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Minime. 419
- Subject: Minime. 419
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 8 Apr 2008 00:45:50 +0200
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 419 dell'8 aprile 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Severino Vardacampi: Votare 2. Benito D'Ippolito: Leggendo un appello 3. Luciano Bonfrate: Il sangue degli afgani 4. Vandana Shiva: La globalizzazione fondamentalista 5. Silvia Albertazzi: Letteratura e condizione postcoloniale 6. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento 7. Il "Cos in rete" di aprile 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: VOTARE Grande e' il pericolo, e grande l'orrore. Votare si deve. Contro la guerra e contro il razzismo. Per la Costituzione e per l'umanita'. * Grande e' il pericolo, e grande l'orrore. Votare si deve. Per quella sinistra che contro la guerra e contro il razzismo non ha cessato di battersi. Per quella sinistra che si colloca a sinistra della ex-sinistra corrotta e arlecchina. Per quella sinistra che non ha governato assassinando gli afgani, deportando i migranti. Per quella sinistra che non ha governato per conto dei poteri onnicidi. Per quella sinistra che si presenta minima e dispersa in queste elezioni in due o tre liste misere quant'altre mai, e confuse e cialtrone non meno delle altre, ma almeno non sporche di sangue, ma almeno non del tutto complici della guerra e del razzismo, ma almeno scandalizzate dei crimini commessi dal governo e dal parlamento in questi ultimi anni. Per quella sinistra a sinistra della ex-sinistra vota chi scrive queste righe, pur vedendo delle due o tre liste elettorali cosi' collocate i limiti e le ambiguita', le insufficienze e le sciocchezze, le ipocrisie profonde, le reticenze squallide e i molti gravi errori. Ma non altro offre la scheda elettorale. E votare occorre. Turandosi il naso, tappandosi le orecchie. * Grande e' il pericolo, e grande l'orrore. Votare si deve. A sinistra della ex-sinistra. E poi costruire la sinistra che ancora non c'e', la sinistra che occorre, la sinistra della nonviolenza - che erediti e inveri la storia e le lotte delle persone e delle classi e dei popoli oppressi, che erediti e inveri la corrente calda del movimento socialista e libertario, del femminismo, dell'ecologia, della rivendicazione nitida e intransigente della dignita' e dei diritti di tutti gli esseri umani. 2. LE ULTIME COSE. BENITO D'IPPOLITO: LEGGENDO UN APPELLO Leggo un appello di Pietro Ingrao e di tanti altri illustri signori che chiedono di votare per gli assassini della guerra afgana. Miei vecchi amici, miei maestri antichi cosa siete diventati sotto questa pioggia di sangue e di fuoco sotto questa pioggia di menzogna e vilta'. 3. NEL VENTO. LUCIANO BONFRATE: IL SANGUE DEGLI AFGANI Il sangue degli afgani e' troppo scolorito perche' si muova un dito a che le stragi cessino. Le grida degli afgani, e troppo son lontane perche' le ascolti un cane e ne provi pieta'. Le vite degli afgani non sono nell'agenda di chi per la prebenda la madre venderebbe. Ma il voto agli assassini lo diano gli assassini. Noi poveri meschini piangiamo i nostri morti. 4. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: LA GLOBALIZZAZIONE FONDAMENTALISTA [Dal quotidiano "La Repubblica" del 29 marzo 2008, col titolo "La globalizzazione e il potere dell'Occidente spiegati con occhio critico da una scienziata che difende a spada tratta la sua India" (brano estratto da Vandana Shiva, India spezzata, Il Saggiatore, Milano 2008). Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003; Le nuove guerre della globalizzazione, Utet, Torino 2005; Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006; India spezzata, Il Saggiatore, Milano 2008] I capi delle corporation e dei governi occidentali hanno imposto al mondo la globalizzazione promettendo pace e prosperita'. E invece ci troviamo alle prese con la guerra e la crisi economica. La prosperita' si e' rivelata effimera, e le sicurezze economiche di base per popoli e paesi stanno rapidamente scomparendo. Cominciano a verificarsi casi di morte per fame in paesi come l'Argentina, dove questo problema non era mai esistito. La fame e' tornata a colpire paesi come l'India, che aveva superato carestie - come quella che nel 1942, sotto il regime coloniale, uccise due milioni di persone - e garantito la sicurezza alimentare attraverso politiche di intervento