tra ore lavorative e
salario, nonostante le ore lavorative fossero aumentate. Benche' aumentasse
l'insoddisfazione, il consenso agli orari prolungati restava sconcertante.
Cosi' ho cominciato a studiare il comportamento del consumatore, e ho
trovato una risposta. Gli americani erano rimasti intrappolati in quello che
definivo il circolo vizioso "lavora-e-spendi", nel quale la compensazione
per l'aumento delle ore lavorative era un aumento del livello standard di
vita dal punto di vista materiale. Le persone accumulavano cose a un ritmo
senza precedenti. Lavori molto impegnativi e l'aumento dei debiti, invece,
significavano un aumento dello stress e un'enorme pressione sui nuclei
familiari. Alcuni cercavano di comprarsi una via di fuga dalla compressione
del tempo concedendosi maggiori spese e offrendosi vacanze stressanti,
strategie che richiedevano entrate sempre maggiori. Durante gli anni
Novanta, gli anni del boom, il nuovo benessere condusse a una drammatica
rincorsa dei modelli di consumo, che fece aumentare la pressione sulle
famiglie. Il lusso sostitui' il comfort come aspirazione nazionale,
nonostante solo una minima parte della popolazione potesse concederselo. Nel
mio secondo libro, The Overspent American, ho catalogato questi cambiamenti
e identificato le tendenze sociali che li guidano. Gli americani avevano
subito forti imperativi per stare al passo con l'aumento dei costi di beni
primari - la sanita' e la scuola - cosi' come dei beni di lusso - capi
firmati, automobili piu' grandi - e delle spese per il tempo libero e per il
divertimento. Un viaggio a Disneyworld divenne una costosa, ma impellente,
abitudine sociale. Le famiglie spendevano di piu', risparmiavano di meno e
contraevano piu' debiti. Intanto, la commercializzazione procedeva
rapidamente: i marchi diventavano sempre piu' sofisticati, gli annunci
pubblicitari proliferavano e comprare divenne un impegno a tempo pieno. Il
paese era occupato a guadagnare e a spendere.
Quando scrissi The Overspent American, a meta' degli anni Novanta, ero
cosciente di quanto i genitori si sentissero sotto pressione nel provvedere
ai loro figli, ricevendo richieste che spaziavano dalle attivita' ludiche, a
una buona scuola, fino a scarpe sportive speciali. Sapevo quanto le persone
si preoccupassero del futuro dei propri figli in un'economia globale
altamente competitiva. Ho affrontato questi temi. Ma concepivo il mercato
del consumo dal punto di vista del suo orientamento verso gli adulti, mentre
osservavo i Suv sostituire le macchine, le "McMansions", abitazioni molto
spaziose, sostituire le case, e le etichette di designer proliferare su
qualsiasi oggetto, dagli occhiali da sole ai boxer. Ho anche studiato coloro
che rifiutano il sistema consumista, chiamati down-shifters (letteralmente,
coloro che scelgono il lavoro in base alla migliore qualita' della vita che
consente) - milioni di americani che rifiutavano lo stile di vita
"lavora-e-spendi", scegliendo invece di lavorare di meno, spendere di meno e
vivere piu' semplicemente. A conti fatti, furono loro a fornirmi
un'importante indicazione sull'importanza sempre maggiore dei bambini nella
cultura del consumo.
*
Da p. 43
Da Tony Tigre a Slime Time Live
Il contenuto dei messaggi pubblicitari
"E' una bella trappola" (Lisa Morgan - pseudonimo -, account executive di
New York, a proposito del marketing rivolto ai bambini)
Coloro che sostengono la tesi del "non c'e' nulla di nuovo sotto il sole" ci
ricordano che il marketing per l'infanzia esiste da decenni o addirittura da
secoli. Quando nel XVIII secolo furono lanciati sul mercato prodotti
specifici nel campo della letteratura e dell'abbigliamento per bambini, si
dovette convincere questi ultimi ad acquistarli. Alla fine del XIX secolo il
Marshall Field, grande magazzino di Chicago, pubblico' un catalogo di 36
pagine dedicato esclusivamente ai giocattoli. Non molto tempo dopo, i grandi
magazzini trasformarono i loro spazi di vendita di giochi stagionali in
esposizioni aperte tutto l'anno e in negozi di abbigliamento alla moda per
bambini. I programmi radiofonici per l'infanzia negli anni Trenta
trasmettevano pubblicita' dirette ai bambini. Ma come ho gia' sottolineato,
nella prima meta' del XX secolo i prodotti venivano per lo piu' acquistati
dalle mamme.
