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Minime. 392
- Subject: Minime. 392
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 12 Mar 2008 00:45:50 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 392 del 12 marzo 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Ann Jones: La guerra contro le donne 2. Etienne Balibar: Ancora su razzismo e antropologia 3. La "Carta" del Movimento Nonviolento 4. Per saperne di piu' 1. MONDO. ANN JONES: LA GUERRA CONTRO LE DONNE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo dal titolo "La guerra contro le donne: una lettera dal fronte occidentale africano", di Ann Jones, apparso su "The Sunday" del 17 febbraio 2008. Ann Jones, scrittrice, fotografa, attivista per i diritti umani, sta lavorando come volontaria con l'International Rescue Committee ad uno speciale progetto contro la violenza di genere dal nome "Crescendo globale: voci di donne dalle zone di conflitto". Opere di Ann Jones: Kabul in inverno: vita senza pace in Afghanistan, Metropolitan Books 2007] Kailahun, Sierra Leone. Saluti da una zona di guerra che non e' l'Iraq. E neppure l'Afghanistan. La sto sperimentando nell'Africa occidentale, dove ho sino ad ora lavorato con le donne in tre paesi confinanti, tutti recentemente dilaniati da guerre civili: Liberia, Sierra Leone e Costa d'Avorio. Il disastro iracheno ha monopolizzato l'attenzione ed oscurato queste guerre "minori", peraltro ora ufficialmente "cessate", ma milioni di donne africane ne stanno subendo le conseguenze. Per esse, la guerra non e' finita per nulla, e neppure se ne vede la fine all'orizzonte. Questo e' il reportage di guerra che non viene mai fatto veramente. Lasciate che vi spieghi. * Di sicuro ricordate i conflitti di cui parlo. La guerra civile in Libera si dispiego' in tre successive ondate, durando complessivamente 14 anni, dal 1989 al 2003. La guerra civile in Sierra Leone ebbe inizio nel 1991 quando i guerriglieri del Fronte rivoluzionario unito (Ruf) della Sierra Leone, addestrati in Liberia, invasero il loro stesso paese. La guerra attiro' parecchi partecipanti, e duro' sino al gennaio 2002, un decennio. In Costa d'Avorio, una guerra civile ebbe inizio nel 2002 quando i ribelli del nord tentarono un colpo di stato per rimuovere il presidente Laurent Gbagbo, ma questa volta la comunita' internazionale ha deciso di agire prima che la regione venisse ulteriormente destabilizzata: intervennero i francesi, poi altri africani, ed infine i peacekeeper delle Nazioni Unite, ed un trattato di pace fu firmato nel 2003. Percio', ufficialmente, questi paesi non sono piu' "zone di guerra". Accordi sono stati siglati. Forze di interposizione sono in servizio o a portata di mano. Le Nazioni Unite e le agenzie umanitarie internazionali stanno fornendo assistenza. Qualche arma e' stata deposta. Qualche rifugiato e' tornato dall'esilio. Alcuni uomini stanno facendo mattoni di fango e costruendo capanne per rimpiazzare le case spaziose di cemento, con le loro tegole, che una volta erano fruibili nei villaggi di tutta la regione. Ufficialmente, Liberia, Sierra Leone e Costa d'Avorio sono ora designate quali "zone post-conflitto", ma sono paesi cosi' frantumati, cosi' traumatizzati e, in special modo Sierra Leone e Liberia, cosi' devastati ed impoveriti che non possono dirsi al sicuro e in pace. La Sierra Leone ha rimpiazzato l'Afghanistan come paese piu' povero del pianeta e, come l'Afghanistan, e' una nazione di vedove. Visitate uno di questi paesi e vedrete da voi che, nella migliore delle ipotesi, la pace richiedera' un tempo assai lungo per manifestarsi. La devastazione del distretto di Kailahun in Sierra Leone e', per esempio, altrettanto scioccante di quel che ho visto a Kabul. Il termine "post conflitto" suona vagamente speranzoso, anche se e' riferito ad un luogo disperato, impegnato in un difficile periodo di "ripresa" che potra' o non potra' essere riconoscibile fra un decennio o due, o persino dopo una generazione o due, come pace. E' questo che i nostri politici non si curano di menzionare (e' possibile persino che non lo capiscano) quando parlano di pace e guerra come se si trattasse delle due facce di una stessa medaglia, ottenute con eguale facilita' tramite un lancio a "testa o croce". Qualsiasi idiota puo' dare inizio ad una guerra molto rapidamente, con un'aggressione come quella lanciata dall'aria da George Bush in Iraq, o dal Ruf in Sierra Leone via terra: ma la pace non si acquisisce altrettanto facilmente. * Giusto il mese scorso, il Tribunale speciale per la Sierra Leone all'Aja ha ripreso il processo, iniziato lo scorso giugno, a carico di Charles Taylor, l'affascinante signore istruito negli Usa, ex presidente della Liberia. Taylor deve rispondere di undici capi di accusa per crimini di guerra, relativi ad atti di terrorismo contro civili, omicidi, stupri, amputazioni, servitu' sessuale e riduzione in schiavitu'. Si tratta di atrocita' commesse contro il paese confinante. Era Taylor a finanziare i "ribelli" del Ruf mentre terrorizzavano la popolazione e rimpolpavano le loro fila con i rapimenti di civili. Pare che entrambi, Taylor e il leader del Ruf Foday