Minime. 459



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 459 del 18 maggio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. La guerra e il razzismo
2. Enrico Piovesana: Questa mattina
3. Enrico Piovesana: Ieri mattina
4. Giuliano Battiston intervista Johan Galtung
5. Tiziana Bartolini intervista Dacia Maraini
6. Federica Sossi presenta "Regina di fiori e di perle" di Gabriella
Ghermandi
7. Letture: Kavafis. Vita, poetica, opere scelte
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. LA GUERRA E IL RAZZISMO

Non sono due cose distinte la guerra e il razzismo.
Chi non si oppone ad entrambe non si oppone a nessuna.

2. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: QUESTA MATTINA
[Dal sito di "Peacereporter" (www.peacereporter.net) riprendiamo il seguente
articolo del 15 maggio 2008 col titolo "Agguato agli italiani fuori Kabul" e
il sommario: "E nel sud-ovest, dove operano le nostre truppe, un kamikaze fa
strage di poliziotti e civili".
Enrico Piovesana, giornalista, lavora a "Peacereporter", per cui segue la
zona dell'Asia centrale e del Caucaso; e' stato piu' volte in Afghanistan in
qualita' di inviato]

Questa mattina una bomba radiocomandata e' esplosa al passaggio di un
convoglio degli Alpini fuori Kabul, ferendo tre soldati, uno in maniera
grave. E nella provincia sud-occidentale di Farah, dove operano le nostre
forze armate, diciannove persone sono morte in un attacco suicida. Intanto
gli Stati Uniti sono tornati a bombardare le Aree Tribali pachistane,
uccidendo almeno quindici persone.
*
Agguato agli Alpini alle porte di Kabul: 3 feriti
Verso le nove di questa mattina (le 6,10 in Italia) tre blindati Puma della
Taurinense stavano per attraversare il villaggio di Qal-eh-Lanan, nella
famigerata Valle di Musahi, quando l'esplosione di un ordigno azionato a
distanza ha investito uno dei tre mezzi. Un agguato in piena regola. Tre
alpini sono rimasti feriti e ustionati. Uno di loro, il caporal maggiore
Andrea Tomasello, ha riportato gravi ferite alle gambe ed e' stato
immediatamente evacuato a bordo di un elicottero Ab-212 della Marina
militare.
La Valle di Musahi, che si trova una trentina di chilometri a sud di Kabul,
e' sotto controllo dei guerriglieri talebani. Lo scorso 5 ottobre, gli
Alpini dovettero respingere un attacco notturno contro un loro avamposto in
quota.
Dall'inizio della missione italiana in Afghanistan, dodici nostri soldati
sono morti, decine i feriti.
*
Kamikaze fa strage a Farah, dove operano le forze italiane
Sempre questa mattina, nella provincia di Farah, un kamikaze che nascondeva
la sua cintura esplosiva sotto un burqa si e' fatto saltare in aria nel
bazar di Delaram, davanti alla caserma della polizia afgana. Almeno
diciannove i morti, tra civili e agenti di polizia. Una trentina i feriti.
Ma la stima e' ancora provvisoria e potrebbe aggravarsi. Due mezzi della
polizia sono stati distrutti nell'attentato, rivendicato dal portavoce
talebano Qari Mohammad Yousuf.
Nella provincia di Farah, dove i talebani sono presenti in forze, i soldati
italiani della brigata Friuli hanno piu' volte combattuto in passato. E qui
operano, da alcuni mesi in maniera stabile, duecento uomini delle nostre
forze speciali e una cinquantina di consiglieri militari italiani che
seguono in battaglia il soldati afgani del 207mo corpo d'armata.
*
La guerra continua anche sul fronte pachistano
Ieri sera un aereo radiocomandato statunitense ha bombardato un villaggio
nelle Aree Tribali. Due missili Hellfire - fuoco dell'inferno - hanno
colpito due abitazioni nei pressi del villaggio di Damadola, nel distretto
tribale di Bajahur, a ridosso del confine afgano. Almeno quindici persone
sono morte. Il portavoce dell'esercito pachistano, generale Athar Abbas, ha
dichiarato che le due case colpite appartenevano a Maulvi Taj Mohammad e
Maulvi Hassan, presunti "facilitatori" di Al-Qaeda.
Il villaggio di Damadola era gia' stato bombardato dai droni Usa nel gennaio
del 2006: allora morirono una ventina di civili.
Il raid missilistico statunitense giunge proprio mentre i talebani
pachistani hanno iniziato a negoziare con il nuovo governo pachistano: una
scelta apertamente avversata da Washington e dalla Nato.

3. AFGHANISTAN. ENRICO PIOVESANA: IERI MATTINA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 maggio 2008 col titolo "Afghanistan,
agguato agli alpini" e il sommario "Tre militari italiani feriti da un
ordigno a sud di Kabul: amputato un piede a Andrea Tomasello. L'ira del
padre: 'Cosa ci stiamo a fare?'. La Nato avvisa l'Italia: offensiva
talebana, tenetevi pronti"]

Ieri mattina, in Italia erano da poco passate le sei, tre blindati Puma del
II reggimento Alpini della Taurinense stavano per attraversare il villaggio
di Qal-eh-Lanan, nella famigerata Valle di Musahi, quando l'esplosione di un
ordigno azionato a distanza ha investito uno dei tre mezzi. Un agguato in
piena regola. Tre alpini sono rimasti feriti e ustionati. Al caporal
maggiore Andrea Tomasello (27 anni, di Latina), trasportato d'urgenza con un
elicottero della Marina militare all'ospedale della base militare francese a
Kabul, e' stato amputato un piede. Il padre, Salvatore Tomasello, appresa la
notizia, e' sbottato: "Cosa ci stiamo a fare in Afghanistan? L'ho detto
tante volte ad Andrea, ma loro sono militari, sono convinti di quello che
fanno, anche se la situazione li' e' pericolosa".
