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Minime. 398
- Subject: Minime. 398
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Tue, 18 Mar 2008 00:44:01 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 398 del 18 marzo 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Severino Vardacampi: Votare occorre 2. Federico Rampini: Se prevale la realpolitik 3. Anna Nadotti presenta "I giorni dell'amore e della guerra" di Tahmima Anam 4. Benedetto Vecchi presenta "Paura liquida" di Zygmunt Bauman e "Una sociologia della globalizzazione" di Saskia Sassen 5. Benedetto Vecchi: Come Bauman interpreta i reality show 6. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. SEVERINO VARDACAMPI: VOTARE OCCORRE Alle elezioni politiche votare occorre. Votare occorre. Contro la guerra e contro il razzismo. Votare occorre. Contro i governanti fuorilegge responsabili della morte di tante persone innocenti in Afghanistan e nel Mediterraneo. Votare occorre. Per contrastare il regime della corruzione e la nuova barbarica destra che ha ormai inglobato anche quell'ex-sinistra che ha governato negli ultimi due anni. Votare occorre. Per quelle liste e quelle persone candidate - se ve ne sono - che abbiano dato prova di difendere la legalita' costituzionale, di opporsi alla guerra e al razzismo, di aver scelto le ragioni dell'ecologia, del femminismo, della nonviolenza, di essere hic et nunc parte della sinistra necessaria: quella che difende i diritti umani di tutti gli esseri umani, quella che si oppone ad ogni menzogna e ad ogni violenza. Votare occorre. Per non lasciare l'amministrazione della cosa pubblica nelle sole mani dei cannibali. Votare occorre. Se appena e' possibile. Se appena e' possibile. 2. TIBET. FEDERICO RAMPINI: SE PREVALE LA REALPOLITIK [Dal quotidiano "La Repubblica" del 17 marzo 2008. Federico Rampini (Genova, 1956), giornalista e saggista, e' stato allievo di Raymond Aron all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e di Mario Monti all'Universita' Bocconi di Milano; ha iniziato la sua attivita' di giornalista nel 1977 a "La citta' futura", poi a "Rinascita", "L'Espresso", "Mondo Economico"; in seguito e' stato vicedirettore de "Il Sole 24 Ore"; poi capo della redazione milanese ed in seguito editorialista e inviato del quotidiano "La Repubblica" a Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino; ha collaborato come opinionista a "Le Figaro", "L'Express" e "Politique etrangere" in Francia; ha insegnato alle universita' di Berkeley e Shanghai; e' consulente dell'Institut Francais des relations internationales; membro del comitato scientifico della rivista "Critique Internationale" pubblicata dalla Fondation Nationale des Sciences Politiques di Parigi, e della rivista italiana di geopolitica "Limes". Opere di Federico Rampini: La germanizzazione. Come cambiera' l'Italia, Laterza, 1996; (con Massimo D'Alema), Kosovo, Mondadori, 1999; New Economy. Una rivoluzione in corso, Laterza, 2000; Dall'euforia al crollo. La seconda vita della New Economy, Laterza, 2001; Effetto Euro, Longanesi, 2002; Le paure dell'America, Laterza, 2003; Tutti gli uomini del Presidente. George W. Bush e la nuova destra americana, Carocci, 2004; San Francisco-Milano, Laterza, 2004; Il secolo cinese. Storie di uomini, citta' e denaro dalla fabbrica del mondo, Mondadori, 2005; L'ombra di Mao. Sulle tracce del Grande Timoniere per capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo, Mondadori, 2006; L'impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi di persone, Mondadori, 2006; La speranza indiana. Storie di uomini, citta' e denaro dalla piu' grande democrazia del mondo, Mondadori, 2007] L'indignazione internazionale per il calvario del Tibet, le manifestazioni in tutto il mondo davanti alle ambasciate cinesi non impressionano i leader di Pechino. Con la feroce repressione della rivolta, che ora si estende a tutte le zone del "Tibet etnico" amputate dopo l'invasione militare del 1950, il regime cinese corre un rischio calcolato. Il presidente Hu Jintao e il suo gruppo dirigente sono convinti che nelle relazioni con il resto del mondo pagheranno un prezzo modesto per l'orrore di questi giorni. E' probabile che abbiano ragione. La Cina e' un colosso che le altre nazioni trattano con i guanti. * Tra i governi occidentali le logiche della realpolitik sembrano prevalere sulla solidarieta' umanitaria. Perfino una potenza ultraterrena come la chiesa cattolica brilla per i suoi silenzi. Ieri il papa ha condannato le guerre nel mondo ma non ha parlato del Tibet. Il Vaticano ha in corso un negoziato per riallacciare i rapporti diplomatici con Pechino; esita a prendere una posizione sul Tibet che potrebbe compromettere questo storico obiettivo. * In fatto di cautela e' una bella gara. Nelle stesse ore in cui stava nascendo la protesta a Lhasa, Washington annunciava di aver tolto la Repubblica popolare dalla lista nera dei dieci paesi accusati dei peggiori abusi contro i diritti umani. Un infortunio, una coincidenza infausta ma tutt'altro che sorprendente. Anche se gli Stati Uniti considerano la Cina come il rivale