Minime. 301



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 301 del 12 dicembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Silvano Tartarini: Adesione dei "Berretti bianchi" all'iniziativa
antimilitarista di Vicenza del 14-15-16 dicembre
2. Cristina Papa: Quando la soggettivita' femminile parla per voce propria
3. Luisa Muraro commenta l'enciclica "Spe salvi"
4. Valentino Parlato presenta "La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio
Carnieri" di Pietro Ingrao
5. Rossana Rossanda presenta "Chi l'ha vista?" di Norma Rangeri
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. INIZIATIVE. SILVANO TARTARINI: ADESIONE DEI "BERRETTI BIANCHI"
ALL'INIZIATIVA ANTIMILITARISTA DI VICENZA DEL 14-16 DICEMBRE
[Da Silvano Tartarini (per contatti: tel. 0584756758, fax: 0584735682, cell.
03357660623, e-mail: berrettibianchi at virgilio.it, sito:
www.berrettibianchi.org) riceviamo e diffondiamo.
"Silvano Tartarini e' poeta e costruttore di pace; nato a Forte dei Marmi
nel 1947, ha pubblicato Primi versi e Furto a nessuno, rispettivamente nel
1966 e 1967 (Giardini, Pisa), Poeti, nel 1992 (Pananti, Firenze) e L'uno e
il contrario, nel 1995 (Manni, Lecce). Con l'inedito L'uno e il contrario e'
stato finalista al Carducci nel 1994; sue poesie sono uscite su "Paragone",
"Erba d'Arno", "Pegaso", " La Contraddizione", "Sinopia" e altri periodici;
e' stato tra i fondatori della rivista "Nativa"; e' stato curatore delle
pagine di poesia della rivista "Sinopia" ed e' redattore - molto assente -
del mensile  "Guerre & Pace". Ha scritto tre saggi critici su Carlo Cassola:
uno di questi e' stato pubblicato negli atti del convegno "Carlo Cassola.
Letteratura e disarmo", Firenze, 4 aprile 1987, un altro e' stato pubblicato
dal Comune di Volterra a seguito del convegno "Volterra per Cassola" del 10
maggio 1996, mentre un altro servi' per un corso di aggiornamento per
insegnanti delle scuole medie organizzato su questo tema dalla Fondazione
Bianciardi di Grosseto. Di lui hanno scritto Romano Luperini, Gianfranco
Ciabatti, Giovanni Commare e Carlo Cassola; si sono altresi' occupati di lui
Cesare Garboli e Manlio Cancogni. E' stato segretario della Lega per Il
disarmo unilaterale dal 1984 al 2000; come segretario della L. D. U., ha
lanciato con altri nel 1990 l'iniziativa "Volontari di pace in Medio
Oriente", a cui hanno subito aderito Alberto L'Abate e Francesco Tullio;
sull'esperienza e' poi uscito un "Quaderno della Difesa popolare
nonviolenta": Volontari di pace in Medio Oriente, a cura di Alberto L'Abate
e Silvano Tartarini, La Meridiana, Molfetta (Ba) 1993. Ha partecipato
all'iniziativa di Mir Sada e nel maggio del 1999 era a Belgrado bombardata
anche dal governo italiano; e' stato in Iraq nel 1990, 1991, 1993 e nel 1998
con l'iniziativa "scudi umani". Ha promosso nel 1999 la fondazione
dell'associazione Berretti Bianchi onlus, di cui e' segretario. Da alcuni
anni coordina il lavoro organizzativo che, recentemente, ha visto la nascita
della Rete italiana dei Corpi civili di pace"]

Cari amici,
la nostra associazione e' nata per opporsi al crimine della guerra ovunque
si tenti di commetterlo. Purtroppo, ancora in questo momento sul nostro
pianeta troppe popolazioni soffrono a causa delle guerre.
La nostra capacita' di rimanere liberi e' legata alla nostra capacita' di
disobbedire a chi organizza e decide o, semplicemente, accetta la guerra.
Noi crediamo che sia possibile un progetto di difesa alternativo a quello
militare. Il nostro progetto e' la realizzazione delle ambasciate di pace e
dei corpi civili di pace. Per ribadire tutto questo ed essere a fianco di
chi come noi difende un percorso di pace i Berretti Bianchi hanno deciso di
aderire all'iniziativa antimilitarista di Vicenza del 14-15-16 dicembre
contro la costruzione della nuova base militare americana all'aeroporto Dal
Molin.
Vi abbracciamo e vi ringraziamo per la vostra capacita' di resistere e di
costruire pace.
Per la segreteria dell'associazione Berretti Bianchi onlus
Silvano Tartarini

2. RIFLESSIONE. CRISTINA PAPA: QUANDO LA SOGGETTIVITA' FEMMINILE PARLA PER
VOCE PROPRIA
[Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net/spip3/) riprendiamo
questo intervento del 25 novembre "A proposito delle contestazioni e dei
conflitti che hanno accompagnato la manifestazione del 24 novembre. Quando
la soggettivita' femminile parla per voce propria".