La Valle di Musahi, che si trova una trentina di chilometri a sud di Kabul,
e' territorio talebano. Qui lo scorso 5 ottobre gli Alpini subirono un
attacco notturno contro un loro avamposto, rispondendo al fuoco con
mitragliatrici pesanti. Ma ormai e' tutta la zona montana attorno a Kabul ad
essere in mano alla guerriglia. L'agguato del 13 febbraio, costato la vita
al maresciallo Giovanni Pezzullo, era avvenuto una cinquantina di chilometri
a est di Kabul; l'attentato kamikaze del 24 novembre, in cui rimase ucciso
il maresciallo Daniele Paladini, era invece successo una quindicina di
chilometri a ovest della capitale. Insomma: i talebani circondano Kabul. E a
difenderla, fino ad agosto, ci sono proprio gli italiani che, con la
stagione secca, rischiano di trovarsi in brutte situazioni.
Ma la situazione piu' "calda" per le truppe italiane rimane per ora quella
sul fronte sud-occidentale di Farah, dove i talebani sono pronti a
rilanciare l'offensiva respinta lo scorso novembre dopo la battaglia del
Gulistan, che per venti giorni vide impegnate le forze speciali italiane
della Task Force 45, i bersaglieri con i carri armati Dardo e gli elicotteri
da guerra Mangusta della Task Force Fenice. Le forze talebane vennero
respinte verso sud, lasciando solo alcune "cellule" attive nel distretto
meridionale di Bakwa, nel profondo sud di Farah. Cellule che, durante
l'inverno, le forze speciali italiane hanno provato a neutralizzare con raid
mirati: in uno di questi, all'inizio di febbraio, sono rimaste uccise dieci
persone, anche donne e bambini. Queste operazioni non sono bastate pero' a
scoraggiare i talebani, che nelle ultime settimane sono tornati a compiere
agguati e attentati nel sud della provincia. Il piu' sanguinoso ieri mattina
a Delaram, dove un kamikaze che nascondeva la sua cintura esplosiva sotto un
burqa si e' fatto saltare in aria nel bazar davanti alla caserma della
polizia, uccidendo almeno 19 persone, tra civili e agenti di polizia.
Potrebbe essere stato un clamoroso segnale dell'avvio dell'offensiva
talebana sul fronte sud-occidentale che i generali della Nato prevedono da
tempo, e in vista della quale hanno ordinato all'Italia di rafforzare il suo
contingente e di tenersi pronti alla battaglia. In risposta a queste
richieste, l'ex ministro della Difesa Arturo Parisi aveva predisposto nei
mesi scorsi un piano che prevedeva il graduale potenziamento del contingente
italiano nell'ovest e una sua rimodulazione in chiave offensiva. All'inizio
dell'anno, dei 1.300 soldati italiani schierati tra Herat e Farah, solo 450
erano impiegabili (e impiegati) in combattimento: i 200 incursori della Task
Force 45 e i 250 uomini della Forza di Reazione Rapida.
A fine aprile, con l'arrivo di 450 soldati del 66mo reggimento di fanteria
Trieste destinati alla costituzione di un primo "Battle Group" (500 uomini),
le forze operative schierate sono diventate almeno 700. E a fine agosto,
secondo il piano concordato tra il governo Prodi e i comandi Nato, le truppe
da combattimento italiane schierate sul fronte ovest arriveranno ad essere
almeno 1.200, quando, grazie allo spostamento di 900 uomini ora schierati a
Kabul, verra' costituito nell'ovest un secondo "Battle Group".
A quel punto, mentre nella capitale e dintorni rimarranno solo 400 soldati
italiani, sul fronte sud-occidentale di Herat e Farah saranno concentrati
2.200 militari italiani, piu' della meta' dei quali destinati al
combattimento. Buona parte di queste forze verranno schierate in una nuova
base di prima linea nel distretto del Gulistan, ai confini con la provincia
di Helmand, dove sono gia' state trasferite in pianta stabile le forze
speciali della Task Force 45, i 50 consiglieri militari italiani (Omlt)
aggregati ai battaglioni afgani del 207mo corpo d'armata e i cinque
elicotteri d'attacco Mangusta della Task Force Fenice.

4. RIFLESSIONE. GIULIANO BATTISTON INTERVISTA JOHAN GALTUNG
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 maggio 2008, col titolo "Entro
vent'anni il crollo dell'impero americano" e il sommario "Incontro con uno
tra i piu' grandi artefici delle vie che portano alla pace. Sostiene la
necessita' di rendere piu' orizzontali le decisioni dell'Onu, e mette in
guardia sul fatto che nessuno Stato elargisce diritti gratuiti ai cittadini,
spesso richiamandoli al dovere della guerra. La 'violenza strutturale' non
ha autori, ma nel suo automatismo produce effetti esiziali...".
Giuliano Battiston, giornalista, ricercatore, saggista, docente, e'
ricercatore di "Mediawatch" e tutor presso la Scuola di giornalismo della
Fondazione Basso di Roma.
