Voci e volti della nonviolenza. 119



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 119 dell'11 dicembre 2007

In questo numero:
1. Giuliano Pontara: Definizione di violenza e nonviolenza nei conflitti
sociali (1977) (parte seconda e conclusiva)
2. Et coetera

1. GIULIANO PONTARA: DEFINIZIONE DI VIOLENZA E NONVIOLENZA NEI CONFLITTI
SOCIALI (1977) (PARTE SECONDA E CONCLUSIVA)
[Riproduciamo di seguito la seconda ed ultima parte (pp. 14-23)
dell'opuscolo di Giuliano Pontara, Il satyagraha. Definizione di violenza e
nonviolenza nei conflitti sociali, Edizioni del Movimento Nonviolento,
Perugia 1983; opuscolo che a sua volta riproduce senza alcuna modifica
l'intervento di Giuliano Pontara dal titolo "Definizione di violenza e
nonviolenza nei conflitti sociali" alle pp. 59-80 del libro di autori vari:
Movimento Nonviolento, Marxismo e nonviolenza, Editrice Lanterna, Genova
1977 (volume che raccoglie gli atti di un rilevante convegno, e che contiene
interventi di Franz Amato, Nicola Badaloni, Ernesto Balducci, Lorenzo
Barbera, Norberto Bobbio, Maurice Delbrach, Antonino Drago, Roger Garaudy,
Alberto L'Abate, Vincent Laure, Michele Moramarco, Arnaldo Nesti, Pietro
Pinna, Giuliano Pontara, Domenico Sereno Regis, Leonardo Tomasetta, Umberto
Vivarelli). Cogliamo l'occasione per segnalare che gli atti di un ulteriore
convegno di analogo tema sono stati raccolti nel volume a cura della
Fondazione "Centro studi Aldo Capitini" e del Movimento Nonviolento,
Nonviolenza e marxismo, Libreria Feltrinelli, (Milano) 1981 (con interventi
di Gianni Baget-Bozzo, Lelio Basso, Norberto Bobbio, Giovanni Cacioppo,
Guido Calogero, Luciano Capuccelli, Antonino Drago, Giovanni Franzoni,
Alberto L'Abate, Lucio Lombardo Radice, Italo Mancini, Adalberto Minucci,
Giuliano Pontara, Matteo Soccio, Andrea Vasa, Giacomo Zanga)]

5. La nonviolenza positiva
Occorre ora fare un discorso a parte su di una quarta nozione di nonviolenza
alla quale, per ragioni che diverranno chiare fra poco, e' opportuno
riferirsi con il termine di nonviolenza specifica, o nonviolenza ideologica
e positiva. Essa si differenzia notevolmente dalla tre nozioni sopra
delucidate alle quali ci si puo' riferire con il termine generale di
nonviolenza generica, oppure nonviolenza pragmatica e negativa. Le ragioni
che giustificano l'uso di questi ultimi termini per riferirsi genericamente
alle modalita' di lotta non militare, incruenta e a-violenta, sono le
seguenti. In primo luogo, tutte e tre queste nozioni sono caratterizzate
esclusivamente in termini negativi: lotta nonviolenta sta qui a significare
lotta esente da violenza. In secondo luogo, le tre nozioni di tecnica
nonviolenta sopra distinte sono compatibili con qualsiasi ideologia.
Con cio' si intende affermare che, cosi' come sono state caratterizzate,
nulla esclude che tecniche esenti da violenza (in questa o quella accezione
di questo termine), possano essere impiegate da qualsiasi gruppo in vista di
qualsiasi fine (come appunto e' il caso per quanto riguarda l'impiego di
tecniche di lotta violenta). Nulla esclude, ad esempio, che persino un
gruppo fascista in una certa situazione impieghi dei mezzi di lotta
non-militari, o incruenti, o anche a-violenti, - ma cio', non per una
qualche ragione ideologica o morale, ma per il semplice fatto che cotali
mezzi sono quelli che, nella situazione in questione, forniscono, o si crede
forniscano, le maggiori garanzie di ottenere il successo. Uno dei maggiori
studiosi della nonviolenza generica ha esplicitamente sottolineato che "non
vi e' nulla nell'azione nonviolenta che ne precluda l'impiego sia al
servizio di cause 'giuste', sia al servizio di cause 'ingiuste'" (7).