Questo avveniva in parte perche' le possibilita' di raggiungere direttamente
i bambini erano limitate, fino a quando non furono introdotti i programmi
televisivi a loro rivolti. Nel 1954, la Abc comincio' a trasmettere il
fortunato programma Mickey Mouse Club nella fascia oraria del dopo scuola, e
la Mattel mando' in onda le proprie pubblicita' durante il programma. Alla
fine degli anni Cinquanta la popolarita' della Barbie consolido' un duraturo
e vantaggioso rapporto tra la televisione e le pubblicita' di giocattoli.
Anche i programmi del sabato mattina cominciarono in questo periodo, e per
vendere i propri cereali la Kellogg's ideo' i suoi classici personaggi Tony
la tigre, il croccantino di riso Krispies, Crackle e Pop, e il coniglio
Trix. Fin d'allora i giocattoli e i cereali per la colazione erano le due
principali categorie di prodotti pubblicizzati. E' interessante notare che
l'attenzione al marchio e l'influenza sugli acquisti, i due temi centrali
del marketing contemporaneo, erano gia' presenti negli anni Cinquanta. Ma
paragonati a quelli di oggi, i pubblicitari del passato erano molto meno
ambiziosi. Il mercato dei bambini era un'industria stagnante regolata da
formule standard. Le pubblicita' per i bambini erano presentate da speaker
che urlavano, scontri tra macchine e animazioni. Quelle per le bambine erano
pubblicita' mielose e colorate di rosa. Le pubblicita' tendevano a mettere
in luce caratteristiche del prodotto, mentre quelle odierne hanno richiami
piu' simbolici. Chi ha visto le pubblicita' per bambini di questo periodo
ricordera' che erano realizzate con un budget minimo e poca creativita'.
I primi spot televisivi erano primordiali e statici. Le tecniche di vendita
erano confuse. Le pubblicita' mostravano bambini che acquisivano poteri
sovrumani mangiando i cereali, e utilizzavano effetti speciali per
migliorare l'aspetto dei giocattoli. Le pubblicita' non dovevano distinguere
tra fantasia e realta', come invece fanno oggi. Era diffusa la pubblicita'
all'interno dei programmi. Spesso le prime pubblicita' erano grossolane e si
basavano su antiquate strategie di pressione e a volte su formule
ingannevoli.
Per questi motivi, alla fine le pubblicita' televisive rivolte ai bambini
vennero in America notevolmente regolamentate attraverso un sistema
spontaneo di linee guida promosso dalla Children's Advertising Review Unit
(Caru), del Better Business Bureau, nonche' da piu' specifiche ma analoghe
linee guida delle emittenti televisive. Queste linee guida comprendono
diverse proibizioni, tra cui il divieto alla vendita diretta,
all'esposizione di celebrita' a sostegno di un prodotto e all'utilizzo di
effetti speciali. Tutte le pubblicita' rivolte ai bambini devono inoltre
astenersi dal suggerire che un bambino abbia bisogno di un determinato
prodotto per essere accettato dai suoi compagni o che possedere quel
prodotto gli conferisca uno status di superiorita'. E' anche proibito l'uso
di un linguaggio che esorti a "comprare" il prodotto o a "chiederlo ai
genitori", pratica definita "hard sell", metodo di vendita con il quale si
impone un prodotto al cliente. Tuttavia, queste linee guida si applicano
solo alle pubblicita' che si rivolgono esclusivamente ai bambini. Le
pubblicita' delle birre, delle automobili e di qualsiasi altro prodotto il
cui pubblico e' per il 51% composto da adulti sono regolate da linee guida
molto meno restrittive. Sempre piu' spesso i bambini guardano i programmi
per adulti e questo ha minato la pertinenza delle linee guida stabilite per
i bambini (alla fine degli anni Novanta, oltre la meta' dei venti programmi
piu' guardati dai bambini tra i due e i dodici anni erano programmi per
adulti).
