Nonviolenza. Femminile plurale. 180



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 180 dell'8 maggio 2008

In questo numero:
1. Silvia Ballestra ricorda Joyce Lussu (2004)
2. Maria Serena Palieri intervista Sindiwe Magona (2005)

1. MEMORIA. SILVIA BALLESTRA RICORDA JOYCE LUSSU (2004)
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 27 agosto 2004, col titolo "Gli occhi di
Joyce Lussu".
Silvia Ballestra e' scrittrice e traduttrice. Dal sito www.municipio.re.it
riprendiamo la seguente breve autopresentazione di alcuni anni fa: "Sono
nata nelle Marche nel 1969. Sono laureata in lingue e letterature straniere
moderne. Ho esordito nel 1990 nell'antologia Papergang, Under 25, terzo
volume curata dallo scrittore Pier Vittorio Tondelli. Il mio primo libro
Compleanno dell'iguana e' uscito nel 1991, contemporaneamente, da
Transeuropa e Mondadori. E' stato tradotto in Francia, Portogallo, Germania.
Segue il romanzo La guerra degli Anto', del 1992, sempre per Transeuropa e
Mondadori. Da questo libro e' stato tratto il film, uscito nel 1999, per la
regia di Riccardo Milani. Nel 1994 e' uscita la raccolta Gli orsi per la
Feltrinelli, nel 1996 la lunga intervista biografica a Joyce Lussu: Joyce
L., una vita contro (Baldini e Castoldi), nel 1998 il romanzo La giovinezza
della signorina N.N., una storia d'amore (Baldini e Castoldi)... Insieme a
Giulio Mozzi ho curato il primo volume dell'antologia Coda riservata ai
giovani under 25 edita da Transeuropa. Ho curato poi diverse traduzioni dal
francese e dall'americano. Attualmente vivo e lavoro a Milano. Ho iniziato a
scrivere a 18 anni. Ero al primo anno di Universita', a Bologna, e ricordo
di aver comprato il secondo volume dell'antologia curata da Pier Vittorio
Tondelli, che conoscevo gia' come autore di Altri libertini e Pao Pao.
Scrissi forse quattro o cinque racconti e li inviai alla Transeuropa: dopo
circa un anno di silenzio fui contattata da Massimo Canalini, l'editor che
si occupava della narrativa. Tondelli aveva letto le mie cose e promise di
metterle nel nuovo volume. Nel frattempo (sono passati tre anni per arrivare
alla pubblicazione) ogni volta che scrivevo qualcosa di nuovo lo sottoponevo
a Canalini - la Transeuropa aveva sede bolognese - e insieme discutevamo il
da farsi. Cosi', da un racconto intitolato "Yes, ya, oui, ya, si'" e' emersa
la figura del giovane pescarese Anto' Lu Purk, un personaggio punk che in
quella storia ambientata all'Isola del Kantiere svolgeva un ruolo
secondario, sullo sfondo. Canalini mi suggeri' di lavorare su quel
personaggio e su quella lingua, abbandonando certi miei toni piu' trucidi e
cupi per dedicarmi a qualcosa di piu' comico e ridanciano. Nacque cosi' il
racconto lungo "La via per Berlino" seguito poi da La guerra degli Anto',
romanzo che era gia' pronto prima della pubblicazione d'esordio e cioe'
prima del Compleanno dell'iguana. A quell'epoca - ma anche adesso, perche'
certi autori fondamentali li leggo e rileggo spesso - leggevo soprattutto
libri americani. Inutile dire che si scrive perche' si legge, perche' si
conosce l'immenso piacere della scrittura. Per quanto mi riguarda, la mappa
dei miei scrittori di riferimento me la sono costruita da sola, nel tempo,
senza che nessuno mi aiutasse ad orientarmi, almeno all'inizio. Voglio dire,
e' anche una grande soddisfazione fare le proprie scoperte, trovarsi da
soli, in libreria o in biblioteca, un buono scrittore e leggere tutto quello
che ha scritto. In seguito, a volte per strani percorsi, c'e' stata una
ulteriore selezione che ha ristretto il campo agli autori 'utili' per
scrivere. Carver e' sempre stato il mio preferito, ma c'erano anche Selby,
Brautigan, Mc Inerney, Leavitt, ovviamente Hemingway, Steinbeck, Caldwell,
il grandissimo Salinger (i racconti e i libri meno noti), Bukowski, Fante e
Shepard. Ho confessato tutto, anche alcuni che oggi potrei rinnegare come
questi ultimi tre. Poi c'e' stata la scoperta di alcune scrittrici come la
O' Connor, Edna O' Brien, Grace Paley, piu' alcune giovani americane. Per
quanto riguarda i classici, essendomi laureata in lingue, posso dire di
conoscere bene la letteratura francese e inglese, piu', ovviamente, i grandi
russi che spero tutti abbiano letto, in particolare Cechov. Fra gli
italiani, fondamentali per me sono stati Arbasino, ovviamente Tondelli,
Luigi di Ruscio e Joyce Lussu. Fra i giovani seguo con particolare
attenzione il lavoro di Claudio Piersanti, Romolo Bugaro, Andrea Demarchi e
Enrico Brizzi". Opere di Silvia Ballestra: (con Guido Conti e Raffaella
Venarucci), Papergang (under 25 III), Transeuropa, 1990; Compleanno
dell'iguana, Mondadori e Transeuropa, 1991; La Guerra degli Anto', Mondadori
e Transeuropa, 1992; Gli orsi, Feltrinelli, 1994; (con Joyce Lussu), Joyce
L. Una vita contro, Baldini & Castoldi, 1996; Il disastro degli Anto',
Baldini Castoldi Dalai, 1997; La giovinezza della signorina N. N. Una storia
d'amore, Baldini Castoldi Dalai, 1998; Romanzi e racconti, Theoria, 1999;
Nina, Rizzoli, 2001; Il compagno di mezzanotte, Rizzoli, 2002; Senza gli
orsi, Rizzoli, 2003; Tutto su mia nonna, Einaudi, 2005; La seconda Dora,
Rizzoli, 2006; Contro le donne nei secoli dei secoli, Il Saggiatore, 2006.