pubblico elaborate democraticamente. Persino le economie ricche di Stati Uniti, Europa e Giappone stanno vivendo una fase di declino. La globalizzazione ha chiaramente fallito l'obiettivo di migliorare le condizioni dei cittadini e dei paesi. Se e' vero che la globalizzazione ha aiutato alcune corporation ad ampliare i loro profitti e i loro mercati, molte altre aziende, tra cui Aol Time Warner ed Enron, hanno fatto bancarotta o hanno perso valore. La via della globalizzazione si e' rivelata una ricetta insostenibile per i ricchi e causa di impoverimento e disgregazione sociale per i poveri. L'altra promessa della globalizzazione era la pace, e invece ne abbiamo ereditato solo terrorismo e guerra. La pace sarebbe dovuta scaturire da una accresciuta prosperita' globale ottenuta attraverso la globalizzazione. La realta' che si dispiega sotto i nostri occhi, invece, e' quella della poverta'; l'insicurezza economica e l'esclusione creano le condizioni per lo sviluppo del terrorismo e del fondamentalismo. L'esclusione economica e politica, insieme allo sgretolamento della sovranita' economica dei singoli stati, sta spingendo molti giovani verso il terrorismo e la violenza quali strumenti per conseguire i loro obiettivi. Il venir meno dell'autodeterminazione economica degli stati nazionali e l'estendersi dell'insicurezza economica finiscono per trasformarsi in un terreno fertile per la crescita di gruppi politici fondamentalisti di estrema destra che sfruttano la realta' dell'insicurezza economica per attizzare il fuoco dell'insicurezza culturale. Questi, come mostra il caso dei sostenitori dell'hindutva nel Gujarat, riempiono il vuoto lasciato dal crollo del nazionalismo economico e della sovranita' economica con un programma pseudonazionalista improntato al "nazionalismo culturale". A livello globale, la retorica dello "scontro di civilta'" proposta da Samuel Huntington, insieme alla guerra contro l'islam, svolge la stessa funzione assolta a livello nazionale dai programmi politici fondati sul nazionalismo culturale e sull'ideologia fondamentalista. * Analizzando la crescita delle ideologie fondamentaliste, se ne osservano due forme che paiono convergere, rafforzandosi e sostenendosi a vicenda. La prima e' il fondamentalismo liberista della globalizzazione. Questo tipo di fondamentalismo ridefinisce ogni forma di vita in termini di merce, la societa' in termini economici, e il mercato come mezzo e fine dell'iniziativa umana. Per essi, il mercato e' l'unico strumento adatto alla distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessita' essenziali. Il mercato diventa l'unico criterio organizzativo e amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanita'. L'appartenenza al genere umano non conferisce piu' i fondamentali diritti scolpiti in tutte le costituzioni nazionali e nella Dichiarazione dei diritti umani dell'Onu. Il fatto di venir considerati come esseri umani dipende dalla nostra capacita' di "acquistare" cio' di cui abbiamo bisogno per vivere. In questo tipo di mercato, tutte le cose necessarie alla sopravvivenza - acqua, cibo, salute e sapere - si sono trasformate in merci controllate da una manciata di corporation. Per effetto della globalizzazione, tutto e' merce, tutto ha un prezzo. Nulla e' sacro. Non esistono piu' i diritti fondamentali del cittadino ne' i doveri fondamentali dei governi. Il fondamentalismo del mercato si fonda, a sua volta, su altri due tipi di fondamentalismo: quello tecnologico e quello del commercio, che si caratterizzano sempre piu' chiaramente come gli strumenti essenziali di questo nuovo totalitarismo. Storicamente, l'uso della tecnologia e' sempre stato in contrasto con i fini e le dottrine della religione. Eppure, la tecnologia e l'ideologia religiosa avulse dal loro contesto sociale ed ecologico e da un sistema di regole finiscono per diventare entrambe strumenti di guerra e militarizzazione. In questo senso, la guerra all'Iraq e' stata, al contempo, il dispiegarsi di una nuova crociata religiosa in nome del fondamentalismo cristiano e una prova di forza fondata sulle "bombe intelligenti" e sulle tecnologie digitali. I neocon di Washington sono allo stesso tempo fondamentalisti religiosi e tecnologici. Il fondamentalismo rende irrilevanti le categorie di tradizione e modernita'; come principio organizzativo, le ideologie fondamentaliste scelgono piuttosto un criterio di esclusione/inclusione. Il fondamentalismo