La pubblicita' di giocattoli, seconda solo a quella per il cibo in termini
di investimenti, e' la categoria piu' rigidamente regolamentata. Le linee
guida stabiliscono che una parte della pubblicita' di un giocattolo debba
mostrare il prodotto in un ambiente realistico, come risulta nella sequenza
finale del prodotto al termine di ogni pubblicita', e il giocattolo deve
essere mostrato in un contesto neutrale. La pubblicita' inoltre non deve
lasciare intendere che il giocattolo abbia caratteristiche che in realta'
non possiede, come muoversi da solo quando invece necessita di supporto
umano, e deve essere esplicitato quando e' necessario l'acquisto di batterie
o altri accessori. Le pubblicita' di giocattoli devono anche esplicitare
chiaramente il contesto realistico del gioco, distinguendolo dagli ambienti
di fantasia, e questo non deve occupare piu' di un terzo della durata dello
spot.
*
Da p. 97
Non per libera scelta
La commercializzazione delle scuole pubbliche
In passato la pubblicita' televisiva rappresentava i due terzi della
pubblicita' indirizzata ai bambini. Ma, alla meta' degli anni Novanta, la
televisione viene eclissata dal marketing diretto, dalle promozioni e dalle
sponsorizzazioni che si stima assorbano l'80% di tutto il denaro investito
nel marketing. Questa mutazione conduce la pubblicita' rivolta ai bambini
oltre i confini del salotto di casa, invadendo tutti gli spazi e le
istituzioni pubbliche, tranne poche e significative eccezioni, come i luoghi
di culto. Ecco allora, nello zoo di St. Louis, l'insettario della Monsanto o
la vasca degli ippopotami della Anheuser-Busch. L'ospedale infantile presso
la Ucla viene ribattezzato Mattel's Children's Hospital, e ce n'e' uno sulla
East Coast che porta il nome della Hasbro. Ovunque ci siano i bambini ecco
spuntare il marketing a loro rivolto. Ma il fiore all'occhiello
dell'infiltrazione commerciale sono le scuole pubbliche della nazione.
L'influenza delle corporation sulle scuole pubbliche americane non e' una
novita'. Le societa' produttrici di beni di largo consumo e le aziende
agricole hanno sponsorizzato per decenni l'educazione alimentare e quella
alla salute. Ma, a partire dagli anni Novanta, le attivita' commerciali
nella scuola si sono considerevolmente estese, con un aumento esponenziale,
a partire dal 1997, di quasi tutti i tipi di operazioni di marketing nelle
sedi scolastiche. Le scuole erano diventate un target particolarmente
allettante per i venditori. Esse erano, fino a quel momento, rimaste
relativamente esenti dalla pubblicita', un'isola incontaminata non comune
nell'immenso mare dei messaggi commerciali. Gli insegnanti e gli
amministratori godono di una grandissima fiducia e autorita', e i prodotti
che appaiono sotto il loro imprimatur possono trarre profitto dal timbro
della loro approvazione. Infine, e soprattutto, gli studenti costituiscono
una captive audience, un "pubblico forzato" d'eccezione per i pubblicitari.
*
Imporsi con la forza: Channel One e l'obbligo di una visione giornaliera
La promessa di una captive audience e' stata l'impulso che ha spinto alla
creazione di Channel One, un programma quotidiano di notizie e pubblicita'
in onda dal 1989. In cambio dell'utilizzo di materiale video e
apparecchiature, le scuole hanno accettato di far visionare ogni giorno da
un pubblico di studenti il programma. Ben presto la societa' ha preso
accordi con quasi 12.000 delle circa 50.000 scuole medie e secondarie della
nazione e riferisce che piu' di 8 milioni di studenti, dalla prima media
alla quinta liceo, ovvero il 40% di tutti gli adolescenti degli Stati Uniti,
guardano il programma nella stragrande maggioranza dei giorni scolastici.
