Nonviolenza. Femminile plurale. 169



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 169 del 15 marzo 2008

In questo numero:
Valeria Gennero presenta "Tutti i miei mondi" di Pearl S. Buck

LIBRI. VALERIA GENNERO PRESENTA "TUTTI I MIEI MONDI" DI PEARL S. BUCK
[Dal sito www.iperstoria.it riprendiamo il seguente articolo del dicembre
2007, dal titolo "L'oppio, l'onore e il libero commercio: la Cina imperiale
di Pearl S. Buck", e il sommario "Tutti i miei mondi racconta l'imperialismo
da un punto di vista inedito: quello di una bimba, figlia di missionari
americani, allevata dalla famiglia ma anche da un maestro confuciano di
cinese mandarino. In questo saggio Valeria Gennero presenta l'opera di Pearl
S. Buck, in una sintesi che concilia costruzione della personalita',
volonta' storiografica e istinto narrativo, elementi fondanti di ogni
autobiografia storica".
Valeria Gennero, docente e saggista, insegna all'Universita' di Bergamo. Tra
le opere di Valeria Gennero: L'impero dei testi. Femminismo e teoria
letteraria anglo-americana, Sestante, 2002; L'anatomia della notte. Djuna
Barnes e Nightwood, Sestante - Bergamo University Press, 2002.
Pearl S. Buck, scrittrice americana (1892-1973), figlia di missionari,
cresciuta in Cina, si impegno' contro il razzismo e per i diritti delle
persone con disabilita'; scrisse oltre 70 libri, premio Nobel per la
letteratura nel 1938]

1. I mondi di Pearl S. Buck
Il sottotitolo di Tutti i miei mondi (My Several Worlds), il volume che nel
1954 sanci' il ritorno di Pearl S.Buck al centro dell'attenzione mediatica -
vent'anni dopo il premio Pulitzer ricevuto per il romanzo La buona terra
(The Good Earth, 1932) - specifica che si tratta di "un resoconto personale"
(A Personal Record). E' un'allusione a una dimensione intima e privata che
lascia intuire un modello autobiografico destinato a rivelarsi marginale
nelle oltre quattrocento pagine del volume. A prevalere sara' invece la
dimensione fattuale del record inteso come documento: una registrazione di
avvenimenti piu' vicina alla storiografia che ai mutevoli paesaggi interiori
spesso tratteggiati dalla scrittura del se'. Buck stessa gia' nella prima
pagina avverte il lettore che il libro "non sara' un'autobiografia completa"
e si tratta di una precisazione che si rivela presto tanto superflua da
sembrare quasi ironica. La scrittrice dedica infatti ai diciassette anni di
matrimonio con Lossing Buck poche asciutte osservazioni, per poi dirigere
immediatamente l'attenzione del lettori sul macrocosmo sociale che accoglie
i due missionari americani: "Non provo interesse adesso per gli aspetti
personali di quel matrimonio, che continuo' in modo ostinato per diciassette
anni; ricordo pero' come se fosse ieri il mondo in cui mi trasporto', un
mondo che sembrava a secoli di distanza da quello in cui vivevo. Era il
mondo dei contadini cinesi" (1).
Il primo marito - di cui la scrittrice conservera' il cognome per tutta la
carriera artistica - non viene mai indicato per nome ma solo con
l'impacciata locuzione "l'uomo di casa". Neppure al secondo consorte viene
concesso uno spazio significativo. Nel 1934 Buck lascio' definitivamente la
Cina per fare ritorno negli Stati Uniti: qui nel giro di pochi mesi ottenne
il divorzio da John Lossing Buck e sposo' Richard Walsh, responsabile
editoriale della John Day Company, che le sarebbe rimasto accanto fino alla
morte, avvenuta nel 1958. Questo e' quanto Buck racconta in proposito:
"Avevo anche delle ragioni personali per tornare nel mio paese. Non e'
necessario raccontarle, perche' in mezzo all'enormita' degli avvenimenti che
stavano trasformando il mio mondo, il personale era del tutto irrilevante"
(2).
Meno di quaranta parole per descrivere un divorzio, un nuovo amore e un
cambio di continente. Per una delle piu' prolifiche autrici di romanzi
d'amore del Novecento il personale e' davvero necessariamente - e quasi
esclusivamente - politico. Walsh e Buck si erano incontrati in occasione
della pubblicazione di Vento dell'est, vento dell'ovest (East Wind West
Wind) e la loro unione sarebbe durata fino alla morte di Walsh, avvenuta nel
1962. La popolarita' di cui la scrittrice godeva negli anni Trenta
trasformo' il loro simultaneo doppio divorzio dai primi coniugi in una
notizia appetibile per le pagine scandalistiche dei giornali. La fuga
concitata dai reporter appostati nei pressi della cappella per le cerimonie
adiacente al tribunale di Reno (Nevada) dove i due avevano, quasi senza
soluzione di continuita', sciolto legalmente i loro vincoli precedenti e
contratto un nuovo matrimonio, costituisce uno delle descrizioni piu' estese
dedicate al nuovo legame. Il personale era indubbiamente irrilevante nei
molti mondi di Buck, e anche i riferimenti a Carol, l'unica figlia non
adottata, nata con un ritardo psichico e ricoverata in un istituto
specializzato a partire dal 1931, sono scarni e rari: "La mia bambina
invalida si era ammalata dopo la mia partenza, ed era ovvio che per il suo
bene io dovessi abitare abbastanza vicino per poter passare del tempo con
lei di tanto in tanto" (3).
