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Minime. 390
- Subject: Minime. 390
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 10 Mar 2008 00:45:03 +0100
- Importance: Normal
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 390 del 10 marzo 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Sommario di questo numero: 1. Giulio Vittorangeli: Un lavoro per vivere e non per morire 2. Letizia Tomassone: Puntuale come la primavera 3. Ugo Mattei: Alcune note critiche sulla nozione di "rule of law" 4. Ugo Mattei: Alcune note critiche sulla nozione di "Alternative Dispute Resolution" 5. La "Carta" del Movimento Nonviolento 6. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. GIULIO VITTORANGELI: UN LAVORO PER VIVERE E NON PER MORIRE [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli at wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] "Un altro mio compagno ho visto morire oggi bruciato da una miscela di acidi terrificanti. Questo forse non dice piu' nulla a nessuno. Forse non fa neanche piu' cronaca. Ma io non posso tacere, non posso guardare questi morti e fingere di non vederli. Non posso lasciarli inghiottire da questo sporco silenzio. Non voglio tacere. I miei compagni morti non possono, non devono sparire. Voglio urlare, graffiare dentro questa indifferenza che annienta anche le pietre come un lupo affamato nella neve". (Ferruccio Brugnaro, "Non voglio tacere", in "Medicina Democratica", n. 173/175, maggio-ottobre 2007). * Risulta banale, e forse suona anche retorico, dire che "Molfetta e' come Torino". Stessa strage sul lavoro. Ieri alla Thyssenkrupp; oggi (3 marzo 2008) a Molfetta: Guglielmo Mangano anni 44, Vincenzo Altomare anni 64, Luigi Farinosa anni 37, Biagio Sciancalepre anni 22, Michele Tosca anni 19; domani in una qualsiasi delle localita' del nostro belpaese. A Molfetta i soccorritori hanno trovato i corpi cosi', uno sull'altro. Senza maschere, ne' adeguati respiratori. Senza protezioni. L'ennesima tragedia come altre, forse tutte, poteva essere evitata, bastavano una maschera e scarpe migliori. L'hanno definita la strage della catena dell'aiuto: "Il primo a morire e' l'operaio intento a pulire la cisterna di un camion, poi l'autista del camion che va in suo soccorso, poi ancora un altro e anche il proprietario dell'azienda che muore intervenendo in soccorso". In televisione abbiamo visto, sull'asfalto del cortile dell'azienda, i corpi coperti da un telo bianco. Il governo uscente ha poi approvato il testo unico sulla sicurezza, che chiede pene piu' severe per i datori di lavoro. Di per se', molto probabilmente, non risolve il problema dell'insicurezza sul lavoro, puo' semplicemente limitare qualche danno; ma la classe padronale (se possiamo ancora usare questo termine) líostacola gia', con ogni mezzo. Gli industriali considerano la sicurezza un prezzo troppo alto, per questo trasgrediscono regolarmente quelle norme per poter contenere il costo delle proprie produzioni. Cos'altro potrebbe sostenere un sistema industriale, quale quello italiano, che compete sul mercato globalizzato puntando esclusivamente sulla riduzione del costo del lavoro? Credo che in tutte le citta', fino ai paesi piu' piccoli della nostra penisola, esista un monumento, piu' o meno grande, piu' o meno bello, per i morti di guerra; i morti sul lavoro, invece, hanno soltanto un destino di oblio. Si potrebbe parafrasare il primo articolo della nostra Costituzione trasformandolo cosi': "L'Italia e' una Repubblica fondata sul lavoro, anche di chi per il lavoro e' morto". 2. RIFLESSIONE. LETIZIA TOMASSONE: PUNTUALE COME LA PRIMAVERA [Dal sito www.riforma.it riprendiamo il seguente editoriale dal titolo "Il soggetto donna e' centrale" e il sommario "Cento anni fa, l'8 marzo del 1908, morirono nell'incendio della Cotton di New York 129 operaie; la data divenne il simbolo della condizione d'oppressione delle donne". Letizia Tomassone, pastora valdese, gia' impegnata nell'esperienza di Agape, e' una delle figure piu' prestigiose dell'impegno per la pace, di solidarieta', per i diritti umani] Puntuale con la primavera arriva l'Otto marzo e tutta la discussione sull'inutile ritualita' di una festa che per un solo giorno all'anno concentra l'attenzione sulle donne, che rappresentano numericamente piu' della meta' del genere umano. Si ripetono discussioni su quanto un'attenzione simbolica e rituale possa cambiare il mondo, eppure ogni anno insistentemente assistiamo a una sorta di banalizzazione dell'Otto marzo. Forse non ce lo possiamo piu' permettere. Quella giornata nasce da una tragedia del mondo del lavoro industrializzato: 140 operaie bruciate nella fabbrica in cui lavoravano, a New York, nel 1911 (ma c'e' chi colloca l'incendio nel 1908, proprio cent'anni fa). Una giornata dunque che potrebbe indurci a un'analisi molto concreta della situazione delle donne nell'ambito del lavoro e della societa'. Ma e' anche una giornata caricata di una grande valenza