Per ampiezza di pubblico, Channel One e' considerata seconda solo al Super
Bowl. Il programma viene presentato come una trasmissione di dieci minuti di
informazione e attualita', un'introduzione che serve da logica
giustificazione agli amministratori delle scuole per aderire al progetto. Ma
un'attenta analisi accademica del contenuto del programma ne ha messo in
rilievo l'elevato livello di inconsistenza: cronache sulle celebrita' del
mondo dello spettacolo, approfondimenti su personaggi pubblici e notizie
piccanti, oltre a una bassa propensione all'informazione, nonostante i
difensori del programma abbiano cercato di sostenere il contrario. Ma
l'aspetto piu' criticato del programma e' il fatto che la trasmissione e'
accompagnata da dieci minuti di annunci pubblicitari.
Sin dall'inizio, Channel One e' stato un programma controverso. Gli
insegnanti, i gruppi di genitori e le organizzazioni religiose conservatrici
si sono opposti alla pratica di costringere i bambini a guardare le
pubblicita'. Di fatto tutte le altre pubblicita' richiedono perlomeno un
consenso passivo da parte dello spettatore: si puo' cambiare canale, uscire
da un sito web o allontanarsi da un cartellone. Queste opzioni non esistono
con Channel One. Contrattualmente le scuole sono costrette a fornire
studenti, che siedono ai loro banchi, con il volume prestabilito (i comandi
del volume degli apparecchi non sono infatti regolabili). La captive
audience e' diventata uno dei maggiori argomenti di vendita che Channel One
offre ai suoi inserzionisti. Un'altra osservazione critica e' il fatto che
tra le pubblicita' prevalgono quelle su junk food, bibite, videogiochi, film
di Hollywood, programmi televisivi e altri prodotti che non migliorano certo
il benessere dei bambini. Channel One e' stato utilizzato per il
reclutamento militare e per i messaggi che promuovono marchi di aziende di
tabacco. Un altro aspetto della disputa e' il costo. Una ricerca ha mostrato
che sei giorni di ore scolastiche dedicate a Channel One costano ai
contribuenti 1,8 miliardi di dollari. Uno dei sei giorni e' interamente
assorbito dalle pubblicita', con un costo annuale di 300 milioni di dollari.
Le ricerche che mettono a confronto le scuole Channel One e le altre
dimostrano che il programma incide sul comportamento dei bambini. Una
ricerca condotta su due scuole superiori del Michigan rivela che e' molto
piu' probabile che gli studenti Channel One affermino che "una bella
macchina e' piu' importante della scuola" e che "sono le etichette a fare la
differenza" o che "le persone benestanti sono piu' felici di quelle povere".
Gli studenti Channel One, inoltre, credono al reale valore dei prodotti
pubblicizzati, perche' vengono mostrati in classe. Come ovvio, i bambini
delle aree piu' povere rischiano maggiormente di frequentare scuole Channel
One, con la conseguente perdita di ore scolastiche ed esposizione ai
messaggi pubblicitari. Da una ricerca emerge che il rischio e' due volte
superiore per questa categoria rispetto ai bambini di famiglie piu' ricche.
Chris Whittle, il fondatore della societa', ha concentrato la sua azione in
modo particolare nelle aree povere della California, abitate da latinos,
pagando gli amministratori delle scuole, gli insegnanti e i genitori nella
speranza di farsi strada nello stato.