Cristina Papa, intellettuale femminista da sempre impegnata per la pace e i
diritti umani, fa parte della redazione de "Il paese delle donne" ed e'
curatrice del sito e della versione elettronica della rivista]

Ma davvero le contestazioni alle politiche sono stati episodi di violenza
come ci raccontano i giornali e le tv? e davvero le organizzatrici hanno
prevaricato le altre escludendo gli uomini dal corteo? e se ricominciassimo
a riflettere sui conflitti tra donne?
I giornali di oggi, e I tg di ieri, hanno dato grande enfasi agli episodi di
contestazione delle ministre ed ex ministre avvenuti durante e alla fine del
corteo. Alcune, come Anna Finocchiaro e Monica Lanfranco, hanno
esplicitamente parlato di "violenza". Cosi' questo tema, insieme alla scelta
delle organizzatrici di fare un corteo di sole donne, ha finito per
offuscare il tema vero della manifestazione che era da un lato denunciare
l'escalation di violenza che colpisce le donne (principalmente nelle loro
case) e dall'altra dichiarare forte e chiaro il no delle donne a politiche
xenofobe e razziste. Cio' detto, a manifestazione finita, vale forse la pena
di rilanciare la riflessione su due temi: il rapporto tra movimento
femminista e uomini e la pratica del conflitto tra donne.
*
Separatismo for ever?
La scelta delle organizzatrici di un corteo di sole donne e' stata
contestata con due motivazioni prevalenti:
- non e' giusto che gli uomini che hanno fatto un lavoro su di se', da soli
o in gruppo, non possano partecipare al corteo per dichiarare la loro presa
di distanza dalla violenza del loro genere,
- il percorso decisionale che ha portato alla manifestazione non e' stato un
percorso condiviso perche' il desiderio espresso da alcune realta', che
erano a favore della partecipazione maschile, non e' stato preso in
considerazione.
Premetto che non sono una pasdaran del separatismo, e premetto anche che,
fin da tempi lontani, non ho mai guardato con sospetto le donne che avevano
una doppia militanza (partiti misti e movimento delle donne).
Condivido pero' fino in fondo con le organizzatrici l'idea che dalla
manifestazione dovesse emergere forte e chiaro, anche da un punto di vista
simbolico, il fatto che erano le donne a dire basta alla violenza e alla sua
strumentalizzazione in chiave xenofoba e repressiva, un altro "non in nostro
nome".
E come potrebbe la presenza di uomini al corteo non rendere opaco e meno
forte quel "noi" che si ribella? Perche' qui non si tratta, non si tratta
mai, di dire che I maschi non hanno diritto ad una presa di parola pubblica
contro la violenza con la propria autonomia di pratiche e di linguaggio,
tutto al contrario si tratta di affermare con forza che i "noi" in campo
sono due e che per dialogare davvero non e' possibile nessuna
sovrapposizione che confonde le voci e non ne lascia udire la partitura,
come un'orchestra omofonica che non produce nessuna musica.
Per questo io credo che sia mal posta la questione "separatismo si',
separatismo no", e si farebbe un grosso torto alle organizzatrici
tacciandole di aver voluto decidere della intera pratica politica quotidiana
delle altre.
Quella del 24 novembre era, e lo era esplicitamente fin dal titolo, una
manifestazione di donne, non una manifestazione separatista, se le parole
hanno per noi ancora un senso, e non escludeva gli uomini, semplicemente li
invitava a suonare un'altra partitura. In Italia da molti anni uomini
riuniti in collettivi, come "Maschile plurale", riflettono sull'intreccio
fra volenza maschile e "maschilita'", e molte donne impegnate nel movimento
femminista hanno con loro un dialogo fitto e sicuramente reciprocamente
stimolante.
Avrei accolto con ammirazione una proposta da parte di queste realta' di
uomini "pensanti" di un corteo di soli maschi contro la violenza sulle
donne, mi sarebbe sembrata simbolicamente un grosso segno di rottura con il
loro genere e, nello stesso tempo una affermazione di autonomia da quel
pensiero femminile e dalle figure del femminismo di cui tanta parta delle
loro riflessioni e pratiche sono ancora (dichiaratamente) permeate.
*
Pratica del conflitto o violenza
La contestazione delle ministre che parlavano non dal palco della
manifestazione, che le organizzatrici non avevano voluto per evitare le
solite passerelle di volti noti, ma dal palco che una televisione aveva
eretto al centro della piazza (potenza dei media!) si sarebbe facilmente
potuta evitare se le apposite ministre si fossero sottratte elegantemente
alla giornalista della 7 che voleva intervistarle dicendo: "intervistate le
organizzatrici e le partecipanti, e' la loro la voce che deve risultare
protagonista".
Purtroppo le ministre non sono nemmeno state sfiorate dall'idea che le
100.000 partecipanti al corteo, che diceva altre cose rispetto a questo
governo ed a loro stesse sulla violenza degli uomini contro le donne, non
avessero bisogno di qualcuna che parlasse in loro nome, dimostrando quanto
ancora difficile, se pure fondamentale, sia il rapporto tra elette e
movimenti.
La contestazione c'e' stata, ma c'e' stata la violenza?