simbolica a seguito dei movimenti femministi che se ne sono appropriati per rivendicare una libera soggettivita' femminile. * Quest'anno ricorrono i 60 anni dalla Carta costituzionale italiana che ha riconosciuto la non-discriminazione a partire dalle differenze, compresa quella di sesso. Ma soprattutto stiamo assistendo a una sorta di battaglia politica che fa dei corpi delle donne ancora una volta l'oggetto del contendere fra uomini. Le discussioni a fini elettorali che fanno da sfondo alle nostre esistenze in questi mesi toccano come non mai proprio quei temi che un tempo venivano ricondotti al "conflitto di potere fra i generi". Oggi non si usa piu' quel linguaggio, ma l'oggetto resta lo stesso. L'aborto, l'autonomia del feto dal corpo materno, ricercata sia sul piano giuridico come "diritto della vita dal concepimento alla morte naturale", sia sul piano medico e scientifico nel tentativo di definire quando la vita del feto e' autonoma (ventiduesima o venticinquesima settimana). E poi, la pillola abortiva vista con sospetto e orrore perche' sottrae le donne allo stretto e punitivo controllo medico, creando un immaginario in cui la donna a casa sarebbe da sola mentre in ospedale sarebbe sostenuta da relazioni. Forse chi descrive cosi' lo scenario non frequenta da molto gli ospedali, in cui si puo' essere assolutamente sole o soli, un granello in un ingranaggio, ma non una persona con la sua esistenza. E nello stesso tempo rimuove o ignora il fatto che ancora, nonostante tutto, esistono le reti di amiche, in particolare quelle reti di donne che hanno sempre sostenuto le altre donne nei momenti piu' sofferti della vita. Incorre cioe' nella stessa trappola che fa parlare del diritto del concepito come autonomo dal corpo e dalle scelte della donna. * E' la trappola di un individuo isolato, incapace di stare nelle reti di relazione o di crearne a partire da comuni obiettivi o da sentimenti d'affetto e da passioni condivise. Ci viene proposta un'immagine di societa' e di persona che non siamo noi, e veniamo a forza spinti e spinte a entrarci, perche' e' piu' razionale fare societa' a partire da individui separati, e sottrae forza critica. E' la forza delle relazioni che fa quella differenza che proprio l'Otto marzo mette al centro della nostra attenzione. Una differenza costituita dai movimenti femministi come reti di valorizzazione delle esperienze di trasformazione della societa'. E anche le spinte di cambiamento venute dal mondo dell'economia e del lavoro, che rappresentano altre importanti reti di relazioni molto concrete. Come cristiani dovremmo avere molto a cuore il fatto che l'individuo non venga isolato dalle reti di relazioni che lo costituiscono o la costituiscono come soggetto. Noi stessi non viviamo la nostra fede in modo isolato e solitario ma costruiamo societa' che chiamiamo chiese e che riteniamo essenziali addirittura per esprimere la presenza di Dio nel mondo. * Ma il gioco delle dichiarazioni politiche e delle ingerenze ecclesiastiche che si servono dei corpi delle donne per procacciarsi potere non si limita all'ambito della riproduzione. Nell'ambito lavorativo esiste ancora in Italia una elevata differenza di genere sessuale relativa ai salari, alle possibilita' di promozione e di carriera, alla visibilita' che da' autorevolezza. Nell'ambito politico siamo ancora alla difficolta' di avere un congruo numero di donne elette nei diversi organi di governo, e alla difficolta' di sostenere le ambizioni politiche delle donne. * La chiesa cattolica ufficiale sembra aver imboccato la via di un pensiero unico: le donne schiacciate nel ruolo dell'accoglienza a partire dalla loro conformazione biologica. Quasi a dire che la guerra e la violenza sono connaturate all'animo maschile, e quindi legittimabili, a partire dal dato biologico di una sessualita' estroversa. Tutto questo per non voler accettare una riflessione che contestualizza anche la costruzione sociale dei ruoli maschili e femminili, allontanandosi da essenze quasi assolute e eterne, per scoprire che i ruoli sono legati alle societa' e che dunque esiste la liberta' di trasformarli! Come protestanti dovremmo avere a cuore uno sguardo capace di riconoscere i contesti sociali che danno forma ai diversi ruoli, anche a quelli sessuali, per mettere in campo una liberta' dinamica che ha la sua sorgente in Dio. In fondo quest'anno l'Otto marzo ci mette di fronte alla necessita' di ripensare il soggetto donna che e' centrale per ogni societa' umana, tanto piu' quando questa si trova ad attraversare momenti di crisi e trasformazione. * Potremmo percio' farci raccontare delle storie di donne per capire come sta cambiando questa nostra societa'. Il coraggio delle migranti dell'Est Europa che vivono fra noi, sostengono a distanza le famiglie con il loro lavoro e in fondo hanno aperto un canale di comunicazione fra la nostra societa' e le loro, prima ancora che si allargassero i confini dell'Europa. Il rapporto delle