*
Quanto ai termini "nonviolenza specifica" o "nonviolenza ideologica e
positiva", cio' che ne giustifica l'uso sono le seguenti considerazioni. In
primo luogo, con l'aggettivo "positiva" si intende sottolineare che non si
tratta, come nel caso della nonviolenza generica o negativa, di una nozione
delimitata esclusivamente in termini negativi: cioe' l'astensione dalla
violenza e' una condizione necessaria, ma non sufficiente, di una modalita'
di lotta nonviolenta positiva (come si vedra', in modo piu' preciso, tra un
momento). In secondo luogo, l'aggettivo "positiva" sta anche a sottolineare
il fatto che non si tratta di una forma di lotta identificabile con la
resistenza passiva, bensi' che si tratta di una modalita' di lotta attiva,
"aggressiva" e costruttiva. In terzo luogo, l'aggettivo "ideologica" vuo
richiamare l'attenzione sul fatto che non si tratta, come nel caso della
nonviolenza pragmatica, di una modalita' di lotta impiegabile da chiunque
per il raggiungimento di qualsiasi fine - cioe' compatibile con qualsiasi
ideologia -, bensi' di una modalita' di lotta alla quale sottosta una intera
dottrina o ideologia politica e che pertanto e' applicabile soltanto da
coloro che accettano tale dottrina. La quale si articola in tutta una serie
di momenti o componenti tra cui spiccano una particolare concezione etica,
una teoria della natura umana, una filosofia dei conflitti e la visione di
una societa' in cui il potere e il benessere sono di tutti e che favorisce
al massimo e in tutti lo sviluppo di una personalita' umana che integri
profondamente in se' l'idea della uguaglianza con quella del rispetto
dell'autonomia dell'individuo, e che si apra a sempre maggiori
identificazioni con le gioie e le pene altrui (invece di identificarsi con i
simboli, le bandiere, i canti, le istituzioni, le regole, e i ruoli).
*
L'idea, morale, del potere e del benessere di tutti (quella che Capitini
chiamava "Omnicrazia" (8) e Gandhi "Sarvodaya" (9)) significa qui che
ciascuno deve avere tanto potere (reale) di influenzare e controllare le
decisioni politiche che riguardano la sua vita, quanto e' compatibile con un
uguale potere in ogni altro membro della societa', si' che ciascuno abbia in
ogni momento la massima possibilita', compatibile con la massima
possibilita' di ogni altro, di realizzare la miglior vita di cui e' capace.
La dottrina della nonviolenza positiva sa che questa e' una visione o un
ideale che non e' completamente realizzabile - se mai lo sara' - che a lunga
scadenza. Ma alla coscienza di cio' si accompagna l'insistenza sullo sforzo
continuo volto a realizzare, hic et nunc, una societa' che si avvicini il
piu' possibile a quell'ideale. A tal fine reputa necessaria la
socializzazione (non la nazionalizzazione, si badi) dei mezzi di produzione
e fa propria l'idea socialista (ma non leninista) della decentralizzazione
del potere politico che dovra' risiedere - in modo del tutto democratico -
nei consigli (tutto il potere ai soviet!), quella dell'uguaglianza dei
salari (bollata da Stalin come "idea piccolo-borghese"!), e considera le
liberta' democratiche di stampa, di associazione e di riunione, e i principi
dello stato di diritto, conditio sine qua non del funzionamento umano di
tale societa' (10).
In virtu' di tutte queste caratteristiche, cioe' in seguito al fatto che si
tratta non soltanto di una particolare modalita' di lotta, bensi' anche di
una articolata dottrina politica che per molti aspetti si avvicina alla
concezione socialista, la posizione che sin qui ho chiamato nonviolenza
ideologica positiva o nonviolenza specifica puo' anche essere caratterizzata
come una posizione di socialismo nonviolento.
*
Il piu' originale apporto di questa dottrina agli sviluppi del pensiero e
della prassi politica consiste senza dubbio in quella particolare modalita'
di lotta che, usando un neologismo coniato da Gandhi - e per distinguerla
dalle varie tecniche di lotta nonviolenta generica e negativa sopra
distinte -, possiamo chiamare modalita' di lotta satyagraha. Ho presentato
le caratteristiche fondamentali di questo tipo di lotta, con una certa
ampiezza, nel mio saggio introduttivo alla silloge di scritti gandhiani
sopra menzionata (11). Rimando pertanto per un piu' ampio discorso ad esso,
e mi accontento qui di riassumere, per sommi capi, quanto ivi detto.