Concordo con Imma Battaglia quando dice che la presenza della Prestigiacomo
al corteo, (quand'anche nata come provocazione) rappresentava in un certo
senso il segno di una vittoria, anche se capisco il fastidio di chi ha preso
male la presenza di una donna che ha fatto propria solo la piu' facile delle
parole d'ordine della manifestazione respingendo palesemente la condanna
delle politiche xenofobe e familistiche.
Ma non posso fare a meno di chiedermi come mai a ministri e capi del governo
capita continuamente di essere fischiati pubblicamente senza che questi
episodi vengano bollati come "atti di violenza".
Le ministre non sono state picchiate, e loro stesse hanno minimizzato
l'accaduto.
La Prestigiacomo accompagnata da due cineoperatori che sembravano una via di
mezzo tra i Blues Brothers e i nazisti dell'Illinois, e' stata spintonata ma
anche prontamente difesa dalle stesse partecipanti che pure ne contestavano
la presenza. L'avvocata Bongiorno ha preso parte al corteo mischiandosi alle
manifestanti e nessuna l'ha minacciata.
Perche' allora una banale contestazione se coinvolge delle donne viene cosi'
enfatizzata dai media e da alcune anime del movimento stesso?
Di certo per quanto riguarda i mass-media e' perche' la soggettivita'
femminile che parla con voce propria, una voce collettiva ma che non
nasconde le differenze e non vuole portavoce, evoca lo spettro del caos che,
come si sa, e' nemico dell'ordine che e' amico del patriarcato e della
politica con la p minuscola (che non si basa sulla pratica della
condivisione ma sulla rappresentanza). La risposta diventa parecchio piu'
articolata e complessa quando si cerca il perche' tante donne accettino di
vedere I propri conflitti ridotti a "manifestazioni di oche" come ha detto
Lidia Ravera (ahinoi) o a episodi di violenza che inficiano anni di
riflessioni e pratiche non violente (Monica Lanfranco).
Su questo sarebbe interessante riprendere il dibattito, "Il paese delle
donne" sarebbe ben lieto di ospitarlo.

3. RIFLESSIONE. LUISA MURARO COMMENTA L'ENCICLICA "SPE SALVI"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 dicembre 2007, col titolo "'Spe salvi',
quello che nessun Dio (e nessun papa) puo' fare".
Luisa Muraro, una delle piu' influenti pensatrici viventi, ha insegnato
all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di
"Diotima"; dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo la
seguente scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei
sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza),
in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita'
Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una
carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare
nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba
Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista
dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al
femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della
differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva:
La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981,
ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La
Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti,
Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla
nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria
delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via
Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima
(1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero
della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della
maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel
1997"]

Sembra a volte che qualcuno vicino al papa voglia danneggiarlo, oltre ai
danni che lui stesso e' capace di farsi. Mi riferisco a certe presentazioni
della sua seconda enciclica, Spe salvi, "Salvati dalla speranza", come se
li' ci fosse la condanna del marxismo e cose simili. Il testo della seconda
enciclica e' lontanissimo dal linguaggio delle condanne, ricco invece di
critiche e di proposte che non possono non interessare quelli che hanno
concepito la speranza di grandi cambiamenti.
Da dove escono certe sintesi rozze e fuorvianti? Una risposta secondo me
esiste, senza dare la colpa ai giornalisti. Ma prima vediamo le critiche.
L'errore del marxismo, secondo il papa, sarebbe di aver nutrito la speranza
di una societa' senza ingiustizie, dimenticando che l'uomo resta libero
anche per il male. Qui egli usa una formula con la quale non sono d'accordo:
"il suo vero errore e' il materialismo", come se materialismo fosse sinonimo
di determinismo. Non lo e' quello di Marx, il cui guadagno teorico neanche
il papa puo' respingere, perche' contiene una verita'. Altrimenti si finisce
nello spiritualismo e in cio' sono d'accordo con una critica che Ida
Dominijanni muove alla Spe salvi.
Quanto all'ateismo moderno, marxismo compreso, la critica si trova nelle
pagine dedicate al "giudizio finale", che riescono a tradurre nell'oggi una
tematica che era quasi scomparsa dalla cultura religiosa. Forse, solo un
papa ferrato in teologia ed esegesi come Ratzinger poteva spingersi cosi'
avanti. A noi il cosiddetto giudizio finale e' presente solo per certi
capolavori della pittura, Giotto nella Cappella degli Scrovegni, Signorelli
nel Duomo di Orvieto, la Cappella Sistina. Da questo grandioso immaginario
Ratzinger ci invita pero' a prendere le distanze. Primo, perche' nell'arte
gli aspetti terribili e paurosi hanno prevalso sullo splendore della
speranza (da parte sua, una specie di abile autocritica, considerato che gli
artisti erano guidati dai teologi). Secondo, perche' a un certo punto
occorre rinunciare ad ogni immagine del divino. Per pensare quel tema cosi'
distante da noi - e qui ci troviamo in un passaggio cruciale - bisogna
ancora che superiamo la separazione tra la ricerca personale della salvezza
e quella politica, una affidata alla fede religiosa e l'altra alla fede nel
progresso storico. Nel suo contesto, per i suoi scopi, l'autore della Spe
salvi fa la stessa mossa della politica delle donne: mettere fine ad una
separazione tipica della cultura borghese, fatta per favorire egoismi e
ipocrisie a non finire.