giovani donne con il lavoro, la ricerca di indipendenza economica anche nel matrimonio, una differenza non da poco rispetto alle loro madri, costrette in passato a subire legami e vincoli basati piu' sulla dipendenza che sull'amore e sul rispetto reciproco. La capacita' imprenditoriale femminile ma anche la gestione femminile della scarsita' di risorse in tempi di ristrettezze economiche (quest'ultima e' peraltro un'abilita' riconosciuta e delegata volentieri alle donne in tutta l'economia della modernita'). Potrebbe essere l'occasione di misurare questa abilita' con una gestione pulita e sobria della cosa pubblica, non fosse che i paradigmi della crescita accelerata permettono piu' margini di manovra per economie clientelari. E, non ultima, l'attenzione delle donne ai processi di pace e alla risoluzione nonviolenta dei conflitti. * Cento anni dal Satyagraha di Gandhi, 40 dall'assassinio di Martin Luther King, possono magari segnare questo 2008 con una certa attenzione alle pratiche di pace e nonviolenza, e rilanciare anche tutta quella cultura femminile capace di tessere dialoghi e riallacciare relazioni interrotte e ostili. Anche qui possiamo farci raccontare storie, come quelle delle donne in nero nella ex Jugoslavia o dei Parent's Circles in Israele e Palestina. Raccontare storie per costruire una societa' in cui si scopre di non essere ne' sole o soli ne' isolate o isolati, e in cui quindi anche i temi della bioetica e della biopolitica si fanno piu' complessi e meno in bianco e nero. Ma la vita composta di colori diversi combinati in infinite sfumature e intrecci non e' forse piu' gioiosa e mobile? 3. RIFLESSIONE. UGO MATTEI: ALCUNE NOTE CRITICHE SULLA NOZIONE DI "RULE OF LAW" [Dal quotidiano "Il manifesto" del 26 gennaio 2008, col titolo "I guardiani togati del potere economico" e il sommario "Le ragioni del successo planetario della 'Rule of Law' sono nella plasticita' di un insieme di norme a favore dei diritti di proprieta'. Un concetto duttile, dal sapore conservatore, che sostituisce il potere di intervento dell'esecutivo con quello dei tribunali nella risoluzione del conflitto sociale". Ugo Mattei, giurista e docente universitario, e' autore di molte pubblicazioni] Difficile immaginare una locuzione del lessico politico angloamericano piu' diffusa e prestigiosa a livello planetario della mitica rule of law. Sulla sua data di nascita le opinioni sono discordi, ma non sul luogo dove ha preso inizialmente forma: l'Inghilterra. Ci sono studiosi che indicano la Magna Charta come primo esempio di rule of law; altri, invece, spostano il calendario a qualche secolo dopo, quando il leggendario giudice Edward Cook "vieta" a re Giacomo I (1603-1625) di sedere nella "sua" Corte, ritenendolo carente di quel bagaglio tecnico e non politico su cui si deve fondare la legittimazione di un giudice. Secoli dopo, un'icona del diritto costituzionale inglese, Albert V. Dicey condannava come irrimediabilmente autoritaria la tradizione amministrativa continentale (napoleonica) proprio perche' carente di rule of law, visto che, nei paesi europei, a differenza del mondo anglo-americano, i giudici ordinari hanno infatti giurisdizione molto limitata sui pubblici poteri. Una fondamentale iniezione di prestigio e' venuta alla rule of law dall'esperienza costituzionale statunitense, dove i Federalist Papers la ritennero il solo modo per garantire politicamente una societa' di disuguali, in cui i proprietari sono pochi e devono essere difesi da quelli che non hanno, che sono tanti. La rule of law, affidando ad una Corte dotata di sapienza giuridica la tutela della proprieta' privata, indipendentemente dai cambi di umore politico, deve restare, secondo i "federalisti" statunitensi, una garanzia essenziale anche nel nuovo ordine costituzionale post-rivoluzionario, destinato all'attuale egemonia planetaria. * Un concetto bipartisan In Italia Rule of law e' a volte tradotta come "principio di legalita'", altre volte come "stato di diritto" o come "governo della legalita'": traduzioni cosi' insoddisfacenti da suggerire il mantenimento dell'originale. Quasi impossibile, in presenza del coro celebrativo che la invoca come panacea per la soluzione di ogni problema di prepotenza del potere, trovare qualcuno disposto ad argomentare contro un sistema politico fondato sulla rule of law, nonostante le sue origini chiaramente conservatrici. Ogni argomento critico nei suoi confronti e' considerato una critica a un sistema giuridico "giusto", un sistema economico "efficiente" o un pasto "appetitoso". Si tratta insomma di una di quelle idee che la storia ufficiale ha saputo collocare con successo su un piedistallo di sacralita', tutelato e difeso quasi da ogni parte politica. Una nozione "bipartisan", cara sia alla cultura conservatrice che a quella liberal piu' devota al cambiamento; icona tanto della monarchia costituzionale inglese quanto delle rivoluzione statunitense. Qualche anno fa, Niall