Minime. 449



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 449 dell'8 maggio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: Orientale una fiaba
2. Annamaria Rivera: Meteci
3. Manuela Fraire presenta "L'ombra della madre" di Diotima
4. Stefano Biolchini intervista Wole Soyinka (2007)
5. Orazio Martinetti presenta "La mia Italia" di Norberto Bobbio (2001)
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. HUMANAE LITTERAE. MARIA G. DI RIENZO: ORIENTALE UNA FIABA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento.
Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio;
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, narratrice,
regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche
storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica
dell'Universita' di Sydney (Australia); e' impegnata nel movimento delle
donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei
diritti umani, per la pace e la nonviolenza. Con Michele Boato e Mao
Valpiana ha promosso l'appello "Crisi politica. Cosa possiamo fare come
donne e uomini ecologisti e amici della nonviolenza?"  da cui e' scaturita
l'assemblea di Bologna del 2 marzo 2008 e quindi il manifesto "Una rete di
donne e uomini per l'ecologia, il femminismo e la nonviolenza". Tra le opere
di Maria G. Di Rienzo: con Monica Lanfranco (a cura di), Donne disarmanti,
Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003; con Monica Lanfranco (a cura di), Senza
velo. Donne nell'islam contro l'integralismo, Edizioni Intra Moenia, Napoli
2005. Un piu' ampio profilo di Maria G. Di Rienzo in forma di intervista e'
in "Notizie minime della nonviolenza" n. 81]

C'era una volta una dea che viveva nelle profondita' dell'oceano primordiale
dell'India. Il suo nome, in sanscrito, era Vak, che come nome proprio
significa voce, suono, parola. Come sostantivo, vak, che e' sempre
femminile, significa linguaggio, sia umano sia animale, ed anche il suono
dei tamburi. Dal nome della dea si originano altri termini in sanscrito:
vacas, che si riferisce sia ai cinguettii degli uccelli che al parlare degli
oracoli; vakya, sempre per i suoni emessi dai volatili; vaka vuol dire
mormorare o canticchiare a bocca chiusa, e vacasyasyate e' il termine usato
dai Veda per indicare il suono del soma gocciolante. Al giorno díoggi, la
radice del nome della dea continua a vivere in molti vocabolari:
voca-bolario, appunto. Vox, voix, voice, voce, vocalizzare, convocare,
evocare...
Pure, per eoni, la dea rimase in silenzio. Viveva negli abissi acquatici,
dove non sentiva il bisogno di manifestare ad altri la sua voce. Al fondo
dell'oceano stava Vak, accanto alle radici dell'albero primordiale, e
proteggeva il vaso che conteneva l'elisir della vita, che gli indiani
chiamano "soma", o "amrita". Vak non sentiva il bisogno di essere udita;
stava bene nel silenzio, o nel mormorio, o nel produrre suoni movendosi
nell'acqua. Era li' da moltissimo tempo, e probabilmente non prestava molta
attenzione a quel che accadeva in superficie. Puo' darsi che abbia saputo
della guerra fra i Deva (gli dei) e gli Ashura (i demoni) abbastanza tardi,
visto che comunque precedeva di gran lunga i due gruppi. Questi Deva, i
cosiddetti dei, venivano identificati con i nomi dei loro padri, mentre gli
Ashura, i demoni, venivano identificati con il nome delle loro madri. Il che
suggerisce come la "guerra" sia la figurazione di uno scontro concernente le
politiche di genere.
Dopo che gli dei ebbero sconfitto i demoni, vennero a sapere che vi era un
elisir di immortalita', nascosto fra le radici dell'albero sacro, sul fondo
dell'oceano. Come lo seppero, lo desiderarono. Ma erano troppo pochi, e non
sapevano come tirar fuori l'elisir dagli abissi. Avevano bisogno di aiuto.
Percio' si rivolsero agli sconfitti, ai demoni (che erano tra l'altro i loro
fratelli maggiori) e promisero di dividere il tesoro con loro se li avessero
aiutati. Gli dei mentirono sin dal principio, progettando di truffare i
demoni mentre chiedevano il loro sostegno, ma gli Ashura si fidarono, e
cooperarono.
I due gruppi trovarono un enorme serpente, Vasuki, disposto ad arrotolarsi
attorno ad un'isola montagnosa, che avrebbe funzionato come il bastone nella
zangola per fare il burro. Si trattava di agitare l'oceano in quel modo,
insomma. Gli dei da una parte e i demoni dall'altra spinsero e tirarono.
Alla testa del serpente stavano i demoni, e i dei alla coda, perche' gli dei
avevano assicurato agli altri che la testa era la posizione piu' onorevole,
ma senza menzionare il fatto che cosi' sarebbero stati quelli piu' vicini al
respiro infuocato del serpente.
E cosi' agitarono le acque per secoli e secoli, formando schiuma come nel
latte, generando grandi cerchi nell'acqua, spingendo e tirando, fino a che
il vaso del soma usci' dalle radici dell'albero sacro. Nessuno dei due
gruppi sapeva nulla della dea Vak. Si aspettavano che il vaso salisse
semplicemente alla superficie, fluttuando, e gli dei erano pronti a
prenderlo e a svanire con esso. Invece, con gran meraviglia di tutti, fu la
dea ad emergere, con il vaso dell'elisir stretto nelle mani.