di mercato della globalizzazione - con l'esclusione economica che comporta - da' origine a una politica di esclusione. Questa viene rafforzata e sostenuta da partiti politici fautori del fondamentalismo, della xenofobia, della pulizia etnica e del rafforzamento del patriarcato e delle caste. La cultura della mercificazione ha portato a un aumento della violenza contro le donne in ogni sua forma, da quella domestica a quella sessuale, dall'aborto selettivo per i feti femminili alla tratta vera e propria. La globalizzazione, che nasce come progetto patriarcale, ha percio' rafforzato l'esclusione patriarcale. Le atrocita' commesse dalle caste superiori ai danni dei dalit (gli "intoccabili") si sono intensificate per via del nuovo potere conferito dalla globalizzazione alle caste superiori che hanno ottenuto l'accesso al mercato globale e puntano a usurpare i poveri e gli emarginati - soprattutto dalit e popolazioni tribali - per sfruttare le loro risorse a fini commerciali. Le leggi di riforma agraria che avevano reso inalienabile il diritto dei dalit alla terra, sono state revocate. Il devastante impatto sociale ed economico della globalizzazione colpisce in primo luogo le donne, i dalit, le popolazioni tribali e le minoranze in genere. Benche' nuovi movimenti di solidarieta' - come quello del popolo indiano contro l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) - stiano forgiando alleanze tra movimenti politici diversi, questi sono sottoposti al violentissimo attacco della politica dell'esclusione. L'insicurezza e le inevitabili ricadute della globalizzazione accrescono la vulnerabilita' dei cittadini nei confronti delle politiche che teorizzano l'esclusione. Per chi esercita o cerca il potere, la politica dell'esclusione sta diventando una necessita' politica: va a colmare il vuoto creato dalla crisi della sovranita' economica, del welfare state e di una politica fondata sui diritti economici per tutti, sostituendovi una politica dell'identita'. Per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi della globalizzazione - la mancanza di lavoro, di mezzi di sostentamento e di beni essenziali - il fondamentalismo e la xenofobia intervengono come strumento della globalizzazione capitalista. Dividono, distolgono e distraggono la gente garantendo al progetto di globalizzazione una sorta di immunita'. Una forma di nazionalismo culturale, brandito a sostegno della globalizzazione economica e della dittatura del capitale, va cosi' a sostituire la sovranita' economica e le idee di nazionalismo economico e di democrazia a essa collegate. * Gli indiani si sono ripetutamente espressi contro la globalizzazione e contro la liberalizzazione del commercio che crea dieci milioni di nuovi disoccupati ogni anno, impoverisce i contadini e toglie diritti a chi e' gia' emarginato. Tuttavia, nella campagna elettorale del 2002 in Gujarat, dopo il massacro di duemila musulmani, i politici hanno trascurato del tutto i problemi fondamentali dei cittadini per insistere sul conflitto tra maggioranza e minoranza. L'aritmetica ha garantito la vittoria al partito che aveva creato un solco tra maggioranza e minoranza e seminato odio e paura tra la popolazione civile con stupri e omicidi. Questo programma violento e settario e' attualmente in fase di sviluppo in vista di tutte le future consultazioni elettorali. E mentre erano in corso i massacri, e l'attenzione nazionale era concentrata sulle contromisure per frenare il conflitto tra comunita' e il fondamentalismo, il processo di globalizzazione ha subito una forte accelerazione. Si e' dato il via libera agli organismi geneticamente modificati; sono state modificate le leggi sui brevetti per consentire di brevettare gli esseri viventi; e' stata adottata una nuova politica dell'acqua basata sulla privatizzazione delle risorse, mentre altre politiche mirate sono andate a smantellare la sicurezza del lavoro e alimentare delle popolazioni. La legge finanziaria indiana del 2001 ha ulteriormente promosso gli obiettivi della globalizzazione sfruttando il diversivo del conflitto tra comunita' e fedi religiose per dare scacco all'opposizione democratica. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la guerra contro l'Iraq e' diventata un ottimo diversivo per distogliere l'attenzione da temi quali la crescita della disoccupazione e dell'insicurezza economica e ha promosso una politica dell'odio utile quale indiretto sostegno al fallimentare progetto della globalizzazione. * Abbiamo bisogno di una nuova politica di solidarieta' e di pace, che affronti al contempo la violenza e l'esclusione prodotte dalla globalizzazione, la violenza del terrorismo e del fondamentalismo e quella della guerra. Queste diverse forme di violenza e di fondamentalismo hanno radici comuni e richiedono percio' una risposta comune. La globalizzazione e' refrattaria al decentramento economico, alla democrazia economica e alla diversita' economica. Il terrorismo e il fondamentalismo non tollerano la diversita' culturale. E la macchina della guerra non ammette l'"altro" ne' la risoluzione pacifica dei conflitti. La nostra risposta alla globalizzazione deve proteggere le nostre diverse economie a livello nazionale e locale. La risposta al fondamentalismo consiste nel valorizzare le nostre diversita' culturali. La risposta alla guerra sta nel riconoscimento dell'"altro" non in quanto minaccia, bensi' come precondizione del nostro stesso essere. Immaginate quanto sarebbe diverso il mondo se si basasse su una filosofia di reciproca interdipendenza, invece che sulla filosofia attualmente dominante per cui l'esistenza dell'altro e' vista come minaccia alla propria. Se il presidente Bush riuscisse a vedere il Tigri, l'Eufrate e la civilta' mesopotamica come il luogo d'origine della sua stessa civilta', se solo riconoscesse le nostre comuni radici e la necessita' di un'evoluzione comune, non si darebbe cosi' tanto da fare per cancellare queste radici storiche con bombe teleguidate e armi di distruzione di massa. Se chi controlla il capitale riuscisse a capire che la propria ricchezza incorpora la creativita' della natura e la forza-lavoro umana, non stabilirebbe regole di mercato che distruggono la natura e le possibilita' di sopravvivenza delle persone. Il fondamentalismo del mercato, pero', e quello delle ideologie basate sull'odio e sull'intolleranza affondano le loro radici nella paura: paura dell'altro, delle sue capacita' e creativita', della sua autonomia e sovranita'. Attualmente assistiamo ai peggiori esempi di violenza organizzata dell'umanita' contro se stessa. E cio' accade perche' abbiamo perso di vista le filosofie che promuovono l'inclusione, la compassione e la solidarieta'. E' questa la conseguenza piu' grave della globalizzazione: la distruzione della nostra capacita' di essere umani. Recuperare la nostra umanita' e' indispensabile se vogliamo sperare di contrastare e sovvertire questo progetto inumano. Il dibattito sulla globalizzazione, in definitiva, non ha per tema il mercato ne' l'economia, bensi' la nostra coscienza di appartenere tutti all'umanita', nonche' il rischio di dimenticare quel che significa essere umani. 5. RIFLESSIONE. SILVIA ALBERTAZZI: LETTERATURA E CONDIZIONE POSTCOLONIALE [Dal quotidiano "Il manifesto" del 6 aprile 2008, col titolo "Voci postcoloniali. Geografie letterarie tra il mare la terra e la mente" e il sommario "Qualche considerazione a margine di un convegno che ha riunito a Venezia gli autori delle letterature del Commonwealth, entita' che Rushdie decreto' inesistente gia' un quarto di secolo fa. Dal teorico del Camerun Achille Mbembe alla poetessa indiana Meena Alexander, dal romanziere nigeriano Chris Abani alla scrittrice aborigena Alexis Wright". Silvia Albertazzi e' docente di letteratura inglese all'Universita' di Bologna. Tra le opere di Silvia Albertazzi: Il tempio e il villaggio. La narrativa indo-inglese e la tradizione britannica, Bologna, Patron, 1978; (con L. M. Crisafulli Jones), In viaggio nel racconto. Percorsi e prospettive della narrativa breve di lingua inglese, Urbino, QuattroVenti, 1992; Bugie sincere. Narratori e narrazioni 1970-1990, Roma, Editori Riuniti, 1992; La letteratura fantastica , Bari, Laterza, 1993; Translating India. Travel and Cross-Cultural Transference in Post-Colonial Indian Fiction in English, Bologna, Clueb, 1993; Nel bosco degli spiriti. Senso del corpo e fantasmaticita' nelle nuove letterature di lingua inglese, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 1998; (a cura di), Appartenenze. La scrittura delle donne di colore nelle letterature di espressione inglese, Bologna, Patron, 1998; Lo sguardo dell'Altro. Le letterature postcoloniali, Roma, Carocci, 2000; (a cura di, con Roberto Vecchi), Abbecedario Postcoloniale, Macerata, Quodlibet, 2001; (a cura di, con Roberto Vecchi), Abbecedario Postcoloniale 2, Macerata, Quodlibet, 