strategico in grado di sfidare la loro egemonia planetaria, negli ultimi anni hanno accresciuto la loro dipendenza dal gigante asiatico. Hanno goduto dello "sconto cinese", l'invasione di prodotti a basso costo che hanno limitato l'inflazione e hanno sostenuto il potere d'acquisto dei consumatori. L'esplosione del debito americano e' stata finanziata da Pechino: la banca centrale cinese "ricicla" l'immenso attivo commerciale acquistando buoni del Tesoro Usa; ha le casseforti piu' ricche del pianeta con 1.550 miliardi di dollari di riserve valutarie. Nella crisi che scuote il sistema bancario mondiale, gli americani sono stati i primi ad accogliere a braccia aperte gli investitori cinesi come "cavalieri bianchi" nel capitale dei loro istituti di credito, da Bear Stearns a Morgan Stanley. Non e' facile ora fare la voce grossa contro chi siede nei tuoi consigli d'amministrazione. Anche la politica estera di Washington ha qualche debito. Se la Filarmonica di New York ha potuto giocare alla "diplomazia del violino" a Pyongyang, e' perche' la Cina ha convinto il vassallo nordcoreano a congelare (per ora) i suoi piani nucleari. Avendo due conflitti aperti, con sollievo Bush ha depennato il dittatore Kim Jong Il dall'"asse del male". * Gli europei non sono da meno. Ricordiamo l'ultimo viaggio del Dalai Lama nel nostro continente. Salvo Angela Merkel, i governi europei evitarono di riceverlo. Non fece eccezione quello italiano, e neppure Benedetto XVI: tutti preoccupati di non irritare Pechino. La Repubblica popolare e' diventata ormai il principale partner commerciale dell'Europa, scalzando gli Stati Uniti da un ruolo storico che avevano avuto per mezzo secolo. Al di la' delle periodiche minacce protezioniste, agitate da politici demagoghi in cerca di voti, nessuno puo' fare seriamente a meno del made in China. Nei prodotti hi-tech come i computer e i telefonini la Cina e' diventata un quasi-monopolista, indispensabile e insostituibile. Le fabbriche elettroniche e informatiche sono state in larga parte smantellate dai paesi europei e non torneranno indietro. Se smettessimo di comprare cinese tutto si fermerebbe, perche' non siamo piu' in grado di produrre molti beni essenziali. E' sintomatico che di fronte alla tragedia del Tibet l'unico dibattito in Occidente e' sull'opportunita' di boicottare le Olimpiadi di Pechino. E' un'ammissione implicita: il solo danno che possiamo immaginare di infliggere alla Cina e' sul piano simbolico. * Naturalmente l'interdipendenza e' reciproca. Il regime cinese sa che il formidabile sviluppo economico degli ultimi anni e' stato trainato dalle esportazioni. Il presidente Hu Jintao e la nuova leva di dirigenti tecnocratici non sottovalutano l'importanza delle buone relazioni con il resto del mondo. Ma hanno una loro visione delle priorita' e delle poste in gioco. Per quali ragioni la Cina tiene cosi' tanto al Tibet, come si spiega la determinazione con cui controlla questa immensa nazione montagnosa, semidesertica e per lungo tempo inaccessibile? In primo luogo, storicamente, per il ruolo di protezione strategica in vista di un possibile conflitto con l'India o altre potenze presenti nell'Asia centrale (dalla Russia agli stessi Stati Uniti). Piu' di recente per la scoperta di giacimenti di energia, materie prime e metalli rari che sono risorse preziose per l'industria delle zone costiere. Una volta riscritti i manuali di storia, dopo aver indottrinato generazioni di cinesi sul fatto che il Tibet e' "sempre" stato loro, come Hong Kong e Taiwan, ecco subentrare il nazionalismo, la memoria dell'onore ferito dalle aggressioni imperialiste dell'Ottocento e del primo Novecento. Infine vi e' la battaglia sul controllo egemonico della religione. Ci sono 150 milioni di buddisti praticanti in Cina, incoraggiati dallo stesso regime a riscoprire nei culti antichi le radici di un'identita' nazionale. Pechino intende affermare che ogni manifestazione religiosa e' ammissibile solo se sottomessa alla supremazia del regime comunista; percio' un leader buddista autonomo come il Dalai Lama e' il male assoluto, l'avversario con cui non si scende a patti. Il regime cinese e' disposto a subire un peggioramento temporaneo della sua immagine nel mondo, pur di affermare che il Tibet e' una questione domestica, e che nel suo nuovo status di superpotenza globale Pechino non accetta lezioni di diritti umani o altre "interferenze". Certo quel che sta accadendo manda in frantumi la visione di una confuciana societa' armoniosa, che Hu Jintao predica come modello della convivenza interna e delle relazioni internazionali. A lungo termine la Cina dovra' accorgersi che le ambizioni neoimperiali devono reggersi anche sul "soft power", la capacita' di esportare fiducia, di proiettare valori. Ma nel lungo termine chissa' cosa sara' rimasto del popolo tibetano. Per ora le ragioni del cinismo, della prudenza e dell'opportunismo sono destinate a prevalere. 