Joyce Lussu, nata da una famiglia di intellettuali antifascisti, esule fin
dall'infanzia, compagna di Emilio Lussu, impegnata nella lotta contro il
fascismo, per i diritti dei popoli, nel movimento femminista ed in quello
ambientalista. Scrittrice, traduttrice. Una straordinaria figura di
militante e di intellettuale. E' scomparsa nel 1998. Opere di Joyce Lussu:
segnaliamo particolarmente Fronti e Frontiere, Laterza, Bari 1967. Opere su
Joyce Lussu: Silvia Ballestra, Joyce L., Baldini & Castoldi, Milano 1996.
Dal sito www.joycelussu.org riprendiamo la seguente notizia biografica:
"Joyce Lussu nasce come Gioconda Salvadori a Firenze, l'8 maggio 1912, da
genitori marchigiani, entrambi con ascendenze inglesi. Il padre,Guglielmo
Salvadori, docente universitario e primo traduttore del filosofo Herbert
Spencer, malmenato e piu' volte minacciato dalle camicie nere, fu costretto
all'esilio in Svizzera nel 1924, e con lui la moglie Giacinta, i due figli
maggiori Max e Gladys, e la piccola Joyce. Joyce vivra' cosi' all'estero gli
anni dell'adolescenza, in collegi ed ambienti cosmopoliti, maturando
un'educazione non formale, ispirata agli interessi della famiglia per la
cultura, l'impegno politico e la propensione alla curiosita', al dialogo, ai
rapporti sociali. Con i fratelli, comunque, ufficializzera' questo originale
percorso conoscitivo, ottenendo la licenza di liceo classico con esami da
privatista nelle Marche, tra Macerata e Fermo. Ad Heidelberg, mentre segue
le lezioni del filosofo Karl Jaspers, vede nascere, con allarmata e critica
vigilanza, i primi sintomi del nazismo. Si sposta, quindi, in Francia e in
Portogallo, e si licenzia in Lettere alla Sorbona di Parigi e in Filologia a
Lisbona. Tra il 1933 e il 1938 e' in piu' zone dell'Africa; l'interesse
partecipe per la natura e per lo sfruttamento colonialistico di genti e
paesi, resteranno, da adesso in avanti, motivazioni fortemente legate alla
sua scrittura ed alla sua vita in genere. I primi testi poetici
significativi si possono collocare in questo periodo, e di Liriche (1939 ed.
R. Ricciardi) sara' curatore eccellente Benedetto Croce, affascinato anche
dalla carica vitale della giovanissima scrittrice. In una sua recensione su
"La Critica" (fasc. II, 1939), ne evidenziera' la laica capacita' di
rapportarsi con coraggio al dolore del vivere, e la forza dei paesaggi e
delle scene che "si sono fatte interne, si sono fuse con la sua anima".
Intanto il tempo della Storia incalza. Insieme al fratello Max, Joyce entra
a far parte del movimento "Giustizia e Liberta'" e nel 1938 incontra Emilio
Lussu - mister Mill, per gli organizzatori della Resistenza in esilio,
compagno e marito da ora in poi fino alla sua morte - e con lui vive la
drammatica e spericolata vicenda della clandestinita', nella lotta
antifascista. La Francia occupata dai nazisti, la Spagna, il Portogallo, la
Svizzera, l'Inghilterra, saranno il teatro di rischiose missioni, passaggi
oltre confine, falsificazioni di documenti, corsi di guerriglia...
