Minime. 419



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 419 dell'8 aprile 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Severino Vardacampi: Votare
2. Benito D'Ippolito: Leggendo un appello
3. Luciano Bonfrate: Il sangue degli afgani
4. Vandana Shiva: La globalizzazione fondamentalista
5. Silvia Albertazzi: Letteratura e condizione postcoloniale
6. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
7. Il "Cos in rete" di aprile
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: VOTARE

Grande e' il pericolo, e grande l'orrore.
Votare si deve. Contro la guerra e contro il razzismo.
Per la Costituzione e per l'umanita'.
*
Grande e' il pericolo, e grande l'orrore.
Votare si deve. Per quella sinistra che contro la guerra e contro il
razzismo non ha cessato di battersi.
Per quella sinistra che si colloca a sinistra della ex-sinistra corrotta e
arlecchina.
Per quella sinistra che non ha governato assassinando gli afgani, deportando
i migranti.
Per quella sinistra che non ha governato per conto dei poteri onnicidi.
Per quella sinistra che si presenta minima e dispersa in queste elezioni in
due o tre liste misere quant'altre mai, e confuse e cialtrone non meno delle
altre, ma almeno non sporche di sangue, ma almeno non del tutto complici
della guerra e del razzismo, ma almeno scandalizzate dei crimini commessi
dal governo e dal parlamento in questi ultimi anni.
Per quella sinistra a sinistra della ex-sinistra vota chi scrive queste
righe, pur vedendo delle due o tre liste elettorali cosi' collocate i limiti
e le ambiguita', le insufficienze e le sciocchezze, le ipocrisie profonde,
le reticenze squallide e i molti gravi errori.
Ma non altro offre la scheda elettorale. E votare occorre. Turandosi il
naso, tappandosi le orecchie.
*
Grande e' il pericolo, e grande l'orrore.
Votare si deve. A sinistra della ex-sinistra.
E poi costruire la sinistra che ancora non c'e', la sinistra che occorre, la
sinistra della nonviolenza - che erediti e inveri la storia e le lotte delle
persone e delle classi e dei popoli oppressi, che erediti e inveri la
corrente calda del movimento socialista e libertario, del femminismo,
dell'ecologia, della rivendicazione nitida e intransigente della dignita' e
dei diritti di tutti gli esseri umani.

2. LE ULTIME COSE. BENITO D'IPPOLITO: LEGGENDO UN APPELLO

Leggo un appello di Pietro Ingrao
e di tanti altri illustri signori
che chiedono di votare
per gli assassini della guerra afgana.

Miei vecchi amici, miei maestri antichi
cosa siete diventati
sotto questa pioggia di sangue e di fuoco
sotto questa pioggia di menzogna e vilta'.

3. NEL VENTO. LUCIANO BONFRATE: IL SANGUE DEGLI AFGANI

Il sangue degli afgani e' troppo scolorito
perche' si muova un dito
a che le stragi cessino.

Le grida degli afgani, e troppo son lontane
perche' le ascolti un cane
e ne provi pieta'.

Le vite degli afgani non sono nell'agenda
di chi per la prebenda
la madre venderebbe.

Ma il voto agli assassini
lo diano gli assassini.
Noi poveri meschini
piangiamo i nostri morti.

4. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: LA GLOBALIZZAZIONE FONDAMENTALISTA
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 29 marzo 2008, col titolo "La
globalizzazione e il potere dell'Occidente spiegati con occhio critico da
una scienziata che difende a spada tratta la sua India" (brano estratto da
Vandana Shiva, India spezzata, Il Saggiatore, Milano 2008).
Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti
istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni
Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa
dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di
riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli,
di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia
di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti
pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo,
Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino
1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze,
DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta
di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano
2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Le nuove guerre della
globalizzazione, Utet, Torino 2005; Il bene comune della Terra, Feltrinelli,
Milano 2006; India spezzata, Il Saggiatore, Milano 2008]