3. LIBRI. ANNA NADOTTI PRESENTA "I GIORNI DELL'AMORE E DELLA GUERRA" DI TAHMIMA ANAM [Dal quotidiano "Il manifesto" del 9 marzo 2008, col titolo "Un intreccio bengalese scritto da Tahmima Anam" e il sommario "Ambientato durante la resistenza contro l'invasione pakistana, il romanzo, tradotto da Garzanti con il titolo I giorni dell'amore e della guerra, restituisce la familiarita' con il cinema della giovane autrice bengalese". Anna Nadotti, studiosa di letteratura inglese e anglo-indiana, traduttrice e consulente editoriale di Einaudi, si occupa di scrittura delle donne con particolare interesse per le fonti letterarie delle loro storia; collabora con le riviste "L'Indice", "Lapis", "Garage". Su Anna Nadotti da "Rai news 24", riprendiamo la seguente scheda: "Anna Nadotti si definisce lettrice, traduttrice e consulente editoriale. Ma queste tre funzioni, o passioni, non bastano a dire chi e'. Nella sua vita e nella sua formazione hanno inciso il cinema, il jazz, la poesia e le arti figurative, soprattutto la pittura, e contribuiscono non poco alla sua attivita' di traduttrice. La sua passione per l'India l'ha portata a scandagliare con attenzione la letteratura contemporanea per proporre agli editori italiani autori e testi. Tra le sue traduzioni, tutte dall'inglese, quelle dei libri di Amitav Ghosh, di Anita Desai, di Satyajit Ray, Nayantara Sahgal e Vikram Chandra. Ha curato la scelta e la traduzione dei racconti di Mahasweta Devi. Sue anche le traduzioni dei testi della scrittrice inglese Antonia S. Byatt, delle introduzioni ai libri della Bibbia della Piccola Biblioteca Einaudi e di alcuni testi per ragazzi. Fa parte della redazione del mensile 'L'Indice' e collabora con il quotidiano 'Il manifesto', la Scuola Holden e l'Aiace di Torino, la Libera Universita' delle Donne di Milano e la rivista letteraria indiana 'Biblio'. Opere di Anna Nadotti: Oltre alle traduzioni Anna Nadotti e' autrice di: "Andate e ritorni dall'India (traduttrice per caso)", in S. Bassi, S. Bertacco, R. Bonicelli (a cura di), In That Village of Open Doors. Le nuove letterature crocevia della cultura moderna, Cafoscarina, Venezia 2002; "Fuori canone. Letterature, cinema, video nell'India contemporanea: una mappa impossibile", in Emanuela Casti e Mario Corona (a cura di), Luoghi e identita'. Geografie e letterature a confronto, Bergamo University Press - Edizioni Sestante, Bergamo 2004; "Sognando Beckham", in AA. VV., Donne sullo schermo, Aiace-Celid, Torino 2003; "Il punto di vista di Jo: uno sguardo sbieco su se stesse e il mondo", in AA. VV., Ragazze e ragazzi nel cinema contemporaneo, Aiace, Torino 2004". Tahmima Anam e' nata a Dhaka, in Bangladesh, nel 1975; e' cresciuta tra Parigi, New York e Bangkok; attualmente vive a Londra; ha studiato ad Harvard dove si e' laureata in antropologia sociale; ha pubblicato articoli e racconti su "The new Statesman" e "Granta". I giorni dell'amore e della guerra (Garzanti, Milano 2008) e' il suo primo romanzo] Romanzo d'esordio di Tahmima Anam, I giorni dell'amore e della guerra (Garzanti, trad. di Barbara Bagliano, pp. 380, euro 15,81), che si annuncia come il primo di una trilogia, ci arriva dal lontano paese che era ancora India fino al 1947, poi Pakistan orientale fino al 1971, e da allora e' Bangladesh. Bene ha fatto l'editore ad anteporre alle pagine scritte una mappa, che anticipa visivamente i luoghi, le divisioni, i confini, aiutando chi legge ad ambientarsi in uno spazio tutt'altro che esotico per i modi in cui vi sono stati praticati violenze e arbitri territoriali. Meno bene ha fatto, invece, a cambiare l'evocativo titolo originale, The Golden Age. Ogni "eta' dell'oro" che si rispetti e' necessariamente il prodotto di una memoria rielaborata, memoria di amori, guerre, affetti, dolori che hanno lasciato segni a volte indelebili, e che un essere umano - qui la protagonista Rehana Haque - riporta faticosamente in superficie e infine racconta, chiarendo con la sua vicenda personale che i giorni dell'amore - o meglio degli amori - e quelli della guerra spesso coincidono. Proprio questo, del resto, interessa a Tahmima Anam: narrare il difficile intreccio che vede, ad ogni latitudine e con preoccupante frequenza, donne e uomini qualunque, con la loro casa, le loro piccole certezze, lavoro, figli, amici, risucchiati all'improvviso nel gorgo di violenze inaudite, sparizioni, torture, disprezzo. "A poco a poco la citta' si adatto' all'occupazione... ai carri armati... al silenzio, un silenzio immobile, inquietante, interrotto due volte al giorno dalla sirena del coprifuoco, per il resto regnava una quiete spettrale, e solo il fruscio degli alberi e l'afa di aprile segnavano il confine tra il giorno e la notte". Affacciandosi ogni mattina su un panorama consueto e che tuttavia non riconoscono, questi uomini e queste donne si vedono costretti a capire quanto sta succedendo e a scegliere da che parte stare, talvolta rendendosi piu' o meno protagonisti. Proprio questo, infatti, accade a Rehana, la cui vicenda si ispira a quella della nonna della scrittrice. Rimasta vedova giovanissima, nel 1971 - durante la guerra per l'indipendenza del Bangladesh - questa donna decise di affiancare i figli nelle loro scelte politiche aprendo la sua casa di Dacca ai militanti in clandestinita' e lavorando nei campi