Raggiunto, in questa militanza nelle formazioni di G. L., il grado di
capitano, nel dopoguerra verra' decorata di medaglia d'argento al valor
militare. In Fronti e Frontiere - 1946 - lei stessa raccontera', in forma
autobiografica, le dure e al tempo stesso avventurose esperienze di questo
periodo: sara' un libro di grande successo. A liberazione avvenuta, vive da
protagonista i primi passi della Repubblica Italiana ed il percorso del
Partito d'Azione, fino al suo scioglimento. Promotrice dellí'Unione Donne
Italiane, milita per qualche tempo nel Psi e nel 1948 fa parte della
direzione nazionale del partito; preferira', tuttavia, tornare ad occuparsi
di attivita' culturali e politiche autonome, insofferente di vincoli e
condizionamenti d'apparato. Dal 1958 al 1960, continuando a battersi nel
segno del rinnovamento dei valori libertari dell'antifascismo, spostera' il
suo orizzonte di riferimento nella direzione delle lotte contro
l'imperialismo. Sono gli anni dei viaggi con organizzazioni internazionali
della pace, con movimenti di liberazione anticolonialistici; e per conoscere
le situazioni storico-culturali del "diverso", si occupera' della poesia
lontana ed, in un certo senso, estranea all'antica cultura dell'Occidente,
quella degli "altri", dalla quale era fortemente attratta perche' la sentiva
strumento unico, rapido ed efficace di conoscenza. Traduce, quindi, da poeti
viventi, alternativi, non letterati, spesso provenienti dalla cultura orale:
albanesi, curdi, vietnamiti, dell'Angola, del Mozambico, afroamericani,
eschimesi, aborigeni australiani... Fu una splendida avventura, umana e
letteraria, in cui la comunicazione derivo' non dalla conoscenza filologica
di grammatiche e sintassi, quasi sempre inesistenti, ma dal rapporto diretto
poeta con poeta, dalle lingue di mediazione, dai gesti, dai suoni, dal
dolore cupo di sofferenze antiche ed ingiuste. La sua traduzione delle
poesie del turco Nazim Hikmet - a tutt'oggi tra le piu' lette in Italia - e'
un esempio eccellente per tutte. Fu cosi' naturale partecipare attivamente
alle mobilitazioni in favore di perseguitati politici, quali l'angolano
Agostinho Neto ed Hikmet, appunto, tanto per fare alcuni nomi. Proprio
attraverso quest'ultimo verra' a conoscenza del problema curdo, "un popolo
costretto a vivere da straniero nel suo territorio", come scrivera' in
Portrait (1988, Transeuropa). E in un viaggio epico, dopo essere passata
spavaldamente indenne attraverso le pastoie della burocrazia irachena, ed
aver ottenuto dal Presidente, generale Aref in persona, un lasciapassare,
raggiunse il Kurdistan e conobbe il valoroso popolo che lo abitava e i suoi
eroi di allora: Jalal Talabani con i mitici guerrieri peshmarga', ed il
"Mollah Rosso" Mustafa' Barzani. Era la meta' degli anni Sessanta e da
allora la causa del popolo curdo divenne la causa di Joyce, che la porto'
nel mondo e, soprattutto, nelle scuole. Dall'esperienza terzomondista
derivo', cosi', dagli anni Settanta in poi, l'impegno alla riscoperta e
valorizzazione dell'"altra storia": quella delle sibille e delle streghe,
dei movimenti pacifisti, delle tradizioni locali devastate dalla
globalizzazione, dando vita a molti progetti frutto della sua visione
critica del divenire e delle sue intuizioni profetiche, che il tempo e gli
studi avrebbero verificato esatte ed eccezionalmente attuali. Dedichera' una
parte fondamentale della sua straordinaria carica vitale al rapporto con i
giovani, nell'ipotesi di un futuro di pace, da costruire con impegno
sistematico e conoscenze adeguate del passato, degli errori, delle violenze
e delle ingiustizie che non dovevano ripetersi. Se conservera', allora, una
certa diffidenza nei confronti delle istituzioni e delle persone che le
rappresentano, riporra' pero' massima fiducia ed apertura verso le nuove
generazioni; per questo fino alla primavera del 1998 ha occupato una parte
notevole del suo tempo in scuole di ogni ordine e grado, animando incontri
che incrociavano percorsi di storia, poesia, autobiografia, progettualita'
sociale. E' morta a Roma il 4 novembre 1998, all'eta' di 86 anni"]

La prima volta che ho letto il nome di Joyce Lussu e' stato alle scuole
elementari: avevamo una sua famosissima poesia stampata nel sussidiario,
Scarpette rosse, e la nostra maestra la leggeva spesso provocando i pianti
commossi di molti bambini. La poesia parlava di un paio di scarpette rosse
nuove di zecca, numero 24, lasciate sopra un mucchio di altre scarpette
fuori da un forno di Buchenwald. La sapevo quasi a memoria perche' i versi
erano semplici e ti si imprimevano facilmente in testa. Era proprio quello
che voleva Joyce: una poesia che fosse utile, come le aveva insegnato il
grande poeta turco Nazim Hikmet, e comprensibile a tutti, anche agli
analfabeti e ai piu' piccoli.
Piu' avanti, sentii parlare di Joyce in casa. Le nostre famiglie
anglomarchigiane si erano incrociate a meta' dell'Ottocento e molti parenti
di papa' erano assai critici nei suoi confronti. Addirittura severi, quasi
avessero timore di una persona che non erano mai riusciti a comprendere e
conoscere davvero. Joyce era diventata grande, addirittura una grande
vecchia: aveva sposato Emilio Lussu, aveva ricevuto una medaglia d'argento
al valor militare per il suo ruolo nella Resistenza, aveva girato il mondo
alla ricerca di poeti da tradurre, era stata invitata praticamente ovunque
per parlare di pace, aveva scritto bellissimi libri di successo... ma tutto
questo non era bastato a dissipare antiche ruggini familiari. Si parlava di
lei come di una persona "scandalosa" in quanto femminista e rivoluzionaria,
anticlericale e socialista con tendenze anarchiche; ci sentivi tanto
insopportabile paternalismo e volgare maschilismo in certi giudizi anche
maliziosi espressi non solo dentro la famiglia e non solo da ambienti di
destra. Maliziosi perche' Joyce era una donna dalla bellezza straordinaria:
mi e' capitato di vedere un programma Rai in cui all'intervista a Joyce ne
seguiva una a Sharon Stone. Ebbene, Joyce era di gran lunga piu' bella della
diva americana, perche' agli occhi azzurri, ai lineamenti perfetti, al
portamento aristocratico, aggiungeva lo spessore di una vita meravigliosa e
un secolo di "pensiero materiale" assolutamente originale e straordinario,
cosmopolita e profetico. Oltre a un carattere fortissimo e a un'aura tutta
sua, fatta di poesia, storia, ironia, etica e saggezza.