2002; (a cura di, con Donatella Possamai), Postmodernism and Postcolonialism Padova, Il Poligrafo, 2002; (con Adalinda Gasparini), Il romanzo new global. Storie di intolleranza, fiabe di comunita', Pisa, Ets, 2003] Sono trascorsi venticinque anni da quando Salman Rushdie - il cui ultimo libro The enchantress of Forence e' appena uscito in Inghilterra - sconvolse l'establishment accademico inglese affermando: "la letteratura del Commonwealth non esiste". Un quarto di secolo e la situazione non sembra molto cambiata, se e' vero che alla fine di marzo, proprio una associazione internazionale che si riconosce nella sigla European Association for Commonwealth Literatures and Languages Studies, ha organizzato a Venezia un imponente convegno, con buona pace di Rushdie e del suo disgusto per la ghettizzazione degli autori provenienti dalle ex colonie britanniche. Eppure, a ben guardare, dopo cosi' tanti anni l'etichetta "letterature del Commonwealth" deve stare stretta anche alla maggior parte di chi le studia, se e' vero che gli organizzatori del convegno veneziano hanno scelto di riservare i momenti piu' importanti agli studi culturali, alla riflessione politica, alla teoria postcoloniale, mettendo cosi' in discussione non solo la connotazione eurocentrica implicita nella specificazione "del Commonwealth", ma anche, e piu' pericolosamente, la sua capacita' di accompagnarsi al concetto stesso di "letteratura". * L'ombra problematica di Fanon In un periodo alquanto difficile per gli studi letterari, gli accademici sembrano muoversi in direzione opposta rispetto alla strada proposta nel 1983 da Rushdie: si tratta, per l'intellettuale postcoloniale, di riaprire il futuro, usando il linguaggio come arma nella lotta per la liberta'. Bisogna, insomma - come dice Achille Mbembe, teorico tra i piu' acclamati, docente di storia e politica a Johannesburg - di ritrovare una voce per esplorare altri vernacoli, altre porzioni di realta', nel nome della liberta' di parola. L'accento e', dunque, sull'atto piuttosto che sull'immaginazione. Piu' volte invocata, la problematica ombra di Fanon torna non solo a rammentarci l'effetto corrosivo della condizione coloniale sul linguaggio, ma anche a ricordare l'esigenza di fare di ogni vittima un luogo di interpretazione e non una figura di pieta'. Prima ancora che riverberare sui testi letterari, il discorso si allarga alla comparazione con altri pronunciamenti teorici e altre situazioni traumatiche: Fanon rimanda a Senghor e a Aime' Cesaire, ma anche a Primo Levi e soprattutto a quell'affermazione di Jean Amery secondo cui la violenza rivoluzionaria non e' la levatrice della storia, ma dell'essere umano. Non stupisce che uno studioso emergente come Gil Anidjar, allievo di Edward Said alla Columbia University, attivista filopalestinese e autore del controverso volume The Jew, the Arab: A History of the Enemy (L'ebreo, l'arabo: storia del nemico), partendo dall'idea della "modernita' liquida" di Zygmunt Bauman possa teorizzare le culture della circolazione, il cui paradigma basilare - carico di molteplici pregnanze metaforiche - e' il sangue. Violenza-sangue-terrorismo: dopo l'11 settembre, quello che per Rushdie era il ghetto delle letterature del Commonwealth - la cui funzione gli sembrava quella di restringere il campo di pertinenza della letteratura inglese in senso topografico, nazionalista e perfino razzista e segregazionista - si identifica con lo scenario terroristico, in un ambiguo gioco epistemologico che, nella migliore delle ipotesi, vede la vita interpretare la letteratura. Cosi', a tutt'oggi, Adriana Cavarero puo' invocare una "riconcettualizzazione della lingua" che porti a esprimere il trauma dal punto di vista delle vittime, senza che nessuno si faccia carico di ricordarle come gia' molto prima dell'attacco alle torri gemelle la letteratura postcoloniale si proponesse di riscrivere la storia proprio dalla parte dei diseredati, inventando per fare cio' un linguaggio "altro", un linguaggio creativo. Ne' le e' stato fatto notare come la dicotomia violenza/cura, con cui propone di sostituire l'opposizione buono/cattivo, ovvero noi/altri, punto di arrivo della sua riflessione sull'orrorismo, si possa gia' trovare in versione narrativa: per esempio in un romanzo del 1992 del canadese Michael Ondaatje, quel bellissimo Paziente inglese che i non letterati ricordano nell'edulcorata versione hollywoodiana di Anthony