*
Da p. 138
Confessioni di una ex addetta al marketing rivolto ai bambini
Alla fine del 2002 ho conosciuto Amanda Carlson, quando aveva da poco
lasciato il suo impiego presso una delle piu' importanti agenzie
pubblicitarie del mondo, che si occupa principalmente di Big Food. Carlson
e' una giovane executive intelligente, vivace e moderna che ha fatto una
brillante carriera nella sua agenzia come specialista nel marketing rivolto
ai bambini, nel momento in cui c'era una forte richiesta di questo tipo di
competenza. Nonostante sia ancora impegnata nel marketing rivolto ai
bambini, il suo esodo dal settore alimentare l'ha resa, rispetto a molte
delle persone che ho incontrato, piu' guardinga sui modi in cui l'industria
incoraggia i bambini a mangiare junk food. E' stata disponibile a parlare
liberamente delle sue opinioni in qualita' di addetta al marketing del cibo
e di come le industrie produttrici e le agenzie pubblicitarie stanno
affrontando i loro critici.
In un certo senso il foodspace, termine tecnico che indica il contesto
industriale alimentare, intreccia strettamente il modello di bisogni eterni
che ho descritto nel capitolo 3. I temi del kid empowerment e del
giovanilismo sono utilizzati per vendere prodotti apparentemente comuni come
gli snack e i cereali. Carlson ha descritto l'approccio dell'agenzia a uno
snack dolce: "Conferisce autorita' perche' e' uno snack che appartiene
davvero solo ai bambini, non e' per gli adulti... a volte e' un elemento
affermativo perche' ha forme che piacciono solo ai bambini. E poi esiste un
elemento di separazione, perche' separa me da te: e' il mio snack. E' un po'
irriverente. E' qualcosa che tua mamma vorrebbe che tu non mangiassi, quindi
ti da' potere".
Anche il dual messaging e' diffuso nel marketing alimentare. Le pubblicita'
dirette ai bambini cercano di far colpo su di loro sottolineando che si
tratta di un cibo molto energetico e divertente; i messaggi diretti alle
mamme enfatizzano il fatto che il prodotto e' vitaminico o a base di avena.
Questa doppia strategia e' risultata efficace per i cereali, le bevande e
gli snack. Il trans-toying, o la trasformazione dei prodotti normali in
oggetti con cui giocare, e' molto piu' preminente nel settore alimentare che
in qualsiasi altra categoria. Diane Levin, esperta di sviluppo infantile, lo
chiama "eatertainment" [ndt: gioco di parole tra il verbo inglese to eat -
mangiare e il termine entertainment - divertimento]. In un brillante esempio
di trans-toying, Kentucky Fried Chicken offriva ai bambini un pasto
contenuto nella confezione di un computer portatile.
Ma il foodspace ha le sue dimensioni specifiche, tra cui gli enormi sforzi
dedicati all'innovazione del prodotto, l'aggiunta e la sottrazione di
ingredienti e la modifica delle caratteristiche e dei colori. Nei cereali,
una tendenza diffusa e' stata quella di aggiungere caramelle o altri dolci.
Tra gli esempi si possono elencare Post's Oreo O's, Reese's Peanut Butter
Puffs e Mickey's Magix - una collaborazione tra la Kellog's e la Disney che
contiene Mickey Marshmallows colorati e una polverina che fa diventare blu
il latte. La Heinz ha creato il ketchup verde. Parkay vende margarina blu.
La General Mills ha dato vita al General Mills Glow con il Dark Yogurt, e
sono stati commercializzati i maccheroni al formaggio Kraft's Blue's Clues
con otto forme diverse e con impronte blu. Carlson teme che il processo di
innovazione sia ormai fuori controllo: "Credo che la gente stia impazzendo.
C'e' chi cerca di inventare burro di arachidi che contenga sostanze
scoppiettanti, che 'ti da' energia e ti fa andare meglio a scuola'".
Secondo la Carlson e' in atto un acceso processo competitivo. "Oggi piu' che
mai il marketing e i media sono molto importanti, molto piu' di quanto lo
siano mai stati. Il marketing deve incidere sul pensiero dei bambini e si
deve mantenere alta - non voglio dire alzare, perche' non mi sembra giusto -
la pressione. Ma per farlo oggi c'e' bisogno di piu' stimoli, perche' i
bambini sono abituati cosi' e perche' sono cosi' smaliziati che si lasciano
impressionare meno facilmente". Ma crede che le aziende potrebbero andare in
un'altra direzione: "Non sono convinta che si debba diventare sempre piu'
estremi e che i sapori debbano essere sempre piu' aspri, i giochi piu'
violenti e cosi' via". A suo parere, in parte si tratta di mancanza di
immaginazione. "Mi sembra che la gente sia a corto di idee". Cosi' i bambini
si aspettano di piu'. Un aneddoto raccontato al Kidpower 2002 riportava di
una mamma che offriva a suo figlio un pacchetto di liquirizia e il bambino
rispondeva: "A cosa serve?".