*
Prima di incontrarla, avevo avuto modo di leggere i suoi libri pubblicati
dalla Transeuropa e ascoltare certe sue telefonatacce molto urlate a Massimo
Canalini (il nostro comune editor aveva il vizio di mettere tutti in viva
voce) che si rifiutava di ristampare l'ormai introvabile autobiografia
fotografica Portrait. Quelle scenate mi avevano messo un po' paura perche'
Joyce si divertiva un mondo a litigare animatamente, strapazzando
l'interlocutore senza remora alcuna (Canalini, poi, era il punchingball
ideale). Con qualche patema, dunque, risposi alla sua "chiamata": lei aveva
letto il mio primo libro e aveva subito attivato una giornalista di San
Benedetto che avrebbe fatto da autista e trait d'union. Cosi' feci il mio
ingresso nella sua casa di San Tommaso in una sera di novembre inoltrato,
nel 1991. C'era un mucchio di gente, quella volta, donne di una certa eta' e
qualche raro uomo che cercava di mimetizzarsi con la tappezzeria o darsi da
fare come cameriere-barista-cuoco. Era palpabile la tensione, attorno agli
sparuti maschi: quella sera Joyce stava discutendo di un suo progetto di
libro collettivo e fotografico che doveva intitolarsi Streghe a fuoco,
storie di donne da lei prescelte e fotografate dall'unico strega-maschio
onorario, il fermano Raffaello Scatasta. Mi sentivo un po' gli occhi
addosso: non quelli di Joyce, che era stata gentilissima e m'aveva subito
messo a mio agio, piuttosto quelli degli altri che studiavano la ragazzetta
loro conterranea baciata dalla fortuna grazie a un romanzo sui giovani punk
pescaresi. Comunque, quella prima sera fui invitata a prendere parte al
libro (sempre edito da Transeuropa) e farmi fotografare a Bologna, dove
vivevo all'epoca.
*
Comincio' cosi' una frequentazione abbastanza regolare di Joyce: ogni volta
che tornavo nelle Marche, vale a dire abbastanza spesso, c'era modo di
andare a trovarla, soprattutto durante l'estate. Ci andavo molto volentieri
e alle occasioni "private" si aggiungevano quelle pubbliche: presentazioni
comuni di libri a Macerata, Camerino, San Benedetto, Ancona, Bologna,
Ascoli, Roma, Milano. Joyce era continuamente invitata in giro per l'Italia,
soprattutto nelle scuole, a parlare della sua esperienza, e non diceva mai
di no, anzi accettava sempre con grande entusiasmo e disponibilita' anche se
aveva ottant'anni suonati. Prendeva il treno o si faceva accompagnare in
macchina da qualcuno che guidava, e partiva. Avevo nel frattempo pubblicato
un secondo romanzo che le era piaciuto piu' del primo: si trattava de La
guerra degli Anto' e Joyce spendeva parole molto lusinghiere e gentili su
quel testo che cercava di rendere conto d'un certo stupore e sdegno nei
confronti delle bombe intelligenti, dei potenti guerrafondai, della
propaganda via televisione.
Durante quelle presentazioni, Joyce mi mostro' come si parla in pubblico.
Lei era una maestra assoluta. Aveva una eloquenza magnifica, era brillante,
affascinante, coinvolgente. C'erano parole che ricorrevano sempre nei suoi
discorsi ed erano parole pesanti: pace, civilta', utopia, ambiente,
politica, sfruttamento, colonialismo. Le parole devono avere un solo
significato, diceva, non bisogna mai essere ambigui, non si puo' parlare di
pace facendo la guerra, bisogna andare a vedere le cose alla radice: chi
decide cosa e' civilta' e cosa no?
Aveva tutte le sue storie da raccontare, le avventure che avevano vissuto
durante la resistenza lei ed Emilio, e poi l'incontro coi poeti del
cosiddetto "terzo mondo" che lei aveva conosciuto e tradotto, e ancora le
sue teorie sulle Sibille, donne sapienti e depositarie d'una cultura
antichissima fatta di egualitarismo e saggezza femminile, ma anche le
riflessioni assai concrete su quel che c'era da fare subito per l'ambiente e
un mondo piu' giusto ed equo. Recitava benissimo le poesie sue e dei suoi
poeti, con una voce profonda e autorevole, con le pause giuste, e teneva
testa a tutti. Se qualcuno le faceva una domanda provocatoria (di solito
qualche cattolico meno illuminato o qualche fascistello confuso), lo
rimetteva subito a posto, anzi lo radeva al suolo. Ma questo avveniva
soprattutto con gli adulti, perche' coi piu' giovani, invece, era molto
paziente e generosa, cosi' come lo era con me. Nonostante queste lezioni,
non imparai a parlare come lei, ma un po' di sicurezza, in quei giri,
riuscii ad acquistarla: mi riempio ancora oggi il collo di chiazze
vermiglie, ma Joyce mi ha insegnato che da qualunque incontro nasce sempre
uno scambio importante fra te e le persone che sono venute ad ascoltarti. La
cosa che mi confortava di piu' e' che Joyce dichiarava che in gioventu' era
stata timidissima e non apriva mai bocca: solo con gli anni e la pratica le
era venuta fuori tutta quella verve (ma poi ammetteva che le sue brave
litigate le faceva gia' con Benedetto Croce, lei diciottenne, lui gia' il
grande filosofo!).