In sanscrito questo contenitore, questa coppa sacra, questo santo graal, e'
chiamato "patra", vaso. Patra significa pero' anche "attore", il che puo'
suggerire come il soma o amrita non sia tanto, o non sia solo, un liquido,
ma anche la poetica magia del linguaggio. Le implicazioni della scena, se ci
si riflette, sono profonde. C'e' l'archetipico dono della vita fatto dalla
dea liberamente, e sollecitato dal lavorare insieme degli opposti. Nei Veda,
Vak spiega a dei e demoni chi e': "Io sono colei che dice, da se stessa,
cio' che da' gioia agli dei e agli esseri umani".
Tornando al mito, poiche' gli dei avevano agito in malafede, l'agitarsi
dell'oceano non rivelo' solo l'elisir originale, ma anche il suo doppio, la
sua ombra: il kalakuta, un veleno capace di infliggere grande dolore agli
esseri divini e di distruggere tutta la vita sulla terra. A questo punto,
nella storia entra Shiva. Comprendendo i rischi, il dio decide di
trangugiare il kalakuta prima che possa distruggere altre forme di vita.
Ingoia il veleno ma lo trattiene nella gola, non permettendogli di entrare
in contatto con il resto del suo corpo. Il veleno gli colora il collo di
blu, di quel colore (dice uno degli antichi testi) che resta dopo il colpo
inferto da un serpente. Per questo Shiva viene detto Nilakantha, che
significa infatti Gola Blu.
Abbiamo quindi Vak, la dea-voce che porta l'intero spettro del linguaggio
alla luce, e Shiva, che si dispone a contrastare l'elemento ombra del
tradimento maschile, imprigionando la tossina nella sua propria voce
affinche' non danneggi allo stesso tempo colpevoli ed innocenti: il mito
mostra nella dea degli oceani il divino femminile, nella sua eta' matura,
come gentile e generoso, ma mostra anche nei Deva uno stadio patriarcale,
giovanile ed "eroico" del divino maschile, incapace di agire se non
ingannando. Shiva, che era un antico dio-danzatore proveniente
dall'Himalaya, e' uno stadio piu' anziano (e piu' isolato) del divino
maschile, un divino maschile che agisce per arginare il danno, e di fatto lo
neutralizza anche a prezzo del proprio dolore.
Ma io lo sento, o mio carissimo Shiva. Ti ascolto. Nella costruzione della
mascolinita' il tuo modello oggi non c'e'. Non c'e' chi celebri antichi e
saggi dei con la capacita' e la volonta' di neutralizzare le tossine
generate dai tradimenti, i quali si traducono tutti in violenza: guerra,
stupro, poverta', inquinamento. Posso solo sperare che sempre piu' dee
emergano con la loro propria voce, per trasformare, o almeno educare, i
piccoli Deva litigiosi, bugiardi e avidi. Tu resta al loro fianco, Shiva. Io
sono solo la cantastorie, ma so che in questo compito hanno bisogno del tuo
aiuto.

2. RIFLESSIONE. ANNAMARIA RIVERA: METECI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 4 maggio 2008 col titolo "Per ricostruire
la sinistra".
Annamaria Rivera, antropologa, vive a Roma e insegna etnologia
all'Universita' di Bari. Fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani
di tutti gli esseri umani, ha sempre cercato di coniugare lo studio e la
ricerca con l'impegno sociale e politico. Attiva nei movimenti femminista,
antirazzista e per la pace, si occupa, anche professionalmente, di temi
attinenti. Al centro della sua ricerca, infatti, sono l'analisi delle
molteplici forme di razzismo, l'indagine sui nodi e i problemi della
societa' pluriculturale, la ricerca di modelli, strategie e pratiche di
concittadinanza e convivenza fra eguali e diversi. Fra le opere di Annamaria
Rivera piu' recenti: (con Gallissot e Kilani), L'imbroglio etnico, in
quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001; (a cura di), L'inquietudine
dell'Islam, Dedalo, Bari 2002; Estranei e nemici. Discriminazione e violenza
razzista in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003; La guerra dei simboli. Veli
postcoloniali e retoriche sull'alterita', Dedalo, Bari 2005]

Si dice: sulla debacle elettorale ha pesato la delusione per la fallimentare
esperienza di governo. E' inconfutabile. Ma si dovrebbe precisare che, oltre
ai risultati nulli, cio' che ha irritato militanti ed elettori di Rc e'
stato lo stile adottato per giustificare il voto sull'Afghanistan o sul
pacchetto sicurezza, per dirne solo due: non l'aperta ammissione delle
difficolta' e dei compromessi subiti, e l'invito a discuterne, ma il ricorso
all'eufemismo, alla menzogna, alla demonizzazione dei "dissidenti". Un
errore imperdonabile di arroganza e goffaggine: nell'epoca della
comunicazione globale non ci si puo' comportare come ai tempi di Stalin o di
Togliatti, come se l'unica fonte d'informazione fosse la voce ufficiale del
partito.
Inoltre, negli anni piu' recenti l'immagine pubblica piu' mediatizzata del
"rinnovamento" di Rc ha finito talvolta per essere un melange di stili e
frammenti culturali: una specie di New age, in cui potevano trovare posto
tutto e il suo opposto, comprese una certa mondanita' e una spiritualita'
ibrida e superficiale. Se i simboli e i messaggi contano qualcosa, come
pretendere che le "larghe masse" potessero identificarsi con un tale stile e
con contenuti cosi' pasticciati, o solo estrapolarne qualche messaggio
comprensibile, adeguato alle loro condizioni, bisogni, aspirazioni? E' anche
a tutto cio' che e' connesso il deficit di comprensione e di analisi dei
cambiamenti avvenuti nella societa' italiana.