Occorre anzitutto che sia ben chiaro che nessun catalogo, per completo che
sia, delle svariate tecniche di lotta ideate ed impiegate da Gandhi puo'
servire a fornire una compiuta caratterizzazione della modalita' di lotta
satyagraha. Le forme che tale modalita' di lotta assume varieranno,
ovviamente, da contesto a contesto, ed e' chiaro che le tecniche di lotta
impiegate da Gandhi nel contesto sudafricano e indiano non sono esportabili
ad altre situazioni conflittuali diverse da quelle in cui si trovo' ad
operare il politico indiano. Cio' che qui conta sono i principi generali che
caratterizzano il satyagraha, le condizioni, cioe', cui e' necessario (e
forse anche sufficiente) che un gruppo adegui i suoi metodi di lotta
politica affinche' questi possano essere correttamente classificati come
metodi di lotta satyagraha. Illustrero' qui brevemente cinque condizioni.
*
(I) Astensione dalla violenza. Un metodo o una tecnica di lotta politica
saranno caratterizzabili come satyagraha soltanto ove essi siano esenti da
violenza o, ove cio' non sia del tutto possibile, la violenza connessa al
loro impiego sia ridotta ad un minimo di violenta psicologica. Quest'ultima
aggiunta si spiega con il duplice fatto che qui si assume la terza e piu'
lata nozione di violenza (per cui si ha violenza anche ove si infliggono
intenzionalmente e in modo coatto delle sofferenze psicologiche), e che la
nonviolenza positiva - in quanto comporta una contestazione attiva e
permanente di ogni forma di ingiustizia, di sfruttamento, di prevaricazione,
di indebito privilegio - puo' ovviamente causare delle sofferenze
psicologiche nello sfruttatore che vede i suoi indebiti privilegi messi in
questione o aboliti. E' pero' della massima importanza aver ben chiaro che
la violenza cosi' connessa con la lotta satyagraha e' un minimo di violenza
psicologica e che essa e' usata da un gruppo che imposta tutta la sua lotta
adottando tecniche che non comportano ne' la minaccia di lesione, ne' la
lesione effettiva degli interessi vitali delle persone (quelli cioe' su cui
ciascuno puo' far valere un diritto uguale a quello di ciascun altro -
diritto alla propria vita, alla propria integrita' fisica e psicologica, a
non essere mutilato o ucciso fisicamente o psicologicamente -) in quanto
distinti da quegli interessi che sono fondati sulla violenza, sui quali
cioe' non si puo' far valere altro diritto che quello del piu' forte.
Chiunque potra' convenire che vi e' una differenza enorme fra il costringere
un gruppo avversario a rinunciare ai privilegi di cui indebitamente gode
mediante l'impiego di mezzi che comportano l'intenzionale e coatta
inflizione di enormi sofferenze e lesioni (12), e il costringerlo a cio' in
seguito all'impiego di mezzi di lotta deliberatamente scelti allo scopo di
minimizzare il piu' possibile le sofferenze per l'avversario contro cui sono
impiegati, e che inoltre soddisfano tutte le altre quattro condizioni della
lotta satyagraha e, per cominciare, la seconda che ora passo brevemente a
illustrare.
*
(II) La disposizione al sacrificio. Questa condizione della modalita' di
lotta satyagraha richiede che il gruppo coinvolto in essa sia disposto a
sottoporsi a tutti quei sacrifici che sono necessari a far avanzare la
propria causa e a minimizzare (come richiede la precedente condizione) le
sofferenze per l'avversario. E' questa la condizione su cui in genere si
appuntano le maggiori critiche degli avversar! del satyagraha. Spesso si
tratta di critiche avventate, che tradiscono una conoscenza del tutto
superficiale di questa modalita' di lotta, oppure si fondano sulla forma del
tutto particolare che questa condizione del satyagraha assume in Gandhi.
Cosi' A. I. Titarenko, uno dei filosofi ufficiali dell'Unione Sovietica (e'
professore di etica nel dipartimento di filosofia nell'universita' di
Mosca), in un suo recente libro in cui affronta la scottante questione dei
rapporti fra morale e politica, trattando brevemente della nonviolenza
gandhiana scrive, con chiaro riferimento alla presente condizione della
lotta satyagraha, che la nonviolenza di Gandhi "deve essere moralmente
condannata in quanto impone l'intero onere delle sofferenze sulle spalle
degli oppressi, mentre assolve gli oppressori". E aggiunge che "l'idea
reazionaria della umilta' e della acccttazione delle sofferenze e' uno degli
elementi chiave nel principio gandhiano della nonviolenza" (13). A cio' va
risposto:
a) Ne' la nonviolenza piu' specificatamente gandhiana, ne' la nonviolenza
positiva (che fa tesoro della prassi e del pensiero di Gandhi, ma non si
identifica ovviamente in tutto con la concezione gandhiana), comportano
affatto che si "assolvano gli oppressori", ne' che si "imponga l'intero
onere delle sofferenze sulle spalle degli oppressi", ne' che si debba,
umilmente, chinare la testa e passivamente accettare lo status quo. Quanto
detto nelle pagine precedenti dovrebbe togliere ogni dubbio su questo punto.