Non ci sono mariti e tanto meno amanti in questa autobiografia incorporea e
priva di passioni. Nessuno dei nove figli viene citato per nome. Ci sono
invece decine di amici e conoscenti, opinioni di artisti e personalita' del
mondo politico. E c'e' soprattutto il tentativo, tanto ambizioso quanto
coraggioso, di raccontare la storia del colonialismo euro-americano per
esplorare le radici del conflitto tra l'Occidente e il resto del mondo - the
West and the rest, come sara' definito in un fortunato slogan. Un'impresa
ardua, specie nel 1953, mentre sulla scena politica statunitense si
agitavano le ombre inquietanti della caccia alle streghe orchestrata da
Joseph McCarthy, la guerra in Corea, le polemiche sulla svolta comunista
della Cina, le tensioni atomiche con l'Unione Sovietica, e la diffusione del
movimento antisegregazionista. Quella che emerge in Tutti i miei mondi e'
una strategia di mascheramento e dissimulazione che mutua dalla scrittura
sperimentale - apparentemente lontanissima dalla prosa naturalistica che
caratterizza la sua produzione precedente - l'alternanza disorientante dei
generi e dei punti di vista.
Autobiografia, diario di viaggio, romanzo storico, saggio politico,
documento etnografico e antologia (il volume include anche alcuni dei primi
saggi di Buck, pubblicati su riviste ormai difficili da reperire): il
caleidoscopico assemblaggio dell'opera collega i continenti attraverso i
secoli, dilata i pomeriggi di gioco di una bambina in una casa di missionari
in un affresco che si allarga all'improvviso per includere nell'immagine la
ribellione dei Boxer e da li' iniziare una indagine genealogica serrata e
avvincente dei rapporti tra la dinastia King e l'Occidente. Il "resoconto
personale" di Buck e' una successione di equilibrismi retorici, in cui la
scrittrice afferma con forza tutte le cose che il Comitato governativo per
le attivita' anti-americane (noto come Huac, House Un-American Activities
Committee) - che la teneva sotto controllo da anni - avrebbe voluto sentirsi
dire contro il comunismo in tutte le sue forme e manifestazioni, ma poi con
sottile tenacia argomentativa le svuota di significato. Buck dipana la rete
di premesse che avvolge l'attualita' e si muove a ritroso fino a
rintracciare, all'estremita' del filo che unisce le grandi questioni
internazionali del dopoguerra, quella peculiare e paradossale forma di
antiamericanismo che trova la sua massima espressione proprio nella politica
estera degli stessi Stati Uniti, in cui la scrittrice individua un
atteggiamento filo-imperialista incompatibile con la Costituzione americana.
*
2. La mente bifocale
Le quattro sezioni che compongono Tutti i miei mondi sono modellate secondo
un criterio cronologico che abbraccia le diverse fasi della vita della
scrittrice. L'infanzia copre dal 1892 al 1900; segue il secondo capitolo,
che comincia nel 1901 e arriva fino al 1916 e al matrimonio con John Lossing
Buck, coinciso con il trasferimento della coppia a Nanhsuchou, nella
provincia di Anwhei nel nord della Cina. La terza sezione descrive gli anni
della maturita' e dei primi successi editoriali, che culminano nel divorzio
e nel nuovo matrimonio con Richard Walsh all'inizio degli anni Trenta.
Infine l'ultimo capitolo copre i vent'anni di opere e iniziative legate al
suo ruolo di intellettuale e artista di grande visibilita' mediatica. Quando
il volume viene pubblicato, nell'autunno del 1954, Buck ha compiuto da poco
62 anni. Tutti i miei mondi viene scelto come libro del mese proprio dal
"Reader's Digest", una rivista che aveva svolto un ruolo di primo piano nel
diffondere tra il grande pubblico il timore per la minaccia comunista; il
successo e' immediato e riporta cosi' la scrittrice sulle prime pagine dei
giornali e in testa alle classifiche di vendita. Gli attacchi a Mao e
Trotzky funzionano e l'opinione pubblica sembra rassicurata. Intanto proprio
nel corso del 1954 il senatore McCarthy ha iniziato la sua irrefrenabile
parabola discendente: il nome di Pearl S. Buck si trova cosi' singolarmente
a essere risollevato dalla palude di sospetto in cui stava lentamente
affondando proprio nel momento in cui la scrittrice pubblica la sua opera
meno conciliante e ottimista.
L'operazione culturale intrapresa da Buck in Tutti i miei mondi merita
un'attenzione particolare proprio in virtu' dei suoi risultati politici
oltre che artistici. Di cosa parla dunque questa autobiografia anomala,
quasi indifferente nei confronti di dati e vicende inerenti alla sfera
privata? E soprattutto come ne parla? Decisivo nella costruzione del testo
e' il concetto di bifocalita' mentale. E' proprio Buck a coniare
l'espressione per decrivere la consuetudine ad accettare come naturale la
possibilita' di guardare ogni situazione da angoli prospettici del tutto
differenti: "Erano giorni strani e contraddittori in cui al mattino leggevo
i miei libri di testo americani e imparavo le lezioni che mia madre mi
assegnava basandosi fedelmente sul metodo Calvert, mentre al pomeriggio
studiavo sotto la tutela completamente diversa del Signor Kung. Diventai
mentalmente bifocale, e cosi' mi resi conto presto di come non esista nelle
questioni umane una verita' assoluta. La verita' e' solo quello che la gente
riconosce come tale, e di fatto la verita' puo' essere caleidoscopica nella
sua varieta'" (4).