A questo punto viene la critica dell'ateismo, visto come una protesta contro
Dio per le sofferenze di questo mondo. Protesta comprensibile, dice il papa,
sbagliata e' invece la pretesa che l'umanita' possa fare "quello che nessun
Dio fa ne' e' in grado di fare". Parole forti. Le piu' grandi crudelta' e
violazioni della giustizia, aggiunge, provengono da quella pretesa. Noi
sentiamo che il ragionamento e' giusto: senza fare le graduatorie
dell'orrore, e' vero che la volonta' del bene a tutti i costi, forzando i
limiti umani, puo' essere causa di aberrazioni maggiori di quelle indotte
dal normale egoismo, e si pensa a Robespierre o a Stalin. Ma si pensa anche
alle religioni e ai loro fanatismi, si pensa alla Chiesa cattolica e ai suoi
tribunali. Ci ha pensato il papa, scrivendo questo passo? Il testo non
lascia trapelare nulla.
Ma non importa tanto questo, io dico, quanto andare alla conclusione del
discorso: un mondo che si deve creare da se' la sua giustizia e' un mondo
senza speranza. I movimenti legati al marxismo sono naufragati, e con essi
molte speranze e, purtroppo, anche alcune conquiste sociali. Cio' non
significa che la partita comunista sia chiusa, ha giustamente affermato
Luciano Canfora. Proprio per questo, se accettiamo la necessita' di un
ripensamento radicale, l'enciclica Spe salvi ci viene incontro.
Il contributo principale, secondo me, riguarda la dimensione simbolica
dell'agire politico. Non credo che sia corretto ridurre il linguaggio
dell'enciclica ad un rivestimento retorico di una dottrina immutata. Chi la
scrive, quello che fa e' tradurre nel presente testi e persone, come il
Vangelo e san Paolo, che, molti secoli fa, hanno cambiato il mondo agendo
dall'interno dell'essere umano, persone e testi che, senza potere, avevano
un'efficacia performativa (per usare una parola che il papa usa e
Dominijanni sottolinea). L'autore sa che il simbolico non soccombe al
relativismo storico: con il tempo che passa, infatti, e si mangia tutto,
l'ordine simbolico e' in un rapporto di equipotenza. Detto alla buona: tutto
passa, eppure quando io leggo un libro di mille anni fa e questa lettura mi
risponde e m'ispira, i mille anni fa parlano qui e ora.
Si tratta, insomma, di quella politica del simbolico che e' mancata al
movimento operaio, sostituita da un'ideologia sposata fatalmente alla logica
del potere, e che il movimento delle donne, invece, ha scoperto di suo, con
la pratica dell'autocoscienza, pratica di parola in relazione che trasforma
il rapporto che abbiamo con il mondo, e percio' il mondo stesso.
Per la seconda volta, mi scopro ad associare questo testo al femminismo: non
credo che sia una forzatura, ma piuttosto la correzione di un suo aspetto
evasivo. E' evasivo nell'analisi storica del passaggio alla modernita', di
cui ignora come, nella perdita della giusta soggezione verso la natura e
nella volonta' di eliminare ogni dipendenza, abbia pesato anche la volonta'
maschile di controllo sulle donne. E' evasivo, di conseguenza, anche nel
delineare le risposte che possiamo dare alla perdita della speranza, che
domina l'odierna cultura occidentale: nel disegno, manca il sapere delle
donne.
Vorrei lamentare un'altra lacuna, meno grave, un peccato veniale, di questo
testo, ed e' l'ignoranza di Giacomo Leopardi. Nella biblioteca di Joseph
Ratzinger non c'e' lo Zibaldone, me lo fa pensare quel breve passo in cui
dice che "gia' nel secolo XIX esisteva una critica alla fede nel progresso"
e non nomina nessuno dei tanti che poteva. Ma Leopardi avrebbe dovuto,
perche' non c'e' nulla di quello che lui scrive sul culto della ragione e
sulla fede nel progresso, che Leopardi non abbia gia' scritto, e forse
meglio di lui, culto e fede che, neanche per Leopardi, possono validamente
subentrare alla religione. O forse, se il nome non compare, non e' per
ignoranza, ma perche' il nostro poeta-filosofo all'ottimismo risibile della
fede secolarizzata non si oppone con un rincaro della credenza in Dio.
Qui vengo alla questione che, per me, solleva il testo di Joseph Ratzinger,
non a causa di questo o quel difetto, ma proprio per tutto quello che esso
mostra di vero e di buono. Lo irradia dalla lettura di grandi testi del
cristianesimo nella sua stagione inaugurale, e lo fa arrivare anche a chi
non si considera cattolico o credente. Ma ecco che, in questa luce, anche il
papa, non diversamente da noi altri, comune umanita', ci appare
paradossalmente ma inevitabilmente "ateo e marxista". Ossia, uno che parla
di Dio credendo di sapere quello che dice, che pretende di avere la verita'
in tasca, che presume di sanzionare il bene e il male, che si candida a
risolvere i problemi degli altri non avendo risolto i suoi.