Sankoh, abbiamo avuto aiuto tecnico dalla Libia, a cui farebbe comodo una destabilizzazione della regione occidentale africana. Pure queste guerre non hanno per la maggior parte a che fare con le ideologie, e neppure con la politica. Sono guerre di avidita', di potere e controllo e sfruttamento delle risorse naturali della regione: le foreste pluviali della Liberia, i diamanti insanguinati della Sierra Leone. Gli analisti politici e gli storici militari potranno eventualmente avanzare altre teorie per spiegare queste guerre, anche se dovranno fare una gran fatica per trovare qualsiasi istanza che le redima, una qualsiasi "giusta causa". Gli africani vi diranno che esse accadono perche' "uomini assai malvagi" anelavano potere e ricchezze. * Comunque, ecco quel che volevo ricordarvi: quando pensate a questi uomini che danno inizio a guerre, ricordate che non si tratta di guerre combattute da due opposti eserciti, sono guerre alla popolazione civile: e in special modo alle donne. Oggi sono i civili a contare il maggior numero di vittime di guerra. Ogni conflitto che si e' succeduto, in tempi recenti, ha aumentato le percentuali di civili esiliati, profughi, assaliti, torturati, feriti, mutilati, scomparsi o uccisi. In ognuna di queste guerre moderne, la maggioranza dei civili che soffrono sono donne e bambini. E vengono contati, se vengono contati, meramente come "danni collaterali" (e' il caso dei 3.000 innocenti cittadini che morirono durante il primo bombardamento Usa sull'Afghanistan nel 2001). Nelle guerre dell'Africa occidentale, i civili sono diventati i bersagli primari. Foday Sankoh intendeva conquistare la Sierra Leone, ma avendo all'inizio solo 150 combattenti, si diede al reclutamento forzato. Come le forze di Charles Taylor in Liberia, Sankoh ha distrutto interi villaggi, uccidendo la maggior parte dei residenti e portandosi via quelli che gli servivano come soldati, facchini, cuoche e "mogli". Di nuovo, la maggioranza degli uccisi e dei rapiti erano donne e bambini. Ed eccovi una verita' poco conosciuta: quando ogni conflitto cessa ufficialmente, la violenza contro le donne continua, e spesso addirittura peggiora. Quando gli uomini smettono di attaccarsi l'un l'altro, le donne continuano ad essere bersagli convenienti. Qui nell'Africa occidentale, come in numerosi altri luoghi dove lo stupro e' stato usato quale arma da guerra, lo stupro e' diventato un'abitudine trasportata tranquillamente nell'era "post conflitto". Dove le normali strutture della legge e della giustizia sono state rese inabili dalla guerra, i soldati e i civili maschi possono predare su donne e bambini impunemente. E lo fanno. * Percio' vi sto scrivendo, nell'Africa occidentale "post conflitto", da quella che e' una zona di guerra in corso. Sto scrivendo dal cuore, sto scrivendo della guerra contro donne e bambini. Sentite questo rapporto di Amnesty International. Descrive l'ultima delle guerre di cui parliamo, la relativamente breve guerra civile in Costa d'Avorio: "La portata degli stupri e delle violenze sessuali in Costa d'Avorio nel corso del conflitto armato e' stata largamente sottostimata. Numerose donne hanno subito stupri di gruppo o sono state rapite e ridotte a schiave sessuali dai combattenti. Lo stupro si e' accompagnato spesso a pestaggi e torture, incluse torture di natura sessuale, delle vittime. Tutte le fazioni armate hanno perpetrato e continuano a perpetrare violenza sessuale in impunita'". Human Rights Watch sottolinea che "i casi di abusi sessuali vengono scarsamente denunciati" perche' le donne temono "la possibilita' di vendette da parte dei perpetratori, l'ostracismo di famiglie e comunita', e tabu' culturali". Il rapporto di Amnesty documenta caso dopo caso di ragazze e donne, dalle minori di dodici anni alle sessantenni, assalite da uomini armati. Il piu' recente rapporto di Human Rights Watch documento lo stupro di bambine di tre anni. Durante la guerra civile, donne e bambine sono state rapite dalle loro case, nei villaggi, o ai posti di blocco militari, o sono state scoperte mentre si nascondevano nelle boscaglie. Alcune sono state violate in pubblico. Altre sono state violate di fronte a marito e figli. Alcune sono state costrette ad assistere all'omicidio di mariti e genitori. Venivano portate agli accampamenti dei soldati, per essere tenute prigioniere assieme ad altre donne. Dovevano cucinare per i soldati durante il giorno, ed ogni notte venivano stuprate, anche da 30 o 40 uomini. Sono state picchiate e torturate. Alle donne che resistevano al trattamento poteva essere tagliata la gola di punto in bianco. Molte di loro sono state stuprate cosi' incessantemente e cosi' brutalmente (con bastoni, coltelli, canne di fucili, carboni ardenti) che sono morte. Molte altre si portano dietro ferite e dolore che dureranno ben oltre la fine della guerra. Molte che da bambine erano state sottoposte a mutilazioni genitali sono state letteralmente strappate in due parti. Il rapporto di Amnesty freddamente dice: "La brutalita' degli stupri frequentemente causa serie ferite fisiche che richiedono tempi lunghi e trattamenti complessi, incluso il prolasso uterino e fistole