Relativismo morale postmoderno ante-litteram o solido pragmatismo
presbiteriano? La doppia focalizzazione acquisita sin dall'infanzia a causa
dell'appartenenza ai due mondi lontani dei missionari e dei cinesi, diventa
una presenza ancora piu' pressante alla luce del duplice insegnamento
ricevuto. Da un lato quello impartito in casa dalla madre - convinta
sostenitrice del sistema Calvert, traduzione in ambito pedagogico della
self-reliance emersoniana e basato sull'apprendimento individuale
(homeschooling), ancora oggi molto diffuso negli Stati Uniti - e dall'altro
quello offerto fuori dalle mura domestiche dal maestro confuciano di cinese
mandarino. Il paradosso dato dalla compresenza di due modelli di
appartenenza identitaria spesso inconciliabili, eppure percepiti come
inscindibili, caratterizza la molteplicita' delle voci narranti presenti in
Tutti i miei mondi. La duplicita' insita sin dall'infanzia nella percezione
di se' rende problematico per la giovane esule americana anche il
riconoscimento, apparentemente inevitabile, della propria caratterizzazione
razziale. Pearl Sydenstricker e' una bambina bionda cresciuta in Cina,
inconsapevole delle differenze tra se' e i compagni di giochi: "A quel tempo
non mi consideravo bianca... Cosi' sono cresciuta in un mondo doppio: quello
presbiteriano dei miei genitori, piccolo bianco e pulito, e quello grande
affettuoso allegro e non pulitissimo dei cinesi. Tra i due non c'era
comunicazione: quando ero nel mondo cinese ero cinese, parlavo cinese, mi
comportavo da cinese, mangiavo come loro e condividevo i loro pensieri e i
loro sentimenti" (5).
La doppia focalizzazione e' anche il procedimento narrativo che innerva la
struttura di Tutti i miei mondi. Il narratore esterno di primo livello - che
le convenzioni del patto autobiografico indurrebbero a individuare nella
figura di Pearl Walsh, seduta nel suo studio in Pennsylvania nel giugno del
1953 - filtra le descrizioni e gli avvenimenti della fabula attraverso due
focalizzatori che rappresentano i diversi livelli di consapevolezza della
protagonista (6). Una delle prospettive adotta la visione anglo-americana
dell'imperialismo: la missione civilizzatrice, il valore del libero
commercio in libero stato. E' la visione di Pearl Sydenstricker, figlia di
Andrew, cresciuta nel mito di un'America ideale e caritatevole: "il mio
paese divenne un mondo di sogno, bellissimo e abitato da un popolo che
immaginavo interamente buono; era la terra da cui sgorgava ogni benedizione"
(7). Accanto a questa visione ingenua e ottimista, investita dalla luce
ideale che aveva individuato nel Nuovo Mondo il faro della moralita'
cristiana, la citta' sulla collina sognata da John Winthrop e dai coniugi
Sydenstricker, si staglia nitida un'ombra disincantata e scettica, quella di
Pearl S. Buck, moglie di Lossing Buck e testimone oculare di trent'anni di
rivolte antioccidentali e di rivoluzioni modernizzatrici nella Cina di
inizio Novecento. La caratteristica peculiare del narratore esterno e'
quella di sottrarsi alla sintesi: le due focalizzazioni - quella fiduciosa
nelle ragioni dell'occidente che caratterizza i primi capitoli e in seguito
quella dell'intellettuale antirazzista, indignata dalla brutalita'
dell'imperialismo - vengono accolte senza aggiunta di glosse. Il narratore
non commenta ne' argomenta: lascia spazio alle descrizioni che affiorano nei
resoconti dei personaggi. Non sono del resto le tre narratrici ad essere
protagoniste della narrazione, ma i tanti mondi da loro attraversati: la
Cina di fine Ottocento e quella successiva alla ribellione dei Boxer, il
Giappone tra le due guerre mondiali, la varieta' geografica e culturale
degli Stati Uniti: la Virginia occidentale degli anni universitari e la New
York del successo editoriale.
Scarne ma precise, alcune osservazioni apparentemente marginali informano i
lettori sin dai primi paragrafi che quella che segue sara' si' un storia
"raccontata su livelli diversi, a proposito di posti e popoli diversi", ma
soprattutto sara' una storia che parla di uno scarto interiore, di una
distanza irriducibile. Tanti mondi convergono nelle pagine di un'opera in
cui vengono messe costantemente in primo piano le continue e necessarie
contaminazioni culturali, religiose e razziali che attraversano la storia
delle nazioni cosi' come quella di ogni individuo; eppure questa poderosa
ricognizione della differenza come valore, come ricchezza da riconoscere e
affermare, parte da una diversita' che e' l'esito di una non coincidenza
squisitamente individuale. "C'e' pero' ancora una differenza, ed e' quella
dentro di me", scrive Buck, mettendo in primo piano una collocazione ibrida
che si riverbera nella consapevolezza precoce e duratura della complessita'
dei meccanismi identitari. A lei un "destino fortunato" non ha permesso di
crescere nella sicurezza confortevole della casa di famiglia, a Hillsboro
nella Virginia Occidentale, dove nacque per caso quando ai suoi genitori fu
concesso un periodo di riposo dall'attivita' missionaria: era il 1892 e tre
dei quattro figli nati nei primi anni di matrimonio erano morti in tenera
eta' a causa di malattie tropicali per cui non esistevano ancora cure o
forme di prevenzione. Il fervore missionario di Absalom e Carie
Sydenstricker non si lascio' attenuare dalle tragedie familiari e cosi'
quando Pearl aveva pochi mesi la coppia si mise di nuovo in viaggio per fare
ritorno all'incarico nella missione presbiteriana di Chinkiang, nella
provincia di Kiangsu, dove sarebbero vissuti per piu' di trent'anni: "Mi
capitarono invece come genitori due giovani intraprendenti e idealisti che
all'inizio delle loro vite, per motivi che continuano a sembrarmi del tutto
irragionevoli, sentirono il bisogno di lasciare i loro familiari contrari e
sconcertati e attraversare mezzo globo per iniziare in Cina una vita
dedicata alla divulgazione dei vantaggi della propria religione" (8).