In queste mie parole non e' implicita un'accusa d'incoerenza e tanto meno un
rigetto delle sue parole, non c'e' l'aspettativa che l'autore rispecchi
fedelmente le grandi cose che ha detto. Il rispecchiamento non e' ne'
possibile ne' richiesto. Nelle mie parole c'e' la semplice costatazione che
il papa non puo', ne' personalmente ne' istituzionalmente, presumere di
stare in una qualche forma di proporzione con il vero e il giusto delle sue
parole, perche' non gli appartengono in alcuna maniera. Oppure si', ma solo
per l'aspetto caduco e opaco, il resto essendo luce che viene da un'altra
parte.
La tradizione mistica lo sapeva ed e' significativo che qua e la', nel testo
dell'enciclica, ci siano formule che la richiamano, come "questo sapere che
non sa", "questa sconosciuta conosciuta realta'". Il paradosso nasce dal
fatto che, nella logica di questo mondo cosi' come funziona di suo, la
verita' non da' titoli di credito a chi la dice, cosi' come la bonta' non li
da' ai buoni, proprio a causa del suo materialismo, che non e' un errore ma
un fatto, riscontrabile in Vaticano come a Milano o dove vi pare.
Dovunque e sempre, nella stessa misura? Non lo so. Sarebbe comunque questo
paradosso a indurre le sintesi rozze e fuorvianti che dicevo all'inizio: si
cerca di sanarlo traducendo la Spe salvi nella logica di questo mondo, per
colmare un intervallo non colmabile. Mi sono chiesta se cio' sia dovuto a
una condizione storica contingente, come un provvisorio esaurimento delle
capacita' di mediazione. Oppure se, al contrario, siamo arrivati nel culo
del sacco (traducendo dal francese, ma si dice cosi' anche nel mio dialetto,
senza le doppie) della storicita', quasi alla vigilia di un nuovo inizio.
Non lo so.

4. LIBRI. VALENTINO PARLATO PRESENTA "LA PRATICA DEL DUBBIO. DIALOGO CON
CLAUDIO CARNIERI" DI PIETRO INGRAO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo dicembre 2007, col titolo "Il senso
del dissenso nella storia di Pietro Ingrao" e il sommario "Ricordi e
riflessioni sullo scontro con il gruppo dirigente del Pci nel dialogo con
Claudio Carnieri 'La pratica del dubbio', appena pubblicato da Manni".
Valentino Parlato, tra i fondatori del "Manifesto", rivista prima e
quotidiano poi, e' uno dei piu' acuti e prestigiosi intellettuali della
sinistra italiana.
Pietro Ingrao e' nato nel 1915 a Lenola (Latina), laureato in giurisprudenza
e lettere, partecipa alla lotta clandestina antifascista e alla Resistenza.
Giornalista, direttore de "L'Unita'" dal 1947 al 1957, dal 1948 deputato del
Pci al Parlamento per varie legislature e tra il 1976 e il 1979 presidente
della Camera dei Deputati. Sono di grande rilievo le sue riflessioni sui
movimenti, le istituzioni, la storia contemporanea e le tendenze globali
attuali. Tra le opere di Pietro Ingrao: Masse e potere, Editori Riuniti,
Roma 1977; Crisi e terza via, Editori Riuniti, Roma 1978; Tradizione e
progetto, De Donato, Bari 1982; Il dubbio dei vincitori, Mondadori, Milano
1986; Le cose impossibili, Editori Riuniti, Roma 1990; Interventi sul campo,
Cuen, Napoli 1990; L'alta febbre del fare, Mondadori, Milano 1994; (con
Rossana Rossanda ed altri), Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri,
Roma 1995; Variazioni serali, Il Saggiatore, Milano 2000; (con Franco
Fortini, Alberto Olivetti, Gianni Scalia), Conversazioni su Il dubbio dei
vincitori, Cadmo, Roma 2002; (con Alessandro Zanotelli), Non ci sto!, Piero
Manni, Lecce 2003; La guerra sospesa, Dedalo, Bari 2003; Una lettera di
Pietro Ingrao, Cadmo, Roma 2005; Volevo la luna, Einaudi, Torino 2006; (con
Claudio Carnieri), La pratica del dubbio, Piero Manni, Lecce 2007. Opere su
Pietro Ingrao: Antonio Galdo, Pietro Ingrao. Il compagno disarmato, Sperling
& Kupfer, Milano 2004, 2006; Lorenzo Benadusi, Giovanni Cerchia (a cura di),
L'archivio di Pietro Ingrao, Ediesse, Roma 2006.