Minghella. E allora non stupisce se Robert Young, teorico postcoloniale di lungo corso, autore di volumi ormai classici quali White Mythologies (edito da Meltemi) e Colonial Desire, ammonendo che il terrorismo non e' iniziato l'11 settembre ricorda che oggi, negli Stati Uniti, gli studi postcoloniali sono guardati con sospetto, come istituzioni filoterroristiche. Sul fondamento etico del diritto alla resistenza, e sulle conseguenti problematiche morali insite nel ricorso alla violenza, del resto, ritornano tutti i teorici. Patrick Williams, divulgatore inglese di rara chiarezza, si spinge addirittura a definire la Palestina un esempio di postcolonialismo non ancora realizzato e, indicando nell'azione violenta l'unico mezzo di visibilita' del popolo palestinese, cita a suffragio delle proprie opinioni una conferenza inedita di Sartre del 1964 e un articolo del 1972 in cui lo stesso pensatore francese giustifica, partendo dalle medesime premesse, l'attacco terroristico al villaggio olimpico di Monaco. * Tra teorici e scrittori E la letteratura? A tutta prima, sembra che il divario tra i teorici e gli scrittori sia netto. La poetessa indiana Meena Alexander, ormai cittadina newyorkese - look, mimica e pronuncia da signora bene di Park Avenue - alla domanda: "Perche' esiste la poesia?", risponde senza esitazione: "Per non morire di storia". La poesia, dunque, sarebbe un antidoto alla realta' quotidiana: il pericolo dell'escapismo e' in agguato. Ma poi, correggendo il tiro, Meena Alexander specifica che il compito della poesia in un mondo violento e' riconciliarci con la realta', non per accettarla supinamente, ma per aiutarci a esistere. La poesia, dunque, esisterebbe nonostante la storia, nonostante quella storia quotidiana di terrorismo e violenza su cui i teorici fondano le loro riflessioni. L'antitesi sembra netta: di qua la poesia, di la' il reale. La letteratura sarebbe un gesto nonostante il reale, non contro o per meglio conoscere la realta'. Per fortuna, alla lirica elegante di Alexander fa da controcanto il reggae rabbioso e ironico di Linton Kwesi Johnson, sempre elegantissimo quando, a conferma della sua carismatica somiglianza con Lester Bowie dell'Art Ensemble of Chicago, si presenta in completo bianco, cappello a larghe tese e pizzetto a punta. "Il terrore e' alla base di tutte le forme di dominazione. La paura e' al cuore della condizione umana", ha detto al convegno veneziano, continuando cosi': "Bisogna fare molta attenzione a come si usa il linguaggio, perche' e' attraverso il linguaggio che definiamo la nostra realta' e negoziamo la nostra umanita'". E Chris Abani, romanziere nigeriano residente negli Stati Uniti, autore di quattro raccolte di versi e cinque romanzi (tre dei quali, L'ambigua follia di Mr. Bloch, Abigail. Una storia vera e Graceland, sono stati tradotti in italiano, i primi due da Fanucci e l'ultimo da Terre di Mezzo), anche lui e' sulla stessa linea quando afferma di essere infastidito dalla generica definizione occidentale di "scrittore africano". "Il mio nome e' Chris Abani e sono Ibo: questo e' l'unico dono che l'America mi ha dato". Decisamente in contrasto con la posizione di Meena Alexander, Abani ricorda che "ogni cittadino dovrebbe essere un attivista, non solo - romanticamente - gli scrittori"; e dichiara di voler scrivere "opere sociali, non polemiche, che stabiliscano un dialogo etico, ma non offrano riposte morali, perche' queste sono le piu' facili da dare". Parlando di scrittura migrante e dei problemi dell'autore dislocato, Abani identifica nel linguaggio il mezzo per radicarsi nella nuova realta', evitando, pero', di trasformare la nostalgia per la terra lasciata alle spalle in narrazione sentimentale. "Il linguaggio e' il luogo dove la gente comunica", dice, "e' la mia casa, e casa, per me, come per Joyce, e' cercare un genitore assente". E anche se non riconosce nei grandi vecchi delle lettere africane i suoi "padri", rende loro omaggio ammettendo: "Posso essere lo scrittore che voglio perche' le generazioni precedenti mi hanno aperto la strada. E oggi, io sono il mio pubblico. Ho il privilegio di scrivere per me stesso e di correre per me grandi rischi. Come scrittore, devo pormi le questioni etiche di cui ho paura e questa e' la mia autenticita'. Come autore, mi sento responsabile solo della mia arte e della mia tecnica narrativa, tutto il resto mi compete come essere umano". * Diverse levature di autori Di