A commento dell'imprevisto successo della Lega, per esempio, ci si e'
domandati, con stupore e angoscia, perche' mai la classe operaia del Nord
abbia dato fiducia al partito xenofobo. E' un lapsus rivelatore: si
dimentica che la classe operaia non-bianca, parte cospicua della manodopera
del sistema produttivo del Nord, non ha diritto di voto. E' un lapsus che
conferma che in Italia l'immigrazione - vecchia ormai di un trentennio - non
e' ancora riconosciuta come componente strutturale dell'economia e della
societa', neppure a sinistra. Che anche coloro che si richiamano a una
politica "di classe" dimentichino che la classe operaia comprende un gran
numero di lavoratori meteci, inclusi economicamente ma esclusi da diritti
civili, sociali e politici, e' segno di miopia e di ritardo su un modello
che da qualche decennio non corrisponde piu' alla realta': per la prima
volta nella storia italiana, almeno del dopoguerra, una parte della classe
operaia e' costituita da non-cittadini, da meteci. Come i meteci della
Grecia antica, tanto indispensabili all'economia, tanto utili per la loro
flessibilita' e capacita' di adattamento quanto deprecati dal punto di vista
morale. E, inoltre, tanto banalizzati dalle retoriche mediatiche e politiche
quando muoiono in incidenti sul lavoro quanto simbolicamente crocifissi se
compiono anche il piu' lieve reato o infrazione.
Allora, forse, bisognerebbe chiedersi: come mai il principale imprenditore
politico della xenofobia miete successi la' dove la classe operaia e'
costituita da un numero quasi pari di cittadini e meteci? Non sono questa
frattura e questa discriminazione a rendere possibile l'identificazione di
un buon numero di lavoratori bianchi con un partito xenofobo? Fra le tante
cause complesse che si possono invocare per spiegare questo successo, una,
lapalissiana, non va trascurata: forse gli operai votano Lega anche perche'
e' un partito xenofobo, che promette di difendere i loro interessi contro
quelli dei meteci. Non sarebbe certo la prima volta nella storia che
lavoratori autoctoni si fanno interpreti attivi delle campagne xenofobe
contro gli ultimi arrivati o contro i "nemici interni". In tal senso, forse,
per cominciare ad abbozzare qualche analisi adeguata alle trasformazioni
della globalizzazione neoliberista, non bisognerebbe archiviare la lezione
del Novecento, anzi partire dalla fine dell'Ottocento, epoca di sanguinosi
pogrom di operai autoctoni contro operai stranieri. "Stare nel sociale" e
imparare da esso, ma anche meditare, con umilta' e pazienza, su cio' che
altri hanno scritto: e' da qui che si puo' ripartire per un tentativo di
ricostruzione della sinistra.

3. LIBRI. MANUELA FRAIRE PRESENTA "L'OMBRA DELLA MADRE" DI DIOTIMA
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 maggio 2008, col titolo "Tessiture di
nuove relazioni nel tramonto del patriarcato" e il sommario "L'agire
politico del femminismo alla luce del disordine simbolico generato
dall'eclissi del padre edipico e' al centro del volume L'ombra della madre,
della comunita' filosofica Diotima, edito da Liguori".
Manuela Fraire, autorevole intellettuale, psicoanalista, una delle figure
piu' prestigiose del femminismo, e' autrice di numerosi saggi. Tra le opere
di Manuela Fraire: (a cura di), Lessico politico delle donne: teorie del
femminismo, Fondazione Elvira Badaracco, Franco Angeli, Milano 2002]

Intorno al legame con la madre, e al significato stesso di liberta'
femminile, preso in esame nei suoi aspetti enigmatici e talora "inerti alla
simbolizzazione", ruotano i dodici saggi che compongono l'ultimo volume di
Diotima, L'ombra della madre (Liguori, pp. 208, euro 16) risultato del
lavoro compiuto nel corso dell'ultimo grande seminario tenutosi a Verona nel
2005. Ombra legata alla "ferita depressiva" che caratterizza le figlie,
impegnate a spendere gran parte della loro creativita' e vitalita' nel
tentativo di risvegliare "le madri dal loro letargo depressivo e farle
sentire in questo modo buone madri", come scrive Cristina Faccincani. Ombra
che favorisce la progressiva dissolvenza della sessualita' femminile.
Un continuum tra madre e figlia, osserva Chiara Zamboni, che chiede di
essere simbolizzato, poiche' ogni rapporto con il potere, sia esso
esercitato nella vita privata o in quella pubblica, rende di nuovo attuale
il vissuto di dipendenza assoluta che alla nascita consegna il neonato nelle
mani dell'Altro materno. La "mancanza della creatura, l'enormita' del suo
bisogno e del suo desiderio", scrive Zamboni, ostacolano "l'agire simbolico"
che richiede una trasformazione dell'impotenza originaria in dipendenza
ri-conosciuta e necessaria allo stabilirsi delle relazioni umane. Un
riconoscimento e uno svelamento della potenza materna ne' difensivamente
negata ne' "bonificata", anzi presa nel suo aspetto di eccesso che invade
ormai lo stesso spazio pubblico. Il tramonto delle forme patriarcali cambia
profondamente anche l'economia della vita simbolica che assegnava alla madre
un posto complementare a quello del padre. Oggi "la figura del materno e'
una carta che non sta piu' a posto in nessun mazzo. E' fuori mazzo, fuori
posto, fuori gioco".