retto-vaginali, lesioni che sono spesso accompagnate da emorragie interne od esterne e aborti". Nota anche che le donne di solito "non hanno accesso alle cure mediche di cui hanno bisogno". Alcune non riescono a star sedute, o a stare in piedi, o a camminare. Molte hanno contratto malattie a trasmissione sessuale, e l'Hiv. Nessuno e' in grado di fare una stima su quante ne siano morte, e quante ne moriranno. E di molte non si sa ancora nulla: forse sono state trascinate oltre confine dalle milizie di delinquenti che tornavano a casa. Forse sono state uccise lungo il tragitto. * Storicamente, e' da un lungo periodo che le donne vengono contate tra le "spoglie di guerra", che si possono prendere liberamente, ma nella nostra epoca grandi numeri di donne sono anche state pedine in deliberate strategie militari e politiche intese ad umiliare gli uomini a cui esse "appartengono" ed a sterminare il loro gruppo etnico (pensate alla Bosnia). Il rapporto di Amnesty traccia l'intero quadro della violenza contro le donne in Costa d'Avorio dal dicembre del 2000, quando delle donne vennero arrestate, stuprate e torturate alla scuola governativa di polizia di Dioula: perche' le loro presunte appartenenze etniche e politiche le affiliavano all'opposizione. Secondo Human Rights Watch, questo non fu che uno dei casi incitati dalla propaganda governativa prima dello scoppio della guerra civile. Nessuno dei responsabili e' mai stato portato davanti a un tribunale. Nella vicina Liberia, quando le ostilita' cessarono nel 2002, un milione e quattrocentomila liberiani erano profughi interni. In circa un milione erano fuggiti all'estero. In un paese che conta tre milioni di cittadini, cio' significa una persona su tre. In circa 270.000 morirono: il 10% della popolazione. E di nuovo i bersagli piu' facili sono state le donne. Uno studio dell'Organizzazione mondiale della sanita' del 2005 stima, ed e' scioccante, che il 90% delle donne liberiane abbiano sofferto violenza fisica o sessuale; tre su quattro hanno subito uno stupro. In modo tipico, la fine della guerra non ha messo fine alla violenza contro le donne. Uno studio in preparazione dell'International Rescue Committee, l'organizzazione in cui sono attualmente una dei volontari, si conclude con queste parole: "Mentre la guerra ufficialmente terminava nel 2003, la guerra contro le donne continuava". Piu' della meta' delle donne liberiane intervistate e' sopravvissuta ad almeno un'aggressione fisica durante i 18 mesi successivi al termine ufficiale del conflitto. Piu' della meta' ha subito un'aggressione sessuale nello stesso periodo. Il 72% ha testimoniato di venir forzata ad atti sessuali dai propri mariti. Tra le rifugiate liberiane in Sierra Leone, il 75% aveva subito uno stupro prima di lasciare il proprio paese: il 55% di esse sono state nuovamente assalite nel nuovo paese. Quando finisce la guerra, per le donne? Moltissime non guariranno mai dalle ferite che hanno subito durante la guerra. Le ho incontrate in Liberia. Durante una visita che ho fatto a Kolahun, nella contea di Lofa County dove i combattimenti erano stati pesanti, una donna mi ha mostrato le sue cicatrici: una serie di linee orizzontali parallele che cominciano sotto un orecchio e scendono verso la gola. Un guerrigliero dell'armata di Charles Taylor si teneva questa donna contro il petto e lentamente, centimetro dopo centimetro, le apriva la carne del collo in rivoli di sangue. Ma non basta. Gli uomini di Taylor le hanno rotto tutte le dita delle mani, che ora sono rivolte all'indietro o piegate ad angolature impossibili. Le hanno colpito la schiena con i calci dei fucili cosi' pesantemente e cosi' a lungo che ora ha un braccio ed una gamba paralizzati. Puo' ancora camminare, reggendosi su una gruccia di legno fatta in casa, ma questo le impegna il "braccio buono", e non puo' reggere cose sulla testa, avendo perso la capacita' di bilanciamento. Ha cinque bambini. Alcuni di essi hanno lo stupro come padre. I soldati l'hanno tenuta prigioniera per lungo tempo. Non sa dire in quanti l'abbiano violentata. Nel piccolo villaggio di Dougoumai ho incontrato una donna a cui la gente si riferisce come alla "signora malata". Giace su un letto, in una casa di una sola stanza fatta di mattoni di fango. Quando sono entrata ha fatto grandi sforzi per mettersi seduta, usando le mani maciullate per muovere le gambe inerti. Sua sorella mi ha raccontato che e' stata rapita da una milizia che combatteva contro Taylor, e ha subito uno stupro di gruppo da dieci uomini. Le hanno picchiato la schiena con i calci dei fucili, evidentemente e' una tecnica comune, e le hanno paralizzato le gambe. Non puo' camminare. Le hanno distrutto le mani. Non puo' reggere niente nei palmi, non puo' portarsi il cibo alla bocca, pettinarsi i capelli. L'accudiscono la madre e due sorelle, fortunatamente sopravvissute alla guerra. Le loro vite sono ora dominate dalle conseguenze della violenza fatta a questa donna. Di recente, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie e il Fondo delle Nazioni Unite per i popoli hanno censito le donne sopravvissute nella contea di Lofa, il centro delle operazioni