I capi delle corporation e dei governi occidentali hanno imposto al mondo la
globalizzazione promettendo pace e prosperita'. E invece ci troviamo alle
prese con la guerra e la crisi economica. La prosperita' si e' rivelata
effimera, e le sicurezze economiche di base per popoli e paesi stanno
rapidamente scomparendo. Cominciano a verificarsi casi di morte per fame in
paesi come l'Argentina, dove questo problema non era mai esistito. La fame
e' tornata a colpire paesi come l'India, che aveva superato carestie - come
quella che nel 1942, sotto il regime coloniale, uccise due milioni di
persone - e garantito la sicurezza alimentare attraverso politiche di
intervento pubblico elaborate democraticamente. Persino le economie ricche
di Stati Uniti, Europa e Giappone stanno vivendo una fase di declino. La
globalizzazione ha chiaramente fallito l'obiettivo di migliorare le
condizioni dei cittadini e dei paesi. Se e' vero che la globalizzazione ha
aiutato alcune corporation ad ampliare i loro profitti e i loro mercati,
molte altre aziende, tra cui Aol Time Warner ed Enron, hanno fatto
bancarotta o hanno perso valore. La via della globalizzazione si e' rivelata
una ricetta insostenibile per i ricchi e causa di impoverimento e
disgregazione sociale per i poveri.
L'altra promessa della globalizzazione era la pace, e invece ne abbiamo
ereditato solo terrorismo e guerra. La pace sarebbe dovuta scaturire da una
accresciuta prosperita' globale ottenuta attraverso la globalizzazione. La
realta' che si dispiega sotto i nostri occhi, invece, e' quella della
poverta'; l'insicurezza economica e l'esclusione creano le condizioni per lo
sviluppo del terrorismo e del fondamentalismo. L'esclusione economica e
politica, insieme allo sgretolamento della sovranita' economica dei singoli
stati, sta spingendo molti giovani verso il terrorismo e la violenza quali
strumenti per conseguire i loro obiettivi. Il venir meno
dell'autodeterminazione economica degli stati nazionali e l'estendersi
dell'insicurezza economica finiscono per trasformarsi in un terreno fertile
per la crescita di gruppi politici fondamentalisti di estrema destra che
sfruttano la realta' dell'insicurezza economica per attizzare il fuoco
dell'insicurezza culturale. Questi, come mostra il caso dei sostenitori
dell'hindutva nel Gujarat, riempiono il vuoto lasciato dal crollo del
nazionalismo economico e della sovranita' economica con un programma
pseudonazionalista improntato al "nazionalismo culturale". A livello
globale, la retorica dello "scontro di civilta'" proposta da Samuel
Huntington, insieme alla guerra contro l'islam, svolge la stessa funzione
assolta a livello nazionale dai programmi politici fondati sul nazionalismo
culturale e sull'ideologia fondamentalista.
*
Analizzando la crescita delle ideologie fondamentaliste, se ne osservano due
forme che paiono convergere, rafforzandosi e sostenendosi a vicenda. La
prima e' il fondamentalismo liberista della globalizzazione. Questo tipo di
fondamentalismo ridefinisce ogni forma di vita in termini di merce, la
societa' in termini economici, e il mercato come mezzo e fine
dell'iniziativa umana. Per essi, il mercato e' l'unico strumento adatto alla
distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessita'
essenziali. Il mercato diventa l'unico criterio organizzativo e
amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanita'. L'appartenenza
al genere umano non conferisce piu' i fondamentali diritti scolpiti in tutte
le costituzioni nazionali e nella Dichiarazione dei diritti umani dell'Onu.
Il fatto di venir considerati come esseri umani dipende dalla nostra
capacita' di "acquistare" cio' di cui abbiamo bisogno per vivere. In questo
tipo di mercato, tutte le cose necessarie alla sopravvivenza - acqua, cibo,
salute e sapere - si sono trasformate in merci controllate da una manciata
di corporation. Per effetto della globalizzazione, tutto e' merce, tutto ha
un prezzo. Nulla e' sacro. Non esistono piu' i diritti fondamentali del
cittadino ne' i doveri fondamentali dei governi.
Il fondamentalismo del mercato si fonda, a sua volta, su altri due tipi di
fondamentalismo: quello tecnologico e quello del commercio, che si
caratterizzano sempre piu' chiaramente come gli strumenti essenziali di
questo nuovo totalitarismo. Storicamente, l'uso della tecnologia e' sempre
stato in contrasto con i fini e le dottrine della religione. Eppure, la
tecnologia e l'ideologia religiosa avulse dal loro contesto sociale ed
ecologico e da un sistema di regole finiscono per diventare entrambe
strumenti di guerra e militarizzazione. In questo senso, la guerra all'Iraq
e' stata, al contempo, il dispiegarsi di una nuova crociata religiosa in
nome del fondamentalismo cristiano e una prova di forza fondata sulle "bombe
intelligenti" e sulle tecnologie digitali. I neocon di Washington sono allo
stesso tempo fondamentalisti religiosi e tecnologici. Il fondamentalismo
rende irrilevanti le categorie di tradizione e modernita'; come principio
organizzativo, le ideologie fondamentaliste scelgono piuttosto un criterio
di esclusione/inclusione.
Il fondamentalismo di mercato della globalizzazione - con l'esclusione
economica che comporta - da' origine a una politica di esclusione. Questa
viene rafforzata e sostenuta da partiti politici fautori del
fondamentalismo, della xenofobia, della pulizia etnica e del rafforzamento
del patriarcato e delle caste. La cultura della mercificazione ha portato a
un aumento della violenza contro le donne in ogni sua forma, da quella
domestica a quella sessuale, dall'aborto selettivo per i feti femminili alla
tratta vera e propria. La globalizzazione, che nasce come progetto
patriarcale, ha percio' rafforzato l'esclusione patriarcale. Le atrocita'
commesse dalle caste superiori ai danni dei dalit (gli "intoccabili") si
sono intensificate per via del nuovo potere conferito dalla globalizzazione
alle caste superiori che hanno ottenuto l'accesso al mercato globale e
puntano a usurpare i poveri e gli emarginati - soprattutto dalit e
popolazioni tribali - per sfruttare le loro risorse a fini commerciali. Le
leggi di riforma agraria che avevano reso inalienabile il diritto dei dalit