b) La disposizione a sottoporsi anche ai sacrifici piu' gravi, e' connessa
con ogni tipo di lotta contro l'oppressione, in modo particolare con la
lotta violenta, dato che, specialmente oggi, chi si affida ad essa deve
realisticamente accettare il fatto che oltre che poter comportare sofferenze
e morte per lui stesso, essa comporta effettivamente enormi sofferenze e
morte per un numero sempre crescente di membri del gruppo cui esso
appartiene e assieme ai quali, o per i quali, lotta (si pensi per esempio
all'enorme numero di vittime e alla enormita' di sofferenza che la lotta
violenta e' costata al popolo algerino e al popolo vietnamita).
c) Le sofferenze cui il gruppo satyagraha dovra' realmente sottoporsi
saranno di regola minori di quelle che - specie oggi - una lotta violenta
comporta, in quanto il metodo di lotta satyagraha tende a bloccare la
violenza dell'avversario.
d) La disposizione a soffrire e' nella lotta satyagraha di particolare
importanza come testimonianza della serieta' con cui si abbraccia la propria
causa; non potendo dimostrare la propria fermezza mediante l'uso delle armi,
il gruppo satyagraha la dimostra mostrando che e' disposto a soffrire per
essa almeno quanto e' disposto chi si batte per una causa giusta in modo
violento.
e) La disposizione, in certe situazioni, a sopportare anche notevoli
sofferenze al fine di minimizzare il piu' possibile le sofferenze per
l'oppositore, si fonda su due assunti: il primo, di natura prettamente
morale, e' il principio, gia' formulato da Platone (14), per cui e'
moralmente migliore subire delle sofferenze ingiustamente inflitteci, che
non infliggere ad altri delle sofferenze; il secondo assunto, di natura
empirica, e' che un comportamento informato alla condizione che qui si
discute ha buone possibilita', oltre che di bloccare o comunque diminuire
nell'avversario il ricorso alla violenza, anche di portarlo al tavolo della
ragione e delle trattative.
Si tratta di due assunti che qui non sono che accennati e la trattazione
esaustiva dei quali richiederebbe uno spazio che qui non ho a disposizione.
Un serio esame di essi potra' anche giungere alla conclusione che si tratta
di assunti assai dubbi. Ma Titarenko (e con lui molti altri critici della
nonviolenza positiva) non li ha discussi e quindi la sua conclusione, che la
posizione nonviolenta che si fonda su di essi e' una posizione moralmente
condannabile e "reazionaria", e' un ulteriore esempio di quell'atteggiamento
dogmatico che e' del tutto estraneo alla posizione nonviolenta, proprio
perche' essa pone, come terza condizione di una lotta satyagraha, che ci si
attenga alla verita'.
*
(III) II rispetto per la verita'. Tale condizione si articola in tutta una
serie di richieste motivate, come tutte le altre condizioni, in parte da
ragioni di ordine morale, in parte da ragioni di ordine empirico, tattico.
Rimandando per un piu' compiuto esame di questa condizione al mio saggio
introduttivo alla silloge di scritti gandhiani sopra menzionato (15), noto
qui, in tutta brevita', che tale condizione comporta che si rispetti la
massima obiettivita' e imparzialita' in ogni fase della lotta, che non si
pongano obiettivi che non sono compatibili con l'idea del potere e del
benessere di tutti e con le altre idee morali che caratterizzano la
posizione nonviolenta positiva, che non si operi nella clandestinita', che
si sia disposti ad essere persuasi, attraverso una seria argomentazione, a
modificare la propria posizione, ecc.