Nota Diana Sartori che "non e' solo il padre patriarcale ad essere morto,
con lui e' morta anche la madre patriarcale che torna sotto forma di ombra
minacciosa". E proprio il tramonto della madre patriarcale fornisce una
chiave di lettura della crisi che attraversa per intero la definizione e le
declinazioni del politico. Nella vita pubblica, la carta del materno viene
infatti giocata principalmente nel suo aspetto negativo, di ombra. Ma
l'ombra di quale madre si allunga sulla vita di donne e uomini se non quella
della madre-sposa del padre patriarcale? L'ombra della madre patriarcale
d'altra parte va mantenuta in gioco poiche', se riconosciuta, ha la funzione
di contrastare la tendenza della politica a chiudersi su se stessa.
L'esito drammaticamente negativo delle recenti elezioni politiche mostra un
ritiro, un vero e proprio arroccamento delle minoranze politiche secondo una
modalita' "preedipica": in cui il terzo termine - costituito dai soggetti
storici ai quali la proposta politica era rivolta - non ha potuto svolgere
all'interno dei partiti la funzione differenziante che avrebbe permesso il
superamento di un immaginario politico rivelatosi, ben prima delle elezioni,
"fuori-tempo".
Di qui il senso di estraneita' - l'astensionismo di sinistra ne e' un
sintomo grave - con cui sono state accolte le proposte politiche della
sinistra "radicale". Il rovescio di questa medaglia e' rappresentato da una
leadership modellata su una funzione conciliatrice che preleva
surrettiziamente dal pensiero delle donne le proprie parole d'ordine.
Il "ritorno del rimosso dell'inconscio patriarcale", scrive Sartori, evoca
nella vita stessa del potere il fantasma materno come formazione reattiva di
fronte al "disordine" in cui giace la funzione paterna. L'ombra della madre
e' allora l'ombra in cui si annida un'altra ombra, quella del
padre/patriarca che trascina, come Persefone, la madre nel buio delle
tenebre che lo avvolgono.
Maria Luisa Boccia denomina "origine impersonale della vita che oscura la
madre" il fattore che nella societa' post-patriarcale alimenta i fantasmi
autogenerativi (i figli della banca del seme) e svela al tempo stesso la
separazione in atto tra incontro dei corpi, sessualita' e procreazione. Un
impoverimento pulsionale che genera una nuova figura paterna - un "Edipo
casto" - svuotato del contenuto pulsionale, la cui funzione non e' piu'
quella del guastafeste che interrompe l'idillio con la madre, e che non e'
piu' dunque l'elemento differenziante, ma piuttosto un rivale che contende
alla madre onnipotente - al fantasma materno cioe' - un potere che ha
perduto.
Quando Wanda Tommasi ricorda l'esistenza di una parte dell'oscuro che abita
noi stessi e la relazione con l'Altro da lasciare "inabissato nell'ombra",
viene in mente che e' illusorio cercare di mettere ordine nel disordine
simbolico generato dall'eclissi del padre edipico. E' piuttosto la relazione
tra uomini che cerca una nuova simbolizzazione, fuori del parricidio e del
fratricidio, in mancanza della quale anche la relazione tra le donne e della
donna con se stessa fatica a evitare derive auto- ed eterodistruttive.
Per Ida Dominijanni il quid del rapporto con la madre "che resiste al
processo di simbolizzazione e con cui non si smette mai di fare i conti",
disegna il limite della potenza del simbolico e della stessa politica del
simbolico. L'anoressica rappresenta - come l'isterica nel passato - la
deriva che minaccia da dentro la differenza femminile, poiche' lavora su una
"sottrazione a freddo" che attenta direttamente alla madre simbolica e con
essa alla "tessitura stessa delle relazioni fra donne". La riduzione della
differenza sessuale all'indifferenziato cui allude il corpo dell'anoressica
evoca la riduzione all'Uno che percorre come un brivido l'agire politico,
cosi' affamato di altro e cosi' refrattario all'Altro. L'impoverimento
libidico delle relazioni, la loro crescente desessualizzazione, favorisce il
ritiro nell'autarchia che caratterizza vieppiu' certi percorsi di
maternita', rifugio e risarcimento per l'alto prezzo pagato alla nuova
emancipazione femminile.
Ci vogliono coraggio e liberta' per riconoscere che al riparo di una potenza
materna priva di lati oscuri "la grandezza femminile non vola, non rischia,
e nemmeno genera". Due allora i vuoti con cui fare i conti, dice
Dominijanni, il posto del padre e la progressiva dissolvenza della
sessualita' femminile. Nell'ordine simbolico della madre non c'e' una
preclusione nei confronti della figura paterna, ma nell'agire politico del
femminismo si ha la consapevolezza che la legge del padre non e' piu'
l'unica garante dell'accesso alla vita simbolica. Come dire che il sociale,
il politico, il modo stesso di intendere la relazionalita' vanno ripensati
intorno al vuoto lasciato dal padre edipico resistendo tuttavia alla
tentazione e alla richiesta di riempirlo con la madre preedipica.
Bisognera' ben immaginare una nuova antropologia in cui donna e uomo, come
scriveva Derrida, invece che verso un rapporto a-sessuato si orientino verso
un rapporto differentemente sessuato.

4. RIFLESSIONE. STEFANO BIOLCHINI INTERVISTA WOLE SOYINKA (2007)
[Dal quotidiano "Il Sole - 24 ore" del 13 settembre 2007, col titolo
"Soyinka: il romanzo di una vita impegnata".
Stefano Biolchini, apprezzato giornalista, si occupa di temi culturali.