Claudio Carnieri (Terni, 1944), militante del Pci, gia' presidente della
Giunta regionale dell'Umbria, ha collaborato con il Centro per la riforma
dello Stato; eletto piu' volte nel Consiglio nazionale dei Democratici di
sinistra, e' ora impegnato in Sinistra democratica]

La memoria di Pietro Ingrao e' una miniera ricchissima, direi inesauribile,
e Claudio Carnieri si rivela un abile minatore. Il prodotto e' un agile
libretto che continua, ma anche arricchisce, il piu' voluminoso Volevo la
luna. Nelle poco meno di ottanta pagine di Pietro Ingrao. La pratica del
dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri (pp. 80, euro 10, Manni) emergono
fatti, personaggi e problemi e lo scontro tra Ingrao e il gruppo dirigente
del Pci, forse in termini piu' netti che non in Volevo la luna. Nelle prime
pagine - come gia' in scritti di Aldo Natoli - emerge la figura
straordinaria di Bruno Sanguinetti. Siamo negli anni '30, quando il fascismo
aveva una faccia modernizzante e attraente, gli anni nei quali Pietro Ingrao
divento' amico di Gianni Puccini e frequento' il Centro sperimentale di
cinematografia, dove lavorava Umberto Barbaro che fu maestro di
cinematografia dopo la caduta del fascismo. L'altro filone riguarda il
maturare del dissenso con il gruppo dirigente del Pci prima e dopo il famoso
XI congresso, di cui, nel dialogo tra Ingrao e Carnieri, quasi non si parla.
Sintomatico il rifiuto di Ingrao di tornare a fare il presidente della
Camera e poi, quasi di conseguenza, il suo passaggio alla direzione del
Centro per la riforma dello stato. E a me pare che di fronte alla rottura
tra Cina e Urss (un capolavoro di Nixon) e al decadere dell'Urss, Ingrao
abbia sentito forte l'attrazione delle socialdemocrazie europee, penso
soprattutto a Olof Palme (Aldo Garzia ci ha scritto un bel libro), a Willy
Brandt e anche a Bruno Kreisky. Questa attenzione alle socialdemocrazie di
quegli anni (oggi il vecchio Pci si e' autobattezzato democratico e basta)
e' stata per Ingrao (almeno a mio parere) un segno di realismo e anche
l'emergere di un dubbio (La pratica del dubbio, e' il titolo di questo
scritto), fecondo e positivo. Il dubbio era di Cartesio. "Ma - Ingrao dice a
Carnieri - il dubbio per me non significava poverta': anzi apertura di
orizzonti, audacia nel cercare. Si', vivevo il piacere del dubbio. E
avvertivo anche una ricchezza per quell'interrogarsi, cercando. Come se il
mondo - nella sua problematicita' - si dilatasse attorno a me".
Certo, lo stimolo del dubbio, che peraltro ha buoni genitori nel pensiero
europeo, e, insieme, l'allargarsi del mondo. Per Ingrao la scoperta
dell'Asia e' molto importante e l'allargarsi dell'orizzonte concorre ad
accrescere la fecondita' del dubbio. E - ricordo - la questione del dubbio
ebbe molto peso nel Pci di quegli anni. Ricordo bene l'aspra polemica di
Giorgio Amendola contro i "cacadubbi" in nome di una necessita' dell'agire,
di non farsi sorpassare dal tempo. Cose serie che avrebbero chiesto piu'
meditazione, e invece ci fu scontro. E debbo dire - allora consideravo
Giorgio Amendola un mio maestro - che fui dall'altra parte. Prevalse, e
prevale ancora in me la massima "on s'engage et puis on voit", che - debbo
aggiungere - e' l'insegna della compagnia dei traghetti sullo stretto di
Messina. Certo, puis, ho visto cose non tanto belle, ma fu, nel lontano
1969, questa massima - allora lavoravo a "Rinascita" - a convincermi di
seguire l'impresa dei compagni promotori del "Manifesto".
Scrivo questo per dire che La pratica del dubbio e' pieno di stimoli a
rivedere il passato e sforzarsi di intravvedere il futuro. Certo nella
situazione di profondo malessere nel quale e' oggi la sinistra il dubbio e'
inevitabile e forse fecondo, ma non si puo' rimanere nel dubbio; non c'e'
tempo. Occorre mettersi in gioco. Anche San Paolo diceva che bisogna buttare
il cuore oltre l'ostacolo. Tanto piu' che cuori verranno dopo il nostro che,
oltre l'ostacolo, potrebbe anche marcire.

5. LIBRI. ROSSANA ROSSANDA PRESENTA "CHI L'HA VISTA?" DI NORMA RANGERI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 dicembre 2007 col titolo "La realta'
manipolata a colpi di emozioni" e il sommario "'Chi l'ha vista?' di Norma
Rangeri. Una spietata analisi della televisione, l'elettrodomestico che ha
il potere di attrarre l'attenzione dello spettatore, unita alla denuncia
della messa in scena del corpo delle donne per solleticare propensioni
adolescenziali e voyeur. Infine, la critica alla colonizzazione della tv da
parte del sistema politico per piegarla ai propri fini".
Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio
Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per
aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in
rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del
"Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata
da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu'
drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti.
Tra le opere di Rossana Rossanda: L'anno degli studenti, De Donato, Bari
1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica
come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna,
persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro
Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con
Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita',
Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La
ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del
lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della
riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora
dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste.
Norma Rangeri, giornalista, e' critica televisiva del quotidiano "Il
manifesto"]

Perche' le pagine di Norma Rangeri sull'italica Tv, Rai e Mediaset (Chi l'ha
vista?, Rizzoli 2007, pp. 315, euro 17) - documentazione ma scrittura piena
di humour - lascia pensierosi e a disagio? Perche' anche a chi non si faceva
illusioni, il disastro si rivela peggiore di quanto si sospettava: quel che
affiora sul piccolo schermo e' solo la parte emergente di un iceberg di
traffici e vigliaccate che costituiscono il basamento del duo-monopolio
audiotelevisivo italiano. Tale che la recente scoperta degli scambi di
cortesie fra Rai e Mediaset non ne e' piu' che un modesto scampolo.