Ferguson, uno storico inglese di grande successo vicino alla terza via blairiana e clintoniana, ha pubblicato un libro portatore del medesimo ritolo, Impero, reso celebre da Michael Hardt e Toni Negri. Ferguson sosteneva che l'espansione dell'impero inglese aveva certamente prodotto nefandezze quali guerre, genocidi, espropriazioni e deportazioni, ma aveva anche beneficiato le sue prede di un lascito di inestimabile valore: la rule of law appunto, capace di trasformare sistemi (come quello indiano), che altrimenti si sarebbero sviluppati secondo un modello autocratico di dispotismo orientale, in moderne democrazie. In qualche modo, spiegava il giovane storico, successivamente non per caso assurto ai fasti della cattedra harvardiana ed oggi autorevole firma del "New York Times", il gioco era valso la candela. Infine, non c'e' occasione di incontro internazionale in cui la rule of law non diventi il concetto che mette tutti d'accordo. Nel luglio del 2005, ad esempio, in chiusura del vertice del G8 di Londra, Toni Blair ancora scosso dalle bombe che avevano portato il terrore nella capitale inglese, presentava il suo "piano per l'Africa", promettendo (nella generale commozione e approvazione) che la successiva remissione del debito sarebbe dipesa unicamente dalla volonta' degli africani di sviluppare la rule of law. Due anni dopo, la promessa cancellazione del debito non si e' verificata, ma in compenso l'ultimo vertice del G8 ha organizzato un importante convegno proprio dedicato alla rule of law. Del resto, quale concetto potrebbe mettere d'accordo in piena campagna elettorale le due donne piu' potenti del pianeta, Hillary Clinton e Condoleeza Rice? Sfogliando l'ultimo fascicolo del "Berkeley Journal of International Law" si trova la risposta. Entrambe hanno infatti parlato di rule of law ad un seminario organizzato dalla potentissima American Bar Association (un paio di milioni di avvocati iscritti). Mi sono divertito a cancellare il nome delle autrici e a far circolare i due contributi fra gli studenti di un mio seminario in California, chiedendo di indovinare quale delle due statiste avesse scritto quale pezzo. E' risultato del tutto impossibile indovinare. Avevano articolato esatamente le stesse (trite) riflessioni! Quando il Puntland (estemo nord-est somalo) sul finire degli anni Novanta, cercando di consolidare una situazione di relativa pace dovuta al fatto che i macelli (a partecipazione italiana) dell'intervento Restore Hope non si erano spinti cosi' tanto a nord, chiese alle Nazioni Unite di finanziare la ricostruzione di un edificio parlamentare dove far riunire l'assemblea politica di capi tradizionali, non ricevette una lira per la ricostruzione ma, al suo posto, ottenne la partecipazione di un (ben pagato) team internazionale di esperti incaricati di vegliare sul rispetto delle rule of law da parte della "carta transitoria" che i somali stavano cercando di negoziare. Non si trattava di un facile test per la cultura politica somala. Infatti, la rule of law, come mostra la sua storia tutta occidentale, altro non e' che un modello in cui il potere decisionale dei micro-conflitti viene assegnato principalmente a un giurista (il giudice appunto), legittimato da un sapere tecnico-giuridico. Legittimato a decidere non e' quindi un soggetto dotato di un sapere religioso, filosofico-morale o tradizionale come per esempio il quadi islamico, ne' un uomo politico (come nel principio di legalita' socialista) che pure potrebbe vantare in molti casi ben maggior legittimazione democratica. Non e' difficile a questo punto scorgere le principali ragioni del successo planetario della curiosa idea secondo cui la cultura professionale "espropria" quella religiosa e quella politica di gran parte del potere decisionale. Rule of law e' infatti una di quelle "nozioni plastiche" in cui ciascuno vede i valori in cui crede. Cosi', quando la Banca Mondiale, dando ascolto a qualche guru dell'Universita' di Chicago, impone la rule of law come parte degli "aggiustamenti strutturali" ai quali condiziona il credito, essa vi legge la garanzia per gli investimenti esteri sotto forma di rispetto della proprieta' privata e della "sacralita'" dei contratti economici. Quando invece un giovane cooperante pieno di buone intenzioni partecipa ad un programma sulla rule of law (ce ne sono centinaia) finanziato da un'universita' americana, una Ong o un governo (come per esempio quello italiano in Afghanistan o quello canadese in Mali) egli legge nella rule of law la tutela dei "diritti umani fondamentali" e pensa cosi' di fare del bene proteggendo qualche minoranza oppressa. Il punto e' che fra queste due idee fondamentali c'e' un'antinomia storica a dispetto della comune espressione semantica. * L'ostacolo dei diritti umani Il Peru' di Fujimori, il Cile di Pinochet o la Colombia di Uribe sono stati o sono sicuramente governati dalla rule of law, nella sua accezione di garanzia degli investimenti economici