Wole Soyinka, scrittore nigeriano, nato nel 1934, premio Nobel per la
letteratura nel 1986; intellettuale democratico perseguitato, incarcerato,
costretto all'esilio, condannato a morte dalla dittattura militare. Tra le
opere di Wole Soyinka: Il leone e la perla; Gli interpreti; Stagione di
anomia; Ake'. Gli anni dell'infanzia, Jaca Book, 1984, 1995; L'uomo e'
morto, Jaca Book, 1986; Gli interpreti, Jaca Book, 1986; Ogun Abibiman,
Supernova, 1992; La morte e il cavaliere del re, Jaca Book, 1993; Mito e
letteratura. Nell'orizzonte culturale africano, Jaca Book, 1995; Gli
interpreti. La strada. La morte e il cavaliere del re, Utet, 1995; Isara':
intorno a mio padre. Un viaggio, Jaca Book, 1996; La strada, Jaca Book,
1997; Turisti e soldatini, Adnkronos Libri, 2000; Le baccanti di Euripide.
Un rito di comunione, Zona, 2002; Clima di paura, Codice, 2005; Sul far del
giorno, Frassinelli, 2007; Il peso della memoria, Medusa Edizioni, 2007.
Opere su Wole Soyinka: per una prima introduzione cfr. il capitolo a lui
dedicato in Itala Vivan, Interpreti rituali, Dealo, Bari 1978. Dal sito
www.educational.rai.it riprendiamo la seguente scheda: "Nato nel 1934 ad
Abeokuta in Nigeria, Wole Soyinka e' considerato uno dei piu' grandi
drammaturghi africani. Nel corso della sua adolescenza quest'eclettico
autore di opere teatrali, romanzi e saggi letterari, entra in contatto sia
la cultura europea che con le tradizioni locali. Cresciuto presso la
missione anglicana di Ake', riceve un'educazione cristiana. Suo padre e'
preside della locale scuola elementare, dove l'inglese e' insegnato come la
lingua ufficiale. Le influenze culturali dei colonizzatori sono pero'
bilanciate dalle frequenti visite al villaggio di origine del padre: Isara',
una piccola comunita' Yoruba dove Soyinka impara a conoscere le tradizioni e
i miti della sua etnia di origine. All'eta' di dodici anni lascia Ake' per
Ibadan dove rimane fino ai primi anni dell'universita'. In quegli anni
assiste alla nascita del movimento di protesta che nella decade successiva
portera' la Nigeria all'indipendenza. Periodo che Soyinka descrive nel libro
The Penkelemes Years, A Memoir: 1946-1965, una delle sue molte opere
autobiografiche. La sua passione incomincia a focalizzarsi intorno al
teatro. Nel 1954 si reca in Inghilterra per seguire un corso in drammaturgia
presso l'Universita' di Leeds. Vi rimarra' per sette anni. Completati gli
studi a Leeds, nel 1957 l'apprendistato teatrale di Soyinka continua a
Londra presso il Royal Court Theatre, dove lavora come sceneggiatore,
interprete e regista. Vengono realizzate le prime opere: The Swamp Dwellers
e The Lion and the Jewel. Nel 1960 un assegno di ricerca della fondazione
Rockfeller permette a Soyinka, ora ventiseienne, di tornare stabilmente in
Nigeria dove fonda una sua compagnia teatrale e produce una nuova commedia,
A Dance of the Forests. La presentazione dell'opera, nell'ottobre 1960,
coincide con l'avvio dei festeggiamenti ufficiali per l'indipendenza della
Nigeria dalla Gran Bretagna. Quest'opera stilisticamente rappresenta una
complessa fusione tra le tradizioni e il folklore degli Yoruba e le
avanguardie artistiche europee. Tematicamente si tratta di una sarcastica
denuncia dell'endemica disonesta' e corruzione dei governi locali,
inalterata nel passaggio dal regime coloniale all'indipendenza. A dance of
the Forest attira naturalmente su Soyinka l'ira del governo, accusato di
corruzione. Ma anche molti intellettuali nigeriani non risparmiano critiche:
i marxisti si lamentano del carattere elitario dell'opera mentre i puristi
attaccano l'uso di tecniche e stili europei. Queste critiche falliscono
nell'apprezzare l'originalita' del tentativo di Soyinka di emancipare la
cultura africana dal passato coloniale tramite la riformulazione dei miti
tradizionali, adattati alla realta' contemporanea senza rigettare
acriticamente gli influssi culturali europei. Negli anni successivi Soyinka
si dedica con inventiva ed energia al compito di contribuire a definire
l'identita' della nuova Nigeria indipendente, un paese di 115 milioni di
abitanti di oltre 400 etnie diverse. Tre le opere di questo periodo
ricordiamo la commedia The Trials of Brother Jero su ciarlatani e
mistificatori religiosi, i drammi a sfondo politico The Road, The Strong
Breed, e Kongi's Harvest e il racconto The Interpreters (1965), un
complicato intreccio narrativo, che, per stile, viene paragonato a Joyce e a
Faulkner, in cui sei intellettuali nigeriani discutono e commentano la
situazione africana. Nel 1965 Soynka sconta un breve periodo di detenzione
per le sue attivita' politiche. E nel 1967 le autorita' lo accusano di
simpatizzare con i movimenti secessionisti del nord. Viene quindi arrestato
e imprigionato per 22 mesi, fino al 1969. Nel 1972 raccontera', in The Man
Died, gli anni della prigionia. Dopo la sua liberazione Soynka lascia
volontariamente il paese e attraversa un nuovo periodo di forte creativita'.