alla terra, sono state revocate. Il devastante impatto sociale ed economico
della globalizzazione colpisce in primo luogo le donne, i dalit, le
popolazioni tribali e le minoranze in genere. Benche' nuovi movimenti di
solidarieta' - come quello del popolo indiano contro l'Organizzazione
mondiale del commercio (Wto) - stiano forgiando alleanze tra movimenti
politici diversi, questi sono sottoposti al violentissimo attacco della
politica dell'esclusione.
L'insicurezza e le inevitabili ricadute della globalizzazione accrescono la
vulnerabilita' dei cittadini nei confronti delle politiche che teorizzano
l'esclusione. Per chi esercita o cerca il potere, la politica
dell'esclusione sta diventando una necessita' politica: va a colmare il
vuoto creato dalla crisi della sovranita' economica, del welfare state e di
una politica fondata sui diritti economici per tutti, sostituendovi una
politica dell'identita'. Per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica
dagli effetti negativi della globalizzazione - la mancanza di lavoro, di
mezzi di sostentamento e di beni essenziali - il fondamentalismo e la
xenofobia intervengono come strumento della globalizzazione capitalista.
Dividono, distolgono e distraggono la gente garantendo al progetto di
globalizzazione una sorta di immunita'. Una forma di nazionalismo culturale,
brandito a sostegno della globalizzazione economica e della dittatura del
capitale, va cosi' a sostituire la sovranita' economica e le idee di
nazionalismo economico e di democrazia a essa collegate.
*
Gli indiani si sono ripetutamente espressi contro la globalizzazione e
contro la liberalizzazione del commercio che crea dieci milioni di nuovi
disoccupati ogni anno, impoverisce i contadini e toglie diritti a chi e'
gia' emarginato. Tuttavia, nella campagna elettorale del 2002 in Gujarat,
dopo il massacro di duemila musulmani, i politici hanno trascurato del tutto
i problemi fondamentali dei cittadini per insistere sul conflitto tra
maggioranza e minoranza. L'aritmetica ha garantito la vittoria al partito
che aveva creato un solco tra maggioranza e minoranza e seminato odio e
paura tra la popolazione civile con stupri e omicidi. Questo programma
violento e settario e' attualmente in fase di sviluppo in vista di tutte le
future consultazioni elettorali.
E mentre erano in corso i massacri, e l'attenzione nazionale era concentrata
sulle contromisure per frenare il conflitto tra comunita' e il
fondamentalismo, il processo di globalizzazione ha subito una forte
accelerazione. Si e' dato il via libera agli organismi geneticamente
modificati; sono state modificate le leggi sui brevetti per consentire di
brevettare gli esseri viventi; e' stata adottata una nuova politica
dell'acqua basata sulla privatizzazione delle risorse, mentre altre
politiche mirate sono andate a smantellare la sicurezza del lavoro e
alimentare delle popolazioni. La legge finanziaria indiana del 2001 ha
ulteriormente promosso gli obiettivi della globalizzazione sfruttando il
diversivo del conflitto tra comunita' e fedi religiose per dare scacco
all'opposizione democratica.
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la guerra contro l'Iraq e' diventata
un ottimo diversivo per distogliere l'attenzione da temi quali la crescita
della disoccupazione e dell'insicurezza economica e ha promosso una politica
dell'odio utile quale indiretto sostegno al fallimentare progetto della
globalizzazione.
*
Abbiamo bisogno di una nuova politica di solidarieta' e di pace, che
affronti al contempo la violenza e l'esclusione prodotte dalla
globalizzazione, la violenza del terrorismo e del fondamentalismo e quella
della guerra. Queste diverse forme di violenza e di fondamentalismo hanno
radici comuni e richiedono percio' una risposta comune. La globalizzazione
e' refrattaria al decentramento economico, alla democrazia economica e alla
diversita' economica. Il terrorismo e il fondamentalismo non tollerano la
diversita' culturale. E la macchina della guerra non ammette l'"altro" ne'
la risoluzione pacifica dei conflitti.
La nostra risposta alla globalizzazione deve proteggere le nostre diverse
economie a livello nazionale e locale. La risposta al fondamentalismo
consiste nel valorizzare le nostre diversita' culturali. La risposta alla
guerra sta nel riconoscimento dell'"altro" non in quanto minaccia, bensi'
come precondizione del nostro stesso essere.
Immaginate quanto sarebbe diverso il mondo se si basasse su una filosofia di
reciproca interdipendenza, invece che sulla filosofia attualmente dominante
per cui l'esistenza dell'altro e' vista come minaccia alla propria.
Se il presidente Bush riuscisse a vedere il Tigri, l'Eufrate e la civilta'
mesopotamica come il luogo d'origine della sua stessa civilta', se solo
riconoscesse le nostre comuni radici e la necessita' di un'evoluzione
comune, non si darebbe cosi' tanto da fare per cancellare queste radici
storiche con bombe teleguidate e armi di distruzione di massa. Se chi
controlla il capitale riuscisse a capire che la propria ricchezza incorpora
la creativita' della natura e la forza-lavoro umana, non stabilirebbe regole
di mercato che distruggono la natura e le possibilita' di sopravvivenza
delle persone. Il fondamentalismo del mercato, pero', e quello delle
ideologie basate sull'odio e sull'intolleranza affondano le loro radici
nella paura: paura dell'altro, delle sue capacita' e creativita', della sua
autonomia e sovranita'.
Attualmente assistiamo ai peggiori esempi di violenza organizzata
dell'umanita' contro se stessa. E cio' accade perche' abbiamo perso di vista
le filosofie che promuovono l'inclusione, la compassione e la solidarieta'.
E' questa la conseguenza piu' grave della globalizzazione: la distruzione
della nostra capacita' di essere umani. Recuperare la nostra umanita' e'
indispensabile se vogliamo sperare di contrastare e sovvertire questo
progetto inumano. Il dibattito sulla globalizzazione, in definitiva, non ha
per tema il mercato ne' l'economia, bensi' la nostra coscienza di
appartenere tutti all'umanita', nonche' il rischio di dimenticare quel che
significa essere umani.