e sicurezza dei diritti proprietari. Dal medesimo punto di vista, la Bolivia di Morales, il Venezuela di Chavez o la Cuba di Fidel sono generalmente considerati carenti di rule of law, perche' gli investitori stranieri sono sottoposti a severi controlli e rischiano nazionalizzazioni: possibilita' che suonano come una bestemmia alle istituzioni finanziarie internazionali. Dal punto di vista della tutela dei diritti umani (seconda accezione del termine rule of law), sicuramente si possono tuttavia trovare molti sistemi in cui i diritti umani sono assai piu' rispettati rispetto a quelli economici, perche' la proprieta' privata e la liberta' contrattuale vedono (giustamente) severe limitazioni ad opera della mano pubblica. Basti pensare, per un esempio storico, al Cile di Salvator Allende, ma anche a molte socialdemocrazie europee. Anzi, se si vuol dar credito a quanto scrive Naomi Klein (ma molti altri prima di lei) nel suo ultimo libro, il rispetto della rule of law nel primo senso (quello economico) ne rende impossibile il rispetto nel secondo (le ricette neoliberali richiedono la violenza di Stato per essere imposte), mentre il rispetto della rule of law come rispetto dell'effettivita' dei diritti umani e' incompatibile con la sua accezione economica, perche' lo sviluppo dei diritti umani fondamentali non puo' prescindere dalla redistribuzione delle risorse. * L'epifania del politico Occorre peraltro osservare che l'idea stessa di rule of law pone le proprie radici nella piu' profonda autocoscienza della civilta' occidentale ed e' quanto mai remota all'esperienza politico-giuridica degli "altri". L'"orientalismo", che tuttora domina il discorso politico del potere occidentale, alimenta la percezione dell'"altro" (il non occidentale) come carente di rule of law. In questa prospettiva, lo stravolgimento della storia giuridica di popoli considerati "senza storia" non ha limiti: alcuni paesi islamici avrebbero conosciuto la rule of law soltanto grazie agli sforzi di modernizzazione giuridica di inizio XX secolo (mentre molti sono ancora nell'oscurita' della sharia). Allo stesso tempo i paesi dell'America Latina dovrebbero ringraziare la colonizzazione e S. Ignazio di Loyola, mentre in molti paesi africani, che nel recente passato avevano rifiutato la colonizzazione e i suoi benefici giuridici di cui ci parla Ferguson, con la caduta del Muro di Berlino le organizzazioni finanziarie internazionali sono intervenute sul diritto, non piu' visto come una epifania del politico ma come una semplice infrastruttura del sistema economico. Inoltre, anche la Cina, dovra' prima o poi riuscire a capire l'importanza della rule of law. Infine, anche la Russia va aiutata ad aprire gli occhi, vista la continuita', a dispetto delle rivoluzioni, fra l'autocrazia zarista, gli orrori del socialismo reale e il personalismo revanchista di Putin. Insomma, Solo l'Occidente e' padrone della rule of law, e quindi in generale della legalita'. Di questo concetto vago, universalizzato in scorrerie coloniali in cui i giuristi sempre legittimano i potenti, non si narra la storia. Piuttosto ne viene "naturalizzato" e "depoliticizzato" il contenuto, per celarne l'essenza: quella di principale ideologia di legittimazione etnocentrica e neocoloniale, utilizzata tanto dagli ideologi del mercato quanto dai professionisti dei diritti umani. * Postilla bibliografica. Nel labirinto delle leggi in difesa dell'Occidente Dalla conquista coloniale alla globalizzazione economica Sulla storia del concetto A Concise History of the Common Law, di T.F.T. Plucknett, (Little, Brown & Co., Boston), Oltre lo Stato, di Sabino Cassese (Laterza), Common Law. Il diritto Anglo-Americano, di Ugo Mattei (Utet), Impero, di Niall Ferguson (Mondadori). Un recente importante lavoro che insiste sull'importanza del diritto nella costruzione della dominazione coloniale e' Ultramar. L'invenzione europea del nuovo mondo, di Aldo Andrea Cassi (Laterza). Il saggio fondamentale sulla dominazione coloniale in Americana Latina resta Le vene aperte dell'America Latina, di Eduardo Galeano (Giunti). Un classico del rapporto tra Occidente e il resto del mondo e' Europe and the People Without History, di Eric R. Wolf (University of California Press). Da segnalare sullo stesso tema anche il volume di William Woodruff, The Impact of Western Man: a Study of Europe's Role in the World Economy, 1760-1960 (Macmillan). Particolare attenzione critica agli aspetti giuridici della globalizzazione e' data dal saggio di Laura Nader, Le forze vive del diritto (Esi). Sulla diffusione del modello giuridico dominante, i libri di Danilo Zolo, tra cui Globalizzazione. Una mappa dei problemi (Laterza), Imitazione e diritto. Ipotesi sulla circolazione dei modelli, di Elisabetta Grande (Giappichelli), Il diritto sconfinato, di Maria Rosaria Ferrarese (Laterza), nonche' Plunder. When The Rule of law is Illegal, di Ugo Mattei-Laura Nader (Blackwell-Viley). 