Buck aveva descritto in dettaglio il mondo dei missionari cristiani in Cina
nelle biografie dedicate a Carie (L'esilio) e Absalom (Angelo guerriero),
pubblicate entrambe nel 1936. Quasi vent'anni piu' tardi, con un secondo
conflitto mondiale alle spalle, mentre la guerra fredda annodava il panorama
internazionale saldamente e pericolosamente in un unico campo di forze
dominate dalla teoria del domino, la scrittrice articola con chiarezza
ancora maggiore il legame tra l'attivita' missionaria, l'imperialismo e le
rivolte nei confronti della presenza occidentale in Asia: "Non posso che
pensare che i miei genitori riflettessero lo spirito della loro generazione,
di un'America che risplendeva della gloria di nazione nuova, e si rialzava
unita dalle ceneri della guerra, piena di fiducia nel proprio potere di
'salvare' il mondo. Non avevano idea di come nel frattempo stessero
contribuendo ad accendere un fuoco rivoluzionario che non abbiamo ancora
visto, ne' possiamo immaginare, in tutta la sua forza" (9).
Lo sguardo che filtra la descrizione dell'infanzia trascorsa nella missione
di Chinkiang e' pero' quello di Pearl Buck bambina e avvolge nell'incantata
leggerezza delle favole le narrazioni dei genitori sulle meraviglie del
mondo americano, privo di lebbrosi e mendicanti e colmo invece di
gentilezza, generosita' e virtu' cristiane. Oltre il Pacifico si distende
nell'immaginazione una terra illuminata dagli insegnamenti della Bibbia e
dai valori della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti. Pochi cenni
vengono riservati alla Guerra Civile, che pure aveva coinvolto,
nell'esercito confederato, i quattro fratelli maggiori di Absalom; e quel
poco serve per ribadire che la schiavitu' era ingiusta e sarebbe comunque
scomparsa, anche senza Lincoln. Se i coniugi Sydenstricker avevano
opportunamente dimenticato oltreoceano gli aspetti meno gradevoli del loro
paese natale, anche la narratrice del primo capitolo sembra decisa a
rassicurare i lettori sull'eccezionalita' degli Stati Uniti.
Negli ultimi anni del XIX secolo il mondo occidentale presente a Chingkiang
si raccoglie dietro i cancelli custoditi della Concessione britannica o
nelle missioni cattoliche, popolate di religiosi francesi e italiani. Quel
mondo pero' rimane lontano e incomprensibile, come i misfatti di un
Occidente di cui e' ancora possibile illudersi di non essere complici: "Gli
'stranieri' avevano fatto cose malvagie in Asia: non gli americani pero',
dichiaravano i miei amici, ancora piccoli e gia' cortesi. Gli americani, mi
dicevano, erano 'buoni'. Non avevano sottratto territori alle nazioni
asiatiche e mandavano cibo durante le carestie. Io accettavo la distinzione
e non sentivo legami con gli altri occidentali di origine europea, che
all'epoca consideravo miei nemici" (10).
I giochi di bambini, in cui guardie e ladri vengono interpretati in una
versione nazionalista con i cinesi e i loro alleati asiatici schierati
compatti contro i perfidi occidentali - destinati a una inevitabile
sconfitta - sono pero' l'unico spazio di compiacimento concesso al lettore
statunitense.
*
3. Le guerre dell'oppio e il sentimentalismo imperiale
Un altro ricordo d'infanzia, la sigaretta offerta di nascosto dal figlio di
una famiglia di missionari in visita, introduce un primo squarcio sulla
storia del colonialismo europeo in Cina e permette alla narratrice di
scivolare indietro nel tempo per raccontare di altri tipi di fumo e di
dipendenza, questa volta incoraggiati proprio dagli integerrimi protestanti
britannici. Nel 1842 Chiangking era stata catturata dalle truppe inglesi in
occasione della prima guerra dell'oppio (1840-43). Quando l'Imperatore aveva
cercato di limitare la diffusione della droga dichiarando fuorilegge il
fiorente commercio che avveniva sotto bandiera inglese, il governo
britannico aveva dichiarato guerra e inviato l'esercito per difendere il
diritto alla libera circolazione delle merci: "Gli inglesi, irritati dalla
perdita di entrate, insistettero sul loro diritto al commercio, sostenendo
che non erano stati loro a diffondere l'oppio tra i cinesi, che l'oppio era
coltivato anche in Cina e che gli avidi mercanti cinesi volevano tutto il
profitto per se'. Probabilmente in parte era vero, perche' in questa vita
nulla e' totalmente puro e i cuori degli uomini sono sempre intricati" (11).