Johan Galtung, nato a Oslo in Norvegia nel 1930, fondatore e primo direttore
dell'Istituto di ricerca per la pace di Oslo, docente, consulente dell'Onu,
e' a livello mondiale il piu' noto studioso di peace research e una delle
piu' autorevoli figure della nonviolenza. Oltre che fondatore nel 1959
dell'"International Peace Research Institute" di Oslo, consigliere presso le
Nazioni Unite, professore onorario in numerose universita', tra cui la
Princeton University e la Freie Universitaet di Berlino, attualmente
titolare della cattedra di 'Peace Studies' presso l'Universita' delle
Hawaii, Galtung ha dato vita nel 1964 al "Journal for Peace Research" e nel
1987 e' stato insignito del "Right Livelihood Award" (il cosiddetto 'Premio
Nobel alternativo per la pace'). Fondatore e direttore di "Transcend",
un'organizzazione internazionale per la risoluzione nonviolenta dei
conflitti che opera in tutto il mondo, e' il rettore della Transcend Peace
University. Una bibliografia completa degli scritti di Galtung e' nel sito
della rete "Transcend", il network per la pace da lui diretto, cui rinviamo:
www.transcend.org. Tra le opere di Johan Galtung: Imperialismo, Rosenberg &
Sellier, Torino 1983; Ambiente, sviluppo e attivita' militare, Edizioni
Gruppo Abele, Torino 1984; Ci sono alternative!, Edizioni Gruppo Abele,
Torino 1986; Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987;
Palestina/Israele: una soluzione nonviolenta?, Sonda, Torino-Milano 1989;
Buddhismo. Una via per la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Storia
dell'idea di pace, Satyagraha, Torino 1995; (con Daisaku Ikeda), Scegliere
la pace, Esperia, Milano 1996; I diritti umani in un'altra chiave, Esperia,
Milano 1997; La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Edizioni Gruppo
Abele, Torino 2000; Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000;
Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, Plus, Pisa 2008 (in via
di pubblicazione)]

Quest'anno Johan Galtung festeggia cinquant'anni di attivita': considerato
il padre degli studi sulla pace ha infatti dedicato gran parte della sua
vita alla promozione della cultura, ancora minoritaria, della pace e della
soluzione nonviolenta dei conflitti. Lo ha fatto, sin dall'inizio della sua
lunga traiettoria intellettuale e politica, combinando ricerca analitica e
attivismo sociale, e facendo proprio dell'unione di teoria e pratica il
principale strumento con il quale contrastare un retaggio culturale talmente
radicato nell'immaginario, nel lessico e nella pratica politica da risultare
sottinteso: l'idea che la guerra sia un dato inevitabile, fisiologico della
specie umana. Per Galtung si tratta invece di "una istituzione sociale come
le altre, perche' se la violenza non potra' mai essere eliminata
completamente, la guerra invece potra' essere abolita come e' stato fatto
per il colonialismo e la schiavitu'". Per farlo, pero', non e' sufficiente -
sebbene sia indispensabile - criticare la guerra e i suoi effetti o
denunciare le ragioni che si nascondono dietro gli "interventi umanitari",
ma occorre "lavorare in senso costruttivo, elaborando immagine plausibili di
un futuro diverso, aprendo spazi per la pace e per mediazioni intelligenti
ed efficaci". In altri termini, come scrive in uno dei suoi ultimi libri,
Pax pacifica, non bisogna soltanto eliminare i fattori che possono portare
alla guerra, quelli che definisce "bellogens", ma occorre soprattutto
introdurre nuovi fattori che portino alla pace, i "paxogens". Quei fattori
che Galtung si e' adoperato a diffondere in molti paesi. Lo abbiamo
incontrato a Genova, dove ha inaugurato gli incontri di "Mondo in Pace", la
fiera dell'educazione alla pace organizzata dalla Caritas diocesana.
*
- Giuliano Battiston: Lei ha sempre prestato molta attenzione al rapporto
che lega metodo e ideologia: il suo particolare modo di lavorare, che
combina elementi di sociologia, storia delle religioni, economia, diritto,
sembra orientato a bilanciare l'impostazione epistemologica occidentale,
atomistica e deduttiva, che ha piu' volte criticato per la sua tendenza a
parcellizzare il sapere...
- Johan Galtung: E' vero, ho sempre cercato di adottare uno sguardo
olistico, di creare un angolo visuale nuovo, piu' vasto di quello che
risulterebbe dalla semplice somma delle varie discipline. Per questo penso
che la parola piu' adatta al mio orientamento non sia tanto
multidisciplinarita' o interdisciplinarita', ma transdisciplinarita'. Certo,
presuppone una sete di conoscenza molto estesa e infatti io non mi sono mai
affidato soltanto alla lettura di libri, ma ho sempre cercato di imparare
dagli specialisti per poi tirarne fuori una sintesi produttiva. Il concetto
di "violenza strutturale", per esempio, non pertiene soltanto alla
sociologia, alla psicologia, o alla antropologia, o alla storia, perche'
produce una prospettiva inedita e proprio dalla combinazione di nuovi angoli
e prospettive e' nato quel campo di ricerca che oggi chiamiamo studi sulla
pace.
*
- Giuliano Battiston: Lei ha introdotto nel '69 la nozione di "violenza
strutturale" per indicare una forma di violenza indiretta, spesso poco
visibile, che pero' produce effetti molto negativi. Ce ne vuole parlare?