*
Da p. 209
Decommercializzare l'infanzia
Oltre Big Bird, Bratz Dolls e i Back Street Boys
Mentre gli addetti al marketing lottano per impossessarsi dei cuori e delle
menti dei bambini americani, le prove del loro successo sono ovunque. I
bambini sono legati ai marchi, hanno adottato il cool come valore supremo, e
non sembrano badare al fatto che i loro gruppi musicali preferiti siano pure
creazioni di marketing. Visitano siti web commerciali e ricoprono i loro
corpi di loghi. Dopo quasi due decenni di bombardamento intensivo dei
bambini, non c'e' dubbio che l'industria abbia escogitato una formula
remunerativa. E' altrettanto chiaro che le corporation non soddisfano i
bisogni dei bambini.
Costruire un'infanzia meno commerciale non sara' facile. I media, i
produttori di cibi confezionati e bibite, le agenzie pubblicitarie e altre
corporation che vendono prodotti ai bambini si sono ostinatamente opposti
alle riforme. Hanno utilizzato campagne di donazione, lobbismo e pubbliche
relazioni. Gli sforzi si sono indirizzati a sostenere la percezione che le
questioni di consumo siano questioni private. Una maggioranza di genitori e'
favorevole ad appoggiare estese forme di protezione dei bambini, ma tradurre
questo sostegno in azione richiedera' un diffuso attivismo di base.
Sara' anche necessario uno sforzo per comprendere cosa sia meglio per i
bambini. Molti adulti vorrebbero tornare a un'epoca piu' semplice in cui i
bambini erano protetti e innocenti. E' in corso un dibattito. Stephanie
Coontz, analista sociale, definisce gli anni Cinquanta e Sessanta "il modo
in cui non siamo mai stati". Ma e' fuori di dubbio che l'era dell'infanzia
idealizzata, o moderna, qualunque fossero le sue caratteristiche, e' stata
unica, addirittura improbabile. E ricostruirla e' ancora meno probabile. Il
mondo e' troppo cambiato.
Gli addetti al marketing e i difensori dell'infanzia postmoderna sono
critici nei confronti di chi guarda al passato. Sostengono che l'enorme
influenza dei media elettronici e della cultura delle corporation sia
inamovibile, e adottano una presa di posizione principalmente acritica. Ma
questa visione realista cade nella stessa trappola nella quale cadono i suoi
oppositori. Cosi' come l'infanzia moderna e' scomparsa, anche la sua
variante postmoderna verra' trasformata. La questione e': in quali modi e
con quali effetti? Le grandi aziende internazionali potrebbero continuare a
essere i principali architetti del futuro dei bambini. Ma e' possibile anche
un futuro diverso. Genitori e figli potrebbero unirsi per riconquistare
l'infanzia dai giganti globali e dare vita a una cultura affascinante, sana
e che responsabilizzi.
Nelle pagine che seguono descrivero' alcuni approcci per decommercializzare
e ricostruire l'infanzia. Alcuni dei cambiamenti che propongo riguardano i
regolamenti governativi su pubblicita' e marketing. Altri considerano cio'
che le famiglie possono fare all'interno delle loro citta' e comunita'.
Immagino cambiamenti su ampia scala, il che significa che dobbiamo agire su
molti livelli - all'interno delle famiglie, della comunita', delle scuole,
dei media e del governo. Sono ottimista sulle possibilita' di un
cambiamento, ma sono anche cosciente del fatto che non esistono risposte
semplici ne' indicazioni chiare di come arrivarci. La cultura dell'infanzia
legata alle grandi aziende e' profondamente intessuta nella struttura della
vita quotidiana.