Il riferimento ai grovigli del cuore umano apre uno spiraglio su quelle
regioni della sensibilita' cui la ragione non puo' accedere, secondo un
procedimento ben consolidato di quel sentimentalismo imperiale cui alcuni
studiosi associano le opere di Buck. Non e' pero' questo il caso: le
concessioni al gusto sentimentale, che spesso svolgono un ruolo centrale nei
romanzi, sono qui solo un diversivo che allenta la tensione argomentativa in
attesa di un affondo successivo. Buck arriva per gradi alla condanna della
politica imperialista: la sua moderazione si accompagna pero' a un
imperturbabile rigore espositivo. La forma scelta per i temi piu' delicati e
scabrosi, quelli che in effetti l'Fbi schedava e archiviava con cura nel
voluminoso fascicolo dedicato alla scrittrice, e' pacata ma inesorabile: a
una descrizione dell'immoralita' dell'impero (nel caso in questione: la tesi
secondo cui incoraggiare la dipendenza da droghe allucinogene e' lecito in
nome del commercio) viene subito accostata una sua possibile confutazione
(quella britannica non era depravazione; per tutti quello che conta e' il
profitto: anche i mercanti cinesi ambivano al mercato dell'oppio). Lo
sguardo bifocale che Buck individua come elemento costitutivo e decisivo
della sua particolare collocazione storico-geografica, situata
all'intersezione di lingue, culture e religioni diverse, diventa parte del
procedimento narrativo. La focalizzazione riconducibile a una Pearl Buck
bambina, che accoglie fiduciosa i resoconti della comunita' cinese, si
alterna all'enfasi sulla libera circolazione di merci e idee condivisa da
buona parte del mondo missionario. L'ultima parola pero' spetta sempre alla
voce narrante, alla Pearl Buck che annota con cura le date della sua
testimonianza, e che nel giugno del 1953 smentisce l'antitesi anglosassone e
accoglie la versione cinese. Non c'e' sintesi possibile nelle differenti
letture che dell'impresa imperiale offrono conquistatori e sudditi. Solo
l'accettazione ingenua delle contraddizioni da parte di una bambina di otto
anni puo' dare voce a entrambi con equidistante benevolenza: "C'erano pero'
molti cinesi che non facevano i commercianti ed erano sinceramente
spaventati dalla terribile diffusione dell'oppio tra la gente; era anche
vero che la maggior parte dell'oppio, specie quello a buon mercato,
proveniva proprio dall'India, e non solo sotto bandiera britannica, ma anche
sotto quelle olandesi e americane... I cinesi non avevano iniziato a fumare
l'oppio finche' non glielo avevano insegnato i commercianti portoghesi nel
Seicento, quando divenne un passatempo di moda per gli ufficiali e per i
ricchi. La maggioranza dei cinesi ancora durante la mia infanzia lo
consideravano un'usanza straniera, tanto che il loro nome per oppio era yang
yien, o 'fumo straniero'" (12).
Alla prima guerra dell'oppio ne segui' presto una seconda, nota anche come
"la guerra dell'Arrow", dal nome della nave che offri' il pretesto per
l'intervento congiunto di Gran Bretagna e Francia. Il punto di vista che
orienta il racconto e' quello apparentemente innocuo di una ragazzina,
dettaglio che l'autrice sottolinea quando ricorda di aver ascoltato la
storia molte volte "quasi come una leggenda" dalla voce melodiosa del suo
primo insegnante di cinese. Infatti, quasi come una leggenda appunto, il
resoconto inizia in un tempo lontano e indeterminato: "Tempo fa, tra il 1850
e il 1860, alcuni intraprendenti mercanti cinesi comprarono una piccola
nave, la chiamarono The Arrow, e la fecero registrare a Hong Kong sotto
bandiera inglese". I mercanti cinesi vennero pero' accusati di pirateria e
furono arrestati. Quando il console britannico, informato dell'episodio, si
infurio' per l'oltraggio alla bandiera britannica, che era stata requisita
nel sequestro del vascello, a poco servi' spiegare che nessun cittadino
britannico era coinvolto nell'impresa. Non servi' neppure consegnare i
pirati cinesi al Consolato: la Gran Bretagna dichiaro' prontamente una nuova
guerra a causa dell'insulto arrecato all'onore nazionale di cui la bandiera
era simbolo e manifestazione. Il resoconto di Buck ostenta una deliberata
leggerezza e sottolinea gli aspetti romanzeschi della vicenda con la
presentazione di un'altra immagine leggendaria, quella dell'Imperatrice
d'Occidente. Questo non le impedisce pero' di illuminare la natura
pretestuosa degli attacchi europei. Ancora una volta pero' il punto di vista
e' quello candido e rapito di una bambina che ascolta fiduciosa il suo
insegnante di cinese mentre narra di vicere' in catene, imperatrici in fuga
e neonati in pericolo: "A questo punto la Gran Bretagna dichiaro' di nuovo
guerra, catturo' il Vicere' cinese e lo porto' in India, dove sarebbe poi
morto in esilio. Francia, Russia e America furono invitate a prendere parte
alla nuova guerra, ma solo la Francia accetto', e uso' come scusa il fatto
che un missionario francese era stato ucciso di recente nella provincia di
Kwangsi. Le truppe straniere marciarono su Pechino, mentre l'Imperatore con
l'Imperatrice e il figlio neonato fuggi' a Jehol, a cento miglia di
distanza. Fu li' che l'Imperatore mori' all'improvviso, lasciando la giovane
Imperatrice Occidentale sola con l'erede" (13).
Fu la salvaguardia dell'onore nazionale britannico o il desiderio di
ottenere l'apertura di nuovi porti e nuove citta' alle proficue reti
commerciali occidentali a scatenare le guerre dell'oppio? La questione e'
ancora oggi ampiamente dibattuta ed e' stata oggetto negli ultimi anni di
numerose analisi volte a gettare nuova luce sulla complessa trama di
relazioni politiche e culturali che diedero forza al progetto imperiale
britannico, senza dimenticare l'atteggiamento spesso ambivalente che gli
Stati Uniti ebbero in proposito. Buck stessa era sensibile alla delicata
interazione di istanze eterogenee in una situazione che sarebbe risultata
decisiva nel definire i rapporti tra l'Asia e le potenze occidentali sia
nell'Ottocento che in seguito.