5. RIFLESSIONE. SILVIA ALBERTAZZI: LETTERATURA E CONDIZIONE POSTCOLONIALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 aprile 2008, col titolo "Voci
postcoloniali. Geografie letterarie tra il mare la terra e la mente" e il
sommario "Qualche considerazione a margine di un convegno che ha riunito a
Venezia gli autori delle letterature del Commonwealth, entita' che Rushdie
decreto' inesistente gia' un quarto di secolo fa. Dal teorico del Camerun
Achille Mbembe alla poetessa indiana Meena Alexander, dal romanziere
nigeriano Chris Abani alla scrittrice aborigena Alexis Wright".
Silvia Albertazzi e' docente di letteratura inglese all'Universita' di
Bologna. Tra le opere di Silvia Albertazzi: Il tempio e il villaggio. La
narrativa indo-inglese e la tradizione britannica, Bologna, Patron, 1978;
(con L. M. Crisafulli Jones), In viaggio nel racconto. Percorsi e
prospettive della narrativa breve di lingua inglese, Urbino, QuattroVenti,
1992; Bugie sincere. Narratori e narrazioni 1970-1990, Roma, Editori
Riuniti, 1992; La letteratura fantastica , Bari, Laterza, 1993; Translating
India. Travel and Cross-Cultural Transference in Post-Colonial Indian
Fiction in English, Bologna, Clueb, 1993; Nel bosco degli spiriti. Senso del
corpo e fantasmaticita' nelle nuove letterature di lingua inglese, Manziana
(Roma), Vecchiarelli, 1998; (a cura di), Appartenenze. La scrittura delle
donne di colore nelle letterature di espressione inglese, Bologna, Patron,
1998; Lo sguardo dell'Altro. Le letterature postcoloniali, Roma, Carocci,
2000; (a cura di, con Roberto Vecchi), Abbecedario Postcoloniale, Macerata,
Quodlibet, 2001; (a cura di, con Roberto Vecchi), Abbecedario Postcoloniale
2, Macerata, Quodlibet, 2002; (a cura di, con Donatella Possamai),
Postmodernism and Postcolonialism Padova, Il Poligrafo, 2002; (con Adalinda
Gasparini), Il romanzo new global. Storie di intolleranza, fiabe di
comunita', Pisa, Ets, 2003]