- Johan Galtung: La "violenza strutturale" non ha un autore, perlomeno non
nel senso che attribuiamo a questo termine, ma nel suo automatismo produce
effetti esiziali. Basti pensare alle centinaia di migliaia di persone che
muoiono ogni giorno per fame o per malattie curabili: non c'e' nessuno in
particolare che li stia uccidendo, e' il funzionamento stesso della
struttura sociale che li uccide, o che provoca sfruttamento e alienazione.
Per cambiare questo stato di cose dovremmo operare su tre livelli:
innanzitutto disporre di un'immagine alternativa, rappresentata in questo
caso da una struttura piu' orizzontale di quella attuale. Bisognerebbe
inoltre sostenere chiaramente che la volonta' di cambiare non implica una
minaccia verso coloro che vivono "ai piani alti" e che dovranno prepararsi
all'uguaglianza. Il terzo livello e' la consapevolezza che il cambiamento si
possa ottenere senza violenza, ed e' importante che si indichino anche
alcune vie plausibili.
*
- Giuliano Battiston: A venticinque anni lei ha pubblicato un libro
sull'etica politica di Gandhi, che continua a rappresentare uno dei punti di
riferimento centrali nel suo lavoro. Cosa la unisce e cosa la divide dalla
sue idee?
- Johan Galtung: Trovo rilevante che Gandhi vedesse nel conflitto non un
pericolo, ma una sfida, un'opportunita'. A questa convinzione univa uno
straordinario ottimismo, connesso all'idea che si dovessero usare mezzi
compatibili con il fine desiderato. Un altro elemento dell'eredita' di
Gandhi e' l'idea, gia' contenuta embrionalmente nelle precedenti, secondo la
quale non bisogna temere di parlare all'altro, perche' anche lui e' un
essere umano. La politica adottata dagli Stati Uniti in questo senso e'
completamente fallimentare, perche' condannando i propri interlocutori come
"diavoli", che si tratti di Hamas, Hezbollah o l'Iran, non si possono
ottenere risultati concreti. Il punto debole di Gandhi, invece, a mio parere
stava nella proposta di soluzioni poco creative, che tendevano al
compromesso piu' che all'innovazione. Io ho cercato di dare, proprio per
questo, un contributo inventivo alla ricerca sulla pace, ma anche la
creativita' ha i suoi limiti.
*
- Giuliano Battiston: Lei ha ricordato spesso che e' indispensabile
riconoscere nell'altro magari un nemico, ma mai una non-persona. Tuttavia,
ci sono casi - per esempio il conflitto israelo-palestinese - in cui lei
dice che si sarebbe avviato un processo che chiama di "deumanizzazione".
Allora, come muoversi in questi frangenti per gettare ponti tra il se' e
l'altro?
- Johan Galtung: In termini generali credo che la deumanizzazione abbia
radici anche in una interpretazione troppo rigida del cristianesimo,
dell'ebraismo e dell'islam. Ovvero nell'idea che vi siano persone scelte da
dio come strumenti, e che ce ne siano altre che invece sono strumento del
diavolo. La verticalita' implicita in certe tradizioni religiose produce
effetti culturali molto profondi, e non e' un caso che in Medio Oriente il
conflitto sia alimentato anche da due letture religiose molto rigide. In
questo caso l'unica via d'uscita possibile e' l'immagine di un futuro di
uguaglianza, che potra' essere raggiunto attraverso una Comunita' del Medio
Oriente che prenda a modello il trattato europeo di Roma del 1958, e che
comprenda un Israele modesto e non sionista, contenuto entro i confini del
giugno 1967, dotato di relazioni stabili e comunitarie con i cinque paesi
arabi vicini, Libano, Siria, Giordania, Egitto e la Palestina pienamente
riconosciuta secondo il diritto internazionale. E' una soluzione "creativa"
ma non troppo, attorno alla quale lavoro da vent'anni. Il fatto che alcuni
mesi fa questa idea sia stata ripresa dal quotidiano israeliano "Haaretz" ne
conferma l'attualita'.
*
- Giuliano Battiston: Nel suo saggio "I diritti umani in un'altra chiave"
lei arriva a sostenere che "la tradizione dei diritti umani non poteva avere
origine se non in Occidente". Secondo lei, cio' che e' tipicamente
occidentale in questo sistema non e' tanto il contenuto delle norme, ma la
stessa costruzione, la struttura. Ci vuole spiegare cosa intende?
- Johan Galtung: Il sistema statale prodotto dalla conferenza di Westfalia
ci ha consegnato una costruzione su tre livelli: su un livello si trovano le
Nazioni Unite e la Commissione dei diritti umani, da cui "escono" i diritti
umani, che poi sono ricevuti dagli Stati, mentre all'ultimo livello troviamo
i cittadini. In questa costruzione che si affida alla verticalita' dei
rapporti molto dipende dal livello di mezzo, quello degli Stati. E' evidente
che questa struttura sta cambiando lentamente i propri connotati, perche'
emergono attori difficilmente collocabili in questo quadro, come le
corporation. E in questo senso anche il sistema dei diritti umani e' in
crisi. Rimane pero' radicata la visione culturale promossa da questa
struttura, ovvero l'individualismo dei diritti, che sono per la maggior
parte riferiti a "ciascun" individuo. E' una concezione non sbagliata, ma
incompleta, perche' dimentica alcuni diritti collettivi che invece sono
essenziali, generalmente affermati e accolti con piu' difficolta' proprio
perche' non riducibili alla somma dei diritti individuali.