Pubblica il libro di poesia A Shuttle in the Crypt (1972), diversi saggi
come Myth, Literature and the African World (1976) sulle tradizioni
africane, e i drammi Madmen and Specialists (1970) e Death and the King's
Horseman (1975). Contemporaneamente assiste al declino della Nigeria verso
la dittatura che culmina nel 1995 quando il regime del generale Sani Abacha
mette a morte per le sue opinioni politiche Ken Saro-Wiwa, scrittore e
drammaturgo amico di Soyinka. Lo stesso Soyinka, in salvo all'estero, viene
condannato alla pena capitale per tradimento, condanna poi lasciata cadere
nel 1998 dopo la caduta di Abacha. Nel 1986 viene conferito a Soyinka il
premio Nobel per la sua ricca attivita' letteraria. Il comunicato della
fondazione per il Nobel cita Death and the King's Horseman come esempio
dell'uso letterario inedito dei miti e riti africani"]

Portamento ieratico. Capelli bianchi e arruffati. Sguardo liquido e
magnetico. Wole Soyinka, primo Nobel d'Africa, lo incontriamo a Mantova in
occasione dell'uscita del suo libro Sul far del giorno, con cui affronta il
romanzo della sua vita. Intellettuale da sempre impegnatissimo - venne
imprigionato per la sua opposizione alla dittatura nigeriana - Soyinka parla
volentieri della sua Africa come dell'attualita' politica degli Stati
Uniti - paese dove vive da tempo e insegna - e del ruolo degli intellettuali
in questa stagione di fanatismi.
"Credo che tutte le religioni portino a comportamenti fanatici; lo stesso si
puo' dire di tutte le ideologie che portano alla chiusura del pensiero,
eliminando tutte le vie d'uscita oggettive. Se pensiamo alle religioni,
nessuna afferma sia giusto uccidere ma coloro che si attengono ad un
principio di esclusivita' del proprio credo si sentono in diritto di
uccidere e sopraffare. Credo quindi che la religione possa collocarsi
all'origine dei fanatismi e dei comportamenti radicali".
*
- Stefano Biolchini: Lei vive negli Stati Uniti, cosa pensa del rapporto
intellettuali-guerra in Iraq?
- Wole Soyinka: Da diversi anni viaggio negli Stati Uniti. Parte del
problema degli intellettuali americani sta nella paura della guerra in Iraq,
in questo timore che non li fa riflettere sulla frequenza ciclica di
tendenze reazionarie che sono proprie della societa' americana e non solo.
Il paradosso e' che e' difficile credere che chiunque sia passato attraverso
l'esperienza della guerra in Vietnam riesca a ricadere una seconda volta in
un ciclo altrettanto enorme e dannoso come questa guerra.
*
- Stefano Biolchini: Eppure l'impegno non sembra mancare...
- Wole Soyinka: Ho osservato un'enorme mobilitazione da parte dei
progressisti ma questa mobilitazione e' avvenuta prima dell'elezione di
Bush. Dopo vi e' stato un crollo dei pensatori progressisti; nessuno poteva
credere che si fosse ricaduti nello stesso errore, e' un crollo da cui e'
difficile potersi riprendere. Questo sentimento di resa di fondo e' come
l'avvertire il tradimento del proprio sistema.
*
- Stefano Biolchini: Lei ha piu' volte preso posizione contro le definizioni
che noi europei diamo dell'Africa e dei suoi conflitti. Perche' e' cosi'
importante...
- Wole Soyinka: Una delle stranezze nella tattica evasiva degli europei e'
ricordare l'Africa come luogo di tribu' in conflitto. Nessuno chiama tribali
le guerre intestine in Croazia o Kossovo. Sono sempre questioni tribali ma
nessuno le chiama cosi'.
*
- Stefano Biolchini: Lasciando da parte l'attualita', vuole spiegarci il
ruolo della cultura orale tipica della sua terra nella sua poetica?
- Wole Soyinka: La tradizione orale africana rientra nella mia poetica.
Lascio pero' che ad identificare cio' siano i critici. Io mi limito a
fornirvi un esempio di come il mio pensiero influenzi la mia poetica e
scrittura. Ne La morte e il cavaliere del re ho scritto in inglese. Poi e'
stato tradotto nel mio paese e il traduttore mi ha detto di non aver avuto
problemi a tradurlo perche' semplicemente il mio lavoro era stato concepito
nella mia lingua madre.
*
- Stefano Biolchini: Quanto la cultura incide realmente sulle scelte dei
politici?
- Wole Soyinka: Non sono sicuro di cercare dei cambiamenti di mentalita' del
pubblico; cerco solo di cambiare la condotta delle nostre leadership e di
riflettere su cio' che le persone vedono e pensano e far si' che questo
cambi le scelte dei nostri leader. Percio' non mi concentro solo sulla
creazione di libri: scrivo anche sui giornali, mi dedico al teatro
d'improvvisazione su tematiche comuni a tutti, su quel che avviene nei
mercati e nella vita di tutti i giorni; insomma mi dedico a tutti i mezzi di
divulgazione.
*
- Stefano Biolchini: Quanto ha influito nel suo ruolo di intellettuale
impegnato l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura nel 1986?
- Wole Soyinka: Non credo che il Nobel mi abbia attribuito delle
responsabilita' superiori a quelle che avevo gia' come impegni civili e
politici.
*
- Stefano Biolchini: Cosa pensa dei problemi del Delta del Niger e del
movimento indipendentista del Mend?