di Charles Taylor. Piu' del 98% hanno perso la propria casa durante la guerra (1999/2003); piu' del 90% i mezzi per vivere; piu' del 72% almeno un membro della famiglia. Circa il 90% sono sopravvissute ad almeno un'aggressione fisica, piu' della meta' ad almeno un'aggressione sessuale. Nessuno ha censito quante di esse sono ora disabili in modo permanente. In Sierra Leone, dove terrorizzare la popolazione civile e' stata la principale tecnica di guerra, la violenza contro donne e bambine e' stata persino piu' brutale. Tutte le parti in conflitto hanno commesso atrocita' senza fine. I documenti ufficiali riportano crimini indicibili: padri costretti a stuprare le proprie figlie, fratelli costretti a stuprare le proprie sorelle, soldati-bambini che stuprano in gruppo donne anziane e poi tagliano via le loro braccia; donne incinte sventrate vive, e il feto estratto dal grembo per soddisfare le scommesse dei soldati sul suo sesso. Un ragazzo viene ucciso a colpi d'accetta e sventrato; il suo cuore ed il suo fegato sono dati in mano alla sorella di 18 anni e le si ordina di mangiarli. La giovane si rifiuta. Viene condotta in un campo dove sono prigioniere altre donne, fra cui sua sorella. Assiste all'omicidio della sorella e di altre prigioniere. Mano a mano che le decapitano, le tirano in grembo le loro teste. Questi delitti, che violano tabu' primordiali, mirano a distruggere non solo le vittime individualmente, ma un'intera cultura: nella maggior parte dei casi, le vittime sono donne e bambini. Forse il peggior crimine degli "uomini assai malvagi" e' stato trasformare i bambini, in maggioranza i maschi, in guerriglieri armati, malvagi quanto loro. Nella sua nota autobiografia A Long Way Gone, Ishmael Beah descrive vividamente la sua esistenza come soldato-bambino. Separato dalla propria famiglia per la guerra, viene catturato da effettivi dell'esercito della Sierra Leone, addestrato a combattere, "tenuto su" con droghe (come tutti gli altri soldati) e forzato ad uccidere. Quando i ragazzini cominciano a stuprare bambine e donne su istigazione degli uomini, la civilta' e' crollata. * In questi anni ogni tipo di orrore e' stato inflitto alle bambine e alle donne in Liberia, Sierra Leone e Costa d'Avorio, per il loro essere femmine. Se le femmine fossero un particolare gruppo etnico, diciamo albanesi, o tutsi, o se fossero identificate con una religione particolare, come i musulmani bosniaci, riconosceremmo quello che sta capitando come "pulizia di genere" o "femminicidio di massa". Ma noi non parliamo dei crimini commessi contro le donne in questo modo. E quand'e' l'ultima volta in cui avete persino sentito nominare i crimini contro le donne? Intervistato dalla tv per un documentario sugli stupri di massa nella Repubblica democratica del Congo, un sorridente guerrigliero dice che si', ha "fatto l'amore" con numerose donne. L'intervistatore chiede se le donne erano consenzienti, e il guerrigliero scoppia a ridere. Ammette che molte oppongono resistenza e, ancora sogghignante, aggiunge: "Se sono forti, chiamo i miei amici ad aiutarmi". Nonostante gli eufemismi che usa, quest'uomo sa esattamente quel che ha fatto e fa. Quando l'intervistatore dice che il suo "fare l'amore" e' stupro, il guerrigliero ripete piu' volte che cio' accade in tempo di guerra, e che quando la guerra sara' finita lui non lo fara' piu'. Lo stato di guerra scusa i crimini commessi dagli uomini contro le donne perche' lo stupro, dicono loro, e' qualcosa che succede "naturalmente" in guerra. * La guerra contro le donne nell'Africa occidentale e ovunque e' diversa dalle altre guerre, siano esse mosse da ideologia, politica, avidita' o ambizione personale: ogni fazione, ogni parte in causa fa guerra alle donne. Tutti rapiscono donne, stuprano donne, costringono donne al lavoro coatto. Tutti uccidono donne. In Sierra Leone, solo le Forze di difesa civile si sono astenute dagli stupri per un tempo considerevole. Si trattava di cacciatori tradizionali, reclutati dal governo affinche' difendessero le loro stesse zone dai ribelli. I loro costumi prescrivono che un guerriero deve astenersi dal sesso se non vuol perdere il proprio potere, e operavano vicini a casa, dove erano conosciuti. Ma con il perdurare della guerra iniziarono anch'essi ad agire come tutti gli altri combattenti. L'astenersi iniziale resta importante, ad ogni modo, perche' offre l'evidenza che lo stupro non e' qualcosa che "capita" in guerra, ma una scelta. Nel cosiddetto dopoguerra, persino alcuni peacekeepers internazionali si sono uniti alla guerra contro le donne. Human Rights Watch ed altri hanno documentato i casi di stupro commessi dai soldati delle forze di interposizione nell'Africa occidentale, e nessuno di essi e' stato perseguito. I perpetratori sono stati semplicemente rimpatriati o spostati da un'altra parte. Human Rights Watch riporta anche come pratica diffusa fra i peacekeepers il servirsi di bambine che si sono date alla prostituzione per sopravvivere (ci sono poche altre opzioni per queste bambine, che sono gia' state usate come schiave sessuali durante la guerra). Qui nel distretto di Kailahun, il luogo in cui la guerra