*
- Giuliano Battiston: In quel testo lei sembra inoltre sostenere che i
diritti "elargiti" dallo Stato in qualche modo contribuiscono a legittimarne
l'"essenza metafisica", a rafforzarne l'onniscienza, l'onnipotenza e la
verticalita' del rapporto con i cittadini...
- Johan Galtung: E' cosi', una volta che lo Stato diviene l'unico
dispensatore di diritti, puo' dire al cittadino: abbiamo garantito la
soddisfazione di tanti diritti, ora devi adempiere ai tuoi doveri. E tra i
doveri, si nasconde sempre quello di partecipare alla guerra: e' proprio
questo l'argomento che usa il governo degli Stati Uniti, un argomento
caratteristico dello stato giocabino e napoleonico. Non esistono i diritti
gratuiti.
*
- Giuliano Battiston: Per ovviare a questa verticalita' lei propone la
traduzione dei diritti umani in una cultura normativa locale, che enfatizzi
il diritto all'appagamento dei bisogni fondamentali piu' che
l'universalita'. Eppure i diritti umani passano ancora per il sistema delle
Nazioni Unite, che lei ha criticato per l'eccessivo centralismo. Dovremmo
cominciare a democratizzare l'Onu?
- Johan Galtung: In effetti le Nazioni Unite dovrebbero dotarsi di una
struttura piu' orizzontale, tramite un processo di democratizzazione che
sottragga il potere di veto alle cinque grandi potenze. Inoltre, bisogna
includere piu' paesi nel Consiglio di sicurezza, portandolo per esempio a
cinquantaquattro paesi; e poi, dal momento che anche i termini che usiamo
sono importanti per indicare cio' che desideriamo ottenere, invece che di
Consiglio di sicurezza potremmo parlare di Consiglio di pace e sicurezza,
perche' se il termine sicurezza rimanda alla stabilita', pace invece e' una
parola molto piu' dinamica. Tutto cio' implica un processo che si
realizzera' nel futuro, forse tra trent'anni. Prima pero' ci sara' il crollo
degli Stati Uniti.
*
- Giuliano Battiston: A proposito: nel 1980, con la teoria della "sinergia
delle contraddizioni sistemiche" lei aveva predetto con precisione il crollo
dell'impero sovietico. Oggi invece si dice convinto che tra il 2020 e il
2025 crollera' l'impero americano. Quali sono gli elementi che glielo fanno
credere?
- Johan Galtung: Quindici contraddizioni distribuite nei campi della
economia, militare, politico, culturale e sociale, di cui le piu' importanti
sono tre. Intanto, la discrasia tra l'economia finanziaria e l'economia
produttiva, che divide la parte bassa della societa', sfruttata e troppo
povera per avere la capacita' di comprare beni, da quella alta, che invece
gode di una liquidita' eccessiva usata per speculare. Nel settore militare
la contraddizione principale e' quella tra il terrorismo e il terrorismo di
Stato, mentre nell'ambito culturale la contraddizione e' quella creata
artificialmente tra l'Islam da un lato e l'ebraismo e il cristianesimo
dall'altro, con la divisione in due blocchi contrapposti delle tre religioni
abramitiche. Quanto alla presidenza di George Bush, non ha fatto che
accelerare il processo di collasso dell'impero americano.
*
Postilla. Vita e opere. Sulle orme di Gandhi
Nato a Oslo nel 1930, Johan Galtung ha studiato matematica e sociologia, e
si e' dedicato sin da giovane agli studi sulla pace, pubblicando nel '55,
insieme ad Arne Naess, un testo sul pensiero di Gandhi, Gandhi's political
ethics. Fondatore nel '59 del primo istituto di ricerca sulla pace,
l'International Peace Research di Oslo, ne e' stato direttore per dieci
anni. Nel '64 Galtung ha dato vita alla prima rivista dedicata agli studi
sulla pace, il "Journal of Peace Research", contribuendo inoltre alla
fondazione della "International Peace Research Association". Dal '69 ha
ottenuto una delle prime cattedre al mondo di studi sulla pace, insegnando
fino al '77 Conflict and Peace Research presso l'Universita' di Oslo.
Consigliere di diversi organismi delle Nazioni Unite, nell'87 Galtung ha
avuto il Nobel alternativo per la pace, il Right Livelihood Award. Ha anche
fondato "Transcend", un network internazionale di studiosi e attivisti che
promuove la risoluzione nonviolenta dei conflitti; ed e' rettore della
Transcend University. Autore di numerosi libri, molti dei quali nella
collana "Essays on Peace Research and Methodology", ne ha alcuni tradotti in
italiano. Tra questi, I diritti umani in un'altra chiave, La pace con mezzi
pacifici, e Scegliere la pace: un dialogo con Daisaku Ikeda (delle edizioni
Esperia); Ci sono alternative. Quattro strade per la sicurezza, Ambiente,
sviluppo e attivita' militare, Buddismo, una via per la pace (Gruppo Abele).

5. RIFLESSIONE. TIZIANA BARTOLINI INTERVISTA DACIA MARAINI
[Dal sito di "Noi donne" (www.noidonne.org) col titolo "Il mio '68 di Dacia
Maraini" e il sommario "Il '68 ha prodotto nella societa' italiana un
profondo ripensamento e un grande cambiamento soprattutto sul piano dei
costumi".