L'uso esclusivamente strumentale dei concetti di onore e di vergogna da
parte dei funzionari britannici in occasione delle due guerre dell'oppio e'
una delle ipotesi fondanti di molti degli studi storici pubblicati nella
seconda meta' del Novecento. In queste analisi prevale una lettura
strettamente materialista, che individua nella funzione civilizzatrice
dell'impero una copertura ideologica delle ragioni economiche alla base del
desiderio di espansione e presuppone la presenza in Gran Bretagna di un
livello gia' avanzato di sviluppo industriale. Oggi questo paradigma e'
entrato in crisi, e studiosi come Glenn Melancon ripropongono una lettura
che ravvisa proprio a livello simbolico le premesse dell'azione militare:
"Mentre non e' possibile ignorare gli aspetti monetari della questione
dell'oppio, gli interessi economici non dovrebbero offuscare altri elementi
importanti della politica estera britannica - l'onore e la vergogna.
Generalmente l'onore si riferisce a una sensazione interiore di capacita'
che la comunita' riconosce lodando valore e onesta'. Al contrario la
vergogna indica una sensazione di umiliazione che la comunita' incoraggia
dissuadendo da vigliaccheria e menzogna. L'onore era strettamente associato
alla virtu'... era un concetto pratico, non solo ideale" (14).
Melancon sottolinea i limiti di letture focalizzate sulle motivazioni
finanziarie, e osserva come queste ultime risultino appiattite su valori e
prospettive acquisiti nel corso del Novecento; al contrario la sua analisi
ci rammenta come nella storia sociale recente si siano sviluppate linee di
indagine che collocano l'imperialismo britannico nel quadro di una societa'
ancora ampiamente controllata dal potere aristocratico. In questo contesto
viene spesso invocata la nozione di "gentlemanly capitalism", per indicare
la presenza di un capitalismo ancora patrizio e sostanzialmente indifferente
all'enfasi sull'espansione industriale e alla conseguente necessita' di
nuovi mercati. Diversa e' l'opinione di John Wong, la cui poderosa analisi
della seconda guerra dell'oppio conferma invece molte delle tesi espresse da
Buck, anche rispetto al ruolo fondamentale svolto dalla guerra del 1856 nel
definire i rapporti tra Cina e occidente negli ultimi anni della dinastia
Manciu'. Secondo Wong la guerra dell'Arrow fu di fatto una guerra mondiale,
che coinvolse Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina. I
resoconti degli scontri furono pero' filtrati dagli interessi locali delle
nazioni coinvolte, cosa che fece scomparire dall'attenzione internazionale
il conflitto, frantumandolo in una serie di etichette parziali che lo
trasformarono, rispettivamente, in quella che gli storici britannici
chiamano "la seconda guerra cinese" e quelli francesi l'expedition de Chine,
nella "fondazione di Vladivostock" per i russi, e infine nella storia di
Peter Parker e dell'apertura della Cina per gli statunitensi (15). Wong
ricorda inoltre come il suggerimento di considerare queste guerre una
risposta al mancato riconoscimento diplomatico, anziche' alla logica del
profitto, trovi una prima formulazione nella teoria del kowtow, dal cinese
K'o-t'ou, locuzione che indica l'atto di genuflettersi in segno di rispetto
fino a toccare il suolo con la fronte. Il termine entro' nella lingua
inglese a inizio Ottocento con il valore di prostrarsi, umiliarsi. John
Quincy Adams, presidente degli Stati Uniti dal 1825 al 1829, mentre era in
corso la prima guerra dell'oppio attribui' proprio al kowtow la
responsabilita' del conflitto anglo-cinese: "La causa della guerra e' il
kowtow [sic] - l'arrogante e insopportabile pretesa della Cina di condurre
gli scambi commerciali con il resto del mondo non in termini di uguale
reciprocita', ma nelle forme insultanti e degradanti della relazione tra
signore e vassallo" (16).
Negli Stati Uniti la prospettiva di Adams, che vedeva nell'oppio solo il
dato piu' evidente di un conflitto fondato su dissapori di tipo
prevalentemente culturale, fu accolta senza obiezioni. Secondo questa
interpretazione a fronteggiarsi erano da una parte la richiesta di
riconoscimento equo e paritetico da parte degli occidentali, dall'altra
l'alterigia sprezzante della Cina, abituata a riferirsi a se stessa come il
Regno di Mezzo, centro di un mondo che voleva cocciutamente continuare a
fare a meno del contributo della civilta' europea. E' in parte ironico, e
del tutto significativo, che questa legittimazione dell'intervento in Cina
venisse proprio dallo statista che ha legato la propria fama
all'elaborazione di un principio politico - la dottrina Monroe (1823) - che
proibiva alle potenze europee di creare nuove colonie nell'emisfero
occidentale e le diffidava da ogni intromissione nella politica interna di
nazioni indipendenti situate nel continente americano (17).
Il diritto all'autodeterminazione evidentemente era valido solo per alcuni
popoli: i cinesi, che volevano porre un veto alla libera circolazione delle
merci e degli stranieri sul loro territorio, vennero tacciati invece di
xenofobia. La diffidenza nei confronti delle tradizioni altrui era tuttavia
innegabile, anche se non va dimenticato come si trattasse di un sentimento
reciproco. Anche su questo argomento la storiografia contemporanea accoglie
la ricostruzione di Buck. A proposito della ritualita' rigorosa delle
cerimonie cinesi, e del disagio provato dagli europei che si sentivano
umiliati dalle manifestazioni di sottomissione richieste, Wong scrive: "Si
cita con minor frequenza il complesso di superiorita' di molti europei, che
trovarono difficile accettare che potessero esistere altre grandi civilta'
oltre alla loro. Erano necessarie due fazioni per arrivare a uno scontro"
(18). La tesi che Buck delinea in Tutti i miei mondi e' molto simile, anche
se alla scrittrice preme illuminare la continuita' tra il disinteresse,
talvolta sprezzante, palesato dagli statunitensi per le tradizioni culturali
altrui e la diffusione di un'ostilita' sempre piu' marcata nei loro
confronti: "Questo fatto spiega in parte l'attuale antiamericanismo, questo
e gli atteggiamenti dei missionari, dei commercianti e dei diplomatici,
tutti uomini bianchi appunto, che si consideravano, consciamente o
inconsciamente, superiori ai cinesi: cosi' per piu' di un secolo nei cuori
cinesi e' covato un furore che i bianchi non hanno saputo e voluto
riconoscere, e questo furore e' la ragione principale per cui Chiang
Kai-shek ha perso il suo paese e i comunisti l'hanno conquistato" (19).