*
(IV) L'impegno costruttivo. L'impegno in un lavoro costruttivo, volto a
realizzare, hic et nunc, nella maggiore misura possibile il tipo di societa'
che si mira a porre in essere (organizzazione di consigli nelle fabbriche,
nelle scuole, negli ospedali, ecc.; programmi educativi dal basso;
costituzione di istituzioni parallele), rappresenta forse la piu' profonda
esigenza della nonviolenza positiva per questo aspetto molto vicina alle
idee di rivoluzionari come Mao e "Che" Guevara. La differenza tra la
posizione di questi ultimi e quella della nonviolenza positiva consiste nel
fatto che la nonviolenza positiva auspica l'individuazione di programmi
costruttivi da cui anche il gruppo avversario possa trarre dei benefici o
addirittura che possano attivamente coinvolgere membri del gruppo
avversario. Non si tratta di sminuire o minimizzare o ignorare l'acutezza di
certi conflitti di interessi o di classe, bensi' soltanto di indagare - al
di la' delle dichiarazioni teoriche, dogmatiche e demagogiche di una totale
e irriducibile opposizione di interessi fra le classi - di volta in volta se
non vi siano interessi comuni o fini sovraordinati che permettano quel
minimo di comunicazione fra i membri dei gruppi in conflitto che e'
condizione necessaria di un efficace funzionamento della tecnica di lotta
satyagraha (16).
*
(V) La gradualita' dei mezzi. Quest'ultima condizione necessaria della
modalita' di lotta satyagraha esige che non si ricorra alle forme piu'
radicali di lotta nonviolenta senza aver prima individuato un programma
costruttivo su cui far convergere gli sforzi e senza aver tentato tutte le
varie tecniche di persuasione, non escluso il compromesso inteso come
tentativo di addivenire ad una soluzione del conflitto onorevole e
accettabile a tutte le parti. Ove va pero' sottolineato che il compromesso,
nella concezione della nonviolenza positiva, e' possibile soltanto per
quanto riguarda gli obiettivi non essenziali, mentre su quelli considerati
essenziali non e' possibile compromesso alcuno.
*
Ho piu' volte sottolineato che la distinzione fra violenza e nonviolenza,
affinche' risulti interessante e adeguata, deve essere tracciata, almeno nel
presente contesto, in base ad un criterio morale, per cui cio' che viene
caratterizzato come modalita' di lotta nonviolenta dovra' esibire una chiara
superiorita' morale sulla modalita' di lotta che viene caratterizzata come
violenta. Orbene, e come ho gia' sopra osservato, penso che chiunque
converra' che vi e' una profonda differenza, proprio da un punto di vista
morale, tra l'impiegare un metodo di lotta (come e' qui per definizione
quello violento) che comporta la deliberata e coatta inflizione di
sofferenze e lesioni su vasta scala, e l'impiegare un metodo di lotta che
soddisfi a tutte e cinque le condizioni della modalita' di lotta satyagraha
sopra passate in rassegna, anche se queste condizioni non sono soddisfatte
al cento per cento.
E' questa differenza di natura morale fra i due tipi o metodi di lotta che
rende particolarmente interessante il problema concernente l'efficacia e la
possibilita' di una lotta rivoluzionaria satyagraha a livello di massa,
cioe' la possibilita' che il satyagraha ha di porsi come una valida
alternativa all'uso della violenza nella lotta per una piu' giusta ed umana
societa'.
*
Cio' non esclude, si badi, che sia anche importante indagare sulla
possibilita' ed efficacia (relativamente a tal fine) di quelle forme di
lotta nonviolenta generica che ho sopra chiamato lotta non militare, lotta
incruenta e lotta a-violenta. E' importante indagare sulle prime due
modalita' di lotta perche' pur non essendo, come sopra si e' visto,
necessariamente esenti da violenza (nella accezione che sopra si e' visto
essere la piu' adeguata di questo termine), anche ove comportino una certa
misura di violenza si trattera', di regola, di una misura assai minore di
quella che si verifica nella modalita' di lotta militare. Ed e' ovviamente
importante indagare sulle possibilita' di passare dalla societa' capitalista
a quella socialista mediante l'uso di mezzi a-violenti, cioe' pacifici, come
sono il voto e le varie tecniche parlamentari, con le quali, come e' noto,
Marx ed Engels stimavano possibile il passaggio al socialismo
nell'Inghilterra, negli Stati Uniti, nell'Olanda e, piu' tardi, nella
Germania del loro tempo.
Bisogna pero' da ultimo di nuovo sottolineare che in tutti e tre i casi di
lotta nonviolenta generica si tratta pur sempre e soltanto di mere tecniche
di lotta cui, come tali, non soggiace alcuna dottrina o particolare
atteggiamento nei confronti della violenza, e il cui impiego, pertanto, in
una situazione giudicata favorevole ad un loro uso, non esclude affatto che
in altra situazione si ricorra alla violenza piu' massiccia, ne' che in
quella stessa situazione si impieghi anche la violenza militare o se ne
minacci o comunque prepari l'uso (17).