Tiziana Bartolini e' direttrice di "Noi donne" dal 2000. Nata a Roma ha due
figli. Laureata in storia e filosofia, giornalista, ha frequentato un master
in Formazione e Pari Opportunita' e un corso di alta specializzazione in
comunicazione e marketing del No Profit. Esperta di comunicazione sociale,
ha collaborato con riviste e quotidiani nazionali e con la Rai per il Terzo
Settore. Ha gestito quale responsabile nazionale l'area comunicazione e
l'ufficio stampa di un'organizzazione internazionale impegnata
nell'inclusione sociale delle persone con ritardo mentale, occupandosi anche
della formazione. E' stata coordinatrice editoriale di "Mondo sociale", ha
maturato competenze nel campo della pubblica amministrazione ed attualmente
e' componente del consiglio di amministrazione della Cooperativa Libera
Stampa, societa' editrice di "Noi donne".
Dacia Maraini, nata a Firenze nel 1936, scrittrice, intellettuale
femminista, e' una delle figure piu' prestigiose della cultura democratica
italiana. Un breve profilo biografico e' in "Nonviolenza. Femminile plurale"
n. 47. Tra le opere di Dacia Maraini segnaliamo particolarmente: L'eta' del
malessere (1963); Crudelta' all'aria aperta (1966); Memorie di una ladra
(1973); Donne mie (1974); Fare teatro (1974); Donne in guerra (1975); (con
Piera Degli Esposti), Storia di Piera (1980); Isolina (1985); La lunga vita
di Marianna Ucria (1990); Bagheria (1993). Vari materiali di e su Dacia
Maraini sono disponibili nel sito www.dacia-maraini.it]

- Dacia Maraini: Il '68 ha prodotto nella societa' italiana un profondo
ripensamento e un grande cambiamento soprattutto sul piano dei costumi.
L'Italia era arretrata rispetto agli altri paesi europei. La cosa che ha
piu' colpito dal punto di vista delle donne e' stata la diffusione dello
stile associativo del '68: non c'era citta' italiana, anche piccola, che non
avesse i suoi gruppi di donne che facevano autocoscienza e che riflettevano
sulla memoria femminile, storica e personale. Quei gruppi e quei modi hanno
avuto una forza dirompente nella societa' di allora. Hanno distrutto un
certo tipo di famiglia patriarcale, autoritaria e hanno introdotto dei
principi di parita', di giustizia, di liberta' personale che in Italia -
soprattutto per via dell'influenza della Chiesa che e' stata sempre cosi'
presente - erano sconosciuti. Anche nei partiti di sinistra c'erano
arretratezze con cui ci si scontrava, basta pensare a figure come la
Kuliscioff o la Mozzoni e alle fatiche affrontate per fare passare le
battaglie per il suffragio universale. Anche i partiti di sinistra pensavano
che il voto alle donne fosse sprecato. Certo, dopo la seconda guerra
mondiale c'e' stata un'evoluzione, pero' e' stato il '68 a dare il via
all'idea che i diritti dovessero essere uguali per uomini e donne, che la
democrazia comprende sia il maschile che il femminile.
*
- Tiziana Bartolini: Il segno che ha distinto quegli anni e' stata la
discontinuita', i cambiamenti forti ed inequivocabili.
- Dacia Maraini: Parlare di una societa' in modo generico non aiuta a
capire. Finche' siamo sul piano dei ricordi e delle impressioni tutto e'
opinabile. Altro e' portare come prova la creazione di leggi molto
importanti che hanno cambiato la situazione e i costumi delle donne. Dal '68
in poi sono state approvate norme che prima erano state sempre rimandate: Il
diritto di famiglia, per esempio. Ricordiamoci che prima tutto era deciso
dal capofamiglia e che la moglie doveva avere il permesso del marito per
ogni decisione che la riguardasse o riguardasse i propri figli. Ricordiamoci
che l'adulterio della donna era punito mentre quello dell'uomo era
considerato con delle attenuanti, situazione superata solo con la legge che
abrogava il delitto d'onore.
*
- Tiziana Bartolini: Molte posizioni critiche sul '68 dicono che il
terrorismo e' stato figlio di quegli anni.
- Dacia Maraini: Le deviazioni o le degenerazioni appartengono a tutti i
grandi movimenti rivoluzionari. Puo' succedere che degenerino in aberrazioni
ed estremismi. E' successo anche con la Rivoluzione francese. Mi sembra
chiaro pero' che nell'insieme il '68 ha prodotto grandissime innovazioni
della societa' italiana.
*
- Tiziana Bartolini: Anche per le donne?
- Dacia Maraini: La condizione delle donne e' migliorata, ci sono stati
cambiamenti drastici sul piano del lavoro, degli studi, delle professioni.
Nell'universita', ad esempio, negli anni Cinquanta c'erano pochissime donne,
soprattutto in certi indirizzi di studio. Oggi quasi tutte le facolta' sono
in maggioranza femminili, anche quelle scientifiche. Le donne sono brave ma
poi il mondo del lavoro le penalizza. Inoltre sappiamo che non e' facile
cambiare nel profondo la psicologia di un paese. Ci sono questioni che
sembrano risolte e che invece riemergono sotto forma di rigurgiti di
violenza. L'aumento delle violenze contro le donne e i bambini e' certamente
un segno di non accettazione da parte di chi crede in una immobilita'
sociale.
*
- Tiziana Bartolini: In quegli anni c'era grande partecipazione, oggi c'e'
un individualismo che non facilita i rapporti e le conquiste.