profughi appena oltre confine, nella meta' del Bengala assegnato all'India dall'assetto politico postcoloniale. L'atmosfera bengalese filtra nelle righe di questo romanzo, uno dei primi che ci arriva dal Bangladesh, rimandandoci ai profondi legami culturali, linguistici, sociali spezzati dalla partizione dell'India nel 1947. E la Dacca di Thamima Anam ci rinvia a Calcutta tanto quanto la Calcutta delle Linee d'ombra di Amitav Ghosh ci rinviava a Dacca. Nei giovani militanti idealisti che perdono la vita su un confine fin troppo recente, o torturati da un esercito che sembra passato indenne attraverso successivi rovesciamenti di nazionalita', si sente l'eco delle narrazioni di Mahasweta Devi, in particolare di un suo romanzo non tradotto in Italia, Mother of 1084, in cui il vuoto lasciato dalla madre viene raccontato sullo sfondo delle prime lotte naxalite (di ispirazione maoista). Del libro di Thamima Aman fa parte, tra l'altro, una specifica consapevolezza non solo della storia ma anche del portato storico delle lingue, della loro forza, del loro potere. In quello strano paese che fu il Pakistan tra il '47 e il '71 - due grandi orecchie sulla testa dell'India - si parlavano di fatto due lingue. "Fin dal '48 le autorita' pakistane avevano regnato sulla zona orientale del paese come su una colonia. Per prima cosa aveva cercato di costringerli tutti a parlare urdu, anziche' bengali". Grazie, dunque, alla sua sensibilita' per le lingue, la protagonista sente istintivamente quale sia meglio usare, e in piu' occasioni e' la scelta dell'urdu piuttosto che quella del bengali a salvarla, entrambe padroneggiate con eguale competenza: un aspetto del libro, questo, che rinvia a certe figure di Anita Desai, anche loro salvate o uccise da una lingua. L'originalita' della vena narrativa di Tahmima Aman, distante dai troppi romanzi sentimentali che ci vengono propinati ultimamente (si direbbe che gli agenti letterari occidentali facciano a gara nello scoprire romanzi che sembrano piuttosto modeste sceneggiature per il cinema hindi), sollecita l'intraccio con i fili di una eredita' al tempo stesso nutrita e vivace, una eredita' resa tanto piu' interessante dal fatto che l'autrice vive perlopiu' a Londra e ha solo trent'anni. E la lettura del suo romanzo ci restituisce una continua percezione visiva dei fatti narrati e un collocarsi dei corpi negli spazi descritti tale che viene naturale attribuirla a una sicura competenza cinematografica. La protagonista Rehana, per esempio, esce di casa con lo stesso affanno e la stessa determinazione di Anna Magnani in Roma citta' aperta, pefino con il suo stesso portamento. Se si puo' supporre una immagine materna protettiva alle spalle di questa narrazione, essa sembra rimandare al neorealismo, al bianco e nero che peraltro sembra essere il colore dei sogni di Rehana, quando hanno inizio i disordini e i suoi figli entrano nella resistenza. Del resto, il cinema ha accompagnato tutta la vita della protagonista, che quando deve affrontare il silenzio immobile di un interrogatorio cerca "di pensare alle melodie dei vecchi film che vedeva con suo padre". Del resto, negli anni in cui e' racchiusa la storia narrata nel romanzo, dal '59 al '71, in tutto il mondo si vedevano piu' o meno gli stessi film, e l'insistenza della autrice su questo tema potrebbe venire letta come una sua dichiarazione di principio: dopotutto, Jean Renoir e Satyajit Ray si incontrarono sulle rive del Gange. Nel romanzo di Thamima Anam la critica anglosassone ha colto, giustamente, lo sguardo della donna sui conflitti e sul fondamentalismo, la capacita' di dare voce alle protagoniste, di cogliere usanze e comportamenti altrimenti destinati all'invisibilita'; ma ancora piu' importante e' lo sguardo generazionale sui fatti, le fonti utilizzate e i rimandi simbolici, che dicono di una generazione cresciuta dentro un immaginario segnato, piu' o meno consciamente, dal linguaggio filmico e dalla capacita' di traslarlo in narrazione, oltrepassando - proprio come succede nel romanzo di Tahmima Anam - malintesi confini e differenze fittizie. 4. LIBRI. BENEDETTO VECCHI PRESENTA "PAURA LIQUIDA" DI ZYGMUNT BAUMAN E "UNA SOCIOLOGIA DELLA GLOBALIZZAZIONE" DI SASKIA SASSEN [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 marzo 2008, col titolo "Il magico realismo di chi chiede l'impossibile" e il sommario "La globalizzazione secondo Zygmunt Bauman e Saskia Sassen. Due saggi per comprendere un fenomeno irreversibile che continua a destrutturare le forme di vita contemporanee. Il pessimismo della ragione dello studioso polacco alle prese con la paura, mentre un sorvegliato ottimismo della volonta' porta l'autrice di Citta' globali a guardare ai movimenti sociali come risorsa per fronteggiare il neoliberismo". Benedetto Vecchi e' redattore delle pagine culturali del quotidiano "Il manifesto"; nel 2003 ha pubblicato per Laterza una Intervista sull'identita' a Zygmunt Bauman. Zygmunt Bauman, illustre sociologo, intellettuale democratico, ha insegnato a Varsavia, a Tel Aviv e Haifa, a Leeds; e' il marito di Janina Bauman. Opere di Zygmunt Bauman: segnaliamo almeno Cultura come prassi, Il Mulino, Bologna 1976; Modernita' e olocausto, Il Mulino, Bologna 1992, 1999; La decadenza degli intellettuali, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Il teatro dell'immortalita', Il Mulino, Bologna 1995; Le sfide dell'etica, Feltrinelli, Milano 1996; La societa' dell'incertezza, Il Mulino, Bologna; Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 1999; Voglia di comunita', Laterza, Roma-Bari 2001; Modernita' liquida, Laterza, Roma-Bari 2002; Intervista sull'identita', Laterza, Roma-Bari 2003; La societa' sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2003; Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005; Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006; L'Europa e' un'avventura, Laterza, Roma-Bari 2006; Lavoro, consumismo e nuove poverta', Citta' aperta, Troina (Enna) 2007; Homo consumens, Erickson, Trento 2007; Modus vivendi, Laterza, Roma-Bari 2007; Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008. Saskia Sassen e' una prestigiosa sociologa olandese, docente in varie universita' americane. Tra le opere di Saskia Sassen: Citta' globali, Utet, Torino 1997; Fuori controllo, Il Saggiatore, Milano 1998; Le citta' nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 1998; Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli, Milano 1999; Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002; Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino 2008. Dalla medesima fonte di questa intervista riportiamo anche la seguente scheda su saskia Sassen: "La bibliografia di Saskia Sassen riempie molto piu' che uno scaffale. Tra libri, saggi e papers ha scritto di citta' globali, migranti, globalizzazione, classe operaia, femminismo. Nata in Olanda, ha studiato nel suo paese, per poi spostarsi in Italia, America Latina, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, dove insegna all'Universita' di Chicago. Il suo volume piu' noto e' Citta' globali, pubblicato in Italia da Utet. 'Sono partita da tre citta' globali - Tokyo, New York e Londra - ora oltre 40 metropoli possono essere definie globali', ripete divertita. In Italia sono stati pubblicati. Le citta' globali nell'economia globale (Il Mulino). Fuori controllo, Globalizzati e scontenti (entrambi dal Saggiatore), Migranti, coloni, rifugiati (Feltrinelli). Per il prossimo inverno e' prevista l'uscita, presso Einaudi, di Una sociologia della globalizzazione. Mentre per il 2008, dovrebbe uscire l'edizione italiana di Territory, Authority, Rights: From Medieval to Global Assemblages". Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 marzo 2003 riprendiamo la seguente presentazione di Saskia Sassen (scritta da Benedetto Vecchi): "Saskia Sassen, olandese di nascita, ha passato la sua prima giovinezza in Argentina, trasferendosi poi in Italia per approdare, infine, negli Usa, dove insegna all'Universita' di Chicago e alla Columbia University di New York. Ma il suo nomadismo intellettuale la porta spesso in Italia, in Francia e in Inghilterra. Attivista da sempre nella "nuova sinistra" e' pero' poco incline al dogmatismo che caratterizza spesso il pensiero critico statunitense. Il suo nome e' divenuto famoso per un saggio sulle Citta' globali, una analisi particolareggiata del ruolo di New York, Londra, Tokyo nell'economia globale (il libro e' stato pubblicato dalla Utet). La tesi centrale del volume e' che in alcune citta' si sono concentrati alcuni servizi finanziari, legali, di progettazione organizzativa, di ricerca e sviluppo che sono indispensabili, per coordinarlo, a un processo produttivo disseminato potenzialmente in tutto il pianeta. Proprio per questi motivi, nelle citta' globali la 'polarizzazione sociale' raggiunge il suo acme. Saskia Sassen ha in seguito applicato questa griglia analitica a molte altre citta', come San Paolo, Miami, Singapore, Honk Hong nel libro Le citta' nell'economia globale (Il Mulino). Oltre a questo tema, uno degli argomenti da lei studiati e' la crisi delle sovranita' nazionali nell'economia mondiale (Losing control, tr. it.: Fuori controllo, Il Saggiatore) e le conseguenze sociali della globalizzazione economica (Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore). Ed e' all'interno di questo argomento che e' maturato il suo interesse per il ruolo delle migrazioni nello sviluppo economico europeo (Migranti, coloni, rifugiati. Dall'emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli), dove il migrante diventa la figura simbolica della globalizzazione economica"] La recessione che sta coinvolgendo gran parte delle economie nazionali si sta diffondendo come un virus e ha come vettore i flussi del capitale finanziario. Per questo e' impossibile prevedere le coordinate della diffusione del "contagio". Ma uno degli effetti certi della recessione e' l'aumento dell'incertezza e della precarieta', che a loro volta alimentano la paura, il sentimento dominante nelle societa' capitaliste da alcuni lustri, da quando cioe' il neoliberismo ha preso il posto del welfare state. Mettere pero' la paura, che generalmente viene considerato un sentimento