4. RIFLESSIONE. UGO MATTEI: ALCUNE NOTE CRITICHE SULLA NOZIONE DI "ALTERNATIVE DISPUTE RESOLUTION" [Dal quotidiano "Il manifesto" dell'8 febbraio 2008, col titolo "L'industria dell'armonia e il mercato della giustizia" e il sommario "L''Alternative Dispute Resolution' indica le forme di risoluzione delle dispute legali che si sono sviluppate al di fuori delle istituzioni nazionali o internazionali. Dall'arbitrato alla mediazione, il sistema del diritto di matrice illuminista viene messo ai margini in nome di un rapido esito dei conflitti economici e sociali..."] La rule of law, nozione giuridica e programma politico largamente condiviso a destra come a sinistra, nasconde un lato oscuro assai difficile da scorgere a causa dell'ambiguita' semantica e politica del termine. E' la tesi di un mio articolo pubblicato su queste pagine il 26 gennaio che ha provocato un'ampia discussione nel gruppo di studio "Nuvole" (www.nuvole.it), che spinge chi scrive a proseguire nel tentativo di decostruire "nozioni plastiche", la cui collocazione su di un piedestallo retorico le ripara dalla critica e ne limita la comprensione storica e teorica come istituzioni portanti del capitalismo contemporaneo. Una simile fortunata sorte e' toccata alla nozione di Alternative Dispute Resolution (Adr). E' noto che in molti paesi, fra i quali certamente l'Italia, la giustizia e' molto poco accessibile a chi non e' dotato di mezzi sufficienti. I suoi costi sono infatti molto significativi e i suoi tempi sono biblici. Spesso molti anni sono necessari per "arrivare a sentenza" anche nel caso di una semplice controversia sorta a seguito di un inadempimento contrattuale, di un divorzio, un licenziamento o un incidente stradale. Fra le cause di questi mali della giustizia da molte parti viene indicata l'esplosione della litigiosita', ossia l'aumento esponenziale delle questioni che nella societa' di massa vengono portate di fronte alle corti di giustizia con conseguente collasso della loro capacita' decisionale. A poco sono valsi gli studi empirici, fra i piu' noti quelli del sociologo del diritto americano Mark Galanter, volti a dimostrare che la litigation explosion sia un fenomeno largamente esagerato se non del tutto inventato a fronte di dati che mostrano un'intensita' della litigiosita' sostanzialmente costante dagli anni Settanta ad oggi. * Le soluzioni private Un imponente apparato ideologico si e' messo in moto sul finire degli anni Settanta creando un clima di favore per ogni soluzione che promettesse di decongestionare le corti. Tale apparato ideologico veicola e al contempo nasconde interessi che hanno ben poco a che vedere con la declamata missione oggettivamente desiderabile dell'Alternative Dispute Resolution come strumento per rendere la giustizia maggiormente accessibile a tutti. Da un lato, infatti, la lungaggine giudiziaria spinge i portatori di interessi economici piu' significativi a scegliere vie alternative, come per esempio l'arbitrato, una soluzione "privata" spesso celebrata dalla cultura giuridica dominante, come estremamente avanzata sia culturalmente che tecnicamente. Naturalmente, tali giudizi entusiastici non sono del tutto disinteressati, visto che l'elite della professione giuridica, accademica, avvocatizia e financo giudiziaria, trova nell'arbitrato civile (soprattutto, ma non solo nelle questioni internazionali) una delle sue piu' importanti fonti di arricchimento. Dovrebbe risultare percio' agevole, in chiave critica, comprendere le forze che progressivamente hanno portato all'allargamento degli ambiti dell'arbitrato, nonche' le varie forme di legislazione ed organizzazione transnazionale (convenzione di New York, Uncitral, Unidroit) che erigono questa soluzione alternativa privata su un piedestallo sempre piu' irraggiungibile per un giudice ordinario che, alla luce di valori politico-culturali fondativi dell'ordinamento, ritenesse di valutarme il merito. L'arbitrato infatti altro non e' che una semplice forma di giustizia privata, piu' snella, efficiente e naturalmente molto piu' costosa di quella ordinaria. Tanto piu' si riesce a renderne impermeabili gli esiti rispetto al controllo della giurisdizione ordinaria, tanto piu' ne aumenta il valore (e quindi il fatturato dell'industria culturale di riferimento), perche' questa forma di risoluzione delle controversie giuridiche diviene un'alternativa completa e pienamente autosufficiente del tutto funzionale agli interessi della "classe opulenta". Attraverso l'arbitrato viene infatti riproposto un diritto dei mercanti (la lex mercatoria) come ordine giuridico alternativo, portatore di valori propri, potenzialmente diversi, ma costruiti come perfettamene compatibili, se non piu' avanzati, rispetto a quelli dell'ordine giuridico comune. Insomma si ripropone quell'idea di un diritto "di classe" per i "mercanti" che era stata contestata e cancellata a partire dal grande legislatore svizzero Eugen Huber a inizio XX secolo. * La governance