- Dacia Maraini: Oggi come donne siamo tornate ad una situazione di
debolezza e fragilita' perche' la situazione economica e' brutta: la
globalizzazione ha portato alla precarieta' e a nuove gravi forme di
poverta'. In questo cambiamento le donne pagano di piu' perche' non e' stata
risolta a monte la divisione dei compiti. Come tanti studi dimostrano, dopo
la teorizzazione e le conquiste di parita', le donne continuano a fare i
conti con il doppio degli oneri dentro e fuori casa, il lavoro di cura grava
ancora sulle loro spalle.
*
- Tiziana Bartolini: Pero' dei nuovi movimenti femministi stanno rinascendo.
- Dacia Maraini: Al momento mi sembrano un po' vaghi, mancano i punti di
riferimento. Una volta c'erano dei gruppi precisi, identificabili anche con
dei nomi. E' bello lo spontaneismo e va bene che ci siano dei momenti in cui
le donne, sentendo calpestati i propri diritti, si facciano sentire. Ma il
fatto che le dimostrazioni si decidano li' per li', secondo il grado di
indignazione, che tante donne si radunino per strada e poi tutto scompaia
nel silenzio e' certo una debolezza.
*
- Tiziana Bartolini: In attesa che il movimento delle donne riemerga con
forza, quali sono le emergenze?
- Dacia Maraini: La questione dei ruoli e' stata messa in discussione e
anche risolta teoricamente, ma nella pratica c'e' ancora una forza molto
evidente che spinge alla famiglia tradizionale. Se le donne che lavorano in
Italia sono una percentuale inferiore nella media europea e' perche' la
divisione dei compiti e' rimasta quella vecchia e perche' gli aiuti sociali
sono minimi. La situazione e' paradossale: le ragazze italiane escono dalle
universita' con studi brillanti, potrebbero diventare bravissime scienziate
o eccellenti professioniste e invece si trovano a scegliere se fare figli o
impegnarsi ne lavoro fuori casa.
*
- Tiziana Bartolini: Il solito dilemma: fare la madre o la carriera?
- Dacia Maraini: La parola carriera e' stata demonizzata, non usiamola per
favore. Anzi aboliamola del tutto e parliamo di professione che presuppone
amore, sacrificio, dedizione. La professione e' qualcosa su cui la donna
investe tempo, studio, energie, passioni ed e' qualcosa a cui tiene. La
carriera fa subito pensare ad un'arpia che cerca a gomitate di farsi strada
e guadagnare piu' soldi. Perche' non pensiamo che una donna che vuole fare
la magistrata non sta inseguendo una carriera, ma l'amore per la professione
scelta? Il termine carriera e' usato contro le donne in modo terroristico,
per far venir loro i sensi di colpa. Le parole attivita', mestiere, talento,
occupazione devono sostituire la parola carriera che e' deformante. Penso
che le donne abbiano il diritto di amare il mestiere che hanno deciso di
intraprendere e non e' giusto che siano costrette a scegliere se avere o no
una famiglia. Ho visto che nel Parlamento dei paesi del Nord Europa, ma
anche nelle aziende, ci sono asili e nidi. E sono gratuiti. Da noi sono le
nonne o le zie a dovere provvedere ma quando non ci sono?
*
- Tiziana Bartolini: Il mondo della cultura ieri e oggi. Ci sono differenze?
- Dacia Maraini: C'e' piu' indipendenza e piu' varieta'. Negli anni
Cinquanta le poche donne che scrivevano sui giornali si occupavano di moda o
bambini. Ricordo che un direttore del "Corriere della sera" asseriva di non
volere in redazione "ne' donne ne' omosessuali". Questo era il clima. Pero'
osservo che anche se le giornaliste sono tantissime, ancora oggi le
opinioniste sono poche: evidentemente le donne non hanno sufficiente
autorevolezza. Si', in Italia c'e' ancora molta misoginia.

6. LIBRI. FEDERICA SOSSI PRESENTA "REGINA DI FIORI E DI PERLE" DI GABRIELLA
GHERMANDI
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo la seguente recensione.
Federica Sossi e' docente di filosofia teoretica all'universita' di Bergamo.
Tra le sue opere: (a cura di), Pensiero al presente, Cronopio, Napoli 1999;
Autobiografie negate. Immigrati nei lager del presente, Manifestolibri, Roma
2002; Migrare: spazi di confinamento e strategie di esistenza, il
Saggiatore, Milano 2007.
Su Gabriella Ghermandi dal sito www.gabriella-ghermandi.it riprendiamo la
seguente scheda: "Gabriella Ghermandi, italo-etiope-eritrea, e' nata ad
Addis Abeba nel 1965, e si e' trasferita in Italia nel 1979. Da parecchi
anni vive a Bologna, citta' originaria del padre. Nel 1999 ha vinto il primo
premio del concorso per scrittori migranti dell'associazione Eks&Tra,
promosso da Fara Editore, e nel 2001 il terzo premio. Ha pubblicato racconti
in varie collane e riviste, tra cui Nuovo planetario Italiano. Mappa della
nuova geografia di scrittori migranti in Italia e in Europa a cura di
Armando Gnisci, ed. Citta' Aperta, L'Italiano degli altri: 16 storie di
normale immigrazione per Einaudi scuola, Quaderni del Novecento: La
letteratura postcoloniale italiana, Istituti editoriali e poligrafici
internazionali, Il lettore di provincia n. 123-124 - volume monografico
intitolato "Spaesamenti padani" a cura di Clarissa Clo', Longo Editore.