E' il sistema che e' guasto. Ne abbiamo colpa anche noi che la sera
lavoriamo di telecomando in cerca di qualcosa di "altro" e prima o poi lo
troveremo nella folla di canali satellitari, non fosse che un documentario
sugli scavi in Egitto, sul pinguinotto che si getta per la prima volta in
mare, e lo scontro fra generali nella seconda guerra mondiale. Quanto basta
per andar a dormire. Che Rai e Mediaset siano quelle che sono, sembra
ineluttabile come l'effetto serra. Siamo abituati. Quelli come noi accendono
la tv non per avere la notizia, ma per vedere "come" la danno. Un film si
cerca al cinema. E' tanto se cadiamo sulla buona serata di Santoro, Lerner,
Fazio, diamo un occhiata a "Otto e mezzo", e ci rallegriamo se ogni tanto
capitano Arbore o Fiorello. E cosi' si va avanti, fin annoiati dal gioco dei
cambi dei presidenti e direttori che non cambiano assolutamente nulla.
Chi si ribella piu'? Fa parte del paesaggio. Anzi, ci si accontenta del meno
peggio. In fondo Santoro e' tornato, Fazio va bene, il Tg 1 di Riotta e'
sempe meglio di quello di Mimun. Ma se la smettessimo di dirci che la tv non
conta, non cambia ne' una testa ne' un voto ne' il senso comune di un paese
su cui rovescia ore e chilometri di sederi femminili, revolverate, sangue,
preti, poliziotti e le poderose scemenze del reality? Senza mollarci dalla
culla alla tomba, dall'infante che la mamma, stanca, parcheggia davanti al
video, a noi vecchi che arriviamo la sera stonati? Di scrivere che, piaccia
o no, questa e' la realta' e non resta che subirla in onda? Che i genitori
non hanno che da sedere davanti al video con la prole per comunicarle una
distanza critica - come se non ne fossero istupiditi anche loro? E dico loro
per dire noi. Chi non si e' imbambolato ogni tanto su Dallas o Beautiful o i
pacchi di Bonolis? Non mi e' capitato un pomeriggio di scoprirmi attaccata a
una storiaccia di Alda d'Eusanio? Taroccata o no, la tv sa manipolare il
nostro lato voyeur, i residui adolescenziali, le autoassoluzioni che ci
portiamo dentro.
Ma non potrebbe farlo con un poco piu' di intelligenza? Norma ci spiega
perche' in Italia non si puo'.
Per mille motivi piu' uno, tutto nostro e nazionale. Dei mille il primo e'
che - ha ragione McLuhan - il mezzo e' il messaggio. Il mezzo e' seduttivo e
ti passivizza, l'interattivita' e' una frottola, puoi scegliere il menu ma
sono la Rai o Mediaset (e dietro Endemol & C.) che cucinano, sono loro
qualita' e tempi di somministrazione, loro il dominio della subliminalita'.
Un telespettatore non sara' mai simile a un lettore davanti alla sua
biblioteca. Quanto a noi, che ci siamo a ragione ribellati alla critica
edificante, non ci e' lasciato che il trash, cui ogni tanto attribuiamo
virtu' popolari e sovversive. Intanto la sagra delle immagini ha raggiunto
l'interessante obiettivo di farci funzionare piu' a emozione che a
riflessione. Siamo fra i pochi che amano Debord ma sguazziamo nella societa'
dello spettacolo. Se almeno si ammettesse che la tv e' un incantatore di
serpenti. Ben che vada, un incantatore colto di serpenti riflessivi.
Perche', secondo, nel primato del privato sul pubblico e della merce come
relazione-tipo, la tv non e' piu' (se lo e' mai stata) un servizio pubblico
e essenzialmente seduce all'acquisto. Sulla perdita di senso della parola
pubblico nella nostra cultura (o statale, anzi governativo, o privato) altri
e piu' sapienti di me hanno scritto. Sulla mercificazione come regola della
tv Carlo Freccero l'ha spiegato da anni: non e' essa a dare spazio alla
pubblicita', e' la pubblicita' a darne alla tv. La merce materiale e
immateriale, che dal punto di vista del meccanismo fa lo stesso, regge
l'intero sistema. E qui Norma Rangeri aggiunge - e finora nessuno l'aveva
fatto con altrettanto freddo furore - che la merce piu' usata e' in tv il
corpo femminile: sederi e seni, culi e tette per dirla come si usa adesso,
sono l'ingrediente principale. Non le donne, che sarebbe tutt'altro
discorso, ma alcune parti della nostra anatomia, la faccia arrivando buona
terza. Con piu' o meno forzosa complicita' delle nostre sorelle di sesso -
non solo le vallette e le veline roteano con giubilo il sedere davanti alla
camera che lo inquadra dal basso, ma le meglio conduttrici esibiscono intimo
e cordelle, mentre ministre e professioniste sfoderano volentieri a Porta a
Porta (press office del parlamento) gambe e scollature. L'Italia si inchina
davanti al Vaticano e appena volta le spalle si precipita non nell'erotico
(troppo complicato) ma nel pecoreccio. Del resto saperlo e scriverlo non ha
comportato neppure per Freccero o Guglielmi produrre granche' d'altro. Anzi,
gia' l'averlo pensato - e va ad ammettere che sia facile riuscirvi - ha
fatto si' che finissero al confino o addirittura fuori.