- Wole Soyinka: Parlando di movimenti indipendentisti in senso generale
posso dire di crederci soprattutto per quelle nazioni i cui confini sono
stati creati in modo casuale da entita' esterne. Le popolazioni di quei
paesi hanno diritto a pretendere di essere indipendenti ma questo e' un
principio generale. Per quanto riguarda invece il movimento indipendentista
del Mend credo che i problemi possano essere risolti da parte del governo
del Niger. Questo anche se molte delle ragioni di quel movimento sono da
attribuirsi alla collaborazione delle compagnie petrolifere con il governo
militare o civile.
*
- Stefano Biolchini: Non hanno tutti i torti, quindi?
- Wole Soyinka: Il risentimento della popolazione del Delta e' dovuto alla
distruzione da parte delle compagnie petrolifere delle loro terre e
piantagioni che sono diventate improduttive e al conseguente inquinamento
dell'aria e dell'acqua che hanno portato malattie polmonari. Da qui le
rivolte e quindi la repressione. La soluzione possibile sta nella
decentralizzazione ed autonomia di queste regioni. La regione del Delta e'
stata solo sfruttata ed i soldi sono andati al governo centrale lasciando
queste regioni nella miseria: ecco perche' dovrebbero poter avere
l'autonomia: per godere di queste ricchezze che essi producono.
*
- Stefano Biolchini: Lei ha contestato sovente il fenomeno della
globalizzazione. Cio' significa che per l'Africa e' possibile ipotizzare un
modello di economia alternativa da opporre alla globalizzazione...
- Wole Soyinka: La globalizzazione esiste da sempre. E' nata con la
comunicazione e gli scambi tra nazioni. La vera domanda che dobbiamo porci
e' chi detta i termini della globalizzazione che viviamo: la risposta e' che
si e' sviluppata secondo i termini dettati dalle nazioni piu' sviluppate a
danno dell'Africa e di quelle meno sviluppate. ecco perche' per il
continente africano e' importantissimo creare un modello che parli alla pari
con i paesi occidentalizzati. E ecco perche' guardo positivamente alla
creazione delle organizzazioni economiche fra i paesi africani.
*
- Stefano Biolchini: Con Sul far del giorno e a vent'anni da Ake' lei torna
ad un romanzo sulla sua vita. Un'autobiografia un po' speciale...
- Wole Soyinka: E' stato difficile per me scrivere questo libro, non ero
convinto di scriverlo. Per me le autobiografie non dovrebbero mai superare
l'eta' dell'innocenza. L'editore poi sosteneva che il libro fosse molto
interessante e commovente, ma dicesse ben poco di me e molto dello scrittore
mio amico Femi e che un'autobiografia avrebbe dovuto contenere piu' racconti
personali. Riprendevo a scrivere senza sapere quanto ci fosse di mio e
quanto di Femi. Questo per dire che peso lui ha avuto nella mia vita... e se
lo aveste conosciuto sapreste perche' era cosi' speciale.

5. LIBRI. ORAZIO MARTINETTI PRESENTA "LA MIA ITALIA" DI NORBERTO BOBBIO
(2001)
[Dal "Giornale del popolo" del 29 marzo 2001 col titolo "L'Italia di
Norberto Bobbio" e il sommario "L'ultimo volume raccoglie quaranta ritratti
di amici e allievi".
Orazio Martinetti e' giornalista e storico.
Norberto Bobbio e' nato a Torino nel 1909 ed e' deceduto nel 2004,
antifascista, filosofo della politica e del diritto, autore di opere
fondamentali sui temi della democrazia, dei diritti umani, della pace, e'
stato uno dei piu' prestigiosi intellettuali italiani del XX secolo. Opere
di Norberto Bobbio: per la biografia (che si intreccia con decisive vicende
e cruciali dibattiti della storia italiana di questo secolo) si vedano il
volume di scritti autobiografici De Senectute, Einaudi, Torino 1996; e
l'Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997; tra i suoi libri di testimonianze
su amici scomparsi (alcune delle figure piu' alte dell'impegno politico,
morale e intellettuale del Novecento) cfr. almeno Italia civile, Maestri e
compagni, Italia fedele, La mia Italia, tutti presso l'editore Passigli,
Firenze. Per la sua riflessione sulla democrazia cfr. Il futuro della
democrazia; Stato, governo e societa'; Eguaglianza e liberta'; tutti presso
Einaudi, Torino. Sui diritti umani si veda L'eta' dei diritti, Einaudi,
Torino 1990. Sulla pace si veda Il problema della guerra e le vie della
pace, Il Mulino, Bologna, varie riedizioni; Il terzo assente, Sonda, Torino
1989; Una guerra giusta?, Marsilio, Venezia 1991; Elogio della mitezza,
Linea d'ombra, Milano 1994. A nostro avviso indispensabile e' anche la
lettura di Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 1977; Profilo
ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990; Teoria generale del
diritto, Giappichelli, Torino 1993. Opere su Norberto Bobbio: segnaliamo
almeno Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante, Bollati Boringhieri, Torino
1989; Piero Meaglia, Bobbio e la democrazia: le regole del gioco, Edizioni
cultura della pace, S. Domenico di Fiesole 1994; Tommaso Greco, Norberto
Bobbio, Donzelli, Roma 2000; AA. VV., Norberto Bobbio tra diritto e
politica, Laterza, Roma-Bari 2005; AA. VV., Norberto Bobbio maestro di
democrazia e di liberta', Cittadella, Assisi 2005; AA. VV., Lezioni Bobbio,
Einaudi, Torino 2006. Per la bibliografia di e su Norberto Bobbio uno
strumento di lavoro utilissimo e' il sito del Centro studi Piero Gobetti
(www.erasmo.it/gobetti)]

Norberto Bobbio ed Eugenio Garin sono coetanei. Sono infatti nati entrambi
nel 1909. Il primo si e' occupato prevalentemente di studi giuridici e di
teoria politica; il secondo di storia della filosofia, con particolare
attenzione all'Umanesimo e al Rinascimento (non c'e' studente delle
superiori che non abbia sfogliato un suo saggio). Ambedue hanno seguito con
occhio vigile e partecipe la categoria cui appartengono: gli intellettuali.