Seguendo l'arte della metafora tipica della tradizione culturale etiope,
scrive e interpreta spettacoli di narrazione che porta in giro sia in Italia
che in Svizzera. Conduce laboratori di scrittura creativa nelle scuole, in
Italia e Svizzera, sulla ricerca della identita' "unica" di ciascun
individuo - da contrapporre alle "identita' collettive" - come percorso di
pace. E' stata per due anni direttrice artistica del Festival Evocamondi,
festival di narrazione e musiche dal mondo, organizzato dalla rivista "El
Ghibli", a Bentivoglio, in provincia di Bologna. Ha creato per il festival
"Le strade dell'esodo - II edizione" la performance di lettura, musica e
narrazione Terre rosse dei sentieri d'Africa, e per "Le strade dell'esodo -
III edizione" la performance di lettura Mille sono le vie del ritorno. Si e'
occupata della raccolta di interviste a migranti nella Comunita' Montana Val
Samoggia in provincia di Bologna, per il progetto Migranti, storia e storie
di un millennio di mobilita' nelle valli del Samoggia e del Lavino. Ha
partecipato come consulente tecnica in vari progetti tra i quali "Ti conosco
perche' ti ho letto", percorso di lettura di autori migranti in quaranta
classi nelle scuole della valle dell'Idice (provincia di Bologna) e
"all'incrocio dei sentieri" incontri con scrittori migranti nelle
biblioteche della provincia di Bologna. E' fondatrice, assieme ad altri
scrittori, della rivista online "El Ghibli" e fa parte del comitato
editoriale. Ha partecipato come relatrice a vari convegni tra cui quello
dell'Aais (American association for italian studies), nella sezione
"spaesamenti padani" condotta dalla professoressa Clarissa Clo' nel 2006, e
nel 2007 assieme a Edvige Giunta sul tema della multidentita' e scrittura.
Quest'anno, dal 16 aprile al 6 maggio, e' stata in tour negli Stati Uniti a
portare i suoi spettacoli di narrazione nelle facolta' del Wisconsin, San
Diego, Los Angles e Colorado Springs. Nell'aprile 2007 e' uscito il suo
primo romanzo Regina di fiori e di perle per Donzelli editore"]

"E loro, i tre venerabili anziani di casa, me lo dicevano sempre negli anni
dell'infanzia, durante il caffe' delle donne: 'Da grande sarai la nostra
cantora'. Poi un giorno il vecchio Yakob mi chiamo' nella sua stanza, e gli
feci una promessa. Un giuramento solenne davanti alla sua Madonna
dell'icona. Ed e' per questo che oggi vi racconto la sua storia. Che poi e'
anche la mia. Ma pure la vostra".
Gia', di chi e' la storia?
Termina cosi' il libro di Gabriella Ghermandi, con una storia da raccontare
che e' una storia di tutti, del vecchio Yakob, di Mahlet, la
protagonista-narratrice di Regina di fiori e di perle, e nostra, di noi
lettori che in quell'istante terminiamo di leggere il suo libro e di un
altro "noi", per nulla nascosto nell'ultima parola di questa storia in
realta' gia' raccontata dall'autrice. In quel "vostra", infatti, nella
vostra storia, si racchiude un "noi" lettori/italiani che attraverso la
storia di Mahlet come lei ci mettiamo in ascolto delle storie dei talian
soldato che hanno occupato il suo paese, della resistenza etiope e dell'arma
sconosciuta usata dagli italiani per batterla, quella "nebbiolina quasi
invisibile che si adagiava nelle valli, nei crepacci, nelle gole, e
ammazzava i nostri uomini bruciandoli da dentro, dai polmoni" (p. 144).
Uno strano modo di terminare, rimandando a una storia che dovra' essere
raccontata e che noi lettori gia' conosciamo. E' cosi' che il tempo
dell'Etiopia occupata dagli italiani si snoda, attraverso dei nodi su un
primo nodo: la storia di Yakob, e poi le storie che si annodano alla sua e
che Mahlet, diventata adulta, continua ad ascoltare per poterci poi
raccontare la "nostra storia". Ma anche queste storie ascoltate sono gia'
plurali, contengono storie d'altri, perche' tutti hanno una storia, come
dice di aver compreso dai racconti della madre una delle donne ascoltata da
Mahlet.
Cosi', questa storia che e' di tutti e' una strana storia, immediatamente
soggettiva e collettiva, singolare e plurale, storia dei soggetti e storia
di un popolo, o di due popoli, storia di Yakob, di Mahlet, storia del
passato e del presente dello spazio da loro abitato, e storia dell'Etiopia e
dell'Italia ai tempi della sua impresa coloniale nella terra di Mahlet.

7. LETTURE. KAVAFIS. VITA, POETICA, OPERE SCELTE
Kavafis. Vita, poetica, opere scelte, Il sole 24 ore, Milano 2008, pp. 608,
euro 12,90 (in supplemento al quotidiano "Il sole 24 ore"). Il volume a cura
di Stefano Pozzi reca un'ampia introduzione alla figura e all'opera di
Kavafis, due saggi di Ghiorgos Seferis e di Massimo Peri, una cronologia e
una bibliografia sintetica, e l'edizione canonica delle 154 poesie accettate
dal poeta - nella traduzione di Filippo Maria Pontani e col testo originale
a fronte. Queste poesie tu le hai gia' lette cento e cento volte, ed ogni
volta ti tolgono il respiro. Tale e' la loro bellezza, tale la loro verita'.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 459 del 18 maggio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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