*
Completamente diverso e' invece il caso della modalita' di lotta satyagraha
ove l'uso, la minaccia e la preparazione della violenza (ferma restando la
possibilita' di un minimo di violenza psicologica, sopra accennata) sono
sistematicamente banditi in ogni tipo di situazione conflittuale, e cio' in
base a tre ordini di considerazioni. In primo luogo, perche' la violenza e'
considerata un male (anche se non assoluto); in secondo luogo, perche' si
reputa, in base a tutta una serie di argomenti abbastanza convincenti, che,
soprattutto oggi, l'impiego della violenza tende a condurre a risultati del
tutto diversi da quelli che caratterizzano una societa' socialista; e in
terzo luogo, perche' si reputa, di nuovo in base ad argomenti abbastanza
convincenti, che e' soltanto ove ci si astenga sistematicamente dall'uso,
dalla minaccia e dalla preparazione (che di per se' e' gia' minaccia) della
violenza - e per il resto si soddisfino le altre quattro condizioni del
satyagraha - che si danno le migliori garanzie di tenere sotto controllo la
risposta violenta dell'avversario contro cui si lotta, di umanizzarlo
(invece di deumanizzarlo come avviene nel caso della lotta violenta), e di
condurre i conflitti in modo tale che essi alla fine non sbocchino nella
"comune rovina delle classi in lotta".
Di questi tre tipi di considerazioni, il primo e' stato sviluppato nel corso
di questo scritto. Sviluppare gli altri due, cioe' sviluppare e discutere
gli argomenti in base ai quali si fa valere l'inefficacia della violenza e
l'efficacia del satyagraha come modalita' di lotta rivoluzionaria per il
socialismo, porterebbe assai lontano. Su di essi mi riprometto di tornare in
altra occasione.
*
Note
7. Cfr. G. Sharp, The Politics of Nonviolent Action, cit., p. 71.
8. Cfr. Aldo Capitini, II potere e' di tutti, La Nuova Italia, 1969,
specialmente le pp. 59-182.
9. Gandhi ha sviluppato l'idea di Sarvodaya in molti scritti, alcuni dei
quali sono raccolti nel libretto Sarvodaya, Navajivan Publising House,
Ahmedabad, 1951. Sulla concezione gandhiana di una societa' o "stato
nonviolento" si veda G. Dhawan, The Political Philosophy of Mahatma Gandhi,
Ahmedabad, terza edizione riveduta, 1957, cap. XI "The' Structure of the
Non-violent State", pp. 279-336; sulle idee sociali e politiche di Gandhi mi
sono intrattenuto nel terzo capitolo del saggio introduttivo che ho preposto
alla silloge di scritti gandhiani da me curata per Einaudi: cfr. M. K.
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, a cura e con un saggio
introduttivo di G. Pontara, Torino, 1973, pp. LXXX-XCII.
10. Nella difesa di tali liberta' la nonviolenza positiva trova un possente
alleato in Rosa Luxemburg la quale, come e' noto, polemizzando con Lenin e
Trotckij all'indomani della rivoluzione russa, ribadiva, con la fermezza di
sempre, che "senza una liberta' illimitata di stampa, senza un libero
esercizio dei diritti di associazione e di riunione, e' del tutto
impossibile concepire il dominio delle grandi masse popolari" e che "la
liberta' riservata ai partigiani del governo, ai soli membri di un unico
partito - siano pure numerosi quanto si vuole - non e' liberta'. La liberta'
e' sempre e soltanto liberta' di chi pensa diversamente". Cfr. R. Luxemburg,
La rivoluzione russa, in Scritti politici, a cura di Leiio Basso, Editori
Riuniti, 1970, pp. 588 e 599.
11. Cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, cit., pp.
XCIII-CXXIII.