Di Bobbio bastera' ricordare Politica e cultura (1955), Profilo ideologico
del '900 (1990), Il dubbio e la scelta (1993); i contributi di Garin sono
forse meno noti, ma ugualmente significativi: le Cronache di filosofia
italiana (1955-1962), Intellettuali italiani del XX secolo (1974-1987),
Intervista sull'intellettuale (1997).
E' sempre piu' difficile circoscrivere oggi, nella societa'
dell'informazione, la figura del "chierico". La categoria, un tempo cosi'
visibile e individuabile, si e' frantumata, liberando nell'aria un
pulviscolo di profili inafferrabili. Alfonso Berardinelli afferma, ad
esempio, che gli intellettuali sono ormai naufragati in un vasto ceto medio
culturale, inghiottiti da un magma che tutto travolge e livella sull'onda
delle nuove tecnologie. Franco Berardi chiama questi nuovi soggetti
"infoproduttori", formiche della grande Rete, operatori dell'economia
digitale (v. La fabbrica dell'infelicita'. New Economy e movimento del
cognitariato). Negli scritti di Bobbio e Garin non v'e' invece traccia di
queste creature mutanti. La loro ricognizione e' tutta interna alla grande
tradizione otto e novecentesca, si muove fra facolta' universitarie e case
editrici, partiti e riviste, indugia sulle opere che hanno segnato momenti
di svolta nella riflessione collettiva; le loro nozioni-guida sono concetti
come "impegno", "responsabilita'", "autonomia", "liberta'". Vocabolario
ormai desueto, superato? Anche qui e' bene guardarsi dal dispensare giudizi
sommari. Ma che un mutamento radicale, strutturale, sia in corso nei modi di
produrre e' fuor di dubbio.
Il volume La mia Italia di Bobbio, raccolta di quaranta ritratti di maestri,
amici e colleghi scomparsi, sara' quindi da collocare nel reparto
antiquariato? Qualcuno lo fara', dopo aver scorso l'indice delle persone
ricordate: studiosi di giurisprudenza, filosofi, storici, politici. Alcuni
celebri (Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat, Augusto Del Noce, Luigi Firpo,
Sandro Pertini, Massimo Mila, Primo Levi, Giovanni Spadolini), altri
sconosciuti o noti soltanto ad una ristretta cerchia di specialisti. Non
c'e' infatti traccia, in questa galleria allestita da Bobbio ("il mio ultimo
libro", dice nella prefazione), dei "lavoratori cognitivi" attivi
nell'"infoproduzione". Ma l'opera non e' da riporre sui palchetti gia'
invasi dalla polvere.
E non soltanto perche' da Bobbio c'e' sempre da imparare, sia nei modi (la
prosa cristallina), sia nei contenuti (la chiarezza concettuale, l'amore per
le distinzioni, la rinuncia alle astrusita'). Ma anche perche' la sua rimane
una grande lezione di etica "mentale", la cui coerenza e' facilmente
verificabile, ripercorrendo a ritroso gli altri tre volumi che hanno
preceduto questo, vale a dire Italia fedele (1986), Maestri e compagni
(1984), Italia civile (1964). I nomi in cui ci si imbatte sono quelli
dell'Italia antifascista, democratica e repubblicana, ovvero - per
riprendere le parole di Bobbio - "quella sparuta minoranza di nobili spiriti
che hanno difeso strenuamente, alcuni sino al sacrificio della vita, in anni
durissimi, la liberta' contro la tirannia, la tolleranza contro la
sopraffazione, l'unita' degli uomini al di la' delle razze, delle classi e
delle patrie contro la divisione tra eletti e reprobi" (prefazione del
1984). Questi personaggi, questi "nobili spiriti", precisa subito dopo
l'autore, "rappresentano non solo un'altra Italia, ma anche un'altra Storia:
una storia che sinora non ha mai avuto piena attuazione, se non in rarissimi
momenti tanto felici quanto di breve durata". In quest'"altra Italia" Bobbio
poneva, tra gli altri, Piero Calamandrei, Benedetto Croce, Piero Martinetti,
il suo maestro Gioele Solari; e poi Aldo Capitini, Rodolfo Mondolfo, Gaetano
Salvemini e naturalmente Piero Gobetti.
D'altra parte, la scelta di campo Bobbio l'aveva gia' esplicitata nella
prefazione alla prima raccolta di scritti del '64, introducendo i capitoli
dell'Italia civile. Vale la pena di riportare il brano centrale, perche' di
parole come queste s'e' persa la semenza. Ricordarle, forse, non e' del
tutto inutile. "I valori morali, cui va la mia preferenza, sono quelli
dell'operare per la buona causa senza ambizioni, della coerenza e della
intransigenza, della fermezza, della serieta', del disinteresse e
dell'abnegazione, del rigore e dell'autodisciplina, dell'umilta' di fronte
alla grandezze della storia e alla insufficienza del proprio compito".

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 449 dell'8 maggio 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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