Dopo il 1949 Buck identifica le ragioni della vittoria comunista nella
capacita' di fare appello allo spirito nazionalista e patriottico dei
cinesi; soprattutto pero' la scrittrice mette in guardia dal sottovalutare
la memoria delle devastazioni e degli abusi dell'imperialismo. Per questo
ricorda ai suoi lettori che rimane spazio per ricostruire la credibilita'
statunitense in Asia solo a patto di dimostrare concretamente la distanza
dalle potenze europee: "Che cosa puo' fare allora un americano? Deve
rileggere la storia in modo nuovo. Deve dimostrare agli asiatici che non
puo' essere confuso con un passato di cui e' solo in parte responsabile, e
quindi non deve essere costretto a sopportarne il fardello" (20).
La ricetta di Buck deve pero' fare i conti con l'innegabile carenza di
strumenti adeguati per la traduzione di codici culturali lontanissimi: nel
corso della seconda meta' dell'Ottocento la Cina dovette accettare nuovi
"trattati iniqui" e aprire agli occidentali l'accesso ai propri territori,
concedendo inoltre agli stranieri il privilegio dell'extraterritorialita',
che li sottraeva alla leggi e alla giurisdizione cinese (21). In questo gli
americani furono solo "relativamente innocenti", afferma Buck con una
cautela che, come accade costantemente in Tutti i miei mondi, viene
contraddetta nelle righe successive. Nella narrazione di Buck gli americani
in effetti si rivelano innocenti solo nel senso traslato per cui innocent in
inglese significa sia incolpevole che sciocco, ingenuo. Un egocentrismo
quasi infantile e una sconcertante propensione all'irresponsabilita' vengono
indicate come le due costanti piu' significative della politica statunitense
in Asia. Buck tratteggia un percorso di errori e contraddizioni che parte
dalla guerra dell'oppio per arrivare al momento in cui scrive, nella prima
meta' degli anni Cinquanta, e nello specifico al sostegno accordato alla
Francia in Indocina che sfocera' in seguito nel lungo e disastroso
coinvolgimento in Vietnam. In mezzo ci sono la ribellione dei Boxer (1900) e
l'appoggio fallimentare al regime militare di Chiang Kai-shek: "Eppure siamo
solo relativamente innocenti, perche' in quei giorni dopo il 1900 quando gli
eserciti bianchi punirono l'anziana imperatrice con durezza implacabile,
quando i suoi palazzi vennero saccheggiati mentre soldati e ufficiali con
analoga avidita' depredavano Pechino di tesori incalcolabili, gli americani
erano tra i bianchi. Non ci siamo accorti che stavamo facendo la storia e
cosi' non siamo stati in grado di capire i suoi terribili frutti" (22).
Una colpevole innocenza, quella statunitense, che non avrebbe smesso di
generare frutti terribili in Asia. Negli anni successivi alla pubblicazione
di Tutti i miei mondi quello che Buck aveva definito il "fardello
dell'imperialismo" avrebbe fatto sentire il suo carico opprimente sugli
ideali democratici statunitensi: in Cina come in Laos, in Corea, in Vietnam.
*
Note
1. Pearl S. Buck, My Several Worlds, John Day Company, New York 1954, p.
129. D'ora in avanti le citazioni da questo testo indicate saranno indicate
con MSW. Le traduzioni in italiano sono mie; e' disponibile una edizione
italiana intitolata Le mie patrie (Mondadori, Milano 1956) di cui ho
preferito non servirmi: "The time had come for marriage ,as it comes in the
life of every man and woman, and we chose each other without knowing how
limited the choice was, and particularly for me who had grown up far from my
own country and my own people. I have no interest now in the personal
aspects of that marriage, which continued for seventeen years in its dogged
fashion, but I do remember as freshly as though it were yesterday the world
in which it trasported me, a world distant from the one I was long in as
though it had been centuries ago. It was the world of the Chinese peasant".
2. MSW, 291: "There were personal reasons, too, why I should return to my
own country. It is not necessary to recount them, for in the huge events
that were changing my world, the personal was all but negligible".
3. MSW, 291: "My invalid child, nevertheless, had become ill after I left,
and it was obvious that for her sake I should live near enough to be with
her from time to time".
4. MSW, 52: "Those were strange and conflicting days when in the morning I
sat over my American schoolbooks and learned the lessons assigned to me by
my mother, who faithfully followed the Calvert system in my education, while
in the afternoon I studied under the wholly different tutelage of Mr. Kung.
I became mentally bifocal, and so I learned early to understand that there
is no such condition in human affairs as absolute truth. There is only truth
as people see it, and truth, even in fact, may be kaleidoscopic in its
variety".
5. MSW, 10: "But I did not consider myself a white person in those days...
Thus I grew up in a double world, the small white clean Presbyterian world
of my parents and the big loving merry not-too-clean Chinese world, and
there was no communication between them. When I was in the Chinese world I
was Chinese, I spoke Chinese and behaved as a chinese and ate as the Chinese
did, and I shared their thoughts and their feelings".