Con Joyce c'era sempre modo di discutere e discorrere di mille cose: ogni
incontro con lei era proficuo e ti metteva addosso una gran voglia di
imparare di piu' e meglio la storia, affrontandola da un'ottica diversa, e
quindi erano tante le persone che la frequentavano e andavano a cercarla:
insegnanti, intellettuali, studenti, editori, politici, scrittori.
*
Piu' d'una persona ha affermato che Joyce Lussu era il Novecento. Per me era
si' il tempo (un secolo intero, e che secolo!), ma anche il mondo.
Attraverso le sue parole potevi vedere le Marche delle signorine inglesi sue
nonne arrivate a sposare i locali signorotti proprietari terrieri; la
Svizzera delle scuole libertarie sorte dal Cabaret Voltaire e visitate da
Bertrand Russell e Romain Rolland, che lei aveva frequentato dopo la fuga
della famiglia; la facolta' di filosofia di Heidelberg che Joyce aveva
deciso di abbandonare dopo il comizio di Hitler, delusa dalla mancata
reazione dei suoi professori Jaspers e Rickert; di nuovo la Svizzera alla
ricerca di mister Mill, alias Emilio Lussu, per la consegna d'un messaggio
cifrato nascosto nel manico d'una valigia, con la loro prima notte insieme
sotto le stelle; la Francia occupata dai nazisti, le dimore provvisorie in
cui avevano condotto la loro vita clandestina militando in Giustizia e
Liberta'; il Portogallo, di nuovo l'Italia, le linee nemiche da attraversare
per collegarsi ai liberatori che risalivano dal sud... E poi la Sardegna
vissuta come compagna del mitico "capitanuî" della brigata Sassari. E, dopo,
la Turchia di Hikmet, l'Angola di Agostinho Neto, le marce nella foresta
assieme alla guerriglia della Guinea-Bissau, il Kurdistan, e ancora le
Marche, dopo la morte di Emilio.
*
Verso la fine del 1993, su suggerimento di Massimo Canalini, decidemmo di
raccogliere le nostre conversazioni registrandole su nastro: io avrei posto
a Joyce delle domande sulla sua vita e sul suo pensiero e lei avrebbe
rievocato la sua storia pur avendola gia' scritta in almeno due libri
importanti (Fronti e frontiere e Portrait). Il lavoro duro' due anni. Mi
presentavo a San Tommaso con un registratore e delle scalette, intere serie
di domande che tentavano di seguire un ordine cronologico, ma presto questo
procedimento si rivelo' abbastanza impraticabile. C'erano giorni in cui
Joyce mi assecondava, altre volte diceva quel che piu' le premeva, argomenti
sui quali stava riflettendo, magari suggeriti dalle varie occasioni in cui
era via via chiamata a intervenire. A me andava benissimo: quel che mi
ripeteva della sua vita, anche se l'avevo letto centinaia di volte, l'avrei
volentieri risentito altre cento, e per quanto riguardava le cose nuove,
meglio, perche' Joyce ultimamente non aveva piu' scritto molto. Lavoravamo
qualche ora, poi arrivavano amici per cena e allora Joyce preparava i suoi
famosi minestroni biologici, squisiti, affettava del ciauscolo, e faceva
disporre in tavola del pecorino e del pane. Io riempivo cassette da 90
minuti e le mettevo via scrivendo le date sulle costine, pensando che un
giorno le avrei sbobinate con comodo.
Joyce mi racconto' del suo quotidiano. Come si conquista un uomo che e' una
leggenda - Emilio Lussu aveva ventidue anni piu' di lei e i giovani
militanti lo adoravano per le sue gesta, prima fra tutte la fuga da Lipari.
Come si fa la Resistenza - Joyce, oltre a trasformarsi in falsaria aiutando
a fuggire centinaia di perseguitati via Marsiglia, aveva anche fatto un suo
servizio militare in Inghilterra e partecipo' a diverse missioni assai
rischiose. Come si diventa madre - il piccolo Giovanni nacque nel 1944 nella
Roma appena liberata. Come si fanno evadere dalla Turchia la moglie e il
bambino di Nazim Hikmet. Come si ricordano i morti - il mazzo di fiori
freschi in fondo alla tavola era sempre per la mamma, altra donna
straordinaria. Come ci si comporta all'interno di una coppia quando si e'
maturi e leali. Come si studia e come ci si forma (quando mi suggeri' di
scrivere la tesi di laurea su Louise Michel, rivoluzionaria della Commune,
"obbedii" con grande soddisfazione mia e dei miei professori). Come si
coltiva un'amicizia. E altri mille dettagli della vita di una persona che e'
stata anche una bravissima scrittrice compagna di uno scrittore.
Ecco, allora, la scrittura. Mentre Joyce mi insegnava a pensare ai tanti
argomenti che sono poi divenuti qualche anno dopo i fondamenti del movimento
noto come "no global" (occhi ben aperti sul mondo, per intendersi,
battendosi contro ogni forma di sopruso e distruzione dell'ambiente),
c'erano da leggere le sue pagine. Le sue, quelle di Emilio, e quelle di
Hikmet. Erano pagine scritte in uno stile impeccabile. Modernissimo, con
dialoghi essenziali e un movimento, spesso, come si dice, "cinematografico".