fronte alla retorica vibrante e all'entusiasmo contagioso di Chris Abani, che ha pagato col carcere e la tortura le proprie idee e che ora considera l'America, dove ha scelto di stabilirsi, "confusa, incomprensibile e pretenziosa come Derrida", ma - al tempo stesso - "un posto magnifico per scrivere", una autrice come Kiran Desai sembrava scomparire, quando - sempre nel corso del convegno a Venezia - ha letto alcune pagine autobiografiche con un filo di voce. E a chi le rivolgeva qualche domanda ha risposto di faticare a concentrarsi perche', da brava scrittrice, passa la maggior parte delle sue giornate a lasciar vagare libera la mente. Nella contrapposizione tra l'imponente autore nigeriano, perseguitato in patria per le proprie opere, e la gracile vincitrice del Booker Prize, che lamenta il difficile ruolo dell'autore dislocato mentre mamma Anita seduta tra il pubblico la guarda con occhio trepido, si rende palpabile il divario tra uno scrittore di grande levatura umana e professionale e la diligente allieva di costosi corsi americani di creative writing. Questo stesso divario, con il suo corollario di differenza di classe e conseguenti diverse opportunita' sociali, appare ancora piu' evidente nelle parole della scrittrice aborigena australiana Alexis Wright, il cui strepitoso romanzo Carpentaria ha vinto il Miles Franklin Award, il maggior premio letterario australiano, nel 2007, ed e' attualmente in traduzione da Rizzoli (che fara' uscire il libro a giugno). Raccogliendo una "eredita' di storie intrecciate o ricordate", Wright ripropone la conoscenza degli antichi narratori della sua gente, ribadendo il diritto aborigeno alla terra attraverso una lunga relazione con il patrimonio folkloristico tradizionale. Per Wright, la letteratura e' "inscritta nella terra e scritta nella mente". "Sono le storie - ha detto la scrittrice - che hanno mantenuto in vita il mio popolo. Per questo ho voluto scrivere un romanzo in cui tutte le storie, quelle ancestrali degli antenati e quelle odierne di violenza sugli aborigeni, prendono vita". La letteratura, per Wright e' un'occasione per incontrare la gente, e l'antica tradizione della sua comunita' e' uno stato mentale. Alla fatidica domanda, "perche' scrivere? perche' la narrativa, la poesia, in un mondo di violenza e soprusi?", la sua risposta e': "perche' la gioia dell'immaginazione ci apre al futuro, ci permette di creare qualcosa, e di immaginare le differenze". * Dal nostro passato coloniale Forse non e' stato un caso che la sorpresa piu' rilevante del convegno promosso dalla Association for Commonwealth Literatures and Languages Studies sia stata riservata dalla sessione dedicata alla scrittura dell'Italia postcoloniale, apparentemente incongrua in un consesso votato a studiare le letterature delle ex colonie britanniche, appunto. Cosi', apprendiamo da un giovane dottorando indiano, Nathan Vetri, che il nostro e' un paese da considerarsi postcoloniale e "meticcio", in virtu' non solo della tarda unificazione nazionale, ma soprattutto dell'emigrazione interna, del divario tra nord e sud e, naturalmente, dell'impresa coloniale fascista. E dalla scrittrice italo-etiope Gabriella Ghermandi, di cui Donzelli ha da poco pubblicato il primo romanzo, Regina di fiori e di perle, una autrice capace di esporre la propria visione della scrittura attraverso una performance da consumata narratrice orale, apprendiamo che la letteratura e' davvero l'unico luogo dove il migrante puo' dare corpo alla sua doppia assenza - dalla casa trovata, dove e' considerato un diverso, e da quella lasciata, dove e' ritenuto fortunato per essere approdato al paese "del latte e miele". Ad esemplificazione del suo lavoro, Gabriella Ghermandi raccontava il ricordo della pioggia di Bologna richiamata alla memoria dalla polverosa Etiopia. E nell'ipnotico ripetersi del termine "water" chi la ascoltava, a Venezia, ha ritrovato l'eco di un altro racconto ritmato dall'evocazione all'acqua, che una scrittrice canadese, Aritha Van Herk, narratrice dei grandi spazi e delle Rocky Mountains, ha letto in queste stesse giornate: la storia di una prostituta che dal suo bordello sperduto nelle Montagne Rocciose sogna i canali di Venezia. In apparenza, niente di piu' lontano dalla griot Gabriella Ghermandi; in realta', una stessa immagine, dove figurano la vita, la femminilita', e soprattutto il segno di quella letteratura che e' un luogo universale in cui riconoscersi