12. E' il caso, in modo particolare, della lotta violenta militare che si
fonda sul principio, enunciato da Clausewitz, per cui "la guerra e' un atto
di forza, all'impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si
impongono legge mutualmente; ne risulta un'azione reciproca che logicamente
deve condurre all'estremo". (Cfr. K. von Clausewitz, Della guerra,
Mondadori, 1970, 1. I, cap. I, p. 22). Poco prima (op. cit., p. 21)
Clausewitz aveva scritto: "Gli spiriti umani potrebbero immaginare che
esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l'avversario senza
infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalita' autentica dell'arte
militare. Per quanto seducente ne sia l'apparenza occorre distruggere tale
errore (...)". Gli fanno eco non pochi rivoluzionar! violenti. "La guerra e'
sempre una lotta in cui i contendenti cercano di annientarsi a vicenda"
scrive Ernesto "Che" Guevara ne La guerra di guerriglia (Feltrinelli, 1967,
p. 17), e Lin Piao dice espressamente che "il principio fondamentale che
presiede alle nostre operazioni militari e' la guerra di annientamento"
("Sull'applicazione della strategia e delle dottrine tattiche della guerra
di popolo"), cit. da C. Milanese, Principi generali della guerra
rivoluzionaria, Feltrinelli, 1970, p. 20. Milanese, a sua volta, sottolinea
come anche il guerrigliero sia "il combattente (...) che si propone di
infliggere al nemico, di volta in volta, il massimo di distruzione" che i
mezzi di cui dispone gli consentono (op. cit., p. 99).
13. Cfr. A. J. Titarenko, Morality and Politics, Progress Publisher, Mosca,
1972, p. 174.
14. Tra i vari luoghi delle sue opere in cui Platone ha formulato tale
principio cfr. ad esempio il Gorgia, XXIV.
15. Cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, pp. CII-CVI.
16. Nel linguaggio di Mao, cio' puo' essere espresso dicendo che si tratta
di fare uno sforzo continuo per trasformare le contraddizioni o i conflitti
antagonistici in contraddizioni o conflitti non antagonistici, i quali
ultimi, secondo la concezione di Mao, sono contraddizioni o conflitti
risolvibili senza l'uso della violenza in quanto le parti in conflitto hanno
degli interessi comuni facendo appello ai quali e' possibile risolvere la
contraddizione in modo costruttivo e nonviolento. E' qui della massima
importanza l'accenno, che Mao fa all'inizio del suo saggio Sulla giusta
soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, alla possibilita' che
certe contraddizioni o conflitti antagonistici (cioe', secondo la concezione
di Mao, risolvibili di regola soltanto mediante l'impiego della violenza),
se "trattati in modo opportuno" possono, in certe situazioni, essere
"trasformati in contraddizioni non antagonistiche ed essere risolti in modo
pacifico". Peccato che in Mao non vi sia che questo accenno e che non
risulti chiaro in che modo un conflitto antagonistico debba essere trattato
per poter essere trasformato in un conflitto non antagonistico.
17. Tale e' generalmente l'atteggiamento nel marxismo rivoluzionario; si
favorisce l'impiego di varie tecniche di lotta non militare (scioperi,
sciopero generale, non-collaborazione, ecc. ecc.) in una prima fase della
lotta rivoluzionaria la quale dovra' pero' pur sempre concludersi e
decidersi in uno scontro armato fra le classi. Si veda, ad esempio, il
programma della Internazionale comunista del 1928 ove si legge che la
conquista del potere da parte del proletariato significa "il rovesciamento
violento del potere borghese, la distruzione dell'apparato dello stato
capitalista", fini che vanno realizzati mediante "la propaganda (...) e
l'azione di massa (...)", la quale "include (...) da ultimo lo sciopero
generale congiunto con la insurrezione armata ". "Quest^ultima forma (...)
che e' la forma suprema, deve essere condotta secondo le regole della
guerra". Cit. da K. Popper, The Open Society and Its Enemies, quarta
edizione riveduta, 1962, voi. II, p. 158.
Anche Rosa Luxemburg, che per molti aspetti e' cosi' vicina alla nonviolenza
positiva, e cosi' contraria al terrore e agli spargimenti di sangue, pur
vedendo in una tecnica di lotta non militare come lo sciopero generale una
nuova forma di lotta che "civilizza" e "mitiga" la lotta di classe, non
esclude lo scontro armato finale: "L'avvento dello sciopero di massa
rivoluzionario (...) certamente non rimpiazza in modo assoluto e non rende
superflua la nuda brutale lotta di strada". Cfr. R. Luxemburg, "Sciopero
generale, partito e sindacati", in Scritti politici, a cura di Lelio Basso,
cit., p. 350.