*
Il consumatore ne sa di piu'
Nell'approccio standard alla politica del consumo, il laissez-faire e' una
ricetta quasi universale. Secondo questa ideologia della non interferenza,
una persona dovrebbe essere in grado di comperare cio' che le piace, dove e
quando le piace, senza badare troppo agli altri. Il consumo e'
discutibilmente l'attivita' che il pensiero economico ritiene la piu'
personale, al di fuori del legittimo controllo della societa' o del governo.
Ironicamente, e' considerata addirittura un'attivita' piu' personale del
sesso. Questa classica opinione liberista poggia su una serie di convinzioni
sui consumatori e sul mercato, tra cui l'idea che chi compra possieda
l'assoluta informazione sui prodotti del mercato, sia razionale, abbia il
controllo delle proprie azioni e sia in grado di agire nel proprio
interesse. Il liberismo presuppone inoltre che i venditori siano
generalmente onesti, che il mercato sia competitivo e che le scelte di
consumo di una persona non influenzino nessun altro. A partire da queste
convinzioni, gli economisti hanno sviluppato un modello formale che mostra
come la non interferenza sia la politica migliore, perche' lascia ai
consumatori la liberta' di fare le proprie scelte, il che si traduce nel
maggior livello possibile di benessere. Questo approccio e' comune anche
nella teoria politica e nel mondo degli affari, che mettono in campo
argomentazioni analoghe contro i tentativi di regolamentare, strutturare o
influenzare le conseguenze del consumo.
Naturalmente, a volte il laissez-faire viene violato. In risposta alla
pressione dei gruppi di consumatori, i governi hanno affrontato problemi
quali il pentimento dell'acquirente, i prodotti pericolosi o difettosi, la
pubblicita' ingannevole e scorretta. I prodotti che danno assuefazione, come
droga e alcol, sono stati regolamentati o proibiti. Il governo ha inoltre
una lunga storia di ingerenza nella regolamentazione della pubblicita' di
prodotti orientati al mercato del sesso, nel rispetto di una cultura
puritana e in contrasto con i principi del liberismo. Un periodo di attivo
intervento a meta' del XX secolo ha condotto alla creazione di programmi
federali volti a influenzare le preferenze dei consumatori in categorie
quali la salute, l'alimentazione e l'efficienza fisica, nonostante ci sia
stata un'evidente marcia indietro a partire dal 1980. Ma queste sono solo
eccezioni.
Con i prodotti rivolti ai bambini, il laissez-faire regna sovrano. Nel
liberismo classico, i bambini non sono ritenuti in grado di formulare
riflessioni razionali (questa caratterizzazione in passato e' stata
attribuita anche alle donne, agli afroamericani, alle persone senza
proprieta', nonche' ad altri gruppi che non fossero gli uomini bianchi
istruiti e ricchi di origine europea che hanno formulato questa teoria e che
rimangono i suoi principali sostenitori). I bambini sono rappresentati dai
loro genitori, che si suppone siano consumatori ben informati e
disciplinati. I genitori ne sanno di piu'. Se non approvano cio' che viene
offerto, possono spegnere la tivu', semplicemente dire di no oppure mettere
al bando le magliette, le canzoni, i siti web offensivi e le bibite
contenenti caffeina. La cultura del consumo non e' un imperativo, ma una
scelta.
*
Il dilemma del prigioniero: il punto debole nell'argomentazione liberista
L'approccio standard alza di molto la soglia della regolamentazione
politica. Cosi' facendo, rispetta la capacita' degli individui di agire per
se stessi e giocare d'anticipo nei confronti di interventi elitari. Ma le
conclusioni che si ricavano da un modello sono robuste solo quanto le
ipotesi di fondo sulle quali si basa. Nel caso della politica del consumo,
le ipotesi non sempre reggono a un attento esame. I consumatori possono
essere male informati, impulsivi, incoerenti e miopi. Ma anche se non lo
fossero, la convinzione che ogni consumatore sia isolato da chiunque altro
non e' plausibile. L'ho sempre ritenuta uno degli assunti piu' errati
dell'economia.