in Sierra Leone e' iniziata e terminata, le donne sono furibonde per gli abusi commessi sulle loro figlie adolescenti. I genitori, in questa parte del paese, sono per lo piu' vedove di guerra e prendono sul serio l'invito a mandare a scuola le loro figlie, scuola che costa sempre piu' di quanto potrebbero permettersi. Se una studentessa resta incinta, la si caccia da scuola. Considerate l'impatto su un villaggio che stia tentando di riprendersi dalla guerra, e deve avere un'insegnante, un'infermiera, un'assistente sociale in meno. Se il padre del nascituro e' un altro studente, costui puo' continuare i suoi studi e negare qualsiasi responsabilita'. Spesso, tuttavia, non sono gli studenti a dover essere biasimati. Molte ragazzine ancora vergini lasciano prematuramente la scuola per sfuggire ai loro insegnanti, e le donne riportano che la percentuale di gravidanze di adolescenti cade a picco quando le forze di "peacekeeping" lasciano la zona. E comunque gli stupri di donne e bambine continuano, quasi del tutto liberamente. E' difficile indicare i numeri, perche' coloro che subiscono violenza provano di solito vergogna a denunciare i fatti: in guerra e' stato piu' facile, perche' era chiaro che venivano forzate da uomini armati; ma con la guerra "finita" lo stupro torna ad essere una colpa delle donne. Le madri, come dicevo, sono pero' furibonde, e continuano a denunciare sempre di piu' le violenze subite dalle figlie. Qui nel distretto si sono mobilitate per costringere la magistratura locale ad occuparsi del caso di una bambina di sette anni vittima di violenza sessuale. Il magistrato, che pare sia parente del reo confesso, continua a evitare il processo rinviandolo, ancora e ancora. Violenza domestica, stupro maritale, abusi, torture, deprivazione economica: tutta roba comune. Donne immiserite dalla guerra, con parecchi bambini a cui dar da mangiare, sentono di non avere scelta se non quella di sopportare dei "normali" livelli di violenza. Ma, esattamente come in tempo di guerra, la violenza abituale invita al brivido dell'eccesso. Giusto ieri, nel distretto di Moyamba, un uomo ha ucciso la propria moglie e poi l'ha decapitata. * Perche' gli "uomini assai malvagi", agendo il terrorismo contro i civili, ottengono vantaggi che vanno al di la' dell'immediata gratificazione dell'abuso di potere. Gli atti che infliggono terrore possono guadagnargli posti importanti nel governo. Quando le atrocita' diventano sufficientemente orrende e cospicue, come la notoria amputazione di braccia e gambe in Sierra Leone, la comunita' internazionale si muove per dare inizio al processo di pace. Usualmente, portano alla tavola dei negoziati tutti gli "uomini assai malvagi" che hanno causato cosi' tanti guai, e li comprano con posti di potere nel nuovo governo "ad interim" o "transitorio". E' testimone di cio' un'altra parte del mondo in cui le donne vengono trattate malamente: tutti i ben conosciuti signori della guerra che il popolo afgano voleva portati davanti alla giustizia sono stati messi insieme nel gabinetto del Presidente Karzai e, dopo le cosiddette elezioni democratiche, siedono in Parlamento. Da negoziazioni di pace simili, Foday Sankoh e' emerso come capo della commissione governativa incaricata della gestione delle risorse naturali della Sierra Leone, inclusi i diamanti che hanno finanziato la sua guerra. Charles Taylor, mentre ordinava saccheggi e stupri nei campi profughi, e' stato eletto Presidente della Liberia. Sembra quasi che gli elettori abbiano pensato, come spesso fanno le donne vittime di violenza domestica, che il miglior modo per fermare la violenza di quest'uomo fosse lasciarle spazio, sebbene la direzione di questo sentiero sia il disastro. Gli "uomini assai malvagi" sono svelti ad imparare dai rapidi successi dei loro fratelli in ogni parte del mondo. Laurent Kunda, riconosciuto nella Repubblica democratica del Congo come il principale candidato ai processi per crimini di guerra, sta ora contrattando la consegna delle armi con un posto nel governo. L'attuale rapido precipitare del Kenya nella "guerra tribale" deve molto alle stesse teorie: Raila Odingo, avendo perso delle elezioni presidenziali chiaramente fraudolente, usa la violenza genocida con la prospettiva che l'intervento internazionale lo rimetta sulla sedia presidenziale facendolo entrare dalla porta posteriore. Sebbene la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite chiami all'inclusione delle donne in tutti i processi di pace e' molto raro che esse vengano invitate ai tavoli. * Qui nel distretto di Kailahun le donne raccontano la storia, probabilmente apocrifa, di una vecchietta che fu sorpresa accanto al suo fuoco per cucinare dai ribelli del Ruf che stavano invadendo il suo villaggio. La circondarono, guardarono dentro la pentola, ed uno di essi disse: "Siamo combattenti per la liberta' del Fronte Rivoluzionario Unito. Siamo venuti a salvarti dal governo". L'anziana, per nulla impressionata, replico': "Allora dovete andare alla capitale. Il governo non sta nella mia pentola". Le donne del distretto di Kailahun continuano a raccontare questa storia, e ridono, ridono. Sono cosi' orgogliose di quella solitaria, coraggiosa vecchia che chiuse le bocche ai ribelli. E' lo spirito della sopravvivenza, che vive e ride in loro, sebbene debbano sapere che con ogni probabilita' i ribelli uccisero l'anziana, e mangiarono il suo pranzo. 