2. ET COETERA

Giuliano Pontara e' uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello
internazionale, riproduciamo di seguito una breve notizia biografica gia'
apparsa in passato sul nostro notiziario (e nuovamente ringraziamo di tutto
cuore Giuliano Pontara per avercela messa a disposizione): "Giuliano Pontara
e' nato a Cles (Trento) il 7 settembre 1932. In seguito a forti dubbi sulla
eticita' del servizio militare, alla fine del 1952 lascia l'Italia per la
Svezia dove poi ha sempre vissuto. Ha insegnato Filosofia pratica per oltre
trent'anni all'Istituto di filosofia dell'Universita' di Stoccolma. E' in
pensione dal 1997. Negli ultimi quindici anni Pontara ha anche insegnato
come professore a contratto in varie universita' italiane tra cui Torino,
Siena, Cagliari, Padova, Bologna, Imperia, Trento. Pontara e' uno dei
fondatori della International University of Peoples' Institutions for Peace
(Iupip) - Universita' Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la
Pace (Unip), con sede a Rovereto (Tn), e dal 1994 al 2004 e' stato
coordinatore del Comitato scientifico della stessa e direttore dei corsi.
Dirige per le Edizioni Gruppo Abele la collana "Alternative", una serie di
agili libri sui grandi temi della pace. E' membro del Tribunale permanente
dei popoli fondato da Lelio Basso e in tale qualita' e' stato membro della
giuria nelle sessioni del Tribunale sulla violazione dei diritti in Tibet
(Strasburgo 1992), sul diritto di asilo in Europa (Berlino 1994), e sui
crimini di guerra nella ex Jugoslavia (sessioni di Berna 1995, come
presidente della giuria, e sessione di  Barcellona 1996). Pontara ha
pubblicato libri e saggi su una molteplicita' di temi di etica pratica e
teorica, metaetica  e filosofia politica. E' stato uno dei primi ad
introdurre in Italia la "Peace Research" e la conoscenza sistematica del
pensiero etico-politico del Mahatma Gandhi. Ha pubblicato in italiano,
inglese e svedese, ed alcuni dei suoi lavori sono stati tradotti in spagnolo
e francese. Tra i suoi lavori figurano: Etik, politik, revolution: en
inledning och ett stallningstagande (Etica, politica, rivoluzione: una
introduzione e una presa di posizione), in G. Pontara (a cura di), Etik,
Politik, Revolution, Bo Cavefors Forlag,  Staffanstorp  1971, 2 voll., vol.
I, pp. 11-70; Se il fine giustifichi i mezzi, Il Mulino, Bologna 1974; The
Concept of Violence, Journal of Peace Research , XV, 1, 1978, pp. 19-32;
Neocontrattualismo, socialismo e giustizia internazionale, in N. Bobbio, G.
Pontara, S. Veca, Crisi della democrazia e neocontrattualismo, Editori
Riuniti, Roma 1984, pp. 55-102; tr. spagnola, Crisis de la democracia,
Ariel, Barcelona 1985; Utilitaristerna, in Samhallsvetenskapens klassiker, a
cura di M. Bertilsson, B. Hansson, Studentlitteratur, Lund 1988, pp.
100-144; International Charity or International Justice?, in Democracy State
and Justice, ed. by. D. Sainsbury, Almqvist & Wiksell International,
Stockholm 1988, pp. 179-93; Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988;
Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma
1990; Etica e generazioni future, Laterza, Bari 1995; tr. spagnola, Etica y
generationes futuras, Ariel, Barcelona 1996; La personalita' nonviolenta,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Guerre, disobbedienza civile,
nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; Breviario per un'etica
quotidiana, Pratiche, Milano 1998; Il pragmatico e il persuaso, Il Ponte,
LIV, n. 10, ottobre 1998, pp. 35-49; L'antibarbarie. La concezione
etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ega, Torino 2006. E' autore delle
voci Gandhismo, Nonviolenza, Pace (ricerca scientifica sulla), Utilitarismo,
in Dizionario di politica, seconda edizione, Utet, Torino 1983, 1990 (poi
anche Tea, Milano 1990, 1992). E' pure autore delle voci Gandhi,
Non-violence, Violence, in Dictionnaire de philosophie morale, Presses
Universitaires de France, Paris 1996, seconda edizione 1998. Per Einaudi
Pontara ha curato una vasta silloge di scritti di Gandhi, Teoria e pratica
della nonviolenza, Einaudi, nuova edizione, Torino 1996, cui ha premesso un
ampio studio su Il pensiero etico-politico di Gandhi, pp. IX-CLXI". Una piu'
ampia bibliografia degli scritti di Giuliano Pontara (che comprende circa
cento titoli) puo' essere letta nel n. 380 de "La nonviolenza e' in
cammino".

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento settimanale del martedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it
Numero 119 dell'11 dicembre 2007

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