al di la' di ogni confine. * Postilla bibliografica: Una piccola bibliografia per orientarsi negli studi postcoloniali Il dibattito sugli studi postcoloniali e' assai animato, soprattutto nei paesi anglofoni, a partire dal 1985, anno in cui usci' il volume The Empire Writes Back, di Tiffin, Ashcroft e Griffiths. I teorici di maggior prestigio sono H. K. Bhabha (di cui Meltemi ha tradotto Nazione e narrazione e I luoghi della cultura), Gayatri C. Spivak (Meltemi ha pubblicato il suo Critica della ragione postcoloniale e Morte di una disciplina). Di Edward W. Said e' fondamentale Cultura e Imperialismo (Gamberetti). In italiano si possono trovare anche di Robert Young, Introduzione al postcolonialismo e Mitologie bianche; di Ania Loomba, Coloniale/postcoloniale; di Achille Mbembe, Postcolonialismo; di Stuart Hall, Il soggetto e la differenza (tutti presso Meltemi). Tra gli studi di area francofona: di Edouard Glissant, Poetica della relazione (Quodlibet) e Poetica del diverso (Meltemi). Di Francois Pare', Le letterature dell'esiguita' (Quodlibet). Tra i contributi italiani: Silvia Albertazzi, Lo sguardo dell'Altro (Carocci); e insieme a R. Vecchi, Abbecedario postcoloniale (Quodlibet); Ian Chambers, Paesaggi migratori, e Miguel Mellino, La critica postcoloniale (Meltemi). 6. PROPOSTE. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Dal sito www.nonviolenti.org riprendiamo e diffondiamo] Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di promozione sociale). Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione. Il codice fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235. Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 mille. Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato, la gratuita', le donazioni. I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del Movimento Nonviolento ed in particolare per rendere operativa la "Casa per la pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi estivi, eccetera). Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre quarant'anni con coerenza lavora per la crescita e la diffusione della nonviolenza. Grazie. Il Movimento Nonviolento * P. S.: se non fai la dichiarazione in proprio, ma ti avvali del commercialista o di un Caf, consegna il numero di codice fiscale e di' chiaramente che vuoi destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento. Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261 (corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno. * Per ulteriori informazioni e contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 7. STRUMENTI. IL "COS IN RETE" DI APRILE [Dall'Associazione nazionale Amici di Aldo Capitini (per contatti: l.mencaroni at libero.it) riceviamo e diffondiamo] Cari amici, vi segnaliamo l'ultimo aggiornamento di aprile 2008 del "Cos in rete", www.cosinrete.it Ricordando il Cos (Centro di orientamento sociale) di Capitini, il primo esperimento di partecipazione democratica alle decisioni del potere locale e nazionale, raccogliamo e commentiamo una scelta di quello che scrive la stampa sui temi capitiniani della nonviolenza, difesa della pace, liberalsocialismo, partecipazione al potere di tutti, controllo dal basso, religione aperta, educazione aperta, antifascismo. Tra gli altri, in questo numero ci sono: Mistiche e femministe; i sudditi europei e le basi americane; Arte e rifiuti, incontro felice; Omo nero, liste nere, camicie nere; ecc. La partecipazione al Cos in rete e' libera e aperta a tutti mandando i contributi all'indirizzo e-mail: capitini at tiscali.it o al blog del Cos: http://cos.splinder.com Il sito con scritti di e su Aldo Capitini e' www.aldocapitini.it 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 419 dell'8 aprile 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). L'informativa ai sensi del Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 ("Codice in materia di protezione dei dati personali") relativa alla mailing list che diffonde questo notiziario e' disponibile nella rete telematica alla pagina web: http://italy.peacelink.org/peacelink/indices/index_2074.html Tutti i fascicoli de "La nonviolenza e' in cammino" dal dicembre 2004 possono essere consultati nella rete telematica alla pagina web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/ L'unico indirizzo di posta elettronica utilizzabile per contattare la redazione e': nbawac at tin.it
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