2. RIFLESSIONE. ETIENNE BALIBAR: ANCORA SU RAZZISMO E ANTROPOLOGIA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 dicembre 2007, col titolo "Un corpo a corpo sulla linea del colore", il sommario "La costruzione delle differenze tra le razze ha avuto una lunga gestazione. Dalla supposta scientificita' delle differenze biologiche alla centralita' delle differenze culturali. Un'anticipazione di un saggio del filosofo francese Etienne Balibar", e la seguente breve scheda "L'invenzione della razza. La scommessa interdisciplinare di Diabasis. La casa editrice Diabasis ha mandato alle stampe il libro in due volumi sulla Differenza razziale. Discriminazione e razzismo nelle societa' multiculturali (volume I, pp. 223, euro 18; volume II, pp. 203, euro 18). Un'operazione ambiziosa, questa della piccola casa editrice emiliana, perche' ha chiamato a scrivere filosofi, giuristi, antropologi per fornire una prospettiva intersciplinare alla comprensione dei conflitti razziali nelle societa' nel Nord del mondo. Nel primo volume, curato da Thomas Casadei, compaiono saggi di Etienne Balibar (di cui anticipiamo ampi stralci), Stefano Petrucciani, Gaia Giuliani, Gianfrancesco Zanetti, Leonardo Marchettoni, Marco Goldoni, Costanza Margiotta, Baldassare Pastore, Giorgio Pino, Francesco Belvisi e Enrico Diciotti. Nel secondo volume, curato da Lucia Re, sono invece presentati alcuni case study e i differenti interventi legislativi negli Stati Uniti, Unione Europea e Brasile. Interessante e' l'analisi su come il sistema penale e penitenziario abbia seguito le linee del colore nel suo sviluppo. Allo stesso tempo, come anche le esperienze storiche di welfare state non siano stati immuni da pulsioni 'razziali'". Etienne Balibar, pensatore francese, nato nel 1942, docente di filosofia alla Sorbona, collaboratore di Althusser, ha fatto parte del Pcf uscendone nel 1981 in opposizione alla politica del partito comunista francese iniqua verso gli immigrati; impegnato contro il razzismo, e' uno degli intellettuali critici piu' lucidi nella denuncia delle nuove e pervasive forme di oppressione e sfruttamento. Tra le opere di Etienne Balibar: (con Louis Althusser et alii), Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1971; Sulla dittatura del proletariato, Feltrinelli, Milano 1978; Per Althusser, Manifestolibri, Roma 1991, 2001; Le frontiere della democrazia, Manifestolibri, Roma 1993, 1999; La filosofia di Marx, Manifestolibri, Roma 1994, 2005; Spinoza e la politica, Manifestolibri, Roma 1995; (con Immanuel Wallerstein), Razza, nazione e classe, Edizioni Associate, Roma 1996; La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, Mimesis, Milano 2001; Spinoza, il transindividuale, Ghibli, 2002; L'Europa, l'America, la guerra, Manifestolibri, Roma 2003; Noi, cittadini d'Europa? Le frontiere, lo stato, il popolo, Manifestolibri, 2004; Europa cittadinanza confini. Dialogando con Etienne Balibar, Pensa Multimedia, 2006; Europa, paese di frontiere, Pensa MultiMedia] Alcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno del passato, sempre piu' marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi se non fosse "artificialmente" rinvigorito da strategie controproducenti e dagli "effetti perversi" di definizioni e interventi istituzionali quali l'affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure piu' o meno equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi. Non sono solamente i conservatori o i neoconservatori, come il sociologo statunitense Dinesh D'Souza, autore di un libro-manifesto sulla "fine del razzismo" pubblicato nel 1995, che credono di poter fare uso del concetto di "razza" o di "differenza razziale", affermando al contempo che le societa' moderne stanno superando i pregiudizi e le discriminazioni. Anche alcuni intellettuali di sinistra non esitano ad affermare che le differenze professionali, o le differenze di generazione o di sesso, tendono oggi ad assumere, all'interno della conflittualita' sociale, il ruolo che ieri era proprio delle differenze razziali, in particolare nei paesi segnati dal colonialismo e dalla schiavitu'. Essi si presentano come i difensori di un universalismo repubblicano che teme che la difesa delle minoranze e dei gruppi oppressi degeneri in rivendicazioni "comunitariste", oppure cercano di elaborare una politica di emancipazione "post-coloniale" e "postmoderna" che permetta di passare dal discorso della razza e del razzismo a quello delle identita' multiple "nomadi" o "diasporiche", che sovvertono le tradizionali concezioni eurocentriche della comunita' (...) Ciononostante, man mano che dei conflitti a carattere etnico-religioso situati nel Nord come nel Sud generano genocidi e politiche di sterminio, come nella ex-Jugoslavia e in Africa orientale e centrale, o proiettano nel mondo intero i fantasmi della cospirazione e dello scontro di civilta' - come nel caso del conflitto israelo-palestinese - si diffonde l'idea che il razzismo in quanto tale e' un fenomeno permanente, il cui ritorno periodico tradurrebbe l'incapacita' delle societa' di "progredire" nella civilta' o la loro insuperabile dipendenza dalle strutture arcaiche della mentalita' collettiva. Si puo' allora pensare che i dibattiti attuali attorno all'uso e alle applicazioni della categoria "razzismo" non soltanto comportano tensioni estreme, ma rischiano di generare confusione. Una confusione che non ha solo risvolti epistemologici, poiche' il razzismo e', prima di tutto, un oggetto politico e gli aspetti della teoria e della lotta sono indissolubilmente legati (...) Per quanto marginali possano sembrare di fronte ai dibattiti attuali, queste considerazioni sono indispensabili per articolare tra loro tre tipologie di conseguenze di cui siamo gli eredi. Prima di tutto le conseguenze epistemologiche che riguardano la stessa organizzazione del sapere contemporaneo "sull'uomo"; quindi il sorgere di resistenze al paradigma dominante, che possiamo chiamare "umanista"; e, infine, la sua progressiva trasformazione in un paradigma diverso, quello del "razzismo senza razze" o "razzismo culturale" (razzismo "differenzialista"). Le conseguenze epistemologiche non solamente sono sorprendenti per la loro influenza sull'organizzazione delle scienze umane, ma soprattutto per la problematica del razzismo, interpretato filosoficamente come proiezione ideologica o mitica delle differenze naturali interne alla specie umana a discapito della sua essenziale indivisibilita', che viene cosi' a trovarsi al cuore dei presupposti dell'antropologia, e non a derivare solamente da applicazioni specifiche. Parlerei allora di una rivoluzione copernicana nella storia dell'antropologia, che la fa passare da uno sguardo "oggettivista" a uno sguardo "soggettivista" nell'uso del concetto di razza. L'antropologia, in effetti, si distacca dallo studio delle differenze tra le razze e della loro disuguaglianza, considerate come fenomeni oggettivi di cui occorre rintracciare le conseguenze nel campo della politica e della cultura, per passare allo studio del "razzismo", ovvero di quella credenza soggettiva in una disuguaglianza fra le razze, che proietta una griglia d'interpretazione "razziale" sull'insieme della storia o riduce l'insieme delle differenze umane a un modello immaginario di supposte differenze originarie ed ereditarie. (...) Non dubito che questo cambiamento marchi un nuovo inizio nella storia della disciplina antropologica. Ma occorre domandarsi se non ci sia un elemento di continuita' soggiacente al ribaltamento dell'oggettivismo in soggettivismo, benche' le conseguenze pratiche siano opposte. L'antropologia e' sempre un progetto di conoscenza e di riconoscimento di se' da parte dell'umanita' o d'identificazione dell'umano nell'uomo. Essa cerca di rispondere al problema dell'identita' e delle differenze interne al mondo umano come mondo storico, geografico, culturale. Chi siamo e dove siamo gli uni in rapporto agli altri? A questa domanda, dal XVIII secolo e fino alla meta' del XX, in un mondo dominato da una filosofia della storia eurocentrica, hanno preteso di fornire una risposta la storia naturale, la biologia e la psicologia delle razze. Dopo la seconda guerra mondiale, nonostante alcuni presagi della rivoluzione copernicana nella critica del determinismo biologico da parte del culturalismo - sarebbe utile qui concentrarsi particolarmente sugli Stati Uniti d'America, sulle opere simmetriche di W.E.B. Du Bois e di Franz Boas - la prospettiva diviene bruscamente quella dello studio del razzismo e della sua teorizzazione. L'umanita' in quanto tale non e' piu' quindi una specie il cui sviluppo e' guidato dalle differenze di razza, ma una specie composta di individui e di gruppi capaci di sviluppare il razzismo, forse addirittura inevitabilmente condotti a costruire dei miti razzisti - e piu' generalmente delle illusioni xenofobe, eterofobe - sotto l'effetto di una sorta di illusione trascendentale, o come conseguenza della propria organizzazione in culture, societa' e comunita' separate da rapporti di dominazione oggettivi. E' quello che potremmo chiamare "teorema di Sartre", pensando al modo in cui, nello stesso periodo, nelle sue Reflexions sur la question juive (1946), questi sosteneva che "l'Ebreo non esiste", ma che "e' l'antisemitismo che fa l'Ebreo". Tuttavia, in entrambi i casi si suppone che la "scienza" o la "conoscenza scientifica" ci diano la risposta definitiva. Formulare quest'osservazione, sia ben chiaro, significa non squalificare l'idea e la possibilita' di una conoscenza scientifica, ma suggerire come la critica epistemologica applicata alle "teorie razziali" potrebbe rivolgersi anche contro i propri eredi, ossia contro le teorie del "razzismo storico". Significa soprattutto mettere in discussione il "doppio empirico-trascendentale" che qui riguarda non l'individuo, ma il "genere umano", partendo da un principio morale e filosofico dell'unita' dell'umanita' e assegnando alle discipline antropologiche il compito di spiegare il sorgere dei pregiudizi razziali, ovvero dei soggetti o delle