Sono trascorsi venticinque anni da quando Salman Rushdie - il cui ultimo
libro The enchantress of Forence e' appena uscito in Inghilterra - sconvolse
l'establishment accademico inglese affermando: "la letteratura del
Commonwealth non esiste". Un quarto di secolo e la situazione non sembra
molto cambiata, se e' vero che alla fine di marzo, proprio una associazione
internazionale che si riconosce nella sigla European Association for
Commonwealth Literatures and Languages Studies, ha organizzato a Venezia un
imponente convegno, con buona pace di Rushdie e del suo disgusto per la
ghettizzazione degli autori provenienti dalle ex colonie britanniche.
Eppure, a ben guardare, dopo cosi' tanti anni l'etichetta "letterature del
Commonwealth" deve stare stretta anche alla maggior parte di chi le studia,
se e' vero che gli organizzatori del convegno veneziano hanno scelto di
riservare i momenti piu' importanti agli studi culturali, alla riflessione
politica, alla teoria postcoloniale, mettendo cosi' in discussione non solo
la connotazione eurocentrica implicita nella specificazione "del
Commonwealth", ma anche, e piu' pericolosamente, la sua capacita' di
accompagnarsi al concetto stesso di "letteratura".
*
L'ombra problematica di Fanon
In un periodo alquanto difficile per gli studi letterari, gli accademici
sembrano muoversi in direzione opposta rispetto alla strada proposta nel
1983 da Rushdie: si tratta, per l'intellettuale postcoloniale, di riaprire
il futuro, usando il linguaggio come arma nella lotta per la liberta'.
Bisogna, insomma - come dice Achille Mbembe, teorico tra i piu' acclamati,
docente di storia e politica a Johannesburg - di ritrovare una voce per
esplorare altri vernacoli, altre porzioni di realta', nel nome della
liberta' di parola. L'accento e', dunque, sull'atto piuttosto che
sull'immaginazione. Piu' volte invocata, la problematica ombra di Fanon
torna non solo a rammentarci l'effetto corrosivo della condizione coloniale
sul linguaggio, ma anche a ricordare l'esigenza di fare di ogni vittima un
luogo di interpretazione e non una figura di pieta'.
Prima ancora che riverberare sui testi letterari, il discorso si allarga
alla comparazione con altri pronunciamenti teorici e altre situazioni
traumatiche: Fanon rimanda a Senghor e a Aime' Cesaire, ma anche a Primo
Levi e soprattutto a quell'affermazione di Jean Amery secondo cui la
violenza rivoluzionaria non e' la levatrice della storia, ma dell'essere
umano. Non stupisce che uno studioso emergente come Gil Anidjar, allievo di
Edward Said alla Columbia University, attivista filopalestinese e autore del
controverso volume The Jew, the Arab: A History of the Enemy (L'ebreo,
l'arabo: storia del nemico), partendo dall'idea della "modernita' liquida"
di Zygmunt Bauman possa teorizzare le culture della circolazione, il cui
paradigma basilare - carico di molteplici pregnanze metaforiche - e' il
sangue.
Violenza-sangue-terrorismo: dopo l'11 settembre, quello che per Rushdie era
il ghetto delle letterature del Commonwealth - la cui funzione gli sembrava
quella di restringere il campo di pertinenza della letteratura inglese in
senso topografico, nazionalista e perfino razzista e segregazionista - si
identifica con lo scenario terroristico, in un ambiguo gioco epistemologico
che, nella migliore delle ipotesi, vede la vita interpretare la letteratura.
Cosi', a tutt'oggi, Adriana Cavarero puo' invocare una
"riconcettualizzazione della lingua" che porti a esprimere il trauma dal
punto di vista delle vittime, senza che nessuno si faccia carico di
ricordarle come gia' molto prima dell'attacco alle torri gemelle la
letteratura postcoloniale si proponesse di riscrivere la storia proprio
dalla parte dei diseredati, inventando per fare cio' un linguaggio "altro",
un linguaggio creativo. Ne' le e' stato fatto notare come la dicotomia
violenza/cura, con cui propone di sostituire l'opposizione buono/cattivo,
ovvero noi/altri, punto di arrivo della sua riflessione sull'orrorismo, si
possa gia' trovare in versione narrativa: per esempio in un romanzo del 1992
del canadese Michael Ondaatje, quel bellissimo Paziente inglese che i non
letterati ricordano nell'edulcorata versione hollywoodiana di Anthony
Minghella.
E allora non stupisce se Robert Young, teorico postcoloniale di lungo corso,
autore di volumi ormai classici quali White Mythologies (edito da Meltemi) e
Colonial Desire, ammonendo che il terrorismo non e' iniziato l'11 settembre
ricorda che oggi, negli Stati Uniti, gli studi postcoloniali sono guardati
con sospetto, come istituzioni filoterroristiche. Sul fondamento etico del
diritto alla resistenza, e sulle conseguenti problematiche morali insite nel
ricorso alla violenza, del resto, ritornano tutti i teorici. Patrick
Williams, divulgatore inglese di rara chiarezza, si spinge addirittura a