Aveva ragione lei: Fronti e frontiere iniziava come un film e non si capisce
come ancora nessuno abbia deciso di lavorare a una riduzione cinematografica
di quel testo pressoche' unico nel suo genere. Poi c'erano i suoi libri di
saggistica: libri dove rileggeva la storia delle donne, anticipava il
problema dell'acqua, studiava il modello delle comunanze picene, spiegava il
suo personalissimo metodo di traduzione anche da lingue che non conosceva,
come il turco. E infine le poesie. Nel suo Inventario delle cose certe ci
sono poesie d'amore, poesie politiche, poesie partigiane. Ci sono le poesie
assai giovanili che Benedetto Croce aveva voluto pubblicare e tradurre
(alcune sono in tedesco, altre in francese) nel 1939 per Ricciardi. C'e'
Scarpette rosse. E c'e' quella che piu' le era cara, La luna si e' rotta,
che parla delle donne di ieri e di oggi.
*
Alla fine del 1996 il nostro libro-intervista era pronto. Joyce L. usci' da
Baldini e Castoldi con un sottotitolo che riprendeva il film di Rosi tratto
da Un anno sull'altipiano e che a Joyce non piacque affatto: "Una vita
contro". "La mia vita non e' mai stata una vita contro!", protesto' diverse
volte con me. "Semmai", diceva, "la mia vita e' stata per!". Era vero, Joyce
aveva sempre lottato coraggiosamente ma in una prospettiva gioiosa. Per un
futuro piu' luminoso, per una vita piu' giusta per tutti, per un mondo senza
guerre. Comunque era soddisfatta del lavoro ed eravamo pronte a fare un gran
giro di incontri. Purtroppo, proprio in quel periodo, Joyce, a causa d'una
caduta in strada, si ruppe un femore. Gli occhi, poi, che erano malati da
qualche anno, andavano sempre peggio. Nonostante questo, riuscimmo a fare
due presentazioni molto affollate e intense a Roma e a Milano perche',
naturalmente, Joyce non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Da quel momento, pero', ebbe sempre bisogno di assistenza e i giri divennero
piu' complicati. La rividi ancora nella sua casa di Roma dove ero andata a
raccogliere, col solito metodo del registratore, una sua introduzione a una
nuova edizione de Il turco in Italia ovvero l'italiana in Turchia, e poi,
un'ultima volta, a San Tommaso. La sentivo al telefono e commentavamo i
fatti della politica e del mondo.
*
Poi, una sera di novembre del 1998, Joyce, che m'aveva chiamata due giorni
prima dall'ospedale senza dirmi che stava male, se ne ando'. Lo appresi il
mattino dopo, prestissimo, al telefono, nel modo piu' scioccante. Una
giornalista di Radio Popolare mi chiese se avevo voglia di parlare della
Lussu: certo, sempre volentieri, non c'era nulla di strano, capitava spesso
che ci domandassero interventi "reciproci" e poi il nostro libro era ancora
fresco di stampa. Passo' qualche secondo di tempo tecnico per avviare la
registrazione e mi venne posta una domanda all'imperfetto. Non capivo,
davvero: se c'era un tempo per parlare di Joyce, be', era proprio il
presente.
*
Sono gia' passati quasi sei anni da allora e di Joyce si sente moltissimo la
mancanza. Continuo a rileggere i suoi lavori, le sue poesie, e ci trovo
sempre nuovi insegnamenti ("la letteratura occidentale e' permeata di
pessimismo, morte, solitudine, noia, eppure basta guardarsi in giro per
trovare allegria e umanita'..."). Mi e' anche capitato di risentire qualcuna
di quelle cassette con la sua voce tonante e il fruscio del vento fra il
bambu' di San Tommaso sullo sfondo. Certe volte mi sorprendo a scrivere
parole che so di aver ascoltato da lei o letto nelle sue pagine, e allora
sorrido. Questa e' Joyce, penso.
Il 15 febbraio del 2003, il giorno della grande manifestazione a Roma contro
la guerra in Iraq, sono finalmente riuscita ad andare a vedere dove Giovanni
Lussu ha sistemato le ceneri di Emilio e Joyce. Sono al cimitero degli
Inglesi al Testaccio, un luogo bellissimo ove riposano tanti poeti e
scrittori, poco distanti dalla tomba di Gramsci.

2. RIFLESSIONE. MARIA SERENA PALIERI INTERVISTA SINDIWE MAGONA (2005)
[Dal quotidiano "L'Unita'" del 16 ottobre 2005, col titolo "Scrivo per
guarire il Sudafrica dall'odio".
Maria Serena Palieri (Roma, 1953) giornalista, dal 1979 scrive su
"L'Unita'", attualmente lavora alle pagine culturali e si occupa di
narrativa italiana e internazionale e mercato editoriale; ha collaborato con
diverse testate, tra cui "l'Espresso" e "Marie Claire", e' stata consulente
di Rai Educational e autrice-conduttrice per Radiodue; in campo editoriale
lavora anche come editor e traduttrice dal francese; un suo libro-intervista
con Domenico de Masi, Ozio creativo, sui tempi di vita, ha avuto quattro
edizioni (Ediesse, Rizzoli) ed e' stato pubblicato in Brasile da Sextante.