In realta', il consumo e' un'attivita' del tutto sociale e cio' che una
persona acquista, indossa, guida o mangia influenza i desideri e i
comportamenti di coloro che la circondano. Senza un'analisi sociale, e'
semplicemente impossibile comprendere il fascino del simbolo Nike, il
desiderio di un anello di diamanti, la moda delle Harley. E non si potrebbe
neppure comprendere la rapida diffusione e la scomparsa dei Pokemon, il
tramonto di Britney o l'onnipresenza dei pantaloni a vita bassa e dei grossi
braccialetti d'argento di Tiffany. I bambini hanno antenne sensibili per
tutto cio' che e' in e out, o per cio' che e' cool e moderno. Si
preoccupano, spesso disperatamente, di come le loro scelte di consumo
vengono recepite dai loro coetanei.
Una volta che abbiamo accettato che il consumo e' un'attivita' sociale,
l'argomentazione contro l'intervento diventa molto piu' debole. Una ragione
e' un insieme di situazioni che sono state denominate il "dilemma del
prigioniero", dalla formulazione originaria del problema riferita a due
prigionieri. Il dilemma riguarda casi in cui la cooperazione e la
regolamentazione portano a un migliore risultato per tutti, ma in cui gli
individui hanno un forte incentivo ad agire per conto loro. Consideriamo
l'esempio di far perdere ai figli un anno per favorirli nello sport o
nell'atletica. Quando lo fanno pochi genitori, probabilmente questi riescono
a raggiungere il loro scopo. Ma appena si accende la dinamica competitiva e
tutti i genitori iniziano a farlo, il benificio scompare. I singoli non
possono organizzare un ritorno alla situazione originaria, nonostante il
fatto che tutti ne trarrebbero beneficio. Solo un intervento di
regolamentazione, come una politica scolastica o un approccio collettivo,
possono consentirlo. Le situazioni competitive, in cui cio' che conta e' la
posizione relativa di ognuno, sono frequentemente caratterizzate da questi
tipi di "insuccessi di mercato", come vengono definiti. La disponibilita' ad
assumere comportamenti rischiosi e' un esempio correlato. La pressione dei
coetanei spesso porta i bambini a fare cose che da soli non farebbero. Gli
adulti riconoscono che l'intervento da parte dei genitori o del personale
scolastico e' nell'interesse dei bambini.
La competizione al consumo spesso rientra in questa categoria. Quando il
fascino di un prodotto e' dovuto al suo prestigio o alla legittimazione
sociale molto piu' che ai benefici intrinseci per il consumatore, le persone
possono essere incentivate alla riduzione del loro comportamento
dall'introduzione di misure di moderazione al consumo. Le mode che cambiano
rapidamente, la chirurgia estetica tra gli adolescenti, la creazione di
videogiochi sempre piu' elaborati e la rincorsa a marchi sempre piu'
esclusivi rientrano in questa categoria, perche' l'impulso alla
partecipazione e' spesso determinato dall'emulazione. Se tutti indossassero
scarpe da ginnastica piu' economiche e anonime, si risparmierebbe denaro e
tutti starebbero meglio. Questo e' cio' che i teorici della struttura del
gioco definiscono "esito cooperativo", nel quale la rincorsa
all'esclusivita' o il comportamento rischioso vengono moderati o prevenuti.
Un esito cooperativo puo' rendere i bambini piu' sani e piu' soddisfatti di
cio' che gia' possiedono, nonche' permettere alle famiglie di risparmiare
denaro. Gli ultimi due decenni di commercializzazione hanno intensificato
competizioni al consumo, hanno spinto i bambini verso comportamenti e stili
piu' rischiosi e piu' estremi e hanno indebolito le limitazioni culturali.
Questi cambiamenti forniscono un fondamento logico per agire sia attraverso
una regolamentazione governativa sia attraverso la cooperazione sociale.

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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 164 del 18 maggio 2008

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