definire la Palestina un esempio di postcolonialismo non ancora realizzato
e, indicando nell'azione violenta l'unico mezzo di visibilita' del popolo
palestinese, cita a suffragio delle proprie opinioni una conferenza inedita
di Sartre del 1964 e un articolo del 1972 in cui lo stesso pensatore
francese giustifica, partendo dalle medesime premesse, l'attacco
terroristico al villaggio olimpico di Monaco.
*
Tra teorici e scrittori
E la letteratura? A tutta prima, sembra che il divario tra i teorici e gli
scrittori sia netto. La poetessa indiana Meena Alexander, ormai cittadina
newyorkese - look, mimica e pronuncia da signora bene di Park Avenue - alla
domanda: "Perche' esiste la poesia?", risponde senza esitazione: "Per non
morire di storia".
La poesia, dunque, sarebbe un antidoto alla realta' quotidiana: il pericolo
dell'escapismo e' in agguato. Ma poi, correggendo il tiro, Meena Alexander
specifica che il compito della poesia in un mondo violento e' riconciliarci
con la realta', non per accettarla supinamente, ma per aiutarci a esistere.
La poesia, dunque, esisterebbe nonostante la storia, nonostante quella
storia quotidiana di terrorismo e violenza su cui i teorici fondano le loro
riflessioni. L'antitesi sembra netta: di qua la poesia, di la' il reale. La
letteratura sarebbe un gesto nonostante il reale, non contro o per meglio
conoscere la realta'.
Per fortuna, alla lirica elegante di Alexander fa da controcanto il reggae
rabbioso e ironico di Linton Kwesi Johnson, sempre elegantissimo quando, a
conferma della sua carismatica somiglianza con Lester Bowie dell'Art
Ensemble of Chicago, si presenta in completo bianco, cappello a larghe tese
e pizzetto a punta. "Il terrore e' alla base di tutte le forme di
dominazione. La paura e' al cuore della condizione umana", ha detto al
convegno veneziano, continuando cosi': "Bisogna fare molta attenzione a come
si usa il linguaggio, perche' e' attraverso il linguaggio che definiamo la
nostra realta' e negoziamo la nostra umanita'".
E Chris Abani, romanziere nigeriano residente negli Stati Uniti, autore di
quattro raccolte di versi e cinque romanzi (tre dei quali, L'ambigua follia
di Mr. Bloch, Abigail. Una storia vera e Graceland, sono stati tradotti in
italiano, i primi due da Fanucci e l'ultimo da Terre di Mezzo), anche lui e'
sulla stessa linea quando afferma di essere infastidito dalla generica
definizione occidentale di "scrittore africano". "Il mio nome e' Chris Abani
e sono Ibo: questo e' l'unico dono che l'America mi ha dato". Decisamente in
contrasto con la posizione di Meena Alexander, Abani ricorda che "ogni
cittadino dovrebbe essere un attivista, non solo - romanticamente - gli
scrittori"; e dichiara di voler scrivere "opere sociali, non polemiche, che
stabiliscano un dialogo etico, ma non offrano riposte morali, perche' queste
sono le piu' facili da dare". Parlando di scrittura migrante e dei problemi
dell'autore dislocato, Abani identifica nel linguaggio il mezzo per
radicarsi nella nuova realta', evitando, pero', di trasformare la nostalgia
per la terra lasciata alle spalle in narrazione sentimentale. "Il linguaggio
e' il luogo dove la gente comunica", dice, "e' la mia casa, e casa, per me,
come per Joyce, e' cercare un genitore assente". E anche se non riconosce
nei grandi vecchi delle lettere africane i suoi "padri", rende loro omaggio
ammettendo: "Posso essere lo scrittore che voglio perche' le generazioni
precedenti mi hanno aperto la strada. E oggi, io sono il mio pubblico. Ho il
privilegio di scrivere per me stesso e di correre per me grandi rischi. Come
scrittore, devo pormi le questioni etiche di cui ho paura e questa e' la mia
autenticita'. Come autore, mi sento responsabile solo della mia arte e della
mia tecnica narrativa, tutto il resto mi compete come essere umano".
*
Diverse levature di autori
Di fronte alla retorica vibrante e all'entusiasmo contagioso di Chris Abani,
che ha pagato col carcere e la tortura le proprie idee e che ora considera
l'America, dove ha scelto di stabilirsi, "confusa, incomprensibile e
pretenziosa come Derrida", ma - al tempo stesso - "un posto magnifico per
scrivere", una autrice come Kiran Desai sembrava scomparire, quando - sempre
nel corso del convegno a Venezia - ha letto alcune pagine autobiografiche
con un filo di voce. E a chi le rivolgeva qualche domanda ha risposto di
faticare a concentrarsi perche', da brava scrittrice, passa la maggior parte
delle sue giornate a lasciar vagare libera la mente. Nella contrapposizione
tra l'imponente autore nigeriano, perseguitato in patria per le proprie
opere, e la gracile vincitrice del Booker Prize, che lamenta il difficile
ruolo dell'autore dislocato mentre mamma Anita seduta tra il pubblico la
guarda con occhio trepido, si rende palpabile il divario tra uno scrittore