Perche', terzo, e specifico del paese e' che a tutti i nostri governi, di
centro, centrodestra, centrosinistra o sinistra che fossero, il sistema e'
andato sempre bene. Neppure fanno finta di non essere lo sfacciato
proprietario della baracca. Lo era stato Bernabei per la Dc (perche' ci si
e' scandalizzati quando il Vespa ha riconosciuto che essa era il suo editore
di riferimento?), si e' vantato di esserlo Silvio Berlusconi, lo rimane il
centrosinistra prima e seconda edizione.
L'idea che un servizio pubblico non significa servizio "di" e "al" governo
non sfiora la nostra classe dirigente, o la sfiora nei convegni e subito
sparisce nella pratica. Se non e' del governo la tv ha da essere del tale o
talatro imprenditore e viva la concorrenza - il pubblico, inteso come
autonomia di chi produce e elaborazione da parte dell'utente, non ha posto.
L'elenco che Norma Rangeri ci presenta o ci ricorda e' sterminato: soffietti
e/o censura, terremoto e neppur sotterraneo a ogni cambio di squadra a
palazzo Chigi, impossibilita' per quella colossale editrice che e' la Rai di
costruirsi uno stile, una squadra, di darsi delle regole che non siano
all'ascolto diretto o introiettato dei poteri in carica.
Eppure c'e' stato un periodo, fra il 1968 e i primi anni Settanta, nel quale
anche a viale Mazzini sono stati scossi da una ventata, il corpaccio ha
reagito, ha avuto guizzi di liberta' e fantasia - ma quando e' stato capace
di imporsi come autonomo? La sinistra, che allora non era al governo ma
pensava perche' pesava sul paese, non aveva in mente che spazzar via la Dc,
per cui senza incidenti subentrarono il cavaliere ("non faremo prigionieri")
o il "negoziamo" prediletto dagli ex comunisti. Negoziamo, si intende, fra
noi. E la politica stessa non essendo piu' un progetto ma un ceto che
amministra, occupare i media non ha neanche significato darvi un'impronta ma
essere stabilmente piazzati nel video, le proprie facce e quelle dei
vassalli, degli amici e fin dalle transitorie compagne di letto - avanti
tutti. Ogni tanto c'e' una rivelazione, segue lo scandalo dei benpensanti,
interviene la magistratura e lo spettacolo continua.
Non credo che al tempo di una democrazia meno incorporea si stesse granche'
meglio, la scena era meno vasta, i conflitti piu' visibili, una sinistra non
ancora decotta, ma la minestra servita dal video era sempre quella delle
classi dirigenti. Ma nel tempo dei media che sembrano un allargamento della
ricezione e della partecipazione, il terreno della comunicazione e'
diventato piu' esteso, le sue centrali di comando piu' accentrate e
invasive, l'interlocuzione e' sempre e solo delegata, il massimo
denominatore comune culturalmente parlando e' sempre piu' basso, nel
frastuono che con la fine della storia ha esentato dal dovere di pensare.
Non poteva essere che cosi'? Non credo. In quel che chiamiamo la sfera
politica, il gigantismo molle e canceroso dei poteri, e' sicuro che il
terreno e i mezzi del confronto sono mutati. Non ne e' venuto un crescere
del confronto ma del baccano, tale e quale nel web, dove pochi sono gli
scambi di idee nel baccano di milioni di voci singole che gridano per
esistere. Ma il web e' libero, tutti sono uguali e quindi, perlopiu', nulla,
mentre la tv e' un gran produttore di merce di consumo. Monopolio o duopolio
a questo punto non fa differenza. Se non le si garantisce un'autonomia
aperta e severa non c'e' scampo allo spettacolo miserevole delle infinite
spartizioni del microfono e degli infiniti sgambetti perche' l'avversario
non ci arrivi. E l'avversario che resta fuori e' illimitato.
Questo ci grida, con calma e spietatezza, Norma. Non credo siano molti i
critici che hanno "tv amiche", qualche occhio di riguardo per qualcuno.
Norma Rangeri non lo ha per nessuno, e non deve esserle facile. Dalla sua
eroica postazione di sei ore al giorno - e poi si dice lavori usuranti -
davanti al malefico piccolo schermo vi dice tutto quel che vede e il molto
che non si vede. Cosa di cui i diversi direttori, presidenti, consiglieri
perlopiu' non hanno fatto. Se ci fosse un partito serio, che non concepisse
viale Mazzini come riserva di caccia, la prenderebbe in parola. Domani,
subito.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir at peacelink.it,
luciano.benini at tin.it, sudest at iol.it, paolocand at libero.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info at peacelink.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 301 del 12 dicembre 2007

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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