6. Il concetto di focalizzazione adottato e' quello proposto in M. Bal,
Narratology, University of Toronto Press, Toronto 2004, pp. 142-160. Bal
suggerisce di impiegarlo in alternativa a concetti come punto di vista e
prospettiva narrativa in quanto permette di distinguere con maggiore
chiarezza il campo visivo attraverso cui gli elementi vengono presentati e
l'identita' della voce che verbalizza la visione come elementi separati.
7. MSW, 5: "My own country became the dreamworld, fantastically beautiful,
inhabited by a people I supposed entirely good, a land indeed from which all
blessings flowed".
8. MSW, 4: "Instead I had as my parents two enterprising and idealistic
young people who, at an early age and for reasons which still seem to me
entirely unreasonable, felt impelled to leave their protesting and
astonished relatives and travel halfway around the globe in order to take up
life in China and there proclaim the advantages of their religion".
9. MSW, 4: "I can only believe that my parents reflected the spirit of their
generation, which was of an American bright with the glory of a new nation,
rising united from the ashes of war, and confident of power enough to 'save'
the world. Meantime they had no conception of the fact that they were really
helping to light a revolutionary fire, the height of which we have still not
seen, nor can foresee".
10. MSW, 6: "'Foreigners' had done evil things in Asia - not the Americans,
my small and even then tactful friends declared, for the Americans, they
said, were 'good'. They had taken no land from the Asian countries, and they
sent food in famine time. I accepted the distinction and felt no part with
other Western peoples of Europe, whom at that time I considered also my
enemies".
11. MSW, 18: "The English, incensed at the loss of revenue, insisted on
their right to trade, mantaining that it was not they who had introduced the
opium habit to the Chinese, that opium was grown on Chinese soil and that
greedy Chinese traders merely wanted all the income for themselves. Probably
this was partly true, for nothing in this life is simon-pure and the hearts
of men are always mixed".
12. MSW, 18: "Yet there were many Chinese who were not traders and who
honestly enough were frightened at the tremendous amount of opium-smoking
among their people, and it was also true that most of the opium, especially
the cheaper kind, did come from India, and not only under the British flag,
but also under the Dutch and the American flags... The Chinese did not begin
smoking opium until the Portuguese traders taught them to do so in the
seventeenth century when it became a fashionable pastime for officials and
rich people. Most Chinese, even in my childhood, considered it a foreign
custom, and indeed their name for opium was yang yien, or 'foreign smoke'".
13. MSW, 28: "At this Britain declared war again and seized the Chinese
Viceroy and sent him to India where he died in exile. France and Russia and
America where invited to join with Great Britain in the new war, but only
France accepted, using as her excuse the fact that a French missionary had
recently been killed in the province of Kwangsi. The foreign troops marched
upon Peking, and the Emperor and the Empress and their baby son fled to
Jehol, a hundred miles away. There the Emperor suddenly died and the young
Western Empress was left alone with the heir".
14. Glenn Melancon, Britain's China Policy and the Opium Crisis: Balancing
Drugs, Violence and National Honour, 1833-1840, Aldershot, England: Ashgate
Publishing 2003, p. 5.
15. John Y. Wong, Deadly Dreams: Opium, Imperialism and the Arrow War,
Cambridge: Cambridge University Press 1998.
16. John Quincy Adams, "Lecture on the War with China", Chinese Repository,
11, gennaio-dicembre 1842, pp. 274-289; p. 288, citato in J. Wong, Deadly
Dreams, cit., p. 33. Sull'argomento si veda anche: Teemu Ruskola, "Canton Is
Not Boston: The Invention of American Imperial Sovereignty", American
Quarterly, Volume 57, 3, settembre 2005, pp. 859-884.
17. Quando nel 1823 il presidente Monroe espose al Congresso la teoria di
John Quincy Adams, all'epoca segretario di stato, la presa di posizione
statunitense si schierava in difesa del diritto del Nuovo Mondo a democrazia
e indipendenza. Gia' negli anni della presidenza Polk (1845-1849) la
dottrina Monroe venne pero' reinterpretata in chiave espansionistica per
giustificare l'annessione del Texas e la guerra messicana e in seguito
divenne il fulcro dello sforzo americano di controllare l'America Latina.
18. J. Wong, cit., p. 33.
19. MSW, 48: "This fact partly explains the present anti-Americanism, this
and the attitudes of missionaries and traders and diplomats, all white men
indeed, who considered themselves whether consciously or unconsciously
superior to the Chinese, so that a smouldering fury has lived on in Chinese
hearts for more than a century and this fury, which white men could not and
would not recognize, is the chief reason why Chiang Kai-shek lost his
country and why the Communists won it".
20. MSW, 49: "What then can the American do? He must read history afresh. He
must prove to the Asian that he is not to be confused with the past, of
which he is relatively innocent, and therefore must not be compelled to bear
its burdens". La citazione continua con una serie di denunce esplicite delle
scelte politiche britanniche responsabili dell'ostilita' in Asia: "American
boys must not die because England once ruled India and in China won the
Three Opium Wars and fastened a ruinous tax upon the people, or because an
Englishman allowed Japan to stay in Manchuria, and so established a foothold
for an imperial war".
21. J. Wong, cit., p.308. Sul ruolo dei missionari nella diplomazia
americana in Cina: Te-Kong Tong, United States Diplomacy in China, 1844-60,
Seattle: University of Washington Press 1964, pp. 71-82.
22. MSW, 49: "Yet we are only relatively innocent, for in those days after
1900 when white armies punished the old Empress so bitterly, when her
palaces where looted and incalculable treasures stolen from Peking by
soldiers and officers with equal greed, Americans where among the white men.
And we did not heed history being made and so we could not understand its
dreadful fruit".

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 169 del 15 marzo 2008

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