di grande levatura umana e professionale e la diligente allieva di costosi
corsi americani di creative writing.
Questo stesso divario, con il suo corollario di differenza di classe e
conseguenti diverse opportunita' sociali, appare ancora piu' evidente nelle
parole della scrittrice aborigena australiana Alexis Wright, il cui
strepitoso romanzo Carpentaria ha vinto il Miles Franklin Award, il maggior
premio letterario australiano, nel 2007, ed e' attualmente in traduzione da
Rizzoli (che fara' uscire il libro a giugno). Raccogliendo una "eredita' di
storie intrecciate o ricordate", Wright ripropone la conoscenza degli
antichi narratori della sua gente, ribadendo il diritto aborigeno alla terra
attraverso una lunga relazione con il patrimonio folkloristico tradizionale.
Per Wright, la letteratura e' "inscritta nella terra e scritta nella mente".
"Sono le storie - ha detto la scrittrice - che hanno mantenuto in vita il
mio popolo. Per questo ho voluto scrivere un romanzo in cui tutte le storie,
quelle ancestrali degli antenati e quelle odierne di violenza sugli
aborigeni, prendono vita". La letteratura, per Wright e' un'occasione per
incontrare la gente, e l'antica tradizione della sua comunita' e' uno stato
mentale. Alla fatidica domanda, "perche' scrivere? perche' la narrativa, la
poesia, in un mondo di violenza e soprusi?", la sua risposta e': "perche' la
gioia dell'immaginazione ci apre al futuro, ci permette di creare qualcosa,
e di immaginare le differenze".
*
Dal nostro passato coloniale
Forse non e' stato un caso che la sorpresa piu' rilevante del convegno
promosso dalla Association for Commonwealth Literatures and Languages
Studies sia stata riservata dalla sessione dedicata alla scrittura
dell'Italia postcoloniale, apparentemente incongrua in un consesso votato a
studiare le letterature delle ex colonie britanniche, appunto. Cosi',
apprendiamo da un giovane dottorando indiano, Nathan Vetri, che il nostro e'
un paese da considerarsi postcoloniale e "meticcio", in virtu' non solo
della tarda unificazione nazionale, ma soprattutto dell'emigrazione interna,
del divario tra nord e sud e, naturalmente, dell'impresa coloniale fascista.
E dalla scrittrice italo-etiope Gabriella Ghermandi, di cui Donzelli ha da
poco pubblicato il primo romanzo, Regina di fiori e di perle, una autrice
capace di esporre la propria visione della scrittura attraverso una
performance da consumata narratrice orale, apprendiamo che la letteratura e'
davvero l'unico luogo dove il migrante puo' dare corpo alla sua doppia
assenza - dalla casa trovata, dove e' considerato un diverso, e da quella
lasciata, dove e' ritenuto fortunato per essere approdato al paese "del
latte e miele".
Ad esemplificazione del suo lavoro, Gabriella Ghermandi raccontava il
ricordo della pioggia di Bologna richiamata alla memoria dalla polverosa
Etiopia. E nell'ipnotico ripetersi del termine "water" chi la ascoltava, a
Venezia, ha ritrovato l'eco di un altro racconto ritmato dall'evocazione
all'acqua, che una scrittrice canadese, Aritha Van Herk, narratrice dei
grandi spazi e delle Rocky Mountains, ha letto in queste stesse giornate: la
storia di una prostituta che dal suo bordello sperduto nelle Montagne
Rocciose sogna i canali di Venezia. In apparenza, niente di piu' lontano
dalla griot Gabriella Ghermandi; in realta', una stessa immagine, dove
figurano la vita, la femminilita', e soprattutto il segno di quella
letteratura che e' un luogo universale in cui riconoscersi al di la' di ogni
confine.
*
Postilla bibliografica: Una piccola bibliografia per orientarsi negli studi
postcoloniali
Il dibattito sugli studi postcoloniali e' assai animato, soprattutto nei
paesi anglofoni, a partire dal 1985, anno in cui usci' il volume The Empire
Writes Back, di Tiffin, Ashcroft e Griffiths. I teorici di maggior prestigio
sono H. K. Bhabha (di cui Meltemi ha tradotto Nazione e narrazione e I
luoghi della cultura), Gayatri C. Spivak (Meltemi ha pubblicato il suo
Critica della ragione postcoloniale e Morte di una disciplina). Di Edward W.
Said e' fondamentale Cultura e Imperialismo (Gamberetti). In italiano si
possono trovare anche di Robert Young, Introduzione al postcolonialismo e
Mitologie bianche; di Ania Loomba, Coloniale/postcoloniale; di Achille
Mbembe, Postcolonialismo; di Stuart Hall, Il soggetto e la differenza (tutti
presso Meltemi). Tra gli studi di area francofona: di Edouard Glissant,
Poetica della relazione (Quodlibet) e Poetica del diverso (Meltemi). Di
Francois Pare', Le letterature dell'esiguita' (Quodlibet). Tra i contributi
italiani: Silvia Albertazzi, Lo sguardo dell'Altro (Carocci); e insieme a R.
Vecchi, Abbecedario postcoloniale (Quodlibet); Ian Chambers, Paesaggi
migratori, e Miguel Mellino, La critica postcoloniale (Meltemi).