del diritto Se il successo dell'arbitrato "privato" e' dovuto al fatto che e' una semplice alternativa desiderabile, in particolar modo per la classe piu' abbiente, sembra tuttavia un "affare" che non riguarda piu' di tanto il quivis de populo. In realta' i rischi per la civilta' giuridica non mancano. In primo luogo, si contribuisce alla creazione di un sistema di governance del tutto scisso dalla componente politica, come se non fosse evidente che i valori di concorrenza, efficienza e sopravvivenza del piu' adatto, veicolati dal diritto degli arbitri privati, finiscono per contagiare quelli propri del diritto comune. Inoltre i rischi in termini di ulteriore degrado del sistema giudiziario ordinario vengono sottovalutati dall'"industria culturale" che sostiene l'Alternative Dispute Resolution. Se infatti tutti i migliori professionisti sono impegnati in arbitrati, e' evidente che il sistema ordinario peggiorera' sempre piu', proprio come negli Stati Uniti la scuola pubblica rispetto a quella privata. Ma i rischi che l'arbitrato fa correre alle conquiste giuridiche del XX secolo (che avevano prodotto l'uguaglianza almeno formale fra le classi, per cui i mercanti non potevano rivendicare un proprio diritto sovrano diverso da quello di tutti gli altri cittadini) impallidiscono rispetto a quelli prodotti alla civilta' giuridica della seconda forma di "risoluzione alternativa delle dispute", di piu' recente introduzione, la "mediazione" assistita professionalmente. Anche qui, alla base della retorica che la legittima sta la litigation explosion. Ma mentre nell'arbitrato rimane ferma l'idea, profondamente radicata nella tradizione giuridica occidentale, di una soluzione delle controversie fondata su una ragione e un torto, stabilita da professionisti del diritto sulla base di un accertamento neutrale dei diritti delle parti coinvolte nella controversia, il modello della mediazione costruisce una vera e propria giustizia strutturalmente "altra", per usare il titolo di un recente interessantissimo volume curato da Vincenzo Varano e pubblicato per i tipi di Giuffre'. * L'ideologia della mediazione In questa forma di "mediazione" giuridica, infatti, la controversia non e' decisa da una parte terza, il giudice o l'arbitro, sulla base di un accertamento professionale del diritto e dei diritti e fondato quindi su un giudizio di legalita'/illegalita'. Qui le parti giungono alla soluzione "alternativa" in armonia, cercando insieme un ragionevole compromesso aiutate spesso da un facilitatore dotato di cultura psicologica piuttosto che giuridica. La ragione ed il torto spariscono; rimangono la ragionevolezza giudicata come conformazione ad un modello sociale di persona per bene, remissiva, integrata, non idiosincratica, che non crea "problemi". Nella mediazione prevale un'ideologia dell'armonia (per usare il titolo di un volume classico di Laura Nader) ed e' premiato chi sa rinunciare (sotto la "pressione" del mediatore) almeno in parte ai suoi diritti a favore di un compromesso oggettivamente desiderabile. Chi vuole far valere i propri diritti e' spesso visto come capriccioso, ribelle, potenzialmente sovversivo. Insomma affetto da una patologia "protestataria" cui lo psicologo che facilita il consenso puo' porre rimedio aiutando il deviante (ancorche' dotato di diritti) a tornare in armonia con la societa'. Nell'Africa colonizzata, i soggetti sociali "deboli" che cercavano di adire alle Corti moderne portate dal colonizzatore, venivano respinti e rinviati alla "giustizia tradizionale", a struttura mediatoria, considerata dai colonizzatori adatta a conformare i caratteri piu' ribelli. Nel Giappone Meji, ed ancora oggi assai spesso, chi voleva far valere un diritto individuale (locuzione soltanto recentemente entrata nel dizionario giapponese) era considerato un sovversivo sleale, incapace di conformarsi alla coscenza comune e di accettare la mediazione tradizionale. Nella Cina contemporanea, per scongiurare la crescita di assertivita' dei diritti individuali, conseguenza della professionalizzazione del sistema giuridico, il potere invoca un ritorno all'armonia confuciana. A partire dalla meta' degli anni Settanta, a seguito di un intervento profetico di Warren Burger, presidente della Corte suprema, la mediazione e' divenuta anche negli Stati Uniti una vera "industria" del consenso sociale e dell'armonia, volta oggi in gran parte alla costruzione di modelli sociali remissivi. Trattandosi di un'idea assai estranea alla concezione giuridica illuminista, sono state finanziate cattedre universitarie, master professionalizzanti, sono stati pubblicati decine di volumi, organizzati congressi dedicati a questa panacea che offre alle "persone ragionevoli" una soluzione per le controversie sottraendole allo stress della lite giudiziaria. La retorica e' potente. Il bene in se' e' ovvio ed evidente a tutti: perche' congestionare le corti, spendere molto denaro, attendere per anni una sentenza