soggettivita' razziste. E' chiaro che questa funzione e' segnata da un'ambiguita' alla quale e' forse impossibile sfuggire. * Gli stati razziali Conformemente a quello che era il programma iniziale delle istituzioni internazionali, tale ambiguita' s'iscrive in una prospettiva di progressiva abolizione del razzismo da parte della scienza e della volgarizzazione scientifica, della pedagogia e della legislazione, che riproduce l'ideale, derivato dall'Illuminismo, di autoeducazione dell'umanita'. D'altra parte tuttavia, all'interno di societa' che potrebbero essere caratterizzate come "Stati razziali" - nel senso dato al termine da David Goldberg - essa s'iscrive in un programma di regolazione delle race relations, e dunque dei conflitti e delle rappresentazioni razziste. In questo senso tutti gli Stati contemporanei - anche se il razzismo non e' istituzionalizzato come fondamento ideologico della cittadinanza - sono degli "Stati razziali", poiche' comportano delle disuguaglianze e dei conflitti sociali rappresentabili in termini di differenza razziale o di suoi equivalenti - la differenza etnica, la condizione migratoria -, e, al contempo, sono impegnati in una lotta politica e giuridica di riaffermazione dell'uguaglianza, perlomeno formale. Si consacrano cosi' al compito di "combattere il razzismo", di "estirparlo" dallo spazio pubblico e dalle istituzioni della comunita' politica. Tutto cio' ha importanti conseguenze pratiche; basti pensare allo sviluppo di una giurisprudenza dedicata alle forme di discriminazione razziale e alle modalita' del razzismo. Si potrebbe sostenere che questo e' l'altro versante - quello istituzionale - della rivoluzione epistemologica prima illustrata. Per questo e' importante, in conclusione, tentare di identificare questa rivoluzione epistemologica, che fa dello studio del razzismo in quanto fenomeno ideologico, il cuore della disciplina antropologica e allo stesso tempo assume che esso, nelle sue cause, nelle sue varianti e nelle sue trasformazioni storiche, deriva da una spiegazione antropologica - da modelli universali di strutture sociali e simboliche - dalle resistenze che suscita e dalle eccezioni che comporta. Queste sono tanto antiche quanto il modello antropologico stesso, di cui mettono in dubbio la validita' e la legittimita' istituzionale conferitagli dagli organismi culturali e politici. Esse propongono dei modelli alternativi per la comprensione dei comportamenti e delle rappresentazioni razziste e si interrogano sulla validita' stessa della categoria di "razzismo" come categoria universalizzante (...) * I limiti del paradigma Non si trattava certamente, in questa sede, di svolgere una presentazione completa del paradigma antropologico, dei problemi che esso pone o delle trasformazioni che subisce nel momento in cui la definizione del razzismo si trova di fronte a nuove situazioni storiche. Si trattava solamente di indicarne la necessita'. Il problema che si pone e' quello di sapere se la stessa categoria di razzismo non e' oggi giunta a un punto di decomposizione e di decostruzione. I problemi epistemologici che si pongono sono due e occorre porli simultaneamente. Da un lato, all'interno dello stesso paradigma antropologico, la comprensione del razzismo evolve in direzione di un concetto di "razzismo culturale" o di "razzismo differenziale". In un certo senso, questo rappresenta la logica conclusione della frattura che aveva condotto ad abbandonare la visione naturalista in favore di quella storica e di analisi delle rappresentazioni collettive caratteristiche del paradigma antropologico. Tuttavia diventa improvvisamente problematico assegnare dei limiti alla categoria, limiti dai quali pure dipende il suo uso scientifico, il suo valore analitico: ogni fenomeno di discriminazione, ogni violenza simbolica sembrano esservi compresi. La reversibilita' stessa del razzismo e del sessismo sembra perdersi nella loro equiparazione. D'altra parte nuovi "casi", nuovi "esempi" sembrano sostituirsi, almeno in parte, al sistema ternario che sottendeva la definizione iniziale: antisemitismo, colonialismo, apartheid. * Le regole dell'esclusione Allo stesso tempo la problematica delle discriminazioni istituzionali legate alla destabilizzazione delle comunita' politiche - a partire dalle nazioni - si fa sempre piu' insistente nelle societa' post-coloniali e negli insiemi transnazionali o post-nazionali, lasciando in secondo piano il criterio della divisione "naturale" della specie umana, o delle credenze, dei miti che l'invocano. Altri criteri di definizione delle strutture, dei discorsi e dei comportamenti razzisti, quali il criterio di esclusione - o meglio dell'esclusione interiore - emergono in primo piano. Questi non hanno, almeno in apparenza, bisogno di riferirsi alle "razze". Occorrerebbe quindi esaminarne la costituzione e il funzionamento nelle ricerche contemporanee, ampliando l'analisi qui cominciata. 3. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 4. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 392 del 12 marzo 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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