Sindiwe Magona e' una importante scrittrice sudafricana, "nata nel Transkei
e cresciuta nei sobborghi di Citta' del Capo, ha allevato da sola i suoi tre
figli, lavorando come domestica. Grazie a una forza di volonta' che non e'
luogo comune definire indomabile, e' pero' riuscita a laurearsi
all'universita' di Citta' del Capo e a conseguire un master in scienze
dell'organizzazione sociale presso la Columbia University. A lungo attiva
presso le Nazioni Unite, Sindiwe Magona ha pubblicato nel 1991 il suo primo
libro, To My Children's Children, seguito da una raccolta di racconti,
Living, Loving And Lying Awake At Night (1994) e da Mother to Mother. Oggi
la scrittrice, che e' tornata a vivere in Sudafrica, continua a essere molto
impegnata in attivita' legate ai temi dell'ambiente e dei diritti delle
donne" (Maria Teresa Carbone); un'intervista di Maria Teresa Carbone a
Sindiwe Magona e' nel n. 41 de "La domenica della nonviolenza". Dal sito
delle Edizioni Goree (www.edizionigoree.it) riprendiamo la seguente scheda:
"Sindiwe Magona, nata nel Transkei, e' cresciuta nei duri sobborghi di
Citta' del Capo. I suoi scritti ricordano la difficile giovinezza in Sud
Africa e le sue lotte, personali e politiche, di donna nera sudafricana
vissuta sotto la segregazione, cercando di realizzare l'armonia razziale e
sessuale nel suo Paese. Questa donna straordinaria ha svolto i suoi studi
per corrispondenza, dovendo occuparsi da single dei tre figli, senza
disporre di una residenza fissa e lavorando come domestica. Si e' quindi
laureata all'Universita' del Sud Africa e ha svolto un master in Scienze
dell'Organizzazione Sociale del Lavoro presso la Columbia University. Nel
1993 l'Hartwick College le ha assegnato un dottorato in Human Letters e nel
1997 e' stata accolta nella Foundation of Arts Fellow nella categoria
non-fiction. L'impegno politico della Magona e' stato finalmente
riconosciuto nel 1976, quando e' stata chiamata a Bruxelles a far parte del
Tribunale Internazionale per i crimini contro le donne, e nel 1977, quando
fu fra le dieci finaliste per il Woman of the Year Award. Al culmine del suo
impegno politico ha deciso che la penna puo' fare di piu' della spada; cosi'
attraverso la sua scrittura cerca di sfidare e influenzare l'opinione
pubblica del suo paese, spingendo i giovani neri, soprattutto le donne, a
svolgere un ruolo attivo nella crescita del nuovo Sud Africa. Recentemente
ha lasciato il suo incarico presso l'Onu, svolto per molti anni, ed e'
tornata a vivere a Citta' del Capo". Opere di Sindiwe Magona: Da madre a
madre, Goree, 2005; Ai figli dei miei figli, Nutrimenti, 2006; Push-Push ed
altre storie, Goree, 2006; Il miglior pasto di sempre, Goree, 2007; Guguletu
blues, Goree, 2007; Questo e' il mio corpo!, Goree, 2007]

A un generale, non ricordiamo piu' se dell'esercito napoleonico o del campo
avverso, si attribuisce questo motto: "Avere coraggio non significa non
avere paura. Significa saperla vincere". Sindiwe Magona usa a ripetizione, a
proposito di se stessa, l'aggettivo "impaurita". Ma la sua biografia
certifica, appunto, che Magona, cosi' consapevole dei propri timori, e' una
donna dal coraggio sovrumano. Nata nel 1943 nel Transkei, in Sudafrica, e'
vissuta in un ghetto nero di Citta' del Capo; abbandonata dal marito ha
tirato su' tre figli facendo la domestica e senza avere una dimora fissa; ma
intanto studiava per corrispondenza, fino alla laurea in psicologia
all'Universita' di Pretoria. Nel '76 e' chiamata a Bruxelles al Tribunale
internazionale per i crimini contro le donne, poi all'Onu a New York. Qui
prende un master alla Columbia in Scienza delle organizzazioni sociali, per
poi tornare nella sua citta', Capetown, nell'ex-ghetto di Guguletu, dove
oggi anima una ong che insegna alle donne vittime di violenze a usare la
scrittura per uscire dal trauma. Lei, con la scrittura, ha raccontato prima
se stessa, nei due libri autobiografici To My Children's Children e Forced
to Grow e nella raccolta di racconti Living, Loving and Lying Awake at
Night. Da madre a madre, il suo primo romanzo pubblicato da noi (tradotto da
Rosaria Contestabile per una casa editrice, Goree, che porta il nome
dell'isola al largo del Senegal da cui, dal 1536, partivano i galeoni degli
schiavisti) e', invece, il testo nel quale Sindiwe Magona da' voce a chi non
l'aveva: la madre di uno dei quattro giovani neri che il 25 agosto 1993
uccisero Amy Biehl, ragazza americana bianca, pacifista, arrivata a Capetown
con una borsa di studio per aiutare la riconciliazione dopo la fine
dell'apartheid e alla vigilia delle prime elezioni democratiche. Da madre la
donna scrive all'altra, quella che ha perso la figlia, cercando di spiegarle
in quale inferno - quell'universo concentrazionario dove i giovani sono allo
sbando perche' le loro mamme sono al lavoro dai bianchi, o ubriache, o morte
giovanissime - e' fiorita quella violenza assurda. Incontriamo Sindiwe
Magona al Forum su informazione e ambiente, organizzato dall'associazione
Greenaccord, chiusosi ieri a Villa Mondragone, a Monte Porzio Catone.
*
- Maria Serena Palieri: Quanto e' stato difficile calarsi nei panni della
madre di un assassino?