per far valere un proprio diritto quando una soluzione ragionevole e' a portata di mano? Ma i pericoli del modello mediazione in una cultura individualistica quale quella occidentale sono spaventosi. In molti casi negli Stati Uniti la mediazione e' obbligatoria. Se non si accetta la mediazione non si ha accesso alla Corte. In materia di diritto di famiglia, per esempio, i coniugi devono necessariamente esperire la mediazione professionale prima di avere accesso alla Corte. Ma cio' e' vero anche in una grande varieta' di altre ipotesi. Ed e' proprio nella disparita' di potere, evidente fra marito e moglie, padrone ed operaio, consumatore e corporation, Stato debole e Stato forte (come nelle mediazioni internazionali dei conflitti sulle acque, che sostituiscono la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja) che si annidano i grandi rischi dell'Alternative Dispute Resolution, come soluzione favorevole al piu' forte. * I compromessi impossibili Nel caso di fallimento della mediazione infatti, la riprovazione si sposta sul torto di chi ha fatto fallire il tentativo dimostrando la propria iragionevolezza piuttosto che su quello di chi aveva violato in origine i diritti. E cosi' la moglie abusata che non accetta di mediare sull'assegno di risarcimento del marito violento, il consumatore che non accetta il premio di consolazione offerto dalla Corporation, il lavoratore che insiste perche' il suo diritto sia integralmente rispettato invece di accettare il compromesso "ragionevole" su cui magari sono d'accordo padroni e sindacato, lo Stato piu' debole che non accetta un compromesso sulle frontiere, passa automaticamente dalla parte del torto. Fino alla fine degli anni Settanta l'ideale dell'accesso alla giustizia era perseguito in occidente con gli strumenti, costosi, del Welfare state. Il gratuito patrocinio per i meno abbienti e le altre forme di sovvenzione dell'accesso alla giustizia che in Germania e Svezia avevano raggiunto le punte piu' avanzate di civilta', erano perseguite, con sforzi piu' o meno efficaci, in tutti i paesi. Lo sviluppo irresistibile dell'Alternative Dispute Resolution, della sua promozione ideologica, prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo, e' coinciso con un nuovo paradosso della postmodernita'. Al problema dell'accesso alla giustizia si risponde, con grande risparmio di fondi pubblici, appaltando all'"industria dell'armonia" il suo sostanziale diniego. L'uomo o la donna non conformisti perdono il loro diritto a che una corte si pronunci sul loro dissenso. * Postilla bibliografica. Le multinazionali del diritto Sull'arbitrato: I mercanti del diritto. Le multinazionali del diritto e la ristrutturazione dell'ordine giuridico internazionale, di Yves Dezalay (Giuffre'). Per una ricostruzione storico-critica dello sviluppo della "lex mercatoria", Diritto Commerciale, di Gastone Cottino (Vol I, Cedam). Per una messa a punto generale del rapporto fra legalita' formale ed informale: Le forze vive del diritto. Un'introduzione all'antropologia giuridica, di Laura Nader (Edizioni Scientifiche Italiane). Per una collezione importante di dati, il volume curato da Vincenzo Varano, L'Altra giustizia (Giuffre'). Per un vivace dibattito critico a piu' voci sui modelli di provenienza dell'"armonia dell'ideologia", si veda il numero speciale della rivista "Law and Social Inquiry" (n. 27 del 2003) dal titolo Illusions and delusions on conflict management in Africa and Elsewhere. Sul rapporto fra armonia ed assertivita' giuridica, il rinvio e' al volume di Eric Feldman, The Ritual of Rights in Japan (Cambridge University Press). Per approfondimenti sul rapporto fra l'industria dell'Alternative Dispute Resolution e quella della "rule of law", il saggio di Ugo Mattei e Laura Nader, Plunder. When the Rule of Law is Illegal (Wiley-Blackwell). Per importanti spunti su come gli assetti istituzionali determino i comportamenti individuali, il testo di Giuseppe Guarino, L'uomo-istituzione (Laterza). Sulla diffusione dell'ideologia del centro nelle periferie, l'analisi di Domenico Losurdo, Il linguaggio dell'impero (Laterza). 5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 6. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.miritalia.org; per contatti: mir at peacelink.it, luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info at peacelink.it NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 390 del 10 marzo 2008 Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per ricevere questo foglio e' sufficiente cliccare su: nonviolenza-request at peacelink.it?subject=subscribe Per non riceverlo piu': nonviolenza-request at peacelink.it?subject=unsubscribe In alternativa e' possibile andare sulla pagina web http://web.peacelink.it/mailing_admin.html quindi scegliere la lista "nonviolenza" nel menu' a tendina e cliccare su "subscribe" (ed ovviamente "unsubscribe" per la disiscrizione). 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