6. PROPOSTE. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito www.nonviolenti.org riprendiamo e diffondiamo]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il codice fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 mille. Per
molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento ed in particolare per rendere operativa la "Casa per
la pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni con coerenza lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza.
Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
P. S.: se non fai la dichiarazione in proprio, ma ti avvali del
commercialista o di un Caf, consegna il numero di codice fiscale e di'
chiaramente che vuoi destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per ulteriori informazioni e contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

7. STRUMENTI. IL "COS IN RETE" DI APRILE
[Dall'Associazione nazionale Amici di Aldo Capitini (per contatti:
l.mencaroni at libero.it) riceviamo e diffondiamo]

Cari amici,
vi segnaliamo l'ultimo aggiornamento di aprile 2008 del "Cos in rete",
www.cosinrete.it
Ricordando il Cos (Centro di orientamento sociale) di Capitini, il primo
esperimento di partecipazione democratica alle decisioni del potere locale e
nazionale, raccogliamo e commentiamo una scelta di quello che scrive la
stampa sui temi capitiniani della nonviolenza, difesa della pace,
liberalsocialismo, partecipazione al potere di tutti, controllo dal basso,
religione aperta, educazione aperta, antifascismo.
Tra gli altri, in questo numero ci sono: Mistiche e femministe; i sudditi
europei e le basi americane; Arte e rifiuti, incontro felice; Omo nero,
liste nere, camicie nere; ecc.
La partecipazione al Cos in rete e' libera e aperta a tutti mandando i
contributi all'indirizzo e-mail: capitini at tiscali.it o al blog del Cos:
http://cos.splinder.com
Il sito con scritti di e su Aldo Capitini e' www.aldocapitini.it

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it,
sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 419 dell'8 aprile 2008

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004
possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web:
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