individuale, in relazione con un modo di regolazione della vita sociale e' un'operazione che necessita di alcune chiarimenti preliminari, come sottolinea con la consueta chiarezza lo studioso di origine polacca Zygmunt Bauman nel suo ultimo saggio Paura liquida (Laterza, pp. 233, euro 15). Non e' certo la prima volta che Bauman scrive sul welfare state come la forma piu' avanzata di stato che si prende cura dei propri sudditi. E se il Levitano di Thomas Hobbes altro non era che il necessario mostro posto a guardia del vivere in societa', lo stato sociale doveva porre, secondo Bauman, la societa' al riparo delle tendenze distruttive dell'economia di mercato. I trent'anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale sono quindi il periodo in cui la paura viene alfine "addomesticata", attraverso una relativa stabilita' del lavoro, la possibilita' di accedere a un servizio sanitario nazionale, e affrontare l'autunno della propria vita con relativa tranquillita' grazie alla pensione. Ma il welfare state non doveva consentire solo di poter ragionevolmente prevedere e programmare il proprio futuro, ma doveva intervenire allorche' impreviste contingenze - un terremoto, un'inondazione o altri disastri dovuti alla manipolazione umana della natura - potessero essere affrontate. Il welfare state doveva cioe' socializzare il sentimento della paura. Cosi' facendo, lo stato sociale portava a compimento quel progetto di "buona societa'" che, abbozzato da Thomas Hobbes appunto nel Leviatano, e' stato il demone con cui le societa' capitalistiche hanno dovuto sempre fare i conti. * Un virus ingovernabile La ricostruzione dello sviluppo del welfare state svolta da Zygmunt Bauman pecca sicuramente di una concezione storicista che lo porta a tracciare una linea di continuita' tra la formazione dello stato moderno e la formazione del welfare state, relegando in secondo piano i momenti di discontinuita' nella modernita' capitalistica - in primis il conflitto operaio -, ma coglie con acume nell'"addomesticamento" della paura il maggiore fattore di legittimita' dello stato sociale in quelle societa' uscite terrorizzate dalla seconda guerra mondiale, dalla Shoah e dalla prima esplosione di un'arma, la bomba atomica, che poteva cancellare la vita sull'intero pianeta. Paura liquida non e' pero' l'ennesimo trattato sul declino del welfare state. Il suo pregio maggiore e' quando svela la relazione di causa ed effetto tra la crisi di quella costituzione materiale e la rinnovata "privatizzazione" della paura, sentimento che chiede tuttavia di essere nuovamente socializzato attraverso la costituzione di una "societa' del controllo" per prevenire le minacce alla vita privata. Cosi', mentre vengono demolite una dopo l'altra le istituzioni del welfare state, gli strumenti per difendersi dall'incertezza e dalla precarieta' vanno acquistati al mercato della protezione sociale. Altro elemento condivisibile di questo saggio e' quando l'autore pone la fonte dell'incertezza, e dell'accresciuta precarieta' delle condizioni sociali, al di fuori dei confini nazionali, lo spazio entro il quale invece si e' sviluppato il welfare state. Zygmunt Bauman ritorna quindi a guardare alla globalizzazione come il virus che diffondendosi, alimenta la paura e la conseguente impotenza nell'affrontarla, visto che e' quasi impossibile individuare la sua fonte primaria, dato che ogni volta che si pensa di averla individuata ci si trova persi in un labirinto di specchi che riflettono l'immagine di un uomo o di una donna soli di fronte a se stessi. Libro amaro, disincantato, vero e proprio esercizio di pessimismo della ragione e della volonta', questo di Bauman, che ha come un contraltare il saggio Sociologia della globalizzazione (Einaudi, pp. 304, euro 21,50) scritto da Saskia Sassen, che e' da considerare espressione di un sorvegliato ottimismo della ragione per quanto riguarda la stato delle cose, individuando nei movimenti sociali globali il contesto in cui la paura puo' trovare risposte. Due libri opposti, anche nello stile: pacato, riflessivo, "narrativo" quello di Bauman, assertivo e algido quello della Sassen. Ma sono tuttavia analisi e riflessioni complementari per comprendere lo stato dell'arte della globalizzazione, che continua in quella opera di destrutturazione della vita associata, tanto nel Nord che nel Sud del pianeta, nonostante la recessione faccia emergere aspetti contraddittori, come la cosiddetta "rinazionalizzazione" dell'economia, che rendono l'enfasi sul "mondo piatto" neoliberista del saggista statunitense Thomas L. Friedman un'espressione priva di fondamento. La globalizzazione e' infatti un fenomeno contraddittorio, che presenta tendenze tra loro configgenti, ma comunque irreversibile. I saggi di Bauman e Sassen sono, rispettivamente, un'accurata analisi di come l'economia mondiale trasformi profondamente i sentimenti e un affresco delle tendenze sul piano globale, assumendo con questo termine le gerarchie, i legami e i flussi tra il piano sovranazionale, nazionale, regionale e locale. * Una lotta di lunga durata Dunque, le societa' capitaliste trasudano