- Sindiwe Magona: Il caso di Amy Biehl, tra le molte violenze di quel
periodo, non mi aveva colpito in modo particolare. Ma, otto mesi dopo il
delitto, sono tornata in Sudafrica per assistere alla nascita della nuova
nazione, con le prime elezioni libere, e li' ho sentito dire che uno dei
giovani omicidi era figlio di una mia amica d'infanzia. Mai prima, di fronte
a un assassinio, il mio pensiero era andato alla famiglia dell'omicida.
Provavo solo pieta' per i familiari della vittima. Ma in quel momento, per
la prima volta, ho provato compassione per l'altra. Con la mamma
dell'omicida, per dirla con una nostra espressione, "avevo in comune la
lingua": quando sei piccola capita, con un'amica, di succhiare lo stesso
lecca lecca. Ma sapevo che la sua vita era andata a male presto: a tredici
anni aveva avuto il primo figlio, a diciotto ne aveva tre, a scuola
naturalmente la bocciavano, era un prodotto esemplare dell'apartheid. Pero'
sapevo anche che era una donna con potenzialita' interiori enormi. Io non ho
avuto il coraggio di andare a farle visita: e' un gesto che la nostra
cultura ci chiede, serve a riportare armonia dove c'e' conflitto. Ne' lei
poteva andare nella West Coast statunitense dove vivevano i genitori di Amy
Biehl, per compiere un gesto analogo. E, anche se ci fosse andata, il suo
inglese non le avrebbe consentito di esprimersi. Percio', dopo due anni di
travaglio interiore e di grande paura, ho deciso di scrivere questo libro e
darle voce.
*
- Maria Serena Palieri: Mandisa e' una donna, com'era lei, single con figli,
di professione domestica. Pero' e' rimasta prigioniera di un sistema dal
quale lei invece ha saputo emanciparsi. Il libro vuole giustificarla?
- Sindiwe Magona: Volevo che la signora Biehl capisse chi erano questi
sudafricani. Come l'apartheid abbia prodotto in loro sofferenza, degrado e
disumanizzazione. Non potevo ridarle Amy, ma potevo aiutarla a comprendere.
A uccidere sono stati in quattro, ma sono tutti i sudafricani, i bianchi e i
neri, i colpevoli. Per aver permesso l'apartheid: senza, non ci sarebbe
stato odio. Ma avevo paura. L'ho vinta, mi sono seduta a scrivere e, per
cominciare, ho scritto una lettera di trentasei pagine. La donna riesamina
la propria vita cercando di ritrovare quella propria mancanza che ha
trasformato il figlio in assassino. Ma sei mesi dopo ho capito che non
bastava: dovevo ricostruire come una fiction la vicenda, perche' la signora
Biehl vi assistesse e la capisse. Ho avuto paura a scrivere, a pubblicare e
dopo. Paura di dare pena alle persone coinvolte.
*
- Maria Serena Palieri: In realta' i genitori di Amy l'hanno accolta
benissimo. Nella Fondazione che hanno creato, nel nome della figlia, e che
s'incarica proprio li', a Guguletu, di prevenire la nascita di nuovi giovani
assassini, il romanzo Da madre a madre e' usato come strumento formativo per
i ragazzini dell'ex-ghetto. Dimenticavamo, all'inizio, di dire che Sindiwe
Magona non incede con l'aria dell'eroina o della santa. No, se la sua prosa
ha un sottofondo di ironia tragica, lei ha una risata frequente, sonora. Ed
e' con umorismo che risponde ora che le chiediamo: lei e' vissuta in
Sudafrica e negli Stati Uniti, quale diversita' di condizione vede tra i
neri del suo paese e gli afroamericani?
- Sindiwe Magona: La mia prima poesia che ho letto in pubblico si chiamava
Paura di cambiare. Era il '93 e avevo paura dei cambiamenti che si
prospettavano in Sudafrica. Volevo la fine della segregazione, ma, negli
Stati Uniti, avevo visto la condizione degli afroamericani cento anni dopo
l'abolizione della schiavitu'. Puoi votare ogni cinque anni, ma cosa cambia?
Dieci anni fa io facevo pena, ero povera, ignorante e discriminata. Oggi la
gente comincia a perdere la pazienza, si chiede "ma perche' non ce la fa?
Cosa glielo impedisce?". Nessuno capisce il trauma di essere neri. Tutti
noi, come dimostra Michael Jackson, vorremmo diventare bianchi. Ha presente
come sono lisci i capelli di Condoleeza Rice? Solo una matta come me va in
giro con questi capelli crespi.
*
- Maria Serena Palieri: Lei scrive in inglese, anziche' in xhosa, la sua
lingua. Perche'? E quale legame sente con scrittori sudafricani bianchi come
Coetzee, Brink, Gordimer?
- Sindiwe Magona: La gente che legge solo in xhosa e' povera e non compra
libri. Quegli scrittori sono un esempio, per me. Ma e' a neri come Achebe,
Aidoo e Soyinka che dico grazie perche' mi hanno dato il coraggio di
scrivere.
*
- Maria Serena Palieri: Il suo prossimo libro di cosa parlera'?
- Sindiwe Magona: Della promiscuita' e della violenza sessuale. Il Sudafrica
ne vanta il tasso piu' alto al mondo. Il nostro e' il paese folle dove
uomini malati di Aids violentano bambine di quattro-nove mesi perche'
credono, cosi', di guarire. Sara' un romanzo che parlera' della battaglia
delle nostre donne per sopravvivere.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 180 dell'8 maggio 2008

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