paura con la conseguente paralisi del fare. Paura di non riuscire piu' a prevedere cosa accadra' nell'immediato futuro, sia che si tratti della perdita del lavoro che di un rapporto amoroso. Ma anche timore che il fragile equilibrio che viene faticosamente conquistato sia mandato in frantumi dall'arrivo di "stranieri", una presenza percepita come aliena e ostile. Infine, l'impossibilita' di prevedere ragionevolmente gli effetti dell'azione umana sulla natura, che torna a mostrare il suo volto ferino, come ha dimostrato l'uragano Katrina negli Stati Uniti. Infine, la paura di aver paura. Tutti fattori che vanno a comporre quella tassonomia di sentimenti che si accompagnano ad essa: disincanto, cinismo, opportunismo e rancore. Nelle societa' moderne, ma come e' noto Bauman preferisce parlare di "modernita' liquida", "la vita e' ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l'impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo". Questa guerra permanente alla paura riflette, va da se', le diseguaglianze sociali e di classe presenti nelle societa'. Le strategie di contenimento della paura sono infatti diversificate a seconda dei livelli di reddito che seguono rigorose differenze di classe, che alimentano a loro volta un'altra paura, quella di essere esclusi. Tutto cio' provoca, piu' che uno "stato di emergenza" un terrore di un generalizzato "stato di incolumita' personale". Da qui il successo dei messaggi tranquillizzanti, seppur minacciosi verso le fonti di volta in volta individuate della paura lanciati dai movimenti politici su base religiosa o da quelli xenofobi e razzisti. Ma e' questo anche il contesto che consente il dispiegarsi di "politiche della vita", che oscillano tra misure prescrittive e normative dei comportamenti individuali stabilite dallo stato e una complementare cancellazione dei diritti sociali della cittadinanza, ritenendo la protezione di fronte all'economia di mercato un fatto privato. Un vecchio adagio sosteneva che con il capitalismo industriale la pieta' e' morta. Nella modernita' liquida di Bauman c'e' solo spazio per la sussidiarieta', cioe' l'acquisto al mercato degli strumenti per quei servizi, beni, protezioni che possono rendere tollerabile la convivenza con la paura. E, sebbene la paura sia un sentimento globale, il suo "addomesticamento" avviene ancora su scala locale. Paura liquida termina la' dove prende avvio il saggio sulla globalizzazione di Saskia Sassen. Nonostante il tono apodittico che lo contraddistingue e' un libro utile a dipanare appunto la matassa del rapporto tra globale e locale. In primo luogo, la studiosa respinge decisamente la tesi secondo la quale con la globalizzazione lo stato-nazione viene cancellato. Semmai, e' il suo operato che viene modificato, perche' lo stato-nazione diventa il "dominio strategico nel quale si compie un lavoro fondamentale per lo sviluppo della globalizzazione". Non quindi cancellazione, ma mutamento del concetto di sovranita'. Saskia Sassen propone quindi una lettura molto articolata tanto del globale che del locale, arrivando a sostenere che la globalizzazione e' da considerare una matrice in cui si strutturano le gerarchie, i flussi, i legami all'interno di cui l'operato dello stato nazionale non solo favorisce la globalizzazione, ma diventa protagonista nel creare le condizioni affinche' si strutturi una geografia della globalizzazione, caratterizzata da reti di citta' globali, di regioni specializzate in determinate produzioni di merci, relazioni interstatali su basi continentali, flussi di capitali e di informazione veicolati da internet. Lo stato-nazione lavora cioe' a un inserimento istituzionale e localizzato della globalizzazione attraverso la cessione di alcune sue prerogative in materia di diritto - dalla proprieta' intellettuale ai contenzioni tra imprese transnazionali - a organismi internazionali o a factory law private. Dunque non fine della sovranita' nazionale, ma una sua metamorfosi che vede il locale fortemente segnato dal globale e viceversa. * Piccole apocalissi Un processo fortemente contradditorio e conflittuale, che puo' conoscere momenti di crisi, come ad esempio questa attuale recessione, considerata da molti studiosi una sorta di fine della spinta propulsiva della seconda ondata di globalizzazione, dopo l'esaurirsi della prima con la crisi della net-economy. Ed e' in questo contesto che la paura sia da considerare, per usare le parole di Zygmunt Bauman, l'effetto diretto di quella irruzione del "possibile" - il timore di essere esclusi, la perdita del posto di lavoro - nell'"impossibile", cioe' quella "apocalisse personale" fino ad allora considerata una eventualita' remota rispetto la propria condizione esistenziale. In altri saggi lo studioso di origine polacca ha parlato spesso della necessita' di un welfare state globale, un esito che in Paura liquida diviene sempre piu' lontano nel tempo visto l'accentuarsi delle caratteristiche del neoliberismo. Prospettiva invece che viene proposta con forza da Saskia Sassen, articolata secondo le gerarchie, i flussi, le reti che caratterizzano la globalizzazione. Proposta politica certamente condivisibile. La possibilita' di "addomesticare" nuovamente la paura senza accentuare le differenze di classe va tuttavia cercata nei contemporanei movimenti sociali, vista la loro capacita' di politicizzare i rapporti sociali. La posta in palio, infatti, non e' la tollerabilita' dell'irruzione del possibile nell'impossibile, ma di riuscire a far irrompere l'impossibile nel possibile. In altri termini, pensare alle proposte, all'azione dei movimenti sociali come l'impossibile che lacera la tela impregnata di paura del possibile. In fondo, per essere realisti occorre chiedere ancora l'impossibile. 5. RIFLESSIONE. BENEDETTO VECCHI: COME BAUMAN INTERPRETA I REALITY SHOW [Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 marzo 2008, col titolo "Vivere nel reality show del neoliberismo"] Uno degli fattori ricorrenti nelle opere di Zygmunt Bauman e' l'analisi dei reality show. Dalla dovizia di aneddoti, di titoli citati si puo' dire che lo studioso polacco e' un loro partecipe spettatore. Non solo li guarda alla televisione, ma legge attentamente le reazioni del pubblico nei siti internet a loro dedicati. I reality show diventano, di volta in volta, la rappresentazione della "pubblicizzazione" della vita privata, del consumo come fattore costitutivo di identita' pret-a'-porter. Ma soprattutto come espressione di quel darwinismo sociale che vede la vita in societa' come una lotta di tutti contro tutti. Il loro successo e' dovuto al fatto che raccontano una verita' nota a tutti: nella modernita' liquida l'esclusione non e' una remota eventualita', quanto l'esperienza vissuta che accomuna sempre piu' il manager della grande corporation al giovane precario. Un grande spettacolo nazional-popolare e interclassista, quindi, che andrebbe studiato attentamente per comprendere le forme di vita nella modernita' liquida. Ma quello che colpisce di piu' nell'analisi di Bauman non e' il rifiuto di una attitudine snob verso questo tipo di intrattenimento, ma cio' che accade nell'universo concentrazionario che viene creato. Tutto e' precario e a tempo determinato nella casa di un grande fratello o in una isola dove sopravvivere. Precari e contingenti le amicizie o gli amori che nascono. Precarie e contingenti sono le alleanza stabilite per non essere esclusi. Tutto e' fluido e transitorio al fine di sopravvivere. I reality show sono quindi da considerare come l'esemplificazione soft, ma estremamente glamour dell'ideologia sul singolo che diventa imprenditore di se stesso. Cosi' allo stesso tempo anche gli spettatori, chiamati a votare chi deve essere escluso, possono avere percezione di come le strategie di sopravvivenza al di fuori dello schermo abbiano o meno possibilita' di successo. La pubblicizzazione della vita privata consente loro di attenuare le ansie, i timori che caratterizzano il lavoro o le relazioni sentimentali. Rinforzando, pero', la convinzione che solo facendo leva sulla proprie capacita' possono arrivare alla fine del gioco. Da qui, il processo di identificazione con questo o quel partecipante al reality show. E se il giocatore scelto come modello viene squalificato, vuol dire che la strategia di sopravvivenza non era adeguata. Il passo successivo e' di accentuare l'opportunismo dei propri comportamenti, perche' l'universo concentrazionario del neoliberismo e' un lager dove non guardare in faccia a nessuno. 6. PROPOSTE. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO [Dal sito www.nonviolenti.org riprendiamo e diffondiamo] Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di promozione sociale). Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente soldi gia' destinati allo Stato. Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e' facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il numero di codice fiscale dell'associazione. Il codice fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235. Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 mille. Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato, la gratuita', le donazioni. I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del Movimento Nonviolento ed in particolare per rendere operativa la "Casa per la pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi estivi, eccetera). Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre quarant'anni con coerenza lavora per la crescita e la diffusione della nonviolenza. Grazie. Il Movimento Nonviolento * P. S.: se non fai la dichiarazione in proprio, ma ti avvali del commercialista o di un Caf, consegna il numero di codice fiscale e di' chiaramente che vuoi destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento. Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261 (corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno. * Per ulteriori informazioni e contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax: 0458009212, e-mail: an at nonviolenti